venerdì, Novembre 22, 2024
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L’oro di Vicenza. L’Oreficeria Contemporanea, dalla Fiera campionaria alla Fiera dell’Oro

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Prosegue il viaggio di L’altravicenza con l’oro grazie alla pubblicazione a puntate della tesi di laurea di Anna Milan “Dalla Fiera al Museo dell’oro: oreficeria e gioielleria a Vicenza” pubblicata a puntate sul numero 10, settembre-ottobre 2022, di Storie Vicentine.

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Fiera Campionaria di Vicenza

In tutta Italia il ‘900 si aprì con un’aura di felicità e benessere che solo i periodi di pace e di stabilità riescono a diffondere. La cultura materiale borghese ebbe la possibilità di emergere e diventare espressione del nuovo tempo. Al lusso esclusivo, appannaggio dell’élite, si affiancò quello moderato della borghesia, che comprava i suoi status symbols a buon mercato. Lo sviluppo industriale (che pure in Italia arrivò tardi), la maggiore articolazione socio – culturale e la dinamizzazione della vita urbana, che caratterizzano il passaggio dall’Ottocento al Novecento, indussero profondi mutamenti anche nel panorama orafo vicentino. A Vicenza il XX secolo si aprì con un grande evento: l’inaugurazione della prima Fiera campionaria vicentina, il 15 agosto 1908.

Alcune pubblicazioni considerano questa fiera, inaugurata dal podestà Piovene Porto Godi e dal senatore del Regno Guadino Colleoni, come la capostipite di tutte le future manifestazioni campionarie di Vicenza. Le iniziative sociali e culturali in questo periodo si moltiplicarono. All’epoca che seguì la grande guerra, nell’agosto – settembre 1922, nelle scuole comunali di San Felice e Fortunato e nel Giardino Salvi si tenne una “Esposizione d’arte decorativa” e una “Esposizione nazionale d’arte orafa”, organizzata dalla Pro Vicenza. In conseguenza sorsero dei movimenti che permisero di rivalutare gli artisti locali e portare a Vicenza personaggi internazionali. Questi eventi sociali e culturali mutarono i comportamenti della gente, il loro stile di vita e l’abbigliamento che, molto influenzato dalla moda francese, continuerà a mutare nel corso del secolo, adeguandosi alla comodità portata dalle innovazioni industriali.

Dalla ex Scuola di disegno e plastica che, come detto, nel 1926 passò dalla gestione dell’Accademia Olimpica a quella dei nuovi enti sovventori mutando il nome in Scuola d’arte e mestieri, uscirono artisti vicentini importanti come Neri Pozza e Maurizio Girotto, testimonianza del fatto che la scuola non preparava solamente semplici “artieri”, bensì forgiava anche “artisti”. Altri ancora tornarono nella scuola come docenti: Luigi Chiovato, vedutista come Guido Andrioli, Antonio Dall’Amico che fu anche direttore dal 1945 al 1948 e Otello De Maria che da studente lavorava come ceramista. Intanto, l’oreficeria vicentina, forte della sua tradizione nella fabbricazione di oggetti di uso comune accelerò le sue trasformazioni, dopo aver intensificato i contatti con gli altri centri europei, che portarono notevoli avanzamenti sia di carattere tecnico sia commerciale che erano già iniziati negli anni prece denti la prima guerra mondiale.

Con l’introduzione del motore elettrico e la meccanizzazione delle lavorazioni, ad esempio, l’arte orafa diventò industria raggiungendo un notevole livello qualitativo e diversificando molto di più la produzione. Nel primo ventennio del Novecento le tipologie orafe si allinearono ai diversi segmenti di mercato secondo la prassi contemporanea: alta gioielleria per un’élite di consumatori, oreficeria per una fascia ampia di mercato di massa, gioielli fantasia per il mercato di massa. A queste tipologie si aggiunse infine quella del gioiello d’artista, trasversale al mercato, che trovò una propria autonoma collocazione negli anni Sessanta. Il gioiello si trasformò, legandosi al nome di grandi creatori o a famiglie dalle forti personalità, come Louis Francois Cartier e René Lalique a Parigi, Sotirio Bulgari a Roma e Charles Lewis Tiffany in America. Grazie a loro si diede vita al concetto di griffe: per la prima volta si cominciò a vendere uno stile identificabile con la genialità del suo creatore o produttore. Il loro messaggio diventa diretto e diffuso dalla stampa su scala mondiale, le esposizioni più importanti li vedranno sempre presenti, i loro gioielli vengono disegnati per soddisfare i desideri di principi e stelle del cinema.

In questo contesto i viaggi erano più frequenti e le mostre internazionali diventarono dei veri e propri momenti di verifica dei livelli di tecnologia e di raffinatezza raggiunti dai produttori orafi e, tra questi, anche gli imprenditori vicentini acquisirono competenze e abilità tali da raggiungere il livello degli stilisti di fama mondiale. Le nuove tendenze artistiche che si diffusero in Italia sin dall’inizio del secolo influenzarono anche i creatori di gioielli che, quindi, si ispirarono all’Art Nouveau, al Déco, e in seguito alle altre correnti del ‘900, come il futurismo oppure il cubismo e il dadaismo che traevano ispirazione da altre esperienze e culture. Presero così vita dei gioielli di fresca fantasia e di consumato rigore tecnico e cromatico, la cui linea compositiva si basava soprattutto su forme geometriche, spesso vivificate da essenziali punti di attrazione cromatica; erano preferite le superfici lisce dei metalli preziosi, fra cui sovente il platino; gli inserti di diamanti o altre pietre preziose tendevano a campire, in pavé, scomparti delimitati; veniva usata la lacca per colorare tratti di superficie. Per l’ottenimento di valori cromatici, vi era assoluta libertà nell’uso di materiali e tecniche: diamanti, onice, smeraldo e corallo venivano abbinati nel medesimo gioiello, ma erano utilizzati anche materiali poveri.

Le nuove tendenze giunsero in tutta Europa e in ogni territorio trovarono la loro interpretazione. Le principali città italiane che da anni lavoravano l’oro quali Arezzo, Valenza e Vicenza, trasformarono gradatamente le loro tradizioni locali allargando la produzione su scala nazionale. I nuovi gioielli entrarono nel mercato e la macchina commerciale si mise in moto. Di conseguenza si affermarono anche le figure del venditore, del rappresentante e quella del grossista. Le intese che Vicenza riuscì a creare con altri paesi dell’Europa e soprattutto con la Germania determinarono quei mutamenti e quelle innovazioni tecnologiche che permisero all’industria orafa vicentina di progredire. Un esempio di gioiello, risultato di questi contatti con gli altri paesi europei viene fornito da Giuseppe Graser che, nel 1910 nella sua gioielleria di Bassano del Grappa, creò una broche in stile déco.

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Spilla di Giuseppe Graser (1910) broche in stile déco

La spilla è in platino, ha forma rettangolare con lati di sei centimetri per tre, contiene una fascia tempestata di brillanti che si stringe al centro e si allarga verso l’esterno. Dagli anni Trenta in poi gli orafi vicentini, che amavano lavorare di lastra, cominciarono a realizzare oggetti dalle linee precise, con superfici spesso lucide o satinate, formate talvolta da piccoli elementi vuoti, chiusi e saldati sul fondo e impernati ad incastro. In questo tipo di lavorazione l’oggetto preferito era il bracciale, ma quelli più importanti erano quelli a catena di filo: realizzati a mano e a macchina, stampati e a canna vuota. L’apparato produttivo di quella che nel vicentino ormai si qualifica come vera e propria industria delle oreficerie consta nel primo Novecento di numerose officine minori che operano accanto ad importanti stabilimenti concentrati specialmente a Vicenza.

Nel 1911 sorse a Vicenza la società anonima “Fabbriche riunite d’oreficeria vicentine” (FROV), che fece scuola a tutti i capi fabbrica, ai titolari e ai meccanici insieme, la cui produzione consisteva in bracciali, collane, cinturini per orologi e tutta l’oreficeria in genere. Personaggio chiave della campionatura fu Alessandro Celadon, ancora oggi conosciuto dagli orafi più anziani, che fu considerato tra i migliori lavoratori della FROV prima della seconda guerra mondiale. La stessa ditta ebbe tra i suoi collaboratori anche un disegnatore, il professor Ernesto Pierin, che abitava a Vicenza e che fu per un periodo insegnante alla Scuola d’arte e mestieri di Vicenza.

L’ultimo erede dell’azienda lasciò nel 1986 un graziosissimo libricino rosso contenente i suoi disegni: spillini in smalto, croci, ciondoli e pendenti graficamente tradotti con abilità e pazienza e che oggi, grazie al suo lavoro, sono ancora fonte di studio per le nuove generazioni. Con il progresso tecnologico si fecero strada nuove metodologie produttive; fra queste, verso il 1940, la lavorazione dello stampato, che prevede l’impressione di un disegno su una lastra attraverso l’utilizzo di una sagoma. Sviluppò in particolare questa tecnica l’azienda vicentina di Luigi Donnagemma, sorta nel 1919. La guerra provocò ingenti danni alla città che fu devastata dai bombardamenti. Ma la voglia e le energie per ripartire non stentarono a dimostrarsi: il 6 settembre del 1945, a soli quattro mesi dall’entrata delle truppe nord americane (avvenuta il 28 aprile 1945), Vicenza, alla presenza del sindaco Luigi Faccio, inaugurava la sua tradizionale Fiera, la prima risorta in Italia dopo la guerra. Questo episodio non rimase a sé stante; il 1 settembre 1946, infatti, venne inaugurata la Fiera campionaria industriale ed artigiana di Vicenza, nella sede del Giardino Salvi. La realizzazione ebbe grande successo e da quel momento in poi il ruolo della Fiera assunse una grande importanza e per meglio gestirla si diede origine ad un Consiglio della Fiera. In queste innovative manifestazioni la centralità espositiva fu affidata a lana e ceramica, due prodotti che tanto avevano reso celebre Vicenza nel mondo.

Per l’oreficeria si dovette attendere il 1954, quando ci fu l’apertura del primo salone specialistico alla Fiera di Vicenza. Allo scoppio della prima guerra mondiale, la ditta Balestra dovette interrompere la produzione della nuova gamma di catene perché i materiali erano irreperibili. Ciononostante Giovanni Balestra non si perse d’animo: continuò ad interessarsi ai mercati e a viaggiare, cosicché la ditta Balestra rimase tra le aziende che continuarono tenere alto il nome dell’oreficeria italiana. Nelle foto dei vicentini degli anni Quaranta, oggi conservate presso la Biblioteca civica Bertoliana di Vicenza, le giovani donne fanno sfoggio di preziosi accessori finemente lavorati, come le lunghe catene con appese le perle o i portafoto che spesso riportano delle incisioni a bulino nel retro oppure le medagliette o i ciondoli spesso arricchiti da una semplice decorazione con pasta vitrea. I pendenti vicentini del primissimo Novecento erano principalmente espressione dell’oreficeria popolare e per questo si differenziavano dalla produzione del resto d’Italia:caratterizzati da una decorazione a linee precise, con superfici lucide o satinate, spesso impreziosite con piccole pietre semipreziose. Andavano per la maggiore i ciondoli portafoto in oro, tondi, ovali, quadrati, la cui parte superiore veniva lavorata a bulino.

Bracciali a texture

All’inizio del secolo le lavorazioni erano molto particolareggiate offrendo così grande qualità, ma con l’età del consumo la tecnica dovette semplificarsi per ammortizzare tempi e costi di produzione, lasciando spazio a colpi di effetto velocissimi. La seconda guerra mondiale portò dei cambiamenti nella moda del gioiello; i materiali non preziosi che tanto venivano usati nell’Ottocento, come i nastrini di velluto, dall’ultima guerra fino agli anni Novanta, furono invece declassati, quasi a voler dimenticare il triste periodo bellico. Continuò invece la produzione dei vaghi, ma essi persero l’originario fascino quando iniziò la loro produzione industriale. Si usarono sempre di più bracciali a polsiera senza però la miniatura, ma si inserirono altri centri con decori in oro prodotti dagli incisori o dagli incastonatori o le lustraresse, tutte figure autonome nel settore orafo. Si diffusero i primi bracciali a “carrarmato” creati poco prima della seconda guerra mondiale, che divenirono, negli anni Settanta, elementi distintivi della produzione industriale vicentina e i bracciali ad elementi geometrici come quelli a texture, bracciali a piccoli moduli vuoti con decorazione in rilievo sulla superficie e uniti tra loro con un perno nascosto.

Grazie al processo di industrializzazione le pedaline per le lavorazioni del metallo, che dapprima venivano mosse a mano e poi a pedale, vennero infine azionate con un motore e così anche i bilancieri e i torni. Quest’ultimi nella campionatura furono sostituiti con le macchine a controllo numerico che, lavorando giorno e notte, iniziarono a produrre quantità sempre più elevate. Questa lavorazione oggi computerizzata e di serie ha il merito di rendere competitivo il gioiello sul piano commerciale, ma rischia di privarlo della qualità estetica che solo la lavorazione artigianale sa dare: l’originalità del disegno, la lavorazione mai uguale a se stessa e le sfumature del colore dell’oro.

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G.Vajenti, Fiera della nostra storia. La fiera di Vicenza al Giardino Salvi- 1946-1971, Ente

Il processo di industrializzazione non fece morire la bottega artigianale, anzi a Vicenza negli anni Settanta nuove botteghe nacquero nelle periferie, mentre in centro restarono quelle di più vecchia creazione. L’antica cultura artigianale di quegli anni era ancora molto legata al modello corporativo che, lentamente, fu assorbito dalla mentalità industriale di un certo livello, attenta alla qualità dei materiali e dei prodotti prima ancora che al mercato sul quale venderli. A tutela degli artigiani, infatti, nel 1945 fu fondata l’Associazione artigiani della provincia di Vicenza, un ente che riuniva tutti gli artigiani vicentini in una corporazione non soltanto rappresentativa e in possesso degli strumenti democratici per le rivendicazioni della categoria, ma organizzata in modo da assicurare una costante e competente assistenza capace di aiutare gli imprenditori a penetrare nell’aspra selva selvaggia delle innumerevoli disposizioni che li riguardano.

Contro la concorrenza tedesca le oreficerie vicentine introdussero materiali moderni in grado di corrispondere alle più svariate esigenze e di poter conferire agli oggetti quella leggerezza che tutti i rivenditori reclamavano. La ricerca della novità a qualunque costo venne soddisfatta dal processo industriale: tutto diventò moda, si perse di vista la necessità del bene mentre si innescò la logica del consumo. L’artigianato cercò di resistere a questo insieme di fattori che lo penalizzava, ma più volte si trovò incompreso ed emarginato. La mano d’opera impiegata nell’industria aveva determinato il formarsi di una gerarchia differenziata per ruolo e per retribuzione; sorse anche un sindacato in difesa della categoria degli orafi dagli “attacchi” della massa dei “nuovi arrivati” del settore, gelosa del loro prestigio economico e dallo sfruttamento dei datori di lavoro, ma le leggi sindacali si rivelarono inadeguate per il settore e gli orafi furono portati a chiudersi in una sorta di casta protetta ma che rischiava di isterilirsi. I dati statistici a livello mondiale, registrati dall’inizio del ‘900 alla fine, mostrano che le tonnellate d’oro estratto e la sua lavorazione erano in continuo aumento.

La clientela locale e nazionale poteva coprire l’offerta delle piccole produzioni artigianali del vicentino, ma non poteva assorbire da sola l’intera produzione industriale. Dal 1950, infatti, la quantità d’oro lavorato immesso sul mercato superava di molto la domanda locale, pertanto era necessario ricercare nuovi clienti e soprattutto nuovi mercati potenziando i contatti con l’estero. Per questo motivo l’orafo dovette diventare anche un abile commerciante, imparando a muoversi secondo le linee del marketing. Negli anni Cinquanta il boom economico esplose in tutta Europa. Il settore orafo riuscì ad avviare un processo di ristrutturazione meccanica in grado di rispondere in modo sufficiente al mercato: in quegli anni l’industria vicentina aveva contatti diretti con Germania Federale, Francia e Svizzera. In questi anni nacque il mito del made in Italy, uno dei brand più importanti al mondo, che alla qualità dei prodotti aggiungeva il sapore della “dolce vita”. Lo sviluppo fu inarrestabile anche negli anni Sessanta, quando l’oro greggio aumentò il suo prezzo.

Foto pubblicitarie realizzate dallo Studio Vaaenti per F.I.B.O. e Oreficeria Chiampesan di Sandrigo nel 1981

Per un ventennio il mercato europeo continuò a rispondere positivamente, spesso dei clienti stranieri giungevano a Vicenza per scegliere personalmente la produzione, erano momenti di florida economia. Nuovi laboratori di oreficeria si espansero sui territori delle cinture urbane e complessivamente il numero di aziende raddoppiò, da 220 nel 1961 a 443 nel 1971. Nella seconda metà del ‘900 Vicenza si aprì al mercato internazionale. Nel 1970 l’industria orafa vicentina intraprese nuovi contatti con il mercato americano che dal dopoguerra cominciò a comperare in gran quantità prodotti italiani a seguito del Piano Marshall. Vicenza, inoltre, manteneva i contatti anche con i paesi arabi e l’Oriente. Oggi i rapporti con questi paesi vengono considerati diversamente: l’industria vicentina è costretta a subire l’arrivo sul mercato di prodotti d’oreficeria provenienti da paesi come la Thailandia e Corea che hanno costi di produzione molto bassi e possono essere maggiormente competitivi sui prezzi e anche sulla qualità, non eccelsa ma accettata da clienti senza grandi pretese. Anche la Scuola d’arte e mestieri cercò di aggiornarsi per rispondere ai bisogni del territorio, pur non abbandonando i valori morali e civili voluti nel XIX secolo dai fondatori della scuola. Nel corso della sua storia, l’istituto cambiò diverse volte sede e fisionomia, e nel 1980 subì una nuova trasformazione: accanto ai corsi serali vennero attivati i corsi diurni, prediligendo la formazione orafa che richiese preparazione costante e continua in modo da raggiungere uno stretto contatto con le realtà produttive bisognose di nuove idee, di spiriti creativi e al passo con i tempi, in modo da poter resistere ai mercati nazionali ed esteri. La scuola cominciò a realizzare degli scambi con le aziende, per favorire l’inserimento lavorativo degli allievi e al tempo stesso rendere un servizio all’azienda. Nel gennaio del 1980 il prezzo dell’oro, per la prima volta, subì un brusco aumento toccando gli 875 dollari all’oncia, per crollare poi a 680 dollari l’oncia. Questa oscillazione record fu il preludio di un periodo critico per la produzione orafa italiana, infatti si registrò in quegli anni un calo drammatico delle richieste di gioielli e oro lavorato; in quel periodo molti furono gli imprenditori costretti a licenziare parte degli operai. Le categorie, i sindacati, il settore stesso si trovarono impreparati e incapaci di trovare soluzioni di fronte a una congiuntura che svelava anche la debolezza della legislazione in materia. Infatti, nonostante l’Italia fosse il più grande produttore mondiale di oreficeria, gioielleria e argenteria, il suo mercato era ancora sottoposto ad una legislazione non ben definita in materia, che si basava su una legge del 14 novembre 1935 (legge del periodo fascista) con la quale, peraltro, si istituiva il monopolio per gli acquisti all’estero dell’oro greggio in lingotti, in verghe, in pani, in polvere e rottami. Fortunatamente dal 1993 la situazione cominciò a cambiare in base alle nuove direttive comunitarie alle quali l’Italia adeguò la propria normativa. Tra il 1980 e il 1990 si superò l’età della meccanizzazione per entrare in quella dell’informatica dove erano richiesti rinnovamenti strutturali a tutti i livelli, l’artigianato si specializzò in nuove tendenze stilistiche e qualitative anche attraverso il recupero di tecniche passate. Infatti le tecniche oggi usate per l’incisione eseguita sulla superficie dell’oro, o la glittica, hanno mantenuto alcune lavorazioni manuali del Rinascimento. Il filo lavorato a mano che diventa catena elabora, tuttora, gli stessi principi tecnici di un tempo, ma non mancano, ovviamente, certi nuovi macchinari che producono a ritmo continuo modelli stampati e catene dagli spessori e pesi minimi. Questo non significa che l’estro si sia esaurito, ma che si è solo diversificato verso nuovi soggetti di attenzione per trovare nuovi metodi che concilino le rinnovate richieste di mercato ai ritmi produttivi, alle esigenze lavorative e alle nuove tendenze di ricerca artistica.

G.Vajenti,Fieradellanostrastoria.LafieradiVicenzaalGiardinoSalvi-1946-1971,EnteFieradiVicenza-1999.

Le tendenze della progettazione e della produzione raggruppano molteplicità di forme e di invenzioni anche se la metamorfosi che l’ornamento subisce è troppo vasta per definire uno stile unico. Fino agli anni Ottanta era stata diffusa soprattutto la conoscenza della produzione della catena, ma Vicenza oltre a questa tradizionale lavorazione realizzava: monili di alta gioielleria in stile moderno e antico, dalla raffinata esecuzione con pietre preziose; semigioielleria, cioè oggetti in oro con pietre preziose e semipreziose, a disegni generalmente geometrici; oreficeria fine senza pietre, di accurata esecuzione, a disegni chiari e lineari o a più libere linee fluenti, di stile moderno e tradizionale; oreficeria e argenteria a maglia catena e stampata, a uno, due e tre colori; gioielli d’argento che “fanno moda”, piuttosto vistosi; minigioielleria in oro e in argento, giovane, sportiva, semplice da indossare; bigiotteria di fantasia; semilavorati, montature per gioielleria, chiusure, porta orologi; vasellame d’argento, servizi da tavola, complementi d’arredo; incisioni, sculture, quadri.

Pertanto si può sostenere che il settore orafo vicentino produceva una gamma merceologica piuttosto vasta. Negli anni Novanta, e ancora oggi, la produzione orafa vicentina non denota un vero e proprio orientamento. Per certe opere più artigianali essa subisce persino il fascino delle decorazioni delle sue architetture storiche rivisitate in nuove forme da artigiani locali che interpretano concetti e temi antichi con spirito inedito e personale. I gioielli contemporanei diventano la viva testimonianza di tecniche, modelli culturali, fisionomie estetiche che seguono le mode principali, che talvolta riescono anche a dettare, in campo orafo, o nelle quali si coglie un esplicito interesse a “conservare” ciò che è stato nella lunga tradizione orafa vicentina.

Per seguire l’evoluzione della tradizione orafa vicentina dell’ultimo ventennio è però necessario considerare la produzione delle imprese orafe, le esposizioni delle mostre e le manifestazioni dell’Ente Fiera; solo tale percorso potrà fornirci le informazioni necessarie sull’evoluzione dell’oreficeria e della gioielleria non ancora divenute letteratura.

Sarà altresì utile coniugare a questo percorso una descrizione della complessa congiuntura economica e culturale che in questi anni di profondo cambia- mento la città sta vivendo, pur rimanendo, Vicenza, una delle capitali mondiali del settore.

Dalla tesi di laurea di Anna Milan “Dalla Fiera al Museo dell’oro: oreficeria e gioielleria a Vicenza” pubblicata a puntate su Storie Vicentine n. 10 settembre-ottobre 2022


In uscita il numero di Giugno 2023
distribuito nelle edicole del centro e prima periferia e agli Abbonati
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