martedì, Dicembre 3, 2024
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L’oro di Vicenza. Il Rinascimento

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Il Rinascimento, anche a Vicenza, fu un momento di fioritura delle arti, dell’architettura e della letteratura. Soprattutto le influenti famiglie della nobiltà vicentina si interessarono al mondo delle arti e cominciarono a collezionare alcune cose, in particolare gli artificialia, realizzati con tecniche complicate o segrete, provenienti da ogni parte del mondo e che suscitavano grande interesse e meraviglia.

Nel 1404 Vicenza si sottomise spontaneamente a Venezia. Fino al 1797 la Serenissima ebbe uncontrollo relativamente tranquillo sul territorio vicentino. Le due città avevano obblighi reciproci e distinte libertà; a Venezia interessava ottenere abbastanza denaro dalla colonia per la realizzazione delle sue imprese.

All’inizio del XV secolo si assistette ad una espansione della produzione mineraria e metallurgica, soprattutto di argento, oro, ferro e rame. Dalle cronache, dai rapporti di visite effettuate dai funzionari della Repubblica di Venezia, sappiamo di alcuni giacimenti di argento presenti nell’alto vicentino che attirarono l’attenzione della Serenissima.

Il Rinascimento, anche a Vicenza, fu un momento di fioritura delle arti, dell’architettura e della letteratura. Soprattutto le influenti famiglie della nobiltà vicentina si interessarono al mondo delle arti e cominciarono a collezionare alcune cose, in particolare gli artificialia, ovvero gli oggetti creati dalle mani dell’uomo, interessanti per la loro originalità ed unicità, realizzati con tecniche complicate o segrete, provenienti da ogni parte del mondo e che suscitavano grande interesse e meraviglia.

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Giovanni Antonio Fasolo,Ritratto di Giuseppe Gualdo con i figli Paolo e Paolo Emilio,1566-67,Vicenza

Una delle personalità più interessanti ai fini del nostro discorso è ad esempio il conte Girolamo Gualdo, nato in Vicenza nel 1492 e morto nel 1566, che fu amico di alcuni suoi insigni concittadini, quali Valerio Belli e Giangiorgio Trissino. La sua casa, dove volle il “Giardino di Cha Gualdo”, era situata in contrà Pusterla.

Qui creò uno spazio pensato come un museo all’aperto dove la collezione di opere d’arte era divisa cronologicamente tra gli autori più significativi nell’attività artistica di Vicenza. L’abitazione – museo, oggi distrutta, si componeva di due edifici speculari con porticati e logge, affrescati all’esterno e all’interno prospicienti un cortile scoperto che immetteva nel largo giardino abbellito di cippi, statue e sculture.

Nello studiolo erano raccolti gli oggetti più insoliti: ampolle, sigilli, carte di tarocchi, anelli, fossili, minerali, reliquie e talismani, monete,gemme, bronzi, bassorilievi, modelli di gesso. Dell’amico Valerio Belli, famoso orafo dell’epoca (fig.17), Girolamo Gualdo conservava due ritrattini in due tondelli dorati, l’uno “di Valerio intagliatore fatto per mano di Raffael d’Urbino”, l’altro “di Elio medico suo figlio fatto da Giovanni Antonio Fasolo”, oltre a numerose medaglie di cristallo di Benedetto Montagna e due paci d’oro scolpite con scene della Santissima Circoncisione e l’Adorazione dei Re Magi, che il Belli stesso aveva donato al Conte Girolamo dopo averle salvate dal sacco di Roma.

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Valerio Belli, Cofanetto in argento e cristallo di rocca, 1525

La sua casa – museo si presentava insomma come una raccolta di oggetti di cultura umanistica con riferimenti all’arte classica romana e veneziana che rappresentava bene la complessa situazione culturale di Vicenza sottoposta all’influenza della visione più moderna e aperta della Serenissima.

Gli esponenti della nobiltà e della classe erudita vicentina sentirono il bisogno di incontri e di convegni letterari che all’inizio del XVI secolo si tennero nei giardini delle case patrizie della città. Iniziò così, con la partecipazione di uomini illustri come Giangiorgio Trissino e Giangaleazzo Thiene, la tradizione dei circoli culturali a Vicenza che diventerà, nel 1555, una vera istituzione con l’Accademia Olimpica, il cui scopo era la ricerca su tutti i misteri delle scienze e delle arti.

Dagli ultimi anni del Quattrocento sino agli anni Trenta del Cinquecento, le notizie relative all’operato a Vicenza di maestri orafi si diradano notevolmente tanto da far pensare ad una crisi del settore che è in parte con- fermata dai soli cinque iscritti alla corporazione nel 1536, anno in cui vengono rinnovati gli Statuti.

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Opere di Alessandro Magonza

Tuttavia con l’elezione a gastaldo del famoso maestro Valerio Belli, si ebbe un movimento di rinascita della fraglia. Belli, noto anche come Valerio Vicentino, perché nato a Vicenza nel 1468, fu appunto un orafo, un incisore e medaglista fra i più abili del Rinascimento, elogiato da Giorgio Vasari nel suo trattato Vite de’ più eccellenti pittori, scultori e architetti italiani, da Cimabue insino a’tempi nostri.

Come il Gualdo, anche Valerio Belli fu amico di molti uomini colti suoi concittadini e, a differenze del conte, l’incisore conobbe persino Michelangelo Buonarroti e Raffaello Sanzio che lo ritrassero, il primo in un tondo di marmo e il secondo in uno di bosso. Produsse opere commissionate dai potenti di Firenze, Roma e Venezia, le tre capitali dell’arte rinascimentale: i papi, i Colonna, i Medici, i dogi. Se guardiamo alla produzione personale di Belli possiamo notare che gli oggetti per cui era famoso, e che firmò, sono o cristalli e gemme intagliate, o medaglie coniate, anch’esse risultato di una procedura di intaglio, nell’acciaio duro del conio.

Tra le sue opere più famose rimane la cassetta in argento con 24 piastrine incise in cristallo di rocca con scene della vita e della Passione di Cristo, commissionata da papa Clemente VII nel 1525, attualmente custodita al Museo degli Argenti di Firenze. La cassetta ha la forma di un piccolo sarcofago: lungo i lati maggiori una sequenza di colonnine doriche divide i vari riquadri, raffiguranti episodi della vita di Cristo dove si riconosce una forte influenza dei modelli classici dei quali Belli era un estimatore.

Altre scene evangeliche sono inserite nel coperchio e nel fondo della cassetta, che ospita le immagini dei quattro evangelisti. La cornice di argento dorato, che racchiude le diverse formelle, è decorata con fiori stilizzati e rosette disposte ad intervalli regolari entro due fasce di smalto policromo.

Nella matricola della fraglia degli orefici del 1536, accanto al prestigioso nome di Valerio Belli vi erano i nomi di altri maestri che vennero riconosciuti quali grandi interpreti dell’arte orafa, come Battista della Fede e un’intera famiglia di orefici provenienti da Schio: i Capobianco. Di questi artigiani restano poche notizie.

Sappiamo che Battista della Fede era considerato un uomo di buona fama ed era il genero del famoso architetto Andrea Palladio. Giangiorgio Capobianco fu il maggior discepolo del Belli, anche se in realtà fu un emulo di Benvenuto Cellini, uno dei più noti orafi rinascimentali che, per intercessione del duca di Urbino, gli salvò la vita dopo esser stato condannato a morte per aver ucciso in Venezia un suo nemico, e così dovette vivere esule fra Urbino, Milano e Roma dove morì nel 1570.

Alcune fonti testimoniano che a Giangiorgio Capobianco vengono attribuiti un anello d’oro dentro al quale stava un orologio che mostrava e batteva le ore, donato al duca di Urbino Guidobaldo II Della Rovere, un altro orologio, dentro a un candelabro d’argento, che nel battere le ore accendeva le candele, e una navicella d’argento semovente con varie figurine. Di Capobianco rimane anche il racconto del lavoro realizzato per l’ammissione alla fraglia: “un anelo d’oro con figure, et in la testa de lanello uno spinello per bandae di un altarolo in cristallo inciso”.

Purtroppo nessuna di queste opere ci è pervenuta. L’ultimo atto di presenza del Belli nella corporazione è citato il 27 giugno 1544, in cui si deliberò che nessuno dei confratelli si potesse recare a Venezia a farvi, in concorrenza con gli orefici veneziani, catene d’oro, braccialetti, anelli e altri lavori d’oro.

Questa deliberazione, come anche le successive leggi suntuarie, che vietavano lo sfoggio di vesti e di gioie lussuose, ebbero come conseguenza l’emigrazione di tutti i nostri migliori artisti, i quali, sull’esempio del Capobianco, abbandonarono Vicenza e andarono ad arricchire le varie corti principesche d’Italia e di Europa.

Tra le molte opere che sfortunatamente non ci sono giunte resta il modello della forma urbis di Vicenza, un modellino della città in legno, progettato dai maggiori esperti, e rivestito in argento dono alla Madonna di Monte Berico per la scampata peste del 1576.

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Il modello in argento di Vicenza ricostruito sulla base delle immagini dei dipinti di Maganza e Maffei

Nel modellino la città era circoscritta entro la cerchia di mura alto medievali con alte torri e porte. L’originale è andato perduto durante l’occupazione napoleonica nel 1797, ma alcuni dipinti hanno permesso la sua ricostruzione: due dipinti di Alessandro Maganza (1556 – 1630), uno del 1613, conservato a Thiene nella chiesa di San Vincenzo e raffigura la Madonna con il Bambino e i santi Vincenzo e Anastasio, l’altro del 1593 è una pala raffigurante San Vincenzo e un angelo che presentano a Cristo il modello della città ed è conservato nella chiesa parrocchiale di Poiana Maggiore.

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Maffei- San Vincenzo con il modello della città

Altri due dipinti sono di Francesco Maffei (1605 – 1660), uno del 1635 circa, che è attualmente nella sala di giunta della residenza comunale a palazzo Trissino a Vicenza e rappresenta San Vincenzo che regge la città di Vicenza e una pala del 1625 circa, raffigurante San Vincenzo con il modello della città, conservata al Museo diocesano di Vicenza.

Il modellino, inaugurato in occasione della festa della Madonna di Monte Berico dell’8 settembre 2016, è attualmente esposto presso il museo diocesano di Vicenza. Nel ‘500 la bottega artigiana acquisì importanza perché era diventata anche un luogo di collezione, nel senso che l’oggetto raccolto era, contemporaneamente, manufatto quotidiano, pezzo esemplare e modello da conservare.

I libri dell’Estimo del 1563-64 testimoniano la demolizione di sette botteghe che si affacciavano sul Peronio perché non più inserite nel nuovo assetto estetico strutturale del progetto della piazza, la loro locazione fu spostata sotto il volto degli Zavattari al compimento del palazzo della Ragione. L’Estimo informa che esistevano due botteghe sotto il palazzo della Ragione “da capo della piazza”, quattro botteghe situate “de dredo” verso piazza delle Erbe, affittate estraendo a sorte i nomi dei maestri orafi, come a un certo Iseppo Parente, a Cesaro orefice, a Troilo orefice e a Francesco Montecchio.

Questi erano i luoghi preposti per l’esercizio e il commercio degli orafi, ma non tutti si adeguarono alle norme dettate dagli statuti. Dai documenti notarili sappiamo che Giorgio Capobianco stava in una “apoteca” del corso. Le botteghe, inoltre, non dovevano esercitare il commercio durante tutto il periodo della durata delle fiere cittadine che, dal 1570 diventò una sola fiera, aperta dal 28 ottobre all’11 novembre.

In quest’epoca Venezia era considerata la porta per l’Oriente per tutti i paesi della mappa commerciale, di conseguenza a Vicenza vi giungevano gli echi delle culture straniere che influirono sul gusto e sulle scelta degli ornamenti e del costume. Da quei legami nacquero manifatture peculiari che evocano un’origine esotica. Tra i prodotti che giungevano nella Dominante grande parte avevano le perle e i coralli, l’avorio e le pietre preziose. L’imitazione degli stili e delle tecniche di lavorazione dei metalli preziosi per gli orafi vicentini fu inevitabile.

Un’interessante testimonianza sui modi per lavorare i metalli preziosi nelle botteghe del Cinquecento ci è offerta da Vannoccio Biringuccio (1480 – 1539), un metallurgista di Siena che viaggiò in Italia e in Germania, esercitando l’arte di fonditore e di tecnico minerario. Conosciuto soprattutto per il suo trattato De la Pirotechnia pubblicato nel 1540, dove fornisce una dettagliata descrizione delle principali operazioni di chimica e di lavorazione metallurgica e descrive anche l’attività orafa presente a Vicenza, all’interno delle botteghe del ‘500. Nel libro IX intitolato “Dell’arte del Fabbro Orefice” si dice che per poter lavorare bene oro e argento occorreva imparare a disegnare e, una volta acquisita tale disciplina, l’orafo doveva apprendere la tecnica della fusione.

La tecnica di fusione era di due tipi: una era necessaria per preparare la lega e l’altra per ricavare delle forme decorate. Per rifinire l’oggetto, occorreva conoscere altre tecniche, per smaltare e niellare, per dorare e lavorare di martello, di bulino, di lima e cesello. Nel Rinascimento trovò grande sviluppo l’arte dei battiloro per la grande richiesta di foglie d’oro usate nella doratura di sculture e cornici e per la produzione di fili d’oro impiegati nella tessitura di preziosi broccati.

La laminazione delle foglie d’oro avveniva in tre operazioni distinte: la laminazione, con il laminatoio a cilindri, la fusione e la battitura. Anche le fonti iconografiche acquisiscono importanza per venire a conoscenza dei diversi modi di lavorare i metalli preziosi. A tal proposito, infatti, sappiamo che per ridurre in filo l’oro era usato un banco a trafila sempre più piccola, dove il metallo era tirato con l’ausilio di una tenaglia trascinata da una corda avvolta sul cilindro di un argano mosso a mano.

Con il crescente impiego di pietre preziose provenienti dall’Oriente e dalle nuove terre scoperte, da incastonare negli anelli, diventò necessario possedere una approfondita conoscenza sulla qualità e i difetti delle pietre preziose. Per questo motivo, nel Cinquecento, si sviluppò l’arte della glittica, ossia l’arte dell’intaglio di pietre dure e gemme a “risalto”, cioè con l’utilizzo di strati sovrapposti di pietre di diverso colore per lasciar spazio ad una figurazione chiara su sfondo scuro, o gemme a “incavo”, dove la figura diventa matrice per sigilli.

Se nel primo Cinquecento i grandi incisori preferivano la perfezione e la limpidezza dell’intaglio in cristallo di rocca, solo nella seconda metà del secolo ritornò l’interesse per le pietre dure colorate – onici, agate – ed i cammei presero il sopravvento sugli intagli. I soggetti decorativi scelti seguivano il gusto rinascimentale dei modelli e dei temi dell’antichità classica: i miti greci e romani, il simbolismo magico o religioso, la ritrattistica.

Nel Rinascimento le placchette erano molto usate in bottoni di cappe, fermagli da vestiti, insegne e fregi da berretto, ornamenti a armatura o cintura e finimenti di cavalcature e in oggetti di uso quotidiano, come calamai, saliere o cassette e forzieri. Cesare Vecellio (1521 – 1601) nel 1589 disegnò 503 personaggi in Habiti antichi et moderni.

L’opera colossale riporta minuziose descrizioni di costumi dall’antica Roma al primo Rinascimento, ma soprattutto in uso negli anni fra il 1550 e il 1590. L’autore, oltre a citare i turbanti dei sovrani orientali impreziositi di gioie, i ricchi broccati arabescati d’oro e d’argento che gettano un ponte tra le ornamentazioni del Levante e i decori delle dogaresse e donzelle veneziane e delle signore vicentine, descrive anche per intero il costume delle vicentine della metà del XVI secolo: “Vestono vesti di raso con collari accollati dai quali vengono fuori le lattughe delle camicie ben lavorate e sottili, le maniche aperte giù per il braccio fermate con bottoni d’oro.

Usano portare al collo collane d’oro e aver per cinture alcune catene fatte di bottoni d’oro, con un capo delle quali legano un ventaglio di piume bellissime”. Nel Rinascimento il gusto della moda coglieva spunti delle corti europee e asiatiche: le collane di perle incorniciavano la base del collo, mentre pendenti di perle a goccia ornavano l’orecchio e le acconciature. Le spille, tanto in uso fino al XV secolo, con funzione di fermaglio della veste o del mantello, persero di importanza con l’avvento dei bottoni.

Questi, prima posizionati lungo la schiena divennero veri e propri gioielli di oreficeria quando il costume cambiò, portando la allacciature sul davanti. La moda dell’epoca prevedeva anche l’uso delle catene sottili a più fili, era adottato indistintamente dalle donne, dagli uomini e dagli ecclesiastici. Le prime catene prodotte furono le forzatine, la catena ad otto, la coda di volpe.

Questa moda è documentata in numerosi dipinti di artisti che operavano nell’area vicentina. Tra questi Giovanni De Mio (1510/12 – 1570), definito dal Palladio “homo di bellissimo ingegno”, che nella Adorazione dei Magi, firmata e datata al 1563, eseguita per la chiesa di Santorso, nel vicentino, oggi nella chiesa di San Lorenzo a Vicenza, rappresenta la catena come un ornamento di uso quotidiano.

Nel Ritratto di nobile giovinetto di Girolamo Forni (1558 – 1620), eseguito nel primo decennio del XVII secolo, oggi conservato nella Pinacoteca di palazzo Chiericati a Vicenza, una catena a tre fili viene indossata a bandoliera sul vestito damascato. Un altro esempio è offerto da un dipinto della seconda metà del XVI secolo, anch’esso conservato presso la Pinacoteca di palazzo Chiericati a Vicenza, il Ritratto di Ippolito da Porto, eseguito da Giovanni Antonio Fasolo (1530 – 1572), nella seconda metà del XVI secolo, dove il condottiero indossa una catena doppia, a losanghe, con un ciondolo posato sul petto che riporta sbalzata una quercia mentre la spilla con brillanti e piume da cappello mostra una palma.

Da tutti questi esempi è facile capire come la ritrattistica veneta del Cinquecento sia, ai fini della ricerca storica, una fonte iconografica preziosa per la storia del costume sociale, della moda e dell’uso dei gioielli. Le opere pittoriche diventano la testimonianza di un particolare momento storico che offre la possibilità di evidenziare diversi aspetti della vita dell’epoca, come ad esempio il gusto dei gioielli.

È necessario però prestare attenzione nel distinguere di volta in volta l’elemento realistico da quello simbolico delle raffigurazioni. Antonio Fasolo, pittore di origine lombarda, ma vicentino d’adozione, a Vicenza lavorò come ritrattista per la nobiltà cittadina. I suoi dipinti sono interessanti testimonianze di quella “civiltà di villa” peculiare del Veneto, dove i soggetti sono sempre aggiornati secondo i dettami della moda veneziana imperanti tra il sesto e l’ottavo decennio della seconda metà del Cinquecento.

Gli affreschi del Fasolo nel salone di villa Caldogno Pagello, a Caldogno, costituiscono un episodio particolarmente significativo. Il pittore è chiamato soprattutto a mettere in scena una serie di tranches de vie giocate anche sull’apparente caratterizzazione ritrattistica dei personaggi, raffigurati nelle dilettevoli occupazioni della villeggiatura con una libertà di atteggiamenti “fuori etichetta”, del tutto inedita e certo concepibile solo in villa, ma che, lo stesso, pone più di qualche interrogativo.

Gli affreschi Scene di vita in villa, eseguiti sullo scorcio del settimo decennio del Cinquecento, mostrano le figure maschili elegantemente vestite in velluto di seta, con le corte brache rigonfie e la giubba dalle aderentissime maniche staccabili, abbinate al colore delle calze e del berretto piatto di feltro con piume di struzzo infilate in un medaglione d’oro e le pesanti auree catene intorno al collo. Le giovani nobildonne indossano ampie vesti in seta allacciate sul davanti, al collo portano semplici catene o fili di perle. Hanno i capelli raccolti con dei fermagli in oro arricchiti con perle e pietre preziose.

Presso la Pinacoteca di palazzo Chiericati, a Vicenza è conservato un altro dipinto di Antonio Fasolo, il Ritratto di Paola Bonanome Guoaldo con le figlie Laura e Virginia, eseguito intorno al 1566. In questo dipinto è la perla a dominare l’immaginario femminile veneziano o vicentino dell’epoca: così le fresche donzelle del Fasolo portano gli orecchini allora più diffusi e un anello da cui pende una goccia di grandi dimensioni.

Paola Gualdo indossa un girocollo di perle, una catena ad anelli che pende fino alla vita e un’altra più corta che è fissata sul petto da una spilla con pendente di perla, gli anelli sono numerosi. Anche le figlie sono riccamente addobbate e indossano un girocollo a grossi grani di corallo a cui si alternano fusarole d’oro filigranato, anticipando quella che sarà la moda del secolo successivo dove i vivi cromatismi sono la caratteristica principale del gioiello. Le scollature sono nascoste da veli d’oro e d’argento, ricamati a Cipro; ai polsi, bracciali dal gusto veneziano a catena di maglia doppia.

Le cinture d’argento dorato, su cui sono inca- stonate perle e gemme policrome, segnano il punto vita delle vesti broccate. Anche il piccolo cane ha il suo collare ornato e prezioso. In questo episodio pittorico Fasolo descrive una delle pagine più vive della ricca storia del costume rinascimentale e del gioiello in uso nella società vicentina del tardo Cinquecento, ma occorre ricordare che questo era il costume tipico delle famiglie nobili e, in questo caso, le fanciulle ostentano una certa ricchezza per soddisfare il desiderio della committente stessa.

Nel Ritratto di giovane donna, del 1566 – 1567, sempre del Fasolo e oggi parte della collezione Zanella a Santorso, i monili esprimono uno stile smisurato. Il suo corredo si distingue per la ricercatezza dei particolari nei gioielli propri del XVI secolo. La collana di perle è in coordinato con i fili che intrecciano l’acconciatura, trattenuti da fiocchetti di seta che caratterizzano la moda della metà del Cinquecento.

La lunga collana di perle naturali di dimensioni diverse e pietre preziose, termina alla vita con un pendente ovale che delimita un cammeo a testa rossa. Sui fianchi è appoggiata una cintura a catena e vaghi in oro cui è appeso il ventaglio. Gli anelli sono in rubini e diamanti e al polso sinistro indossa un bracciale a catene fissate a una perla nera.

La testimonianza più esaustiva degli ornamenti femminili cinquecenteschi a Vicenza si trova nel Ritratto di Isabella Valmarana – Thiene , opera del Forni, eseguita nel 1594. I cordiali rapporti di Forni col padre di Isabella, Leonardo Valmarana, del quale fu esecutore testamentario, rendono ancor più verosimile il suo coinvolgimento nell’esecuzione del dipinto, realizzato con ogni probabilità in occasione del matrimonio della giovane con Ludovico Thiene nel 1594: lei aveva giusto vent’anni, un’età conveniente ai lineamenti poco più che adolescenziali del ritratto. Il rosso, poi, nel Cinquecento, era il colore degli abiti nuziali e anche i fiori sulla spalla e tra i capelli s’inscrivono nella tradizione matrimoniale. L’abito che indossa è ricco, ma non sontuoso, profilato alla vita da un grosso cordone dorato.

I capelli sono raccolti in un’acconciatura di perle e fiocchetti di seta rosa intenso; porta due bracciali a filo cordonati doppi e orecchini di perle grigie a goccia, legati da un fiocco di tessuto dello stesso colore dell’abito arricchito con una gorgiera in pizzo. Al collo sfoggia una robusta catena d’oro a maglia larga con pendaglio che incornicia, sempre in oro, un grosso cammeo. Se il gioiello laico si avvicinava sempre più al moderno concetto dell’ornamento di bellezza, l’oreficeria di oggetti sacri risentiva di più lenti cambianti di stile.

Dalla tesi di laurea di Anna Milan “Dalla Fiera al Museo dell’oro: oreficeria e gioielleria a Vicenza” pubblicata a puntate su Storie Vicentine n. 10 settembre-ottobre 2022


In uscita il numero di Maggio 2023
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