mercoledì, Ottobre 9, 2024
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L’Anello Magico in centro a Vicenza: brutta meravigliosa condanna la memoria

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Compio un “anello magico nel centro di Vicenza. Lascio l’auto a Piazzale del Mutilato, rigorosamente sulle strisce blu per non correre rischi. Un euro di pedaggio mi basterà di sicuro per il paio di commissioni che debbo sbrigare in centro. Pure io mi devo comunque sbrigare, perché sono coperto per solo una mezz’oretta. Posteggiare costa un botto. Bei tempi andati quelli delle strisce bianche e della sosta gratuita ad libitum.

Risalgo verso Piazza Castello, taglio internamente in direzione del duomo. Passo davanti al ristorante Agli Schioppi che non c’è più, arrivo alle Poste ed infilo Contrà Muscheria, annuso il ricordo della libreria Piccioli, della bottega del gusto di Araldo Geremia e della pescheria Tiozzo, che sopravvivono solo nella penombra della mia nostalgia canaglia.

Deglutisco ed infilo lo sguardo dentro Contrà Do Rode: il cenacolo dei letterati di Virgilio Scapin per me da là in fondo si ostina ad occhieggiarmi, anche se sono l’unico convinto ancora di riuscire a scorgerlo. Sbuco in piazza dei Signori, piena di sole ma vuota stamattina di vita, quasi come quella volta in cui anche a me capitò di incrociarvi Paolinorossigol. Il groppo risale. Lo caccio indietro con uno spritz alla Triestina, anche se è un’altra roba rispetto a quando sul serio in quel locale si respirava profumo di Sudamerica e ti tostava il caffè ed inventavano miscele.

Ad occhi chiusi provo a rievocare l’aroma do Brasil ma con poco successo. Do la colpa alla mia senescente capacità olfattiva, che orgogliosa e piccata si vendica subito di tanta mancanza di rispetto, costringendomi ad inalare il puzzo delle deiezioni appena lasciate da un cagnone in Contrà Porti, dove ho optato per transitare assieme alla mia voglia un po’ insulsa di percepire aria di vecchi palazzi e di passato. I cani una volta erano più educati. Facevano le loro cose a casa. Evidentemente hanno imparato la signorilità dai propri padroni.

Guardo al maestoso portone d’ingresso del prestigioso stabile che fu sede d’una banca popolare divenuta così tristemente impopolare prima di defungere. Poi piego su Via Riale, a metà della quale troneggia sempre ma un po’ imbolsita la facciata imponente della mia stagionata scuola media (allora la si poteva chiamare così senza rischi di passare per oscurantisti che si ostinano a non digerire le più moderne “secondarie di primo grado”). Segno di croce in suffragio dei miei prof di allora, che sono uno alla volta saltati come birilli e non ci sono ormai tutti da un po’.

Torno su Corso Palladio. Rivedo la vecchia sacra sede d’angolo della cartolibreria Galla, quella in cui quand’ero ragazzo si entrava cercando istintivamente un’acquasantiera per affrontare purificati il santuario della cultura. Più avanti, di fronte a quella che fu la BNL, c’è sempre l’androne sul quale affacciavano dirimpetto le due botteghe d’arte di Gueri da Santomio e di Berto Mottin. Magone montante, ossigeno che pare rarefatto ed andatura che comincia perciò ad essere disorientata e caracollante.

Avanzo zigzagando e mi ritrovo ad esplorare Stradella dei Filippini. Lì, prima dell’attuale multisala, c’era il mitico Cinemateatroroma. Sì, pensato e pronunciato come un’unica parola, sul genere del Mariaverginesantissima di mia nonna quando si apprestava ad inseguirmi dopo l’ennesima marachella di quel selvaggio irrecuperabile che in quegli attimi sospesi tra la scopa in aria e la scopa sulle mie terga smetteva di essere il suo adorato nipotino e diventava curiosamente invece soltanto il figlio di sua figlia. A rifletterci ora mi chiedo come avrò fatto, sul finire di quegli scoppiettanti Anni Ottanta, ad infilarmi nei camerini di tanto glorioso teatro con faccia tosta il giusto per affrontare senza che mi tremassero le gambe i vari Gaber, Milva, Vanoni e Jannacci per farmi rilasciare interviste a domande che solo oggi scopro di una banalità sconcertante. Però allora mi sentivo giovane ed intelligente. Adesso, che sono di sicuro meno giovane e probabilmente non molto più acuto, guardo e passo oltre per non commuovermi al pensiero che quei giganti se ne siano già tutti andati o siano comunque abbastanza morti lo stesso.

Anche Bramieri. Che quel venerdì di settembre, quasi a mezzanotte, mi prese sottobraccio e si lasciò guidare attraverso la magia di un centro storico deserto, ascoltando le mie illustrazioni da cicerone improvvisato che gli raccontava la poesia di tanti scorci palladiani durante il quarto d’ora impiegato per raggiungere a ritmo blando la trattoria di fronte al Patronato Leone XIII, dove il resto della sua compagnia d’attori lo aspettava per la cena notturna post spettacolo. Il tutto mentre la fanciulla che ci faceva da scorta ed ancora non sapeva che sarebbe diventata mia moglie mi domandava estasiata da quando conoscessi l’indiscusso re italiano della barzelletta d’autore, che con così naturale confidenza mi si rivolgeva. “Da dieci minuti” le dissi, perché era un mondo di anime candide. Divi compresi.

Resisto alle lacrime di commozione anche mentre svolto in Contrà San Marcello, dove il mio liceo Pigafetta resiste abbastanza dignitosamente allo scorrere dei decenni ma è orfano di quelle facce che allora lo popolavano. Facce di studenti che oggi hanno già scollinato il mezzo del cammin di loro vita. Ma pure volti di docenti senza più voce, perché in larga parte hanno già scollinato anche il secondo mezzo e consumato già tutto il proprio tempo mortale.

Affronto – adesso di corsa per fuggire i ricordi – anche la piccola discesa che mi riporta su Piazzale del Mutilato, idealmente completando quell’anello magico che è stato il mio viaggio nel presente e nel passato che sta volgendo a conclusione. Un viaggio più lungo del previsto, ad onor del vero, considerato che ci ho impiegato un’ora abbondante. Maledizione, sono fuori orario col parcheggio! Non ho modo di terminare il preoccupato pensiero che già scorgo, dietro alla mia auto, un lungagnone in divisa da vigile che sta verosimilmente prendendo nota della targa.

È però anche l’attimo di un’inattesa e perciò spiazzante evocazione: proprio su questo trafficato quadro d’asfalto trent’anni fa rimediai la mia prima contravvenzione per aver posteggiato fuori dalle strisce (allora democristianamente bianche). Vivo l’istante surreale in cui una forza misteriosa mi trattiene dal prostituirmi per negoziar clemenza al cospetto dell’integerrimo servitore delle forze dell’ordine, perché con un tuffo al cuore realizzo che la contravvenzione che sta per essermi spiccata è in questa strana giornata l’unica cosa che vedo ripetersi identica alla scena che andò in onda quella volta che proprio qui fui multato.
Lo so, non è forse un ragionare sano. Ma quando nulla ritrovi del tuo mondo che non c’è più, anche quelli che allora recitavano come adesso la parte dei cattivi ti appaiono curiosamente reliquie da custodire con gelosia, perché sono nella tua fantasia distorta i soli superstiti di un’arcadia lontana.

Forse lo spritz di mezz’ora fa sta andando in circolo, ma provo una sensazione dolcissima mentre il signore mi mette in mano copia del verbale. Nemmeno sono curioso di controllare l’importo, che intimamente confido non sia in ogni caso da accensione di mutuo. In fondo sono colpevole solo di ritardo nel ritiro della vettura ma non di mancato pagamento di pedaggio. Insomma, più roba da pacca sulla spalla che da calcione sui glutei.
Il poliziotto locale ci rimane quasi male mentre prendo il foglio con la sanzione e me lo infilo in tasca senza obiettare ma al contrario omaggiandolo con un “grazie di cuore” che lui sicuramente interpreta come canzonatorio ma io al contrario vivo quale esternazione di doverosa riconoscenza per avermi regalato la gioia di catapultarmi indietro a quegli anni di cui per un miracoloso istante mi par di riassaporare l’impossibile magia di ritorno.

Brutta meravigliosa condanna la memoria…

Di Davide Sacco da Storie Vicentine n. 2 Aprile maggio 2021


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