Vicenza è una splendida città che ha donato al Veneto e all’Italia personaggi di grande spessore. Se è stata incredibile l’avventura di Antonio Pigafetta attorno al globo non è meno, per i suoi effetti, Gian Giorgio Trissino, letterato vicentino vissuto a cavallo tra il XV e il XVI secolo.
La vita e gli studi
Trissino nacque da una nobile famiglia vicentina nel 1478. Prima di stabilirsi a Roma, dove passò i suoi ultimi anni e morì, portò avanti i sui studi in varie città d’Italia. Studiò greco a Milano, filosofia a Ferrara, e a Firenze si legò a Niccolò Machiavelli frequentando il suo circolo letterario. A Roma ebbe modo di conoscere altri intellettuali come Pietro Bembo e Giovanni Rucellai.
Busto di Gian Giorgio Trissino (Foto FB: VICENZA)
Le opere
Nel corso della sua vita Trissino si interessò di molte cose; la letteratura, tuttavia, fu il suo vero grande stimolo. Poeta e drammaturgo, grazie ai suoi studi classici meritò di essere considerato un innovatore della scena drammatica italiana. La sua tragedia più famosa, Sofonisba, tratta un episodio delle guerre puniche, basandosi sul racconto di Tito Livio. Ad essere interessante, però, non è solo il tema: Trissino inserisce nella struttura della tragedia anche elementi mutuati dalle tragedie di Sofocle e Euripide, e si serve di una metrica all’epoca assolutamente non comune per il dramma, il verso sciolto.
La villa della famiglia Trissino (Foto: WikiMedia Commons)
Trissino e il Palladio
Sarebbe limitante ridurre lo spessore intellettuale di Trissino a solo una parte del suo contributo alla scena culturale italiana. Tuttavia, è impossibile non ricordare come il poeta e drammaturgo sia stato il primo mecenate di un’altra figura di spicco della cultura vicentina, la più famosa di tutte: Andrea Palladio. Trissino affidò al giovane il rinnovamento della villa di famiglia e contribuì in grandissima parte alla sua formazione portandolo con sé in più di un viaggio a Roma, affinché familiarizzasse con l’architettura antica.
Non solo: lo stesso pseudonimo “Palladio” fu attribuito al futuro grande architetto, il cui vero nome era Andrea di Pietro dalla Gondola, proprio da Gian Giorgio Trissino.
L’aria di montagna è ricca di ossigeno e una bella giornata sulla neve ci fa sentire rigenerati. Continua il nostro viaggio sull’Altopiano di Asiago. Dopo Rotzo, Enego e Gallio, eccoci a Roana, a circa 1000 m.s.l.m., che comprende un territorio molto vasto. Qui vi sono boschi, campi, pascoli, dolci pendii e anche un laghetto balneabile. Roana ha inoltre 6 frazioni, dette anche 6 campanili perchè ognuna ha la sua chiesa parrocchiale. Sono Camporovere, Canova, Cesuna, Mezzaselva, Roana e Treschè Conca.
Sull’Altopiano non manca la movida. In alcuni punti ristoro c’è anche musica con dj.
Cosa visitare
Come negli altri Comuni dell’Altopiano, ci sono numerose testimonianze della Prima Guerra Mondiale. A Canove è possibile visitare il Museo Storico della Grande Guerra, che raccoglie oltre 5000 reperti bellici tra mappe, indumenti, suppellettili varie, documenti e fotografie. Numerosi ritrovamenti bellici risalenti alla Prima Guerra Mondiale sono poi raccolti a Treschè Conca nella famosa Collezione Rovini.
E’ possibile inoltre visitare numerose fortezze militari ottimamente conservate, quali il Forte Verena, il Forte di Punta Corbin con il museo annesso, il Forte Campolongo e la Caserma sul Monte. Sul Monte Cengio è invece presente il celebre Salto del Granatiere, il percorso scavato a tratti nella roccia ed a picco sulla valle. Il panorama è godibile lungo il tragitto e l’area monumentale della cima rappresenta di sicuro uno dei luoghi più spettacolari e significativi della Grande Guerra sull’Altopiano di Asiago.
Il Salto dei Granatieri sul Monte Cengio. Foto: facebook pag. Salto dei Granatieri, scatto di Elena Giugnoli
La tradizione cimbra
E’ presente inoltre un Museo e Istituto di Cultura Cimbra, con sede a Roana, che salvaguarda il patrimonio linguistico e culturale ereditato dagli antichi popoli germanici nell’Alto Medioevo. A Treschè Conca inoltre, nella sede dello Chalet Turistico Municipale, si può trovare lo Sportello Linguistico Cimbro, per un approfondimento su questa misteriosa etnìa. E la cultura cimbra è celebrata ogni anno a Roana con con “Hoga Zait” il festival cimbro, importante appuntamento per residenti e turisti, in seno al quale sono organizzati spettacoli, incontri culturali e concerti nelle varie frazioni del Comune di Roana.
Il Forte Corbin. Foto: Pag. Instagram iat_roana
Il Museo dei Cuchi di Cesuna
A Cesuna di Roana si trova un museo davvero unico. Si tratta del Museo dei Cuchi, che raccoglie oltre 10mila cuchi, popolari fischietti di terracotta delle più svariate forme e provenienti da tutto il mondo, che la tradizione popolare voleva che i ragazzi regalassero come promessa d’amore alle proprie innamorate il 25 aprile, festa di San Marco, giorno in cui ancor oggi a Canove di Roana di svolge la Sagra dei Cuchi.
La sede del Museo dei Cuchi di Cesuna. Foto pag. facebook Museo dei Cuchi
Il Museo del Risorgimento e della Resistenza a di villa Guiccioli di Vicenza è intimamente legato alla vita morale, culturale ed alle tradizioni della città e del suo territorio, per una serie di motivi ed argomenti che possono essere spiegati dal materiale conservato edall’ubicazione stessa della sede museale.L’Istituto raccoglie infatti memorie di eventi e di personaggi che appartengono alla storia d’Italia e che furono protagonisti nelle vicende storiche della città. E ancora, sul colle Ambellicopoli dove sorge l’edificio di villa Guiccioli, attuale sede del Museo, si svolse l’eroica resistenza del 1848 che vide la popolazione vicentina, impegnata per la difesa della città, in unione con i volontari provenienti da varie regioni della penisola. Le raccolte conservate dal Museo sono quanto mai varie ed interessanti e anche un breve elenco può dare veramente la misura di questa ricchezza; il nucleo principale della documentazione è infatti costituito da
pubblicazioni a stampa, periodici, giornali, manoscritti, ritratti, quadri, stampe, diari, bandi e proclami, decreti, atti privati, monete, medaglie e decorazioni, carte geografiche civili e militari, armi bianche e da fuoco, bandiere, oggettistica militare di vario genere.Materiali con i quali non è difficile individuare un filo storico conduttore: i documenti e i cimeli delle raccolte rappresentano infatti un’interessante testimonianza degli avvenimenti vicentini e nazionali ed in qualche caso europei, delle vicende storiche che vanno dalla prima campagna d’Italia di Napoleone nel 1796 alla fine della Seconda Guerra Mondiale e alla lotta di liberazione(1945); si tratta di un secolo e mezzo di vicende che hanno trasformato più volte il volto politico, sociale, economico e morale d’Italia e d’Europa.
(Dal sito del Museo)
Villa Guiccioli: Ingresso Museo del Risorgimento e della Resistenza
Il Parco storico di Villa Guiccioli è ubicato in uno dei luoghi più suggestivi di Vicenza. Le notizie documentate sul complesso di Villa Guiccioli risalgono al 4 marzo 1788, data in cui le Contesse Laura e Anna Maria Bombarda diVerona cedettero l’intera proprietà a tale Antonio Marchiori di Vicenza. Proprietario di “case e beni arativi, prativi e boschivi sul Monte Berico”, il Marchiori fece molte spese per migliorare lo stato e la condizione del complesso. Il 22 settembre 1794 un Maestro di Zecca veneziano, di origini greche, Marino Ambellicopoli acquistava le case ed i beni dal Marchiori.All’epoca la proprietà sembrava comprendere anche i terreni di pianura che si trovano in prossimità dell’abitato di Campedello.
L’anno 1799 corrisponde a quello della presumibile costruzione della Villa ad opera dell’architetto veneziano Giannantonio Selva amico dell’ Ambellicopoli. Dopo la sua morte, l’ 11 maggio 1803, la proprietà passava ai nipoti, gli eredi del greco, tali Giorgio e Francesco Vassili più tardi a Rosa Rughi vedova di Giorgio che ne rimase proprietaria sino al 1853, epoca in cui il complesso fu venduto al Marchese ravennate Ignazio Guiccioli, cui si deve l’attuale nome della Villa. Nel 1848 la zona fu teatro di aspre battaglie tra le truppe Austriache e quelle Italiane comandate dal Generale Giovanni Durando.
Nel 1855, grazie ad una concessione di Papa Pio IX° venne eretto un Oratorio privato di cui attualmente non rimane traccia. Il Marchese Guiccioli apportò alla Villa alcune modifiche architettoniche, ed è presumibile pure un cospicuo intervento nell’area verde circostante. I successori del Guiccioli rimasero proprietari del complesso, sotto vari titoli, fino al 1935, anno in cui il comune di Vicenza acquistò Villa Guiccioli, “con parco e terreni annessi“, per istituirvi un Museo Storico del Risorgimento e della Guerra. In tale occasione vennero effettuati alcuni lavori di restauro e alcune modifiche sia alla Villa che al Giardino.
Il parco di villa Guiccioli occupa la sommità del colle Ambellicopoli 151 m. con un’estensione di circa quattro ettari. A nord-est, la parte più ripida dei versanti è occupata dal bosco. Nel parco sono presenti complessivamente 536 piante, tra alberi e arbusti, appartenenti sia alla flora locale che a specie esotiche; le specie vegetali determinate sono circa una quarantina. Gli arbusti sono piuttosto scarsi e rappresentati prevalentemente da Lauro ceraso (Prunus laurocerasus) e dal Tasso (Taxus baccata). La presenza di specie a fogliame persistente costituisce il 63% del totale (Cipressi 31 %, Cedri 13%).
La maestosa presenza della Zelcova (Zelcova carpinifolia), censita tra gli alberi monumentali della provincia di Vicenza, arricchisce ulteriormente l’importanza di questo parco. Nella parte orientale il parco non presenta nessun elemento di discontinuità con il bosco; i grandi Lecci, i Cipressi e la stessa Zelcova sono a stretto contatto con la vegetazione arborea ed arbustiva del bosco. Qui in mezzo ad alberi di Orniello, Olmo, Carpino nero e maestosi esemplari di Roverella si snodano numerosi sentieri.
Di Luciano Parolin da Storie Vicentine n. 2 Aprile maggio 2021
Uno storico vicentino di fine Settecento, l’abate Gaetano Macca’ (Sarcedo 1740 – Vicenza 1824), ha lasciato parecchie opere frutto di studi e ricerche sul territorio, tra cui una voluminosa “Storia del territorio vicentino”. Un’altra sua opera interessante riguarda le grotte di Costozza” (“Storia della famosa grotta di Costozza detta volgarmente il Covolo o Covalo di Costoza” – Vicenza MDCCXCIX – 1799).
Il Covolo di Costozza frontespizio del libro di Gaetano Macca’
Questo pittoresco paese dei Berici ha la peculiarità che le sue grotte vantano una storia millenaria che si perde nella notte dei tempi, legata all’estrazione della pietra calcarea da taglio la cosiddetta pietra di Costozza o pietra di Vicenza.
Insigni studiosi, storici, letterati e architetti nei secoli passati (Giovanni Arduino, Filippo Pigafetta, Pietro Bembo, Andrea Palladio, Domenico dell’Acqua, Giangiorgio Trissino, Francesco Scoto, e altri) descrissero queste grotte o covoli definendoli “l’ottava meraviglia del mondo antico” poiché, col progredire dell’estrazione, erano diventate vastissime: insieme formavano un intricato labirinto, anche su più livelli, la cui estensione era pressoché sconosciuta, secondo alcuni storici la più vasta, per quanto noto, in Italia.
Riporta lo Scamozzi che “alcuni covoli trapassano sino a Brendola per lo spazio di cinque miglia”. Ed ancora “Il conte Alfonso Loschi nei suoi compendi storici dice che questa caverna è lunga miglia dieci”.Maccà riporta la citazione da una “storia manoscrittadi autore anonimo esistente in Casa Testa, che asserisce essere questa caverna amplissima trapassando di monte in monte sino a Brendola”.
Il Maccà chiese ed ottenne dal conte Ottavio Trento, ultimo erede della famiglia che visse e dominò a Costozza per oltre 200 anni, il permesso di visitare le grotte di sua proprietà, le perlustrò e le descrisse in questo volume che dedicò al nobile Collegio dei Notai di Vicenza.La proprietà Trento alla fine del 1700 comprendeva le due più grandi grotte: quella attigua al palazzo Trento e quella più in alto denominata il covolo della Guerra, che il conte aveva comprato nel 1759 al prezzo di 16 ducati d’argento.
L’utilizzo di queste grotte ha origini antichissime: prima ancora che a quella romana risalgono all’era paleoveneta o etrusca. Lo dimostra un’iscrizione in caratteri paleoveneti (o etruschi secondo il Da Schio e altri) un tempo incisa sopra l’ingresso della grotta maggiore, fu asportata nel 1800 ed ora esposta nell’atrio di palazzo Da Schio in Vicenza.
Il Maccà descrive l’entrata del covolo della Guerra qual era al tempo: angusta e protetta ai lati da feritoie per archibugi e balestre per respingere dall’ingresso gli assalitori in tempo di guerra, divenendo così un rifugio inespugnabile come fortezza (all’interno furono trovati anche quattro piccoli cannoni in ferro).
Lo storico Giulio Barbarano scrive: “in questo Covolo potrebbero alloggiare dieci mila uomini”.Negli spazi più ampi, intervallati da enormi pilastroni di sostegno, erano stati ricavati recinti e “cameroni” in muratura, con porte e finestre a inferriate, luoghi che la tradizione individuava come le antiche prigioni.
In effetti qualche storico ipotizza che il nome Costozza possa derivare dal latino “custodiae”, o prigioni, dove i condannati erano adibiti al lavoro di estrazione della pietra. Ma, nei secoli successivi, erano state anche cantine per la conservazione ottimale di vino e derrate.
Il Macca’ ritrova un forno in mattoni per cuocere il pane e riporta altre fonti che affermano esisterne più di uno.Impossibile gli fu perlustrare interamente tale labirinto per la sua vastità e complessità e per i crolli in alcuni tratti che ne ostacolavano il percorso, dovuti anche a terremoti, l’ultimo dei quali in data 22 ottobre 1796.
Il Maccà conferma la presenza di sorgenti e di un lago (descritto anche da altri autori e in una lettera del Trissino) con acqua limpidissima e “in alcuni luoghi profondissima” in cui stanziava una specie di gamberetto cieco.La cronaca cita tentativi di prosecuzione del percorso con barchette, tuttavia impediti a un certo punto dal completo allagamento delle gallerie.(Nella mappa del 1759 redatta da un pubblico perito sono visibili gli “stagni d’acqua” o laghetti, oltre i quali la grotta prosegue, come pure nella mappa di metà 800 pubblicata dal Da Schio).
Il Maccà vede e descrive l’inizio dei ventidotti ossia i cunicoli – noti anche al Palladio – che dalle grotte scendono il monte e si dipanano, ancor oggi, con successivo percorso sotterraneo, fino alle ville storiche del paese portando in esse un circolo d’aria a temperatura pressoché costante in ogni stagione. (nella foto in basso il locale di Villa Eolia raffrescato naturalmente).
Il locale di Villa Eolia raffrescato naturalmente dai condotti ventilati
In appendice al suo volume il Maccà riporta i vari fatti storici che hanno interessato le grotte, tratti da cronache di guerra fino agli anni 1510-1514 quando gli eserciti tedeschi e spagnoli, impegnati nella guerra di Cambrai contro Venezia, tentarono più volte di espugnare le grotte dentro le quali, dai paesi vicini e dalla città, si era rifugiata una moltitudine di gente con i loro beni più preziosi, ma il tentativo fallì.
Di Luciano Cestonaro da Storie Vicentine n. 2 Aprile maggio 2021
In ogni nostro incontro, e sono ormai diversi anni che ci conosciamo, Assunta Gleria riesce a sorprendermi con idee sempre nuove, sperimentazioni e sfide creative.
Nulla di strano, considerando lo spessoreintellettuale e umano del suo curriculum: formatasi come architetto-urbanista a Milano, con un dottorato conseguito a Parigi, visse per molti anni con la famiglia in Africa sub-sahariana (Nigeria, Kenya, Etiopia), lavorando nell’ambito della cooperazione internazionale. Le origini beriche la riportarono poi a Vicenza, dove per quasi un ventennio insegnò con entusiasmo disegno tecnico nelle scuole superiori.
Il pretesto formale per questo articolo è il suo libro uscito di recente: Io mi ricordo com’era… Breve storia ad immagini della Valle dell’Agno e altri racconti, edito da Altra Definizione “che si occupa da anni su temi e campi che hanno a che vedere con le fasce deboli della società, le relazioni tra le persone e la valorizzazione dei territori”, come si legge sul sito dell’associazione che ha sede a Vicenza.
Due illustrazioni di Assunta Gleria tratta dal racconto Io mi ricordo com’era
Il volume di 80 pagine raccoglie tre “graphicdocu-stories” – impreziosite da brevi ma assai meditati testi firmati assieme a Paolo Boscato – che illustrano altrettante questioni ambientali. Oltre al caso veneto menzionato nel titolo, emergono due narrazioni di grande impatto emozionale ed etico legate al continente africano, conosciuto in modo approfondito dall’autrice nell’arco della sua esperienza professionale, che ha offerto spunti per una serie di articoli di carattere divulgativo pubblicati in diversi periodici italiani.
Il lavoro di illustrazione a fumetti – assai originale e apprezzato anche all’estero dove l’artista ha intrecciato fecondi contatti editoriali – ha avuto il suo inizio qualche anno fa con Due storie illustrate (2017) e Sei passaggi in Morigi (2018), con i quali ha partecipato, per la categoria graphic novel/fumetti, al concorso nazionale “Il mio esordio” indetto da www.ilmiolibro.it, qualificandosi tra i finalisti.
Illustrazione di Assunta Gleria tratta dal racconto Suakin – Port Sudan 1986 Fig.
Tornando invece al libro appena pubblicato, il primo racconto della triade, Io mi ricordo com’era!!! Storia illustrata della Valle dell’Agno, coinvolge la memoria del territorio in questione delineata con un ampio respiro temporale, partendo addirittura dall’epoca preistorica in cui si creano presupposti per il successivo sviluppo sociale ed economico dell’area.
L’autrice procede creando una sorta di dossier dedicato all’ambiente naturale e antropico di questa valle, in cui si insediano nel tempo varie popolazioni: prima gli Euganei e i Reti, poi i Longobardi e gli Ungari, e infine i Cimbri che giungono a mantenere la loro specificità linguistica fino alla metà del XX secolo. L’eredità di questi gruppi etnici, che hanno lasciato impronte significative della propria presenza, ha reso possibile un caratteristico melting pot alla base della ricchezza culturale di un territorio dove le importanti risorse acquee hanno determinato lo sviluppo economico e sociale delle comunità, impegnate soprattutto nella produzione tessile.
Nasce così una narrazione complessa e multifocale che trae spunto dalle origini familiari e dai ricordi materni, ma anche dall’esperienza infantile che torna indispensabile nel momento in cui la mano dell’artista comincia a tracciare uno storyboard concepito al contempo come ricerca documentaria, testimonianza diretta e interpretazione libera dei fatti storici e di attualità.
“La storia dedicata alla Valle dell’Agno è il frutto di una mia rabbia profonda”, racconta l’autrice in una presentazione dell’opera e aggiunge: “Un giorno, mentre scendevo dai colli, ero passata per Brogliano – il paese d’origine di mia madre – e, arrivata in pianura, non avevo più riconosciuto il luogo. La campagna era stata completamente sconvolta, ettari di terreni un tempo fertili e coltivati erano stati spostati e scavati per lasciar posto a rotatorie e scavi per il movimento terra della Pedemontana Veneta in costruzione. Saltavano all’occhio ancora devastazioni dopo quelle permesse da un’urbanizzazione selvaggia negli anni della ricchezza. Ma la deindustrializzazione non necessita più di infrastrutture di quel tipo, che hanno reso la valle un catalogo di interventi da non ripetere. Da qui nasce il bisogno di raccontare la storia della valle, di come era nel ricordo e di immaginarne un futuro diverso, sempre possibile. L’immagine di questo futuro, necessaria per esorcizzare la paura della distruzione totale, inclusa quella della memoria, deve includere però anche i disastri ambientali già compiuti”.
Le immagini rafforzano le parole, all’insegna di un profondo desiderio di restituire allo sguardo non solo i ricordi, ma anche la fiducia nel futuro riscatto dell’ambiente ferito in modo così drastico. Non a caso, le ultime due vignette presentano un’immaginaria proiezione verso un domani diverso: il paesaggio violato dalla tracotanza dell’uomo si ripopola gradualmente di piante e di animali selvatici, tornando quindi allo stato primigenio, libero finalmente dall’ansia devastante del progresso finalizzato a sé stesso.
Illustrazione di Assunta Gleria tratta dal racconto Suakin – Port Sudan 1986
Le altre due storie – Suakin, dedicata alla magnifica ma abbandonata città sudanese di corallo, il cui afflato quasi surreale ricorda Le città invisibili di Italo Calvino, e La Karura Forest a Nairobi, ispirata al progetto di valorizzazione di circa 500 ettari di parco naturalistico, svincolato da mire espansionistiche di costruttori e sottratto da artigli della criminalità – conducono il lettore verso il continente africano dove si scoprono due percorsi storici assai travagliati e complessi, ma anche le pratiche virtuose di partecipazione civica in grado di far decollare un importante progetto ambientale, considerevole sia dal punto di vista turistico che di fruizione locale.
Scritto da Paolo Boscato, archeozoologo e viaggiatore di origine vicentina, il racconto Suakin fa trasparire una preziosa sintonia tra due livelli di narrazione: le immagini entrano in piena sintonia con il flusso lirico, quasi sognante, delle parole.
“Quando Paolo mi ha proposto di illustrare il suo racconto, il fascino che la cultura araba ha sempre esercitato in me e la voglia di ritornare, anche solo con la memoria, nelle città della costa africana sull’oceano Indiano, mi hanno spinto subito al lavoro”, afferma l’illustratrice entusiasta di questa collaborazione.
Attraverso non molte ma intense pagine del libro, il lettore può sorvolare millenni di storia e distanze geografiche davvero cospicue, facendosi coinvolgere nei racconti in grado di toccare corde profonde del sentimento etico. In un mondo globalizzato, queste testimonianze custodiscono un invito alla riflessione e alla presa di posizione civica all’interno delle proprie comunità e ambiti di azione, nell’ottica della salvaguardia e della rigenerazione dell’ambiente e della memoria storica dei luoghi.
Illustrazione di Assunta Gleria tratta dal racconto La Karura Forest a Nairobi
Per questo motivo, l’armonia ritrovata della foresta di Nairobi offre un esempio virtuoso anche sul piano sociale. Anche in questo caso, il racconto passa attraverso il filtro dell’esperienza autobiografica: “La Karura Forest a Nairobi è il frutto di una grande emozione, questa volta positiva, nel poter camminare – finalmente – all’interno di una foresta, un tempo terreno proibito per i rischi fisici che comportava l’accedervi. Ritornata di recente a Nairobi, dopo avervi lavorato a lungo negli anni ‘90, avevo scoperto con piacere che la Karura Forest, un’area di più di 500 ettari all’interno della città, era diventata un parco pubblico, accessibile a tutti, molto frequentato, ben gestito e conservato. Questo risultato era stato possibile grazie all’impegno e alle lotte di gruppi di cittadini, in particolare delle donne del Green Belt Movement che avevano trovato il modo di evitare che la speculazione edilizia si impadronisse completamente della foresta”.
Titolo: Breve storia ad immagini della Valle dell’Agno e altri racconti
Autori: Assunta Gleria e Paolo Boscato Illustrazioni: Assunta Gleria Prefazione: Agata Keran
Progetto grafico: Fernanda Cereda Prezzo di copertina: 18,00 euro
A Vicenza, il libro è in vendita alla Libreria Traverso (corso A. Palladio, 172), oppure si può richiedere all’editore a questo link:https://www.altradefinizione.it/edizioni/io-mi-ricordo-com-era
Di Agata Keran da Storie Vicentine n. 2 Aprile maggio 2021
Compio un “anello magico nel centro di Vicenza. Lascio l’auto a Piazzale del Mutilato, rigorosamente sulle strisce blu per non correre rischi. Un euro di pedaggio mi basterà di sicuro per il paio di commissioni che debbo sbrigare in centro. Pure io mi devo comunque sbrigare, perché sono coperto per solo una mezz’oretta. Posteggiare costa un botto. Bei tempi andati quelli delle strisce bianche e della sosta gratuita ad libitum.
Risalgo verso Piazza Castello, taglio internamente in direzione del duomo. Passo davanti al ristorante Agli Schioppi che non c’è più, arrivo alle Poste ed infilo Contrà Muscheria, annuso il ricordo della libreria Piccioli, della bottega del gusto di Araldo Geremia e della pescheria Tiozzo, che sopravvivono solo nella penombra della mia nostalgia canaglia.
Deglutisco ed infilo lo sguardo dentro Contrà Do Rode: il cenacolo dei letterati di Virgilio Scapin per me da là in fondo si ostina ad occhieggiarmi, anche se sono l’unico convinto ancora di riuscire a scorgerlo. Sbuco in piazza dei Signori, piena di sole ma vuota stamattina di vita, quasi come quella volta in cui anche a me capitò di incrociarvi Paolinorossigol. Il groppo risale. Lo caccio indietro con uno spritz alla Triestina, anche se è un’altra roba rispetto a quando sul serio in quel locale si respirava profumo di Sudamerica e ti tostava il caffè ed inventavano miscele.
Ad occhi chiusi provo a rievocare l’aroma do Brasil ma con poco successo. Do la colpa alla mia senescente capacità olfattiva, che orgogliosa e piccata si vendica subito di tanta mancanza di rispetto, costringendomi ad inalare il puzzo delle deiezioni appena lasciate da un cagnone in Contrà Porti, dove ho optato per transitare assieme alla mia voglia un po’ insulsa di percepire aria di vecchi palazzi e di passato. I cani una volta erano più educati. Facevano le loro cose a casa. Evidentemente hanno imparato la signorilità dai propri padroni.
Guardo al maestoso portone d’ingresso del prestigioso stabile che fu sede d’una banca popolare divenuta così tristemente impopolare prima di defungere. Poi piego su Via Riale, a metà della quale troneggia sempre ma un po’ imbolsita la facciata imponente della mia stagionata scuola media (allora la si poteva chiamare così senza rischi di passare per oscurantisti che si ostinano a non digerire le più moderne “secondarie di primo grado”). Segno di croce in suffragio dei miei prof di allora, che sono uno alla volta saltati come birilli e non ci sono ormai tutti da un po’.
Torno su Corso Palladio. Rivedo la vecchia sacra sede d’angolo della cartolibreria Galla, quella in cui quand’ero ragazzo si entrava cercando istintivamente un’acquasantiera per affrontare purificati il santuario della cultura. Più avanti, di fronte a quella che fu la BNL, c’è sempre l’androne sul quale affacciavano dirimpetto le due botteghe d’arte di Gueri da Santomio e di Berto Mottin. Magone montante, ossigeno che pare rarefatto ed andatura che comincia perciò ad essere disorientata e caracollante.
Avanzo zigzagando e mi ritrovo ad esplorare Stradella dei Filippini. Lì, prima dell’attuale multisala, c’era il mitico Cinemateatroroma. Sì, pensato e pronunciato come un’unica parola, sul genere del Mariaverginesantissima di mia nonna quando si apprestava ad inseguirmi dopo l’ennesima marachella di quel selvaggio irrecuperabile che in quegli attimi sospesi tra la scopa in aria e la scopa sulle mie terga smetteva di essere il suo adorato nipotino e diventava curiosamente invece soltanto il figlio di sua figlia. A rifletterci ora mi chiedo come avrò fatto, sul finire di quegli scoppiettanti Anni Ottanta, ad infilarmi nei camerini di tanto glorioso teatro con faccia tosta il giusto per affrontare senza che mi tremassero le gambe i vari Gaber, Milva, Vanoni e Jannacci per farmi rilasciare interviste a domande che solo oggi scopro di una banalità sconcertante. Però allora mi sentivo giovane ed intelligente. Adesso, che sono di sicuro meno giovane e probabilmente non molto più acuto, guardo e passo oltre per non commuovermi al pensiero che quei giganti se ne siano già tutti andati o siano comunque abbastanza morti lo stesso.
Anche Bramieri. Che quel venerdì di settembre, quasi a mezzanotte, mi prese sottobraccio e si lasciò guidare attraverso la magia di un centro storico deserto, ascoltando le mie illustrazioni da cicerone improvvisato che gli raccontava la poesia di tanti scorci palladiani durante il quarto d’ora impiegato per raggiungere a ritmo blando la trattoria di fronte al Patronato Leone XIII, dove il resto della sua compagnia d’attori lo aspettava per la cena notturna post spettacolo. Il tutto mentre la fanciulla che ci faceva da scorta ed ancora non sapeva che sarebbe diventata mia moglie mi domandava estasiata da quando conoscessi l’indiscusso re italiano della barzelletta d’autore, che con così naturale confidenza mi si rivolgeva. “Da dieci minuti” le dissi, perché era un mondo di anime candide. Divi compresi.
Resisto alle lacrime di commozione anche mentre svolto in Contrà San Marcello, dove il mio liceo Pigafetta resiste abbastanza dignitosamente allo scorrere dei decenni ma è orfano di quelle facce che allora lo popolavano. Facce di studenti che oggi hanno già scollinato il mezzo del cammin di loro vita. Ma pure volti di docenti senza più voce, perché in larga parte hanno già scollinato anche il secondo mezzo e consumato già tutto il proprio tempo mortale.
Affronto – adesso di corsa per fuggire i ricordi – anche la piccola discesa che mi riporta su Piazzale del Mutilato, idealmente completando quell’anello magico che è stato il mio viaggio nel presente e nel passato che sta volgendo a conclusione. Un viaggio più lungo del previsto, ad onor del vero, considerato che ci ho impiegato un’ora abbondante. Maledizione, sono fuori orario col parcheggio! Non ho modo di terminare il preoccupato pensiero che già scorgo, dietro alla mia auto, un lungagnone in divisa da vigile che sta verosimilmente prendendo nota della targa.
È però anche l’attimo di un’inattesa e perciò spiazzante evocazione: proprio su questo trafficato quadro d’asfalto trent’anni fa rimediai la mia prima contravvenzione per aver posteggiato fuori dalle strisce (allora democristianamente bianche). Vivo l’istante surreale in cui una forza misteriosa mi trattiene dal prostituirmi per negoziar clemenza al cospetto dell’integerrimo servitore delle forze dell’ordine, perché con un tuffo al cuore realizzo che la contravvenzione che sta per essermi spiccata è in questa strana giornata l’unica cosa che vedo ripetersi identica alla scena che andò in onda quella volta che proprio qui fui multato.
Lo so, non è forse un ragionare sano. Ma quando nulla ritrovi del tuo mondo che non c’è più, anche quelli che allora recitavano come adesso la parte dei cattivi ti appaiono curiosamente reliquie da custodire con gelosia, perché sono nella tua fantasia distorta i soli superstiti di un’arcadia lontana.
Forse lo spritz di mezz’ora fa sta andando in circolo, ma provo una sensazione dolcissima mentre il signore mi mette in mano copia del verbale. Nemmeno sono curioso di controllare l’importo, che intimamente confido non sia in ogni caso da accensione di mutuo. In fondo sono colpevole solo di ritardo nel ritiro della vettura ma non di mancato pagamento di pedaggio. Insomma, più roba da pacca sulla spalla che da calcione sui glutei.
Il poliziotto locale ci rimane quasi male mentre prendo il foglio con la sanzione e me lo infilo in tasca senza obiettare ma al contrario omaggiandolo con un “grazie di cuore” che lui sicuramente interpreta come canzonatorio ma io al contrario vivo quale esternazione di doverosa riconoscenza per avermi regalato la gioia di catapultarmi indietro a quegli anni di cui per un miracoloso istante mi par di riassaporare l’impossibile magia di ritorno.
Brutta meravigliosa condanna la memoria…
Di Davide Sacco da Storie Vicentine n. 2 Aprile maggio 2021
C’era una volta, tanto tempo fa, in un luogo di fiaba che si chiamava Vicenza, un piccolo e grazioso ristorante, seminascosto tra palazzi antichi di lusso in Contrà Porti. Il Tre Visi – così era conosciuto – aveva un volto curato ed elegante e lo frequentavano tante facce di cittadini più o meno illustri.
E in genere facoltosi. Perché va detto che negli anni migliori il Tre Visi non era alla portata di tutte le tasche. Di sicuro almeno non le mie all’epoca in cui ero ragazzino. Poi, quando nel portafoglio aveva cominciato a germogliare qualche banconota, ecco che intanto se ne era andato lui.
Un vecchio amico di famiglia, bazzicatore seriale del locale, mi raccontava che in più d’una occasione gli era capitato di incontrarvi Mariano Rumor, che nella discrezione di un ambiente raccolto cenava spesso anche da solo, così come da solo poi se ne usciva per attraversare una città vuota di vita ma potenzialmente più pericolosa di adesso.
Erano infatti anni complicati per la Repubblica, e a maggior ragione i rischi avrebbero potuto celarsi in ogni anfratto di quelle notti deserte per un professore che si alternava tra la carica di ministro e l’altra da presidente del consiglio. La scorta non faceva per lui, o almeno così era abitudine quando si trovava nella sua Vicenza, dove si ritagliava acconti di libertà non vigilata lontano dai clamori romani.
Durante le proprie indimenticabili stagioni di biancorosso vestite, pare fosse di casa al Tre Visi anche Paolo Rossi, altro riconosciuto campione di riservatezza. Molto più modestamente, una manciata di volte ero riuscito ad affacciarmi pure io – ormai una ventina di primavere orsono – nella piccola sala della trattoria.
Ma scorrevano già quasi i titoli di coda: il baccalà continuava ad avere il sapore che in tanti mi avevano decantato, però l’aria da fine impero che ormai lì dentro si respirava non prometteva bene. La storia per fortuna o purtroppo ha sempre ragione, per cui anch’io me ne sarei fatto una ragione quella domenica (parecchi anni fa) in cui, transitando in Contrà Porti, avrei trovato l’uscio del locale chiuso per sempre e non soltanto per il rituale turno di riposo.
Evidentemente non porta bene aprire attività su quella strada, come immagino avranno pensato i liquidatori dell’allora confinante Banca Popolare. Anche lì ad occhio si mangiava parecchio, e il conto alla fine per troppi onesti vicentini è stato ingiustamente salato. Ma questa è altra faccenda.
Ho avuto un sussulto nello scoprire come – araba fenice in salsa nostrana – il locale fosse ad un certo punto ricomparso. O, meglio, avesse provato a nascere un nuovo e diverso ristorante, non più nella vecchia sede ma nell’ancor più centrale Corso Palladio. Non nascondo, per me orgoglioso oscurantista, la mezza sorpresa (anzi, i tre quarti di sorpresa) nell’apprendere in quei lontani giorni che all’anagrafe la resuscitata bottega del gusto era registrata quale “Antica trattoria Tre Visi di Lan Ping”.
A scanso di fraintesi, sono sempre stato per la democrazia, compresa quella alimentare, perché credo che ciascuno abbia diritto di gioire o soffrire a tavola come meglio creda. Peraltro avevo pure sentito parlar bene di quel redivivo luogo conviviale, cui prima o poi avrei voluto far visita perché si narrava che le specialità vicentine (sì, proprio vicentine!) fossero preparate e servite con assoluta cura. Oltretutto mi sovveniva, per una curiosa e rivisitata legge del contrappasso, di aver mangiato la mozzarella di bufala più buona della mia vita proprio a Shanghai, per la precisione al ristorante Da Marco, un campano intraprendente tra i primi a capire che la Cina poteva anche diventare un’opportunità.
Dunque perché stupirmi del Tre Visi new style? Non dovevo. Cioè, non avrei dovuto. Il fatto è che mi faceva un effetto strano l’immagine degli abbinamenti che istintivamente mi sfilavano davanti: il Mediterraneo e l’Oceano, l’Oriente e l’Occidente. Ma pure il dragone e il gatto, lo spaghetto di soia e il baccalà. Com’è vicina sulla carta geografica ma lontana dalla nostra cultura la Venezia serenissima che con la terra dei soli levanti aveva dimestichezza ed era riuscita a combinarci affari per secoli. La storia, insisto, ha sempre ragione. E il tempo non passa. Lui è lì, fermo. Dall’eternità. Siamo noi che lo attraversiamo senza esagerata consapevolezza e perciò talora non lo capiamo.
Così succede che ci scopriamo regolarmente in ritardo rispetto ad una realtà che sa essere spesso più avanti. Avrei avuto voglia domani a pranzo di prenotare proprio da Lan Ping. Ma pure lui è da diversi anni passato, gastronomicamente parlando, a miglior (forse) vita. Ha serrato i battenti e ormai buttato via la chiave, visto che al civico 25 del Corso resiste in un cortile interno solo un’insegna consunta su una facciata di costruzione dimessa.
Sento che sarò controvoglia dirottato al McDonald’s, dove alla fine riuscirà a sequestrarmi per un paio d’ore il mio ragazzo più piccolo. Che ho la netta impressione nutra al momento più simpatia per l’America.
Di Davide Sacco da Storie Vicentine n. 2 Aprile maggio 2021
Meno conosciuto del Santuario di Monte Berico di Vicenza, a circa 2 km dal centro di Lonigo, nel Basso Vicentino, si trova il Santuario della Madonna dei Miracoli, una chiesa dal fascino misterioso che, ogni anno, accoglie migliaia di pellegrini. Qui si possono chiedere le “grazie” che teniamo nel cuore. Appena si arriva al Santuario, si rimane sorpresi dalla facciata che si ha di fronte. Ma all’interno l’immagine della Madonna colpisce ancora di più. Appare con una mano sulla fronte, vicino ad un occhio, in uno dei punti dove era stata sfregiata…
L’edificio
Il luogo di culto attuale fu eretto tra la fine del XV e l’inizio del XVI secolo su un’antica chiesa benedettina dedicata a San Pietro, per devozione a un’immagine della Vergine, che alla fine del Quattrocento fu al centro di un evento miracoloso.
la facciata esterna della chiesa. Foto: Marta Cardini
Nel 1444 i monaci Olivetani erano subentrati ai benedettini nell’abbazia di Santa Maria in Organo a Verona e quindi anche nei suoi possessi sul territorio, tra cui Villanova di San Bonifacio e Lonigo, che assegnarono ad un rettore.
L’edificio è una delle più interessanti architetture quattro-cinquecentesche del territorio vicentino per la grandiosità e l’equilibrio rinascimentale delle proporzioni. L’ampliamento dell’edificio sacro iniziò a ridosso del miracolo, tanto che la nuova chiesa fu inaugurata già nel settembre 1488. La grande struttura di impronta rinascimentale, tradizionalmente assegnata a Lorenzo da Bologna e Alvise lamberti da Montagnana, si sviluppò intorno all’immagine miracolosa innestandosi alla primitiva chiesa gotica. Il lato sud è caratterizzato da una elegante facciata lombardesca scolpita in pietra di Vicenza attribuita al Lamberti. L’apparato decorativo interno è generalmente attribuibile all’ambiente degli scultori lombardeschi attivi nelle principali chiese di Vicenza tra Quattro e Cinquecento.
Il soffitto della cappella-santuario. Foto: Marta Cardini
Appena si entra nella chiesa, sulla destra, appare la cappella-santuario che protegge l’affresco miracoloso, inglobato nella parete destra della piccola abside. La cappella è impreziosita da un accumulo di decorazioni. Si rimane stupiti da una bella decorazione a stucco barocca di ambito veronese di metà ‘500 attribuita a Domenico Brusasorci, oggi solo in parte visibile nella lunetta superiore della parete di fondo.
La cappella che contiene la Madonna dei Miracoli. Foto: Marta Cardini
Il miracolo
Il primo maggio 1486 la Madonna dipinta fu oltraggiata con bestemmie e sfregiata con un pugnale da due calzolai veronesi che poco prima avevano ucciso un compagno di viaggio per rapinarlo. L’Immagine portò la mano sinistra all’occhio ferito, mentre dall’altra ferita sul petto sgorgavano gocce di sangue. Gianantonio e Guglielmo, gli autori della profanazione, fuggirono. Gianantonio riuscì a far perdere le sue tracce, mentre Guglielmo, che si era rifugiato nell’abbazia di San Zeno, fu catturato, torturato, processato e giustiziato a Verona il 5 maggio. Il fatto ebbe una vastissima risonanza e già il 24 maggio il rettore del neonato santuario rinunciò al beneficio sulla chiesa di San Pietro in favore dell’abate di Santa Maria in Organo per il grande afflusso di fedeli che non poteva più gestire da solo.
La Madonna dei Miracoli. Foto: Marta Cardini
Le guarigioni
Sette giorni dopo, il 7 maggio 1486, avvenne la prima guarigione. Stefano Cavaccione da Zimella fu risanato in seguito alle preghiere rivolte alla Vergine di Lonigo dopo un grave incidente a cavallo che lo rese invalido. Fin da subito la devozione popolare si manifestò vivace e assidua, con l’arrivo di pellegrini, donazioni testamentarie per la ricostruzione della chiesa, grandi processioni devozionali organizzate dalle comunità del territorio e offerta di ex voto, offerti alla Madonna ormai popolarmente indicata come la Madonna dei Miracoli di Lonigo.
La fama della Madonna miracolosa di Lonigo si consolidò da subito, grazie all’opera degli Olivetani. I monaci ebbero un ruolo chiave nella diffusione della devozione all’immagine sacra che si sviluppò ben oltre i confini del territorio. Essa assunse una dimensione nazionale, sfruttando la rete di monasteri dell’ordine che faceva capo all’abbazia di monte Oliveto Maggiore (Si). Le festività dell’Annunciazione (25 marzo), dell’Assunzione (15 agosto) e della Natività di Maria (8 settembre) assunsero sempre maggiore rilievo, perché in corrispondenza di queste feste si svolgevano importanti fiere presso il santuario.
L’altare nell’abside della chiesa. Foto: Marta Cardini
Già nei primi decenni del Cinquecento numerosi erano i pellegrini e le testimonianze di devozione da altre regioni italiane, confermate dalla documentazione e dagli storici coevi. Nel 1510 la nobildonna romana Angiola venne a Lonigo da Roma per chiedere la guarigione di un cancro al seno.
Il museo dell’ex voto
All’interno del Santuario si trova anche una stanza con una delle più rilevanti raccolte di tavolette votive dell’Italia settentrionale. La stupefacente collezione copre un arco temporale di cinque secoli, dalla fine del Quattrocento alla fine dell’Ottocento, e comprende 360 ex voto dipinti su tavola e su tela, oltre 250 ex voto anatomici su lamina, gioielli, lampade votive, cuori d’argento, ricami, stendardi, ex voto oggettuali, conservati nel museo annesso al santuario e in chiesa. Sono solo un residuo di quello che era un patrimonio certamente molto più vasto, poiché le fonti seicentesche testimoniano la presenza di doni votivi oggi non più rintracciabili, molti dei quali di tipologie diverse da quelle rimaste al santuario: calici, paramenti, sculture in legno, argento o cera che riproducevano la Madonna o le parti del corpo guarite.
È il lupo il protagonista della serata Cai di martedì 14 febbraio 2023, proposta dalla Commissione Naturalistica e TAM “B. Peruffo” in circoscrizione 4 a Vicenza.
Ne parleranno la naturalista Jessica Peruzzo e il fotografo Silvano Paiola, autori, rispettivamente, di un saggio sul ritorno del grande carnivoro sulle montagne vicentine e di un libro fotografico sulla sua presenza in Lessinia.
L’appuntamento, a ingresso libero, è alle 20.45 nella sala consiliare della circoscrizione 4, in via Turra 69 a Vicenza.
Jessica Peruzzo
Jessica Peruzzo, giovane naturalista di Valdagno, laureata in Gestione del territorio e dell’ambiente, impegnata nel monitoraggio della fauna locale e cofondatrice dell’associazione Naturalisti Vicentini, nel libro “Il ritorno del lupo sulle montagne vicentine” indaga a 360 gradi gli effetti del ritorno del carnivoro. Quali sono le conseguenze sull’ecosistema e sulla vita delle persone? Cosa ne pensano gli allevatori, i turisti e gli operatori economici? A partire dal suo saggio, frutto di studi bibliografici, ricerche sul campo e centinaia di interviste, l’autrice fornirà alcune risposte sull’impatto della presenza del lupo in zone dove mancava da molto tempo, tra Veneto e Trentino. Il fenomeno, controverso e di grande impatto sull’opinione pubblica, sarà analizzato con dati aggiornati al 2022.
Seguirà la presentazione del libro fotografico “10 anni con i lupi dei Monti Lessini” (Edizioni ViviDolomiti – Collana Mountain Geographic) in cui il fotografo naturalista Silvano Paiola descrive l’avventura di due amici alla ricerca dei lupi sugli altipiani, nell’asprezza degli inverni, tra foreste selvagge, dentro albe misteriose e tormente di neve. Un viaggio alla scoperta di creature che si muovono guardinghe nei boschi, cercate con discrezione dal fotografo che entra in punta di piedi a far parte del loro mondo.
Sarà un racconto denso di emozioni quello proposto dal fotografo veronese, grande appassionato di fauna selvatica e di paesaggi montani, le cui immagini sono state pubblicate da riviste e portali naturalistici, tra cui National Geographic, La Rivista della Natura, Atlas Obscura, Montagne 360, e gli hanno valso riconoscimenti in prestigiosi concorsi tra cui Glanzlichter, GDT Nature Photographer of the Year, Siena Drone Awards, NPOTY Nature Photographer of the Year e Big Picture Natural World Photographer.
Il libro “Senza Rete” di Maurizia Cacciatori sarà presentato a Vicenza mercoledì 8 febbraio 2023, presso Palazzo Bonin Longare, nell’ambito della rassegna di letteratura sportiva “Lo sport si racconta” di BaldiLibri.
Maurizia Cacciatori ha sempre affrontato la sua vita spinta da un forte desiderio di libertà e da una forza incrollabile. Uscita di casa a sedici anni per inseguire la passione della pallavolo e liberarsi da regole troppo strette, ha collezionato titoli nazionali e internazionali, fino alla nomina come migliore palleggiatrice al mondo, una serie di avventure con le compagne di squadra e ben ventidue traslochi in giro per il mondo.
In carriera ha conquistato 5 scudetti, 5 Coppe nazionali, 3 Supercoppe italiane, 3 Coppe Campioni, 1 Coppa Cev. Inoltre, è stata capitana della Nazionale dove ha totalizzato 228 presenze, vincendo un oro ai Giochi del Mediterraneo (2001), un bronzo e un argento agli Europei del 1999 e del 2001. Con lo stesso spirito ha affrontato i momenti meno felici come l’esclusione dalla Nazionale o una fuga dall’altare a una settimana dal matrimonio.
Oggi Maurizia Cacciatori è madre di due bambini e si è costruita una carriera completamente nuova, opinionista televisiva per Sky Sport per la pallavolo femminile.
Questo libro è il racconto emozionante, coinvolgente e a tratti comico di una donna che ha imparato l’arte più difficile: quella di reinventarsi per ricominciare. Non era banale in campo e non lo è nella scrittura, Maurizia. Non tanto per lo stile, quanto per la rara capacità di coinvolgere, di portare il lettore dentro un mondo che, a dirla tutta, spesso si segue soltanto nelle parentesi delle nazionali.
Un mondo fatto di spogliatoi, di fatica negli allenamenti, di difficoltà per convincere qualcuno a godersi il tuo talento più delle tue gambe o del tuo sedere messo lì in bella mostra da divise che ben poco lasciano all’immaginazione. Ma non soltanto. La Cacciatori ha spiegato due cose, di questo libro: che lo ha scritto in primis per i suoi due figli; e che lo ha scritto di notte, con un bicchiere di Baileys in mano. Sinceramente, stupiva che colei che è stata per anni l’emblema (almeno mediaticamente parlando) della pallavolo italiana per anni e anni, non avesse ancora scritto un libro.
Ma è stata lei stessa ad ammettere di aver sempre rifiutato le richieste che le sono arrivate. In alcuni casi non era il momento, in altri non sapeva che dire. Alla fine ha scelto la via più facile, ma anche più coraggiosa: raccontare tutto. Che ha capito che il suo vero posto nel mondo lo ha trovato solo quando è diventata madre.
Lorenzo Dallari dialoga con l’autrice. Ingresso libero fino ad esaurimento dei posti disponibili. Prenotazione obbligatoria a [email protected] oppure sms o whatsapp al 3383946998.