martedì, Marzo 11, 2025
Home Blog Pagina 188

“Anima Mundi”, il nuovo spettacolo di Lucilla Giagnoni al ridotto del Teatro Comunale di Vicenza

“Anima Mundi”, nuovo ed emozionante spettacolo di Lucilla Giagnoni dedicato a Giacomo Leopardi arriva al Ridotto del Teatro Comunale di Vicenza, venerdì 3 marzo 2023 alle 20 e 45.

Dopo gli spettacoli della Trilogia della Spiritualità e della Trilogia dell’Umanità, alcuni dei quali passati sul palco del Ridotto del Tcvi (“Vergine Madre” nel 2017 e “Furiosa Mente” nel 2018), e lo strepitoso successo del dj set dedicato a Dante, “Disco Inferno” in scena nell’ambito del 74° Ciclo dei Classici all’Olimpico, Lucilla Giagnoni torna a Vicenza con il suo nuovo lavoro “Anima Mundi” prodotto da Centro Teatrale Bresciano e da Teatro Piemonte Europa; lo spettacolo rappresenta un’ulteriore tappa nel percorso di scoperta e riflessione sui grandi temi del presente, che l’eclettica artista affronta in questa nuova avventura, con i versi del grande poeta che più di ogni altro ha sofferto il rapporto con la Natura e insieme partecipato, all’Anima del Mondo.

“Anima Mundi” inaugura la Trilogia della Generatività e rappresenta l’ennesimo punto di partenza nella ricerca di significati che da sempre permea l’attività teatrale di Lucilla Giagnoni, una delle massime rappresentanti del teatro di narrazione, in grado di incantare le platee con la potenza della sua affabulazione. Il monologo – di e con Lucilla Giagnoni (testi realizzati in collaborazione con Maria Rosa Pantè), musiche di Paolo Pizzimenti, luci e video di Massimo Violato, abito di scena di Elisa De Console Baldino – è stato definito un “inno alla necessità sovversiva della poesia che, in quest’epoca di fondamentalismo economico in cui si insegna solo a far di conto e non a leggere e scrivere, è un salva-vita”. 

La narrazione in scena parte dal giovane Giacomo Leopardi, intento a ragionare sul destino della ginestra, un destino simile a quello dell’uomo succube dello strapotere della Natura. Ma in realtà non è così: con collegamenti arditi e inaspettati, citazioni coltissime e paragoni di spiazzante concretezza, Lucilla Giagnoni “racconta”, nel suo modo unico, che la Natura non è matrigna, ma un ciclo armonico di cui l’uomo fa parte a pieno titolo, non è un “soggetto contro” e anche la citazione finale dell’”Infinito” diventa un invito a consegnare all’eternità la pienezza della nostra vita terrena, condivisa con gli altri esseri animati, nel rispetto dell’armonia dei cicli vitali. 

Non c’è più tempo da perdere: il mondo è soggetto di un’immensa sofferenza e mostra sintomi acuti e clamorosi con i quali si difende dal collasso. Poiché ne siamo in larga misura responsabili, dobbiamo darci da fare per rimetterci in equilibrio col meccanismo che nutre la Vita: donne, uomini, animali, piante, batteri, virus e minerali, aria, acqua, terra e fuoco uniti dalla cura reciproca, ci dice Lucilla Giagnoni.

Tra i numerosi riferimenti su cui l’attrice costruisce la trama della narrazione, è particolarmente interessante quello al filosofo e psicanalista americano James Hillman, tra i più innovativi esponenti della psicologia junghiana nella seconda metà del Novecento: attratto dai miti e dai simboli, riporta al centro della psicologia e del pensiero contemporaneo l’idea antica e universale di anima, intorno alla quale costruisce un sistema di pensiero per la cura collettiva dei mali che affliggono l’umanità: l’ingiustizia sociale e politica, il declino della religione in quanto legame dell’anima con il mondo, la distruzione ecologica. E Lucilla Giagnoni riprende queste tesi, ovviamente nel suo modo accattivante e  originalissimo. Ancora una volta, anche in “Anima Mundi”, l’artista riesce a coniugare filosofia, scienza e poesia, sotto il segno dell’umanità e a lanciare messaggi di grande potenza. E conclude, nelle sue note allo spettacolo: non usciremo dal labirinto con i nostri ormai sviluppatissimi saperi settoriali, ma con la capacità quotidiana di allargare lo sguardo, partecipando consapevolmente a fare anima nel mondo.

Anima Mundi

Lucilla Giagnoni
è interprete, narratrice, autrice per il teatro, la radio, la televisione. Si è formata con Vittorio Gassman, Jean Moreau, Paolo Giuranna; il suo lavoro di autrice e ricercatrice si concentra sul dialogo tra i linguaggi delle diverse discipline, in particolare tra la ricerca scientifica e la poesia. Tra i suoi ultimi lavori “Big Bang”, “Apocalisse”, “Ecce Homo”, “Furiosa Mente”, “Magnificat”, “Anima Mundi”, “Vergine Madre” Premio Persefone nel 2007 come migliore spettacolo teatrale in televisione.

Dal Teatro Faraggiana di Novara, teatro che ha contribuito a far riaprire dopo 20 anni di chiusura e di cui è direttrice artistica, ha realizzato in streaming, durante il primo lockdown nel 2020, l’interpretazione integrale dei Canti della “Divina Commedia”, in onda su Rai5, ora disponibili su Rai Play.

Fortificazione degli Altipiani vicentini: un excursus storico

A partire dal 1907, in previsione di uno scontro militare con l’Italia sui confini meridionali dell’Impero, il comando austriaco diede inizio, su idea del Generale Franz Conrad von Hötzendorf,  ad una massiccia fortificazione degli Altipiani di Folgaria Lavarone e Luserna allo scopo di garantirsi uno spazio di manovra per le truppe destinate all’offensiva verso la pianura veneta.

Tra la Cima Vezzena ad est e il Dosso delle Somme a sud-ovest, vennero costruite sette imponenti fortezze: Forte Vezzena, “Spitz Verle”, detto “l’occhio degli altipiani” per la sua funzione di osservatorio grazie alla sua posizione strategica, iniziato a costruire nel 1910 all’inizio delle ostilità non era ancora terminato, controllava tutta la zona di Asiago a sud e la Valsugana a Nord; Forte Busa Verle, costruito tra il 1907 e il 1914, fungeva da appoggio e da difesa al dominante Forte Vezzena e sbarrava la strada ad eventuali attacchi dalla Val d’Assa.

Poteva ospitare una guarnigione di oltre 200 soldati e 9 ufficiali; Forte Luserna, “Werk Lusern”, soprannominato dagli Italiani “il Padreterno” per la sua mole, venne ultimato nel 1912 su progetto dell’ingegnere Eduard Lakom.

Il suo compito principale era presidiare ed appoggiare l’avanzata dei soldati asburgici verso sud, in direzione del Monte Cimone; Forte Sommo Alto, “Zwischenwerk”, progettato dal Capitano Schönherr, fu costruito tra il 1911 e il 1914 con ruolo di collegamento tra il Forte Cherle e il Forte Dosso delle Somme.

fortificazione
Forte Cherle sugli altipiani di Folgaria (Foto di Gherardo Ghirardini)

Il suo scopo principale era controllare il vicino Passo Coe. In tutto poteva ospitare 162 soldati e 6 ufficiali; Forte Dosso delle Somme, “Werk Serrada”, progettato dal Capitano Ing. Rudolf Mayer, fu realizzato tre il 1911 e il 1914. Era in grado di controllare il versante settentrionale del Pasubio (in particolare del Col Santo) e di bloccare assieme al vicino Forte Sommo Alto un’eventuale risalita dalla Valle di Terragnolo. Forte Cherle, “Werk Sebastiano”, costruito tra il 1909 ed il 1913 su progetto dell’ingegnere del Genio tenente Eugen Luschincki. Poteva ospitare, oltre agli ufficiali, 180 artiglieri e 50 “Landschutzen”; Forte Belvedere, il Gschwent, fu realizzato tra il 1909 e il 1912 su progetto del tenente ingegnere Rudolf Schneider e controllava l’alta Val d’Astico.

Questa possente linea difensiva si opponeva ai forti italiani: Forte Verena, Forte Campolongo, Forte Casa Ratti e Forte Campomolon e tra il maggio e l’agosto 1915 impedì di fatto i tentativi di sfondamento italiani e nel maggio dell’anno successivo permisero l’offensiva che fece arretrare la linea di difesa italiana fin sulle alture di Asiago. Forte Cherle (1445 m), a soli 2 km dalla prima linea, era il più vicino alle posizioni italiane e assieme a Forte Sommo alto (1614 m) che teneva sotto controllo gli accessi da Val Orsara – Passo Coe e Forte Dosso delle Somme (1670 m) che controllava l’accesso dal Passo della Borcola, costituiva uno dei principali punti di forza dello schieramento fortificato dell’altopiano di Folgaria. In combinazione con Forte Gschwent Belvedere dominava il solco dell’alta Val d’Astico e in concerto con Forte Sommo alto sbarrava l’accesso dal Passo della Vena e dall’altopiano dei Fiorentini. Il progetto prevedeva tre strutture che andavano a formare una sorta di triangolo isoscele, con la base formata dal corpo della casematte (80 metri di lunghezza) e da due corpi di fabbrica, più lunghi, dove erano posizionati i 4 obici da 100 mm con cupole girevoli. Le casematte erano formate da due piani che, alla fine, diventavano di un solo piano seguendo l’andamento irregolare del terreno. Questo lato del forte terminava con due osservatori blindati che potevano essere anche armati con delle mitragliatrici. Le cupole degli obici si trovano invece a circa 80 metri di distanza ed erano collegate con dei tunnel scavati nella roccia. Sotto ogni cupola si trovavano delle riservette che fornivano le munizioni grazie a dei montacarichi. L’intero complesso aveva una copertura di 5 metri di calcestruzzo ed era indipendente dal punto di vista energetico e del rifornimento idrico. Forte Cherle era difeso anche da un grande fossato, tre linee di reticolati e da una batteria “traditor”, ovvero una postazione con un cannone e alcune mitragliatrici posizionate poco distante (in questo caso ad est, a quota 1446) collegata con dei camminamenti. Era anche dotato di un tunnel sotterraneo lungo 100 metri che proseguiva in seguito come camminamento coperto verso il bosco.

ARMAMENTO

4 obici da 100 mm Mod 9, su torrette girevoli

2 obici da 100 mm Mod 12

1 osservatorio blindato

2 cannoni da 60 mm Mod 10 18 postazioni di mitragliatrice

Era comandato dal capitano Edmund Proksch e data la sua posizione avanzata, era tenuto sotto tiro dalla vicina fortificazione italiana del Forte Campomolon, posto in posizione dominante (1850 m) e con obici dotati di maggior calibro (anche 280 mm), quasi il doppio di quelli austriaci, che effettivamente bombardarono in modo massiccio il forte austriaco tra il 25 e il 26 aprile 1915.

Pesantemente bombardato e parzialmente danneggiato, la sua funzione venne rivista dopo l’avanzata del maggio 1916. Come altri forti austro-ungarici, venne trasformato in deposito armi ed alloggio per le truppe non trovandosi più in prossimità del fronte. Una volta che questo fu abbandonato dagli austriaci, il forte fu quindi occupato dai soldati italiani nel novembre 1918. Dopo la guerra, e precisamente con il Regio Decreto 1882 del 12 agosto 1927, il forte fu radiato dalle opere militari, dandolo in affitto al Comune di Folgaria per 29 anni a partire dal 1º gennaio 1931, assieme al Forte Sommo Alto e Forte Dosso delle Somme. Dal 18 maggio 1935 il forte appartiene al comune di Folgaria. Dopo che il forte passò in mano al comune, si iniziò a depredarlo del metallo che poteva ancora essere utile da parte dei “recuperanti”, utilizzando addirittura della dinamite e riducendolo nello stato in cui lo si vede oggi. Dalla sua cima si possono vedere, verso Nord, i forti Luserna, Belvedere Busa Verle e Vezzena. Proseguendo con lo sguardo verso Nord Est si vedranno i risalti di Cima Manderiolo, l’incavo di Porta Manazzo, Cima XII e il Portule; an- cora più a Est il Forte Verena e volgendo a sud in direzione Tonezza del Cimone, si potrà vedere la quota 1850 del Forte Campomolon.

Come arrivarci: Arrivati a Passo Sommo provenendo da Carbonare si gira a sinistra in direzione Fiorentini. Dall’ampio parcheggio dell’Albergo Cherle il forte dista solo 500 metri. Nelle vicinanze si possono visitare anche un cimitero di guerra austriaco, i resti di un ospedale e la scala dell’Imperatore, una scalinata di circa duecento scalini fatta costruire in onore di Carlo I che vi-itò i forti nel 1917.

Di Gherardo Ghirardini da Storie Vicentine n. 3 Luglio-Agosto 2021


In uscita il prossimo numero di Marzo 2023
distribuito nelle edicole del centro e prima periferia e agli Abbonati
Prezzo di copertina euro 5
Abbonamento 5 numeri euro 20
Over 65  euro 20  (due abbonamenti)

I Nobili Chiericati di Vicenza e il loro storico Palazzo

I nobili conti Chiericati, erano a Vicenza sin dal 1440, inseriti nel Consiglio Cittadino e Collegio dei Giudici. Nel 1549 l’Imperatore Federico concesse il titolo di conte. La Serenissima Repubblica, confermò il conte Gerolamo del titolo comitale per lui e figli maschi ed ebbe in concessione il feudo di Friola nel 1791.

I conti Giovanni e Lionello di Francesco per eredità del nobile Gianfilippo Salvioni aggiunsero al proprio nome quest’ultimo cognome. I rappresentanti della Famiglia si chiamarono Chiericati Salvioni.

Riconosciuto con Regio Decreto nell’anno 1915. Imparentati con i Da Porto durante le lotte tra nobili, fecero una politica di alleanze attraverso i matrimoni. Il nome della casata si lega ad Andrea Palladio quando, nel’ 500 Girolamo Chiericati ordinò all’architetto il Palazzo di Città che da loro prende il nome.

Uno dei personaggi più celebri fu Lodovico Chiericati la cui attività, commercio di tessuti in Francia rendeva molto, oltre alle ricchezze di famiglia poteva contare sulla dote della moglie Faustina Godi figlia di Pietro. Da documenti sappiamo che il conte Lodovico il 3 giugno 1578, nella sua proprietà di 70 ettari fece erigere un muro come recinto da destinarsi alle battute di caccia.

Nel 1590, Lodovico fece costruire a Longa di Schiavon la sua Villa di campagna, rendendo i terreni più fertili, migliorando le strutture murarie e pagando il quartese (la 40a parte del raccolto) alla chiesa di Longa sino al 1840. Lodovico morì nel 1602, il figlio Nicolò un anno dopo nel 1603, i tre figli si divisero il patrimonio costituito da case, terreni per 130 ettari.

Una figura particolare della famiglia Chiericati fu l’ultimo ge- nito Pietro, nato nel 1587 morto 16 aprile 1629, si fece frate cappuccino, costruì nella Villa di Longa una cappella per l’Assunta Maria Vergine.

Alla sua morte la proprietà passò ai figli di Nicola, Lelio e Lodovico. Le successioni proseguono passando a Pietro e Scipione figli di Marcantonio. Nel 1735, morì l’unico maschio Lodovico figlio di Scipione, la proprietà andò ad un ramo collaterale della famiglia discendente da Girolamo. Ma la famiglia aveva perso il suo antico prestigio e gran parte del patrimonio di Longa. Le ultime eredi discendenti furono le figlie di Camillo, Paola e Lavinia che il 2 agosto 1850, vendettero la proprietà al poeta e patriota Jacopo Cabianca. 

nobili chiericati
Palazzo Chiericati

PALAZZO CHIERICATI

Progettato nel 1550 come residenza nobiliare per i conti Chiericati dall’architetto Andrea Palladio e costruito a partire dal 1551, fu completato solo alla fine del Seicento. Nel 1456 Girolamo aveva ottenuto in eredità alcune vecchie case prospicienti la cosiddetta “piazza dell’Isola” (oggi Piazza Matteotti), uno spazio aperto all’estremità est della città, che doveva il proprio nome al corso del Retrone e dal Bacchiglione, che confluivano l’uno nell’altro al porto fluviale cittadino, l’Isola era sede del mercato di legname e bestiame.

L’eredità spinse Girolamo a chiedere al Consiglio cittadino di poter utilizzare una fascia di circa quattro metri e mezzo di suolo comunale antistante le sue proprietà per realizzarvi il porticato della propria abitazione, garantendone disponibilità pubblica All’accoglimento dell’istanza seguì nel 1551 l’apertura del cantiere, che si arrestò nel 1557 alla morte di Girolamo, il cui figlio Valerio si limitò a decorare gli ambienti interni.

Il Comune di Vicenza acquistò il palazzo nel 1839 dalla famiglia Chiericati, con l’intenzione di raccogliervi le civiche collezioni d’arte. Restaurato dagli architetti Berti e Giovanni Miglioranza, il museo civico fu inaugurato il 18 agosto 1855. Il corpo occidentale del cortile fu realizzato nell’ Ottocento. Miglioranza inoltre demolì la casa confinante che segnava il passaggio della piazza dell’Isola nel Corso Palladio, mutando il contesto originario. Il palazzo è inserito dal 1994 nella lista del Patrimonio della umanità dell’UNESCO assieme alle altre architetture palladiane della città.

Lo Stemma: rosso fino alla fascia d’oro, caricata di un’aquila bicipi- te di nero, coronata di rosso, ed accompagnata da tre teste d’uomo, due nel capo ed una in punta, d’argento con capelli d’oro in forma di chierica.

Di Luciano Parolin da Storie Vicentine n. 3 Luglio-Agosto 2021


In uscita il prossimo numero di Marzo 2023
distribuito nelle edicole del centro e prima periferia e agli Abbonati
Prezzo di copertina euro 5
Abbonamento 5 numeri euro 20
Over 65  euro 20  (due abbonamenti)

Ilario Vignato, seconda generazione di vignaioli in Gambellara con il giusto grado di innovazione

Dopo aver raccolto l’eredità dell’azienda agricola di papà Virgilio, il giovane vignaiolo Ilario Vignato ha intrapreso nel 2017 la strada del biologico assecondando la natura delle sue vigne.

Ha saggiamente voluto conservare la dimensione di una cantina familiare e nei suoi prodotti ha raccolto l’anima identitaria del suo territorio.

Ilario, sei “figlio d’arte” e ti porti dietro l’eredità di papà Virgilio e mamma Mariucia: cosa hai cambiato in cantina e nei tuoi vini da quando nel 2017 sei alla guida della cantina?

Fondamentalmente non ho cambiato procedure né pratiche in cantina, ho solo deciso di allungare i tempi prima di tutto in vigna portando la vendemmia a fine ottobre/primi di novembre, e lo stesso allungamento dei tempi è stato adottato anche in cantina, dando la possibilità al vino di maturare e quindi esprimere tutto il suo potenziale. A fine 2017, poi, ho deciso anche di intraprendere la strada del biologico.

Ilario Vignato
Ilario Vignato

In cantina ti occupi tu di tutto o deleghi mansioni? possiamo definirti un vignaiolo non di penna ma che si sporca le mani?

La nostra è un’azienda familiare e in tutti si fa tutto: dalla potatura ai trattamenti, dalla raccolta fino all’imbottigliamento, l’etichettatura e la consegna seguo tutto io, dividendomi tra vigneto, cantina e rapporto con i clienti. L’unica mansione che delego è la gestione dell’ufficio, che la segue mia moglie: si sa che anche nelle piccole realtà la burocrazia è presente, dall’aspetto fiscale a quello amministrativo fino alla tenuta dei registri vitivinicoli e adempimenti da porre in essere per le certificazioni biologiche.

Definisci i tuoi vini naturali da terreno vulcanico. Non c’è troppa polemica sulla definizione “naturali”? Che futuro vedi?

Il termine “vini naturali” mi ha sempre turbato. Il termine che uso per i miei vini è “vini del territorio” perché cerco di fare vini che rappresentano l’essenza della terra di Gambellara: secondo me più trattamenti effettuo sui vigneti, siano essi meccanici o chimici, più mi allontano dal mio obiettivo. Quindi sto lavorando per poter non annullare, ma quasi, le pratiche agronomiche invasive, lavoro che necessita di equilibrio, tempo e pazienza.

Quale ritieni che sia il vino simbolo della tua cantina?

I vini che, secondo me, rappresentano la mia cantina sono due: il Capitel Vicenzi Gambellara Doc Classico, che racchiude l’anima di Gambellara, con i suoi sentori di pietra focaia, mandorla amara, che rimandano alle nostre colline vulcaniche. Poi il Gambellara Recioto Spumante Metodo Classico Docg: è doveroso sottolineare l’intuizione dei miei genitori, all’inizio degli anni ’90, di proporre il Recioto Spumante non con il metodo Martinotti, ma con il più ardito e laborioso Metodo Classico, trovando un equilibrio tra acidità, zuccheri e alcool. Questo spumante non particolarmente stucchevole si abbina benissimo con dolci lievitati o accostamenti più arditi come antipasti salati.

La vigna ai tempi del Coronavirus non si è fermata: ma tutte le altre attività al di fuori delle vigne come vi siete organizzati?

Verissimo! La vigna non si è fermata di fronte a questa pandemia e quindi il mio lavoro ha sempre  continuato. Per quanto riguarda invece l’aspetto commerciale, lavorando principalmente con il settore horeca, è palese che anche la nostra realtà ne sta risentendo. Nonostante questo, ho deciso di non intraprendere altre strade per ovviare a questa lacuna: non ho aperto canali di e-commerce e/o Gdo, perché innanzitutto io sono un vignaiolo e faccio vino, pertanto voglio rispettare e tutelare il lavoro dei miei partner commerciali. Presto questa situazione finirà, e conto di tornare a “correre” tutti insieme.

Come si sta presentando la vendemmia?

Per come si sta prospettando e da come ho impostato il vigneto sarà un buona annata; poi il tempo in cantina ci dirà se siamo stati bravi e fortunati.

Ci sarà un nuovo vino?
Se ci sono le condizioni ideali ho in mente un “orange wine” da uve Garganega con fermentazione sulle vinacce per qualche mese. Raccoglieremo le uve da vigneti storici: 3000 ceppi per ettaro impiantati da mio nonno Vincenzo 50 anni fa a circa 270 metri nella zona dei Monti di Mezzo: incrociamo le dita!!!

Il punto di vista di Dario Loison

Ilario Vignato è un giovane vignaiolo che sta portando avanti la cantina di famiglia tutto da solo: è un ragazzo infaticabile con un grande senso di responsabilità e con il giusto grado di innovazione che è un elemento imprescindibile nelle nuove generazioni. Lui crede molto in quello che fa, è supportato da papà Virgilio e mamma Mariucia, che conosco molto bene, e da sua moglie che fa la sua parte dietro le quinte della cantina.

Nei suoi prodotti ha raccolto l’anima del suo territorio regalando vini eleganti e fortemente identitari, grazie alle terre di origine vulcanica, come il Gambellara Classico Doc il Recioto di Gambellara Docg che utilizziamo in Loison per conciare le uve o per impreziosire i panettoni.

Cantina Vignato

Azienda agricola Virgilio Vignato
Via Guizza 8
36053 Gambellara (vi)

  1. +39 0444 444262

https://www.virgiliovignato.com/

[email protected]

Castello di Arzignano o rocca scaligera, una meta romantica con una storia che ancora stupisce

La Rocca scaligera o Castello di Arzignano domina la città dal colle San Matteo. E’ un luogo magico, incantevole da cui si gode anche di un bel panorama sulla valle del Chiampo. Dai conti agli scaligeri fino all’assedio di Pippo Spano, la storia del castello è molto particolare. Ed è legato da un antico voto alla chiesa di Sant’Agata di Tezze. Oggi il piccolo borgo è meta di passeggiate e cene romantiche.

I conti Maltraversi

Il castello venne edificato per difendere la Pieve di Santa Maria, che nel frattempo era diventata la chiesa madre di tutta la zona circostante. Tra il X e l’XI secolo il territorio di Arzignano era controllato dai signori feudali. Il territorio vicentino era conteso tra i due poteri allora predominanti, il conte e il vescovo, che erano spesso in lotta tra loro. Ad Arzignano ebbero la meglio i conti Maltraversi che fecero costruire il castello. Egano da Arzignano insieme al fratello Singofredo, sembra derivare da un certo “Gerardus Magnus” che, per la sua appartenenza alla famiglia dei Maltraversi, venne investito del feudo di Montebello. Notizie di ciò le ritroviamo nella cronaca di Ezzelino del 1213.

pieve santa maria
La pieve di Santa Maria nei pressi del Castello. Foto: Marta Cardini

Egano fu colui che si stabilì ad Arzignano, assumendo il controllo del castello, mentre Singofredo dimorò nella Città di Vicenza. I due furono in perenne contrasto per le loro idee politiche, in quanto Egano era “ghibellino”, sostenitore dell’Impero, e Singofredo era un “guelfo”, che appoggiava la Chiesa. Lo scontro tra Arzignano e Vicenza fu tale che alla morte di Egano, caduto per mano di un proprio nipote, i Vicentini decisero di distruggere il castello per bloccare ogni eventuale rivolta dei ghibellini arzignanesi nel 1266.

L’arrivo degli Scaligeri

Nel XIV secolo l’avanzata degli Scaligeri sul territorio vicentino fu così importante che portò più volte gli Arzignanesi a partecipare direttamente alla lotta contro i Veronesi. Fra gli oppositori più attivi e intraprendenti vi fu Singofredo da Arzignano, figlio di quel Rosso che aveva ucciso lo zio, il conte Egano. Egli, insieme ai guelfi vicentini e ai padovani, nel 1312 organizzò una conferenza che radunò a Padova tutte le forze anti scaligere.

porta cisalpina
Porta Cisalpina vista dall’esterno. Foto: Marta Cardini

Successivamente un altro componente della famiglia dei “da Arzignano”, Giacomino, figlio di Singofredo, appoggiato da tutti gli uomini della Valle del Chiampo, fu un capo delle forze che combattevano contro gli Scaligeri: la guerra terminò nel 1339 con la vittoria degli Scaligeri, guidati da Mastino della Scala. La paura di incursioni esterne e le lotte interne alla famiglia, portarono gli Scaligeri ad edificare castelli e fortificazioni in tutto il territorio conquistato.

L’assedio di Pippo Spano

Dopo un periodo Visconteo e uno veneziano, nel 1410 arrivò Sigismondo di Lussemburgo, re d’Ungheria, che aspirava al trono imperiale. Volendo recarsi a Roma per essere incoronato dalle mani del Papa, trovò una notevole resistenza al suo passaggio nello Stato della repubblica Serenissima. Inasprito, assoldò lo spietato condottiero e uomo d’armi Pippo Spano. Quest’ultimo, su comando di re Sigismondo, nel 1413 prese d’assalto la Città di Vicenza, che si difese strenuamente. Fu quindi costretto ad abbandonarla, rivolgendosi invece alle fortezze e ai castelli del territorio. Con la parte migliore delle sue truppe, attaccò Marostica, ma senza esito per l’energica resistenza trovata. Battendo la via pedemontana giunse ai castelli di Brendola e di Montebello Vicentino, rapinando ed esigendo viveri. Poi passò alla valle del Chiampo e cercò di assediare il Castello.

porta entrata
La porta di entrata del Castello. Foto: Marta Cardini

Il voto a Sant’Agata

Gli Arzignanesi formularono voto a Sant’Agata, patrona del paese. Se per intercessione della venerata martire di Catania fossero riusciti a liberarsi dagli Ungari, avrebbero eretto una chiesa in suo onore. Il giorno seguente di buon mattino dalle alte mura del castello vennero gettate ceste di pane e otri colmi di vino, grandi quantità di fieno e di avena. Pippo Spano rimase interdetto. Convinto che gli assediati avessero ancora ingenti riserve di provviste, calcolando che troppo lunga sarebbe stata l’attesa, impartì subito l’ordine di levare le tende. Era il giorno 5 febbraio del 1413, festa di Sant’Agata: una grazia speciale della santa invocata.

castello arzignano
Uno scorcio dall’alto su porta Cisalpina. Foto: Marta Cardini

La chiesa, eretta a Sant’Agata a saldo del voto, è quella vecchia di Tezze e ogni anno, nel giorno della santa patrona, una rappresentanza del comune di Arzignano, con il sindaco in testa, scende da Castello a Tezze e presenta al sacerdote di quel luogo l’offerta di “quattro libbre di cera e quattro ducati d’argento”, cioè la somma corrispondente a quanto fu allora promesso. Al passaggio della processione, lungo l’antichissima via Calpeda, ancora oggi i castellani usano far sparare fucili a salve in ricordo dell’assedio del feroce Pippo Spano.

panorama arziganno
Il panorama su Arzignano visto dalla rocca. Foto: Marta Cardini

Il Castello oggi

Oggi dentro le mura del Castello si può passeggiare come in un piccolo borghetto. Dentro le mura ci sono anche due ristoranti che rispecchiano l’atmosfera medioevale e l’antica appartenenza ai Conti. Passeggiare all’interno del piazzale è come vivere in un’atmosfera magica e senza tempo.

porta calavena
Porta Calavena vista dall’interno. Foto: Marta Cardini

 

Cantina Cavazza: la forza di un legame tra famiglia e territorio dal 1928

Quella “Cavazza” è una cantina che da 92 anni rappresenta la genuinità di due territori, la zona classica del Gambellara e i Colli Berici e una famiglia che ha capito l’importanza di conservare la dimensione di azienda artigiana e imbottigliare solo il vino prodotto dalle proprie vigne 

Cavazza è una famiglia che dal 1928 è legata al proprio territorio: Stefano, cosa vuol dire vivere tra le vigne?

Mai come in questo periodo mi sono reso conto della fortuna che ho avuto di nascere tra le vigne e i boschi. Durante i mesi del “lockdown” mi sono accorto di vivere in un paradiso. Io faccio un lavoro che mi porta spesso in giro per l’Italia e nel mondo, in un vortice di continui contatti con il pubblico e in quelle settimane mi sono sentito rinascere: camminare al mattino in mezzo ai boschi o tra le vigne, avvolti dai profumi delle acacie e dei fiori di sambuco, mi ha riportato indietro nel tempo, a quando ero bambino e giravo in vigna con la mia piccola bicicletta.

Le settimane che sono stato “confinato” a Selva di Montebello, piccolo centro di poche centinaia di abitanti, mi hanno rievocato bei momenti perché ho ritrovato tante persone che non vedevo da anni, riscoprendo i valori che ci hanno insegnato i nostri vecchi.

Speriamo di trovare il giusto equilibrio tra la vita che tornerà con i suoi ritmi e quello che ci ha insegnato questo periodo di riflessione.

Il 2020 ha visto annullare appuntamenti di caratura internazionale come ad esempio ProWwein e Vinitaly: come avete affrontato il confronto con il pubblico dei Buyers e dei consumer?

Questa situazione ha preso in contropiede anche noi, nessuno se l’aspettava. Per fortuna che siamo riusciti a relazionarci comunque con i nostri buyers e consumer con le nuove tecnologie digitali che ci hanno permesso un costante contatto in tutto il mondo. Siamo sempre riusciti a garantire le nostre consegne e il momento più buio ce lo stiamo lasciando alle spalle.

E l’attività in cantina?

Non ci siamo mai fermati né in cantina né tra le vigne: con tutte le dovute precauzioni e tutelando  sia la nostra salute che quella dei nostri collaboratori, abbiamo continuato la nostra attività perché in campagna la vita continua e le vigne necessitano di attenzioni continue. Le premesse per una buona annata ci sono tutte ma è ancora prematuro ed è meglio non far previsioni.

Cantina Cavazza ci tiene a rimanere in una dimensione di “Azienda agricola” in due 2 territori: quali sono le caratteristiche distintive?

La cantina di Selva è immersa nel verde dei nostri vigneti, piccoli e storici appezzamenti acquisiti  dal secondo dopoguerra, che costituiscono oggi una quarantina di ettari nella zona classica di Gambellara (Creari, Bocara, Capitel e Selva) di origine vulcanica ricchissima di minerali come basalto, ferro, magnesio e potassio che fanno da nutrimento per le nostre viti di uva Garganega, autoctona per eccellenza.

A fianco la Tenuta Cicogna, nel cuore dei Colli Berici, un tempo di proprietà della nobile famiglia dei conti Cicogna, e che identifica oggi la nostra collezione di rossi di grande evoluzione. In questo territorio, convivono vitigni storici dei Colli Berici come Cabernet, Tai Rosso e Merlot, e varietà poco comuni come Syrah e Solaris, ciascuna vinificata singolarmente.

Un punto fondamentale del vostro manifesto riguarda la “viticolura sostenibile”: ci può spiegare qualcosa al riguardo?

E’ responsabilità di tutti noi tutelare il paesaggio e salvaguardarne la straordinaria bellezza, comportamento che si riflette nella gestione delle nostre vigne. Ecco che per noi questo si traduce nelle buona pratiche di coltivazione come l’inerbimento a basso impatto ambientale, la  diversificazione di colture con salvaguardia della biodiversità, coltivazione non intensiva con vigneti intervallati da oliveti boschi e alberi da frutto autoctoni, uso sostenibile degli agrofarmaci, sovescio, potatura manuale per tenere sotto controllo l’equilibrio vegeto-produttivo di ogni pianta,  micro-irrigazione per una minore dispersione d’acqua, e ultimo, ma non meno importante, la salvaguardia di vigne storiche come il Tai rosso Cicogna.

Dal 2019 i vostri vini si fregiano del certificato Sqnpi (Sistema di Qualità Nazionale Produzione Integrata) cosa vuol dire?

Dalla vendemmia 2019 siamo certificati Sqnpi (Sistema di Qualità Nazionale Produzione Integrata) e ogni bottiglia Cavazza riporta il marchio della certificazione riconosciuto dal Ministero delle Politiche Agricole per l’agricoltura integrata. E’ un’ulteriore garanzia che i nostri vini contribuiscono alla sostenibilità dell’ambiente, alla biodiversità del territorio e che sono il risultato di diversi passaggi e controlli lungo tutta la filiera di produzione, dal vigneto fino all’imbottigliamento.

C’è un vostro motto che dice “C’è un vino Cavazza per accompagnare ogni momento, ogni sapore e ogni stagione”. Come è possibile coprire una dimensione così ampia di richieste? E’ “solo” il saper fare di 92 anni di esperienza o anche il saper fare analisi di mercato?

Questa frase riporta l’evoluzione della nostra storia che è sintomatica di quasi un secolo di miglioramento continuo portato avanti da padri, figli e nipoti: siamo passati dal vendere il vino al barile, dalla damigiana alla bottiglia e noi imbottigliamo solo il vino prodotto dalle nostre vigne con tracciabilità garantita. Dai rossi autoctoni della Tenuta Cicogna (due Doc, Mertlot e Cabernet) alle Selezioni di prestigiosi Cru delle denominazioni di Gambellara, passando per spumanti come il Prosecco Doc e la Durella Doc e i passiti pluripremiati come il Gambellara Vin Santo Classico Doc.

In verità se riusciamo a coprire l’ampio spettro di richieste non abbiamo fatto altro che utilizzare al meglio quello che ci offre il nostro territorio, niente di più: il resto lo fa la credibilità di una famiglia con quasi un secolo di esperienza e l’affidabilità dei propri prodotti.

Il punto di vista di Dario Loison

Quando sento parlare della Cantina Cavazza emerge immediatamente il legame tra famiglia e territorio. Una famiglia fatta da nonni, padri, figli e nipoti tutti sinceramente dedicati e legati con amore alle proprie vigne per realizzare vini veri e genuini che sono la loro espressione storica. Una famiglia, è il caso di dirlo, con i piedi per terra, nella loro terra, che produce vino fatto esclusivamente dalle proprie vigne.

Con Stefano ho condiviso memorabili momenti dove i nostri prodotti, panettoni e vini, hanno intrecciato una grande complicità gustativa e sensoriale e sono stati testimoni di manifestazioni con le associazioni del nostro territorio già dagli anni ‘90 come le indimenticabili serate SlowFood. Impossibile non citare l’evento della Pigiatura del Recioto: all’inizio ci trovavamo tra pochi amici e poi come tutte le cose che funzionano bene è diventata un’occasione più grandiosa per omaggiare un antico rituale di famiglia.

Cantina Cavazza

Contrada Selva, 22 Montebello Vicentino (VI) Tel.: +39 0444 649166

https://cavazzawine.com/ – Email: [email protected]

L’articolo Cantina Cavazza: la forza di un legame tra famiglia e territorio dal 1928 proviene da L’altra Vicenza.

“Arte culi ‘n aria”, la quinta ricetta vicentina di Umberto Riva dal suo libro: Ossi, niente da sprecare perché “ciuciare i osi é un’arte”

Lettore di "Arte culi 'n aria", ricette e biografia di Umberto Riva
Lettore di “Arte culi ‘n aria”, ricette e biografia di Umberto Riva

“Arte culi ‘n aria“ è il titolo di una serie di.. articuli così come li ha scritti (la precedente pubblicazione di quello che ripubblichiamo oggi è del 6 aprile 2021, ndr) Umberto Riva per te che nel piacere della tavola, vedi qualcosa di più: gli articoli sono raccolti insieme alla “biografia” tutta particolare del “maestro” vicentino Umberto Riva nel libro “Arte culi ‘n aria”, le cui ultime copie sono acquistabili anche comodamente nel nostro shop di e-commerce o su Amazon)

Prima di “gustarti” la nuova ricetta fuori dal normale di Umberto Riva rileggi la Prefazione e il glossario di “arte culi ‘n aria“, una nuova serie di.. articuli così come li ha scritti il “nostro” Umberto per te che nel piacere della tavola, vedi qualcosa di più.


Arte culi 'n aria
Arte culi ‘n aria

Prima di “gustarti” la nuova ricetta fuori dal normale di Umberto Riva (osi da… ciuciare) rileggi la Prefazione e il glossario di “arte culi ‘n aria“, una nuova serie di.. articuli così come li ha scritti il “nostro” Umberto per te che nel piacere della tavola, vedi qualcosa di più.

“Ciuciare i osi” é un’arte.
Peccato che i polli abbiano due sole zampe, e non sempre due.
Il macellaio e pollivendolo, “el sior Francesco”, distribuiva equamente le estremità dei volatili da cortile a chi acquistava solo il quartino, fosse passo o volo. I quarti erano quattro, le zampe due così venivano cedute di volta in volta a questo od a quell’acquirente, normalmente in coppia, ma anche separatamente. Così, quand’eri l’eletto, era meraviglioso.
Le zampe ben lavate, scottate per levare la parte squamosa, venivano cotte lessate con il lesso, od in umido con l’umido. Cotte conquistavano il tuo piatto. Si rosicchiava per quanto c’era da rosicchiare, e poi…… si dava il via al ciucciare. Tutti quegli ossicini del piede, ché il piede era della zampa la parte più sostanziosa e gustosa. Si ciucciavano quelle pellicine che circondavano l’osso. Attaccavano.
Si attaccavano alle dita, e ciucciarsi le dita era buono. Ti rimproveravano “no ‘a xe creansa” ma era un rito. Un rito per chi rimproverava, un rito per te che imperterrito continuavi a a succhiarti le dita condite dal “tacaiso” delle ossa.
Nel rito del ciucciare entravano anche altre ossa anche se non così guastose. Se ti capitava un ginocchio di manzo l’operazione si estendeva assai nel tempo, durava fino a tanto che le ossa non fossero lucide come per una permanenza di mesi nel deserto esposte alla deflazione ed al sole.
I nervi erano pura libidine.

Umberto Riva
Umberto Riva06

L’attacco si svolgeva con una operazione concentrica. Si cominciava dai nervetti più piccoli, quelli periferici e poi i bocconi più grandi e poi la parte dura ed alla fine si intaccava quelle parti ove un osso si muove dentro ad un altro e che con la bollitura si scagliava.
Romantiche erano le ciucciate quando in tavola capitava un ossobuco. Due cose ti esaltavano: la “megola” ed il periostio. Se la fetta d’osso era ricavata all’estremità dell’arto, non c’era il buco. L’interno era spugnoso, ed il piacere era succhiare a mò di aspiratore per almeno quindici minuti.
Le ossa degli arrosti? Chi se ne ricorda! Gli arrosti erano talmente rari che ogni volta dovevi inventarti un sistema di “ciucciare”.
Delle bracciole non se ne parla, anzi se ne parla solamente. Chi le aveva mai viste.
“Dame i osi pa ‘l can”. Allora non si diceva, che se ne poteva fare di quelle ossa il cane! Se l’amico dell’uomo avesse potuto esprimersi avrebbe detto ‘ma mi prendi in giro?’.
“Ciucciare i osi” é un’arte?
É assai di più.
“Ciucciare i osi” é cultura.

Ponte di San Michele a Vicenza e la Chiesa: una storia dal 1260

Il ponte Ponte di San Michele a Vicenza è stato definito più elegante della città con la sua unica arcata slanciata e audace, così come siamo abituati ad ammirarlo specie nella prospettiva da ponte San Paolo in tutta la sua armoniosa bellezza.

È una costruzione che risale a quattro secoli fa, ma la storia di questo ponte va ancora più indietro fino a circa otto secoli. Le prime notizie risalgono al 1260 circa quando gli statuti comunali decisero di avviare i lavori per costruire un attraversamento sul Retrone, che fosse accessibile con carri e cavalli, per collegare il centro della città a quella zona dall’altra parte del fiume dove l’ordine degli Eremitani di Sant’Agostino stava costruendo la sua nuova chiesa.

Ponte di San Michele a Vicenza
Ponte di San Michele a Vicenza

Questo primo ponte era in legno e prese il nome appunto dalla vicina chiesa di San Michele, che oggi non esiste più. Lo storico Battista Pagliarino nelle sue “Croniche di Vicenza” (1663) riporta che “nel 1422 fu cominciato a fondare il ponte in pietra di San Michele” e inoltre afferma che “li Nobili de Ferramosca haueuano case, molini , & molti altri edifici nel fiume dal volgo chiamato Retrone, ove al presente è il ponte di pietra da San Michele, nel qual luogo hora sono le sue case, le quali benchè per alquanto spatio di tempo siano state possedute dalli nobili Boni finalmente tornarono alli suoi primi possessori.”

Questo ponte del 1422, più robusto, in pietra di Montecchio, era ad unica grande arcata, ispirandosi in qualche modo al modello del ponte di Rialto già famoso e ammirato. I cronisti del tempo lo descrivono come “opera bellissima e da meraviglia”, la sua immagine è giunta fino a noi in un disegno del Marzari contenuto nella “Historia di Vicenza” del 1604.

Fu danneggiato da disastrose piene e restaurato nel corso degli anni, dal 1500 in poi, ma finì col crollare rovinosamente nel 1619. La prima pietra del nuovo ponte, quello che vediamo oggi, veniva posta nel 1621 e la costruzione fu completata solo nel 1636 con la posa delle balaustre.

Secondo lo storico Francesco Formenton i vicentini decretarono di erigere una chiesa per commemorare la liberazione di Vicenza dal tiranno Ezzelino III da Romano, che fu sconfitto definitivamente il 27 settembre 1259 e alla fine di quel mese morì (il 29 settembre è il giorno in cui si commemora l’Arcangelo Michele, che è considerato protettore e difensore nelle battaglie).

All’epoca nella città di Vicenza ognuno dei tre ordini ecclesiastici aveva la sua chiesa: Santa C rona ai Domenicani, San Lorenzo ai Francescani e San Michele agli Eremitani di Sant’Agostino. Lo storico Barbarano, vissuto nel 1600, riferisce che quel tempio misurava circa 4900 piedi quadrati e ne ha tramandato qualche descrizione: aveva la facciata a capanna con un portale adorno di intagli e colonne sostenute da leoni (simile a San Lorenzo).

Era una chiesa oltremodo ricca di opere d’arte con dipinti di Lorenzo Veneziano, Maffei, Carpioni, Tintoretto, Montagna, Buon- consiglio, Cittadella e altri. Quasi tutte queste opere sono andate disperse. Una pala del Montagna con la Madonna in trono tra i santi Onofrio e Giovanni Battista è ora presso la pinacoteca di palazzo Chiericati. L’opera, una delle più significative del Montagna, è firmata su un cartiglio alla base del trono della Vergine, era originariamente collocata sul terzo altare, alla sinistra dell’ingresso.

La chiesa, dopo l’abbandono degli agostiniani a fine settecento, divenne semplice parrocchiale ma, essendo soggetta a frequenti inondazioni, fu conglobata con la vicina Santa Maria in Foro detta “dei Servi” e, purtroppo, fu demolita nel 1812. Nulla rimane dell’antico annesso convento.

Di Luciano Cestonaro da Storie Vicentine n. 3 Luglio-Agosto 2021


In uscita il prossimo numero di Marzo 2023
distribuito nelle edicole del centro e prima periferia e agli Abbonati
Prezzo di copertina euro 5
Abbonamento 5 numeri euro 20
Over 65  euro 20  (due abbonamenti)

Colli berici, la Flora: 15 generi di orchidee spontanee

Cesare Feltrin, dopo molti anni di ricerca sul territorio dei nostri amati colli, finalmente ha pubblicato, con l’aiuto dell’Associazione Difesa Natura 2000 Colli Berici e la collaborazione del Dottor Carmelo Rigobello , questo libro, illustrando con schede botaniche e foto, ben 15 generi di orchidee spontanee suddivise in 35 specie con le loro relative varietà. Lo scopo di questo volume è far conoscere la bellezza di questi straordinari fiori che ci offre madre natura e nel contempo che serva al rispetto e alla loro salvaguardia, nei luoghi dove crescono. L’illustratrice Lisa Conte nel riprodurre fedelmente gli apparati radicali ha prestato particolare attenzione alle caratteristiche che distinguono le diverse specie (tuberi più o meno arrotondati, rizomi, rizotuberi di forma diversa oppure anche di radici). Le illustrazioni sono state realizzate ad inchiostro. Il lavoro di ricerca scientifica è stato integrato con la fedele rappresentazione grafica degli apparati radicali e delle parti che compongono l’orchidea spontanea. Il disegno scientifico diventa supporto ai contenuti naturalistici e strumento di riflessione, apprendimento e comunicazione. Il disegno naturalistico è un mezzo essenziale di documentazione e un insostituibile metodo con cui riprodurre nella maniera più fedele possibile ogni partico- lare del mondo naturale.

colli berici
Il libro di Cesare Feltrin

LA FLORA DEI COLLI BERICI

La flora dei Colli Berici è caratterizzata da un meraviglioso miscuglio floreale di diverse specie, importantissimo fattore di interesse apistico. Si trovano facilmente il tarassaco, l’aglio orsino, la polmonaria e molte altre specie vegetali autoctone, tra cui le meravigliose orchidee spontanee dalle molteplici forme e pigmentazioni, ad oggi sono state censite 35 specie diverse suddivise in 15 generi con diverse varietà. L’Ophrys Apifera ad esempio, il cui nome richiama quello dell’insetto, ha un particolare aspetto che attrae le api e assume così, inconsapevolmente, un ruolo essenziale per la salvaguardia della biodiversità e per la conservazione della natura stessa. Tra la flora dei nostri colli spicca in particolar modo la Sassifraga Berica che risulta essere l’unica specie endemica della provincia di Vicenza. Facendo particolare attenzione si può notare che uno dei suoi cinque petali è più lungo degli altri. Il periodo di fioritura è di norma tra aprile e maggio, ma a seconda dell’andamento climatico se ne possono avvistare anche già da febbraio. È possibile inoltre individuare l’Adonis Annua specie delicata e rara a causa del progressivo avanzamento della vegetazione per abbandono, oltre all’utilizzo di attrezzature moderne per gli sfalci, fiorisce ad aprile, la si può trovare a Sossano su prati aridi . Uno degli scopi dell’Associazione Difesa Natura 2000 Colli Berici è proprio la salvaguardia della flora purtroppo minacciata dalla presenza sempre più massiccia del cinghiale. I troppi esemplari presenti, oltre a cibarsi di rizotuberi, diventano protagonisti di azioni che arrecano danni enormi al manto erboso, facendo così scomparire ogni possibilità di crescita floreale. Altro elemento che minaccia in modo particolare la flora nei prati aridi è l’avanzare dello scotano, arbusto strisciante invasivo, in grado di chiudere gli areali delle fioriture. L’Associazione si sta impegnando a contrastare questi due eventi in modo metodico e scientifico, cercando di tutelare e preservare i siti da un progressivo depauperamento per la salvaguardia di tutte le biodiversità.

Lisa Conte – Bertillo Conte

Di Lisa Conte da Storie Vicentine n. 3 Luglio-Agosto 2021


In uscita il prossimo numero di Marzo 2023
distribuito nelle edicole del centro e prima periferia e agli Abbonati
Prezzo di copertina euro 5
Abbonamento 5 numeri euro 20
Over 65  euro 20  (due abbonamenti)

“Templum diaboli”: l’osteria tra donne, vino e gioco

Nel mondo antico il concetto di ospitalità pubblica e privata spesso coincideva così pure le funzioni di osteria (templum diaboli) e locanda, in questo modo talora la casa personale diventava anche albergo, e l’oste non disdegnava di offrire ai viaggiatori oltre al vino, cibo e stallatico, pure una dolce compagnia femminile.

Luogo di sosta di viaggiatori e pellegrini, a partire dal secolo tredicesimo l’osteria divenne topos letterario quale spazio di incontri, sotterfugi e raggiri, dove spesso a farne le spese erano proprio gli osti sprovveduti che venivano beffati, come nel Decameron (IX giornata, sesta novella) quando un buon uomo della piana del Mugnone, oste in caso di necessità, ospitò gli occasionali avventori nella sua stessa camera, in letti accostati, ma alla moglie toccò la disavventura di scambiare il letto del marito con quello dell’ospite.

Elementi grotteschi e farseschi sono parte integrante anche dei racconti del Novellino di Masuccio Salernitano dove l’oste amalfitano Trofone, reo di troppa gelosia nei confronti della moglie viene gabbato dall’amante travestito da donna (novella XII) o l’oste di Iovenazzo, dal nome parlante di Tonto de Leo, al quale un giovane mercante raguseo sottrae la moglie con la stessa collaborazione del marito, per mezzo di uno stratagemma ingegnoso (novella XXXIV).

La taverna, locale fumoso, talvolta torbido, è un luogo che appartiene all’immaginario di molti scrittori, dalle osterie di medioevale memoria (Carmina Burana, sec. XIII) a quella manzoniana di Gorgonzola (Promessi Sposi), dove il povero Renzo Tramaglino, in quelle stanze un po’ sordide, con l’aria pesante e il frastuono che si spande attorno, spinto dal buon vino, si lascia andare a affermazioni che lo costringeranno alla fuga: «Due lumi a mano, pendenti da due pertiche attaccate alla trave del palco, vi spandevano una mezza luce. Molta gente era seduta, non però in ozio, su due panche, di qua e di là d’una tavola stretta e lunga, che teneva quasi tutta una parte della stanza: a intervalli, tovaglie e piatti; a intervalli, carte voltate e rivoltate, dadi buttati e raccolti; fiaschi e bicchieri per tutto … Il chiasso era grande. Un garzone girava innanzi e indietro, in fretta e in furia, al servizio di quella tavola insieme e tavoliere: l’oste era a sedere sur una piccola panca, sotto la cappa del cammino, occupato, in apparenza, in certe figure che faceva e disfaceva nella cenere, con le molle; ma in realtà intento a tutto ciò che accadeva intorno a lui».

Tutti i quartieri della città e tutti i paesi del territorio erano pieni di taverne e bettole. A Vicenza gli osti si erano riuniti in una fraglia, una corporazione di mestiere, fin dal 17 luglio 1458 come attestato da un manoscritto in pergamena conservato alla Biblioteca civica Bertoliana (ms.185). Si tratta di un codice contenente una matricola, il registro, con i nomi di coloro che appartenevano alla fraglia, e in aggiunta gli statuti, ossia le regole fondamentali relative all’organizzazione e all’ordinamento giuridico dell’associazione. Il capitolo, l’organo direttivo, della fraglia si riuniva una volta all’anno, il 25 aprile, giorno di San Marco, per eleggere il gastaldo che aveva la funzione di governare la corporazione e far rispettare gli statuti. Per esercitare l’arte del «tavernare» ci si doveva iscrivere alla fraglia e pagare una tassa di adesione, cifra che doveva essere corrisposta anche per partecipare alle fiere che si svolgevano in Campo Marzio o in altri luoghi della città e dei borghi.

Chi voleva vendere in piazza o in città «carne, pesse, torte o altre cosse cote da magnare» doveva pagare alla fraglia 15 soldi di denari oppure entrare nella fraglia stessa. Nella Matricola degli Osti è inserita anche una rubrica degli statuti del Comune di Vicenza: Rubrica de falsitate statere ponderum et mensurarum, concernente i giusti pesi e le giuste misure che gli osti della fraglia dovevano osservare scrupolosamente nell’esercizio del loro mestiere.

In particolare, dovevano misurare e vendere il vino, sia al minuto che in quantità, secondo due giuste misure, di mezza e di bozza («due mensure medie seu bozole»), fatte di metallo o di bronzo, solide, che non si potessero rompere e piegarsi («bone et solide quae rumpi et flecti non possint»), uguali nella forma e misura al modello scolpito nel quadro di pietra collocato nel peronio o piazza della città di Vicenza.

Per misura giusta e corretta s’intendeva il colmo fino all’orlo, ma se il recipiente fosse arrivato al tavolo del cliente con una quantità di vino inferiore, l’oste o l’ostessa sarebbero stati sanzionati con una multa. Nel caso in cui, però, durante il tragitto fino al cliente, ne avessero versato o bevuto, non sarebbero stati penalizzati se avessero giurato che all’origine la misura era colma fino all’orlo.

Pur essendo un lavoro umile, il mestiere dell’oste era tenuto in grande considerazione: la sua rimuneratività faceva dimenticare una certa fama equivoca che aleggiava attorno alla figura di chi svolgeva tale attività. La fraglia, infatti, godeva di una configurazione sociale dotata di un certo rilievo: aveva un suo posto assegnato nel corteo delle processioni cittadine (Corpus Domini, Santa Corona e San Vincenzo, il patrono della città), dove i suoi membri dovevano sfilare dietro al proprio stendardo.

L’osteria è lo spazio della gioia e del non lavoro, il territorio sacro del tempo libero e del gioco, dove spesso fra denaro, vino e carte, finivano per ritrovarsi, presenti nella stessa stanza, o anche seduti allo stesso tavolo, borghesi e ambulanti, artigiani e girovaghi, contadini e nobili.

Definita il «tempio dell’Anticristo», «templum diaboli», la «navata della controchiesa», l’osteria diventa il luogo privilegiato del vivere trasgressivo alle gerarchie e ai valori costituiti, mondo rovesciato rispetto alle regole della società ufficiale.

In questa sospensione del presente scompaiono le differenze sociali fra gli individui e la taverna è avvertita come un rifugio dove tutti sono uguali e possono interagire tra di loro senza alcuna barriera o distinzione sociale. Naturalmente i membri dell’aristocrazia che frequentano le taverne e che finiscono nelle risse come i popolani, non sono quelli più in vista della città: si tratta, in genere, di famiglie con una lunga e importante tradizione, ma dotate di scarso potere politico all’interno del consiglio cittadino.

L’8 settembre 1791, Nicola Velo, figlio del conte Giobatta, era stato tutto il giorno a «uccellare» con il nobile Antonio Monti ed un certo Angelo Curti. Alla sera tutti e tre si erano recati all’osteria detta la Loggetta, situata in borgo San Felice, dove avevano bevuto del vino. Tutti e tre ubriachi cominciarono a litigare cercando di coinvolgere estranei e conoscenti, spintonando, insultando, picchiando, puntando le armi. Un paio di mesi prima Antonio Longo e il conte Ugolino Sesso, figlio del conte Scipione, stavano giocando nell’osteria di Domenico Brunello al Tormeno quando scoppiò un furibondo litigio. Anche in questo caso gli esiti della lite finirono davanti ai giudici poiché, una volta usciti dal locale, cominciarono a bastonarsi a vicenda e a ferirsi con armi da taglio. La Matricola degli Osti del 1458 riporta al

suo interno i nomi dei 12 tavernieri che facevano parte della fraglia. Ogni nome era accompagnato dal nome fantasioso dell’insegna, posta solitamente all’ingresso della bottega, scolpita in legno o incisa in metallo: a la Crose, a l’Orso, al Sole, a l’Agnolo, e così via. I locali della taverna si trovavano sovente nella casa stessa dell’oste che aveva, naturalmente, una cantina, la «cella vinaria», una cucina che comunicava o, più spesso, si trovava nello spazio riservato agli avventori, fornito di focolare, tavoli e panche. Accanto alla porta d’entrata vi era quasi sempre la «restrelliera» dove i clienti deponevano i fucili. Talora, oltre all’ambiente principale, vi erano altre stanze disposte in parte al piano terra e in parte su quello superiore, nelle quali, volendo, si poteva anche dormire alla notte in una delle camere oppure organizzare una festa danzante al suono di qualche violino durante il carnevale. All’osteria si stava seduti per ore intere mangiando trippe, pollastro o castagne, e bevendo vino. Si chiacchierava e si discuteva, ma soprattutto si giocava alla «mora», a carte, il «tressette», al gioco del «tibusco» o dell’«amore», al «trionfo degli uccelli», al

«tornello della bianca e della rossa». Si giocava anche al tiro a segno, «a trare al segno»: si appendeva un «coppo» ad un filo e vinceva colui che sparando riusciva a perforarlo da parte a parte, senza romperlo. In ogni gioco, pur non essendo d’azzardo, c’era una posta: una piccola somma di denaro oppure un boccale di vino. Il gioco era segno di allegria e di svago, e chi non trascorreva il tempo partecipando non era degno di far parte di una buona compagnia, per cui, attorno ad esso, vi erano sempre concentrati gruppi di uomini.

Paolo Rampon detto Smiderle e Giuseppe Talin stavano giocando a carte, mentre Giuseppe Pozzer detto Palesa si mise a guardare. Questi ad un certo punto invitò il Rampon, che accettò prontamente, a scommettere cinque soldi sulla partita. Nonostante le proteste di Palesa che a torto dichiarava di essere lui il vero vincitore, il Rampon si prese i soldi della scommessa avendo vinto. Allora il Pozzer tirò fuori la pistola che aveva nascosto dietro la schiena durante il gioco e sparò contro l’avversario che con uno scatto si rifugiò dietro un tino posto vicino all’entrata, raccattando un grosso pezzo di legno.

L’osteria si svuotò degli avventori che se ne andarono temendo ognuno per la propria vita. Rimasti soli Palesa, sempre armato, sfidò l’avversario ad uscire dal nascondiglio e, infatti, il Rampon uscì con un balzo e con il bastone gli diede in testa un «sì gagliardo» colpo che il Pozzer cadde a terra tramortito«gridando ajuto».

Le occasioni di maggiore affluenza erano i giorni festivi e le ore serali, ed erano anche i momenti in cui si verificava il maggior numero di delitti: gli uomini mangiavano e bevevano di più, alterando il normale comportamento, trasgredendo le regole della vita quotidiana, che scandivano i ritmi di una sottoalimentazione cronica. Nonostante le reiterate istanze dei rettori, i governanti cercarono sempre di intervenire con moderazione sui momenti e sui luoghi di festa, ben sapendo che la festa forniva una valvola di sfogo per le tensioni sociali.

templum diaboli
Jan Steen: Giocatori d’azzardo litigano

Le risse si sprecavano, così come i gesti inconsulti dovuti ai fumi del vino tanto che per ammazzare qualcuno non occorreva avere a portata di mano un’arma. Nel febbraio del 1789 alcuni avventori si divertivano ballando al suono di un violino in una delle camere superiori dell’osteria.

Zuanne aveva pagato 15 soldi al musicista affinché lo seguisse per suonare in un altro luogo, suscitando così le proteste dei presenti, soprattutto di Francesco e in breve ne era nata una rissa. I partecipanti alla festa scesero frettolosamente nella cucina. Zuanne prese dal focolare un «supioto» di ferro e si mise a inseguire Francesco attraverso la corte, ma questi, più veloce, raccolse un sasso e glielo scagliò contro colpendolo alla testa e uccidendolo sul colpo.

Le motivazioni che portano all’aggressione e al delitto denotano chiaramente l’impu sività e l’immediatezza di quel genere di violenza: le festa catalizza umori ed euforie che sfociano nelle liti, ma vede anche i devastanti effetti dei fumi dell’alcool. I fratelli Gaiga, Domenico e Francesco, avevano suonato, tutta la sera della domenica 22 luglio 1759, in un’osteria di Valdagno, l’uno il violino, l’altro il violoncello, dilettando le persone presenti, che avevano ballato fino alle quattro di notte, allorché, stanchi di suonare, decisero di uscire dal locale seguiti da diverse persone. Passati sulla piazza contigua all’osteria per incamminarsi verso casa, i due fratelli s’invitavano l’un l’altro a riprendere a suonare.

Avendo udito ciò, Francesco Nissaro cominciò a deriderli perché, essendo ubriachi, non potevano suonare. Alle risentite risposte di Francesco Gaiga, un compagno del Nissaro, Domenico Tomba, cominciò a percuoterlo con il fucile, finchè dall’arma stessa uscì un colpo che uccise, quasi istantaneamente, il Gaiga.

L’osteria, «luogo laico della mensa fraterna», della convivialità popolare, del mangiare e del bere in compagnia, svolgeva un ruolo particolare nella vita degli emarginati, di coloro che senza fissa dimora non possedevano una casa e per i quali l’osteria, in particolar modo quella urbana, era una specie di focolare domestico, un luogo, comunque, dove passare il tempo, soprattutto in inverno.

Qui vagabondi e “falsi bordoni” scialacquavano le elemosine ricevute, i ladri sperperavano il denaro proveniente dalle refurtive, malviventi e meretrici si incontravano. A Vicenza la banda di Geffe Beccaro, detto Enea, durante l’estate del 1764 aveva assaltato notte tempo alcune case private, nelle campagne contigue alla città, rubando denaro e oggetti in oro. Del gruppo facevano parte, oltre a Geffe originario di Arzignano, Agostino Manetto, «stroppio» d’un braccio, di mestiere scarparo nel borgo di Porta Castello; Zuanne detto Anzolon, figlio di Angelo Tremeschin che aveva osteria al Duomo; Bortolo Pedana e Giuseppe Occhioni di professione samitari (tessitori di seta). Nel giugno del 1764 essi alloggiavano tutti a Vicenza, alla locanda di Zuanne Rossi, soprannominata la Casa del diavolo.

Secondo l’interrogatorio di Giulia, una testimone, questi uomini erano tutti di «carattere tristo dati ai vizj ed ai rubamenti, con abbandono dei propri respetivi impieghi», anzi il Manetto ed il Beccaro erano usciti da poco tempo dalla prigione, dopo aver scontato una condanna per furto. Questa compagnia di «scavezzoni», secondo un’altra testimone, frequentava pure l’osteria di Perotin al Monte e talvolta «aveano seco loro delle donne […] di mala vita». L’osteria/locanda aveva la funzione di offrire ristoro e riposo per il viandante, in particolare per il pellegrino, colui che si recava in pellegrinaggio a piedi in un luogo santo, da solo o in gruppo.

In realtà, le sentenze criminali raccontano come spesso le taverne fossero punti di ritrovo per i componenti delle bande, dove si stipulavano patti criminali e si architettavano azioni delittuose, al punto da diventare un luogo di insidie e pericoli per gli sprovveduti, una vera e propria trappola per i viaggiatori. Anzolo Pasqualin, detto Panzale, da Lonigo, i fratelli Antonio e Domenico Lavezzo, Zuanne Caichiolo, da Lonigo e Gregorio Panzoldo da Noventa Vicentina, Bastian de Grandi, ferrarese, si ritrovarono la mattina del 23 agosto 1700 nell’osteria dei Ponteseli, tra Barbarano e Noventa, e stettero tutto il giorno a bere e a giocare. Verso sera arrivarono dalla parte di Noventa, Alessandro Nievo e Domenico Gobbato insieme con Francesco dalla Rizza e Zuanne Negroti, i quali, in «habito di pellegrini» stavano tornando da Roma dove si erano recati, «per puro istinto di pietà e divotione per l’anno Santo», insieme ai confratelli della compagnia del Santissimo Crocefisso. Poco lontano dall’osteria, li incontrò Domenico Lavezzo, che attaccò discorso unendosi a loro per la strada.

Scorgendo l’osteria i pellegrini mostrarono desiderio di fermarsi, perché l’aria cominciava ad oscurarsi, ma l’«empio» Lavezzo li convinse a proseguire il viaggio, come fecero, tenendo il cammino verso Barbarano. Intanto il Lavezzo, entrato nell’osteria, raccontò ai suoi compagni del passaggio dei pellegrini e subito decisero di inseguirli per derubarli. Armati tutti di un fucile, rincorsero i viandanti e raggiuntili all’altezza della fornace dei Rosa, li assalirono per rapinarli. Ne uccisero barbaramente tre, quindi, spogliati i morti e fattisi consegnare gli averi dai vivi, tornarono all’osteria dei Ponteseli, dove fecero un resoconto del misfatto a Bastian de Grandi, capo della banda, e ad Antonio de Mori, suo servitore, che s’incaricarono poi di vendere la refurtiva ad un ricettatore dl la zona di Cologna Veneta. 

Di Sonia Residori da Storie Vicentine n. 3 Luglio-Agosto 2021


In uscita il prossimo numero di Marzo 2023
distribuito nelle edicole del centro e prima periferia e agli Abbonati
Prezzo di copertina euro 5
Abbonamento 5 numeri euro 20
Over 65  euro 20  (due abbonamenti)