domenica, Marzo 16, 2025
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Lorenzo Perlotto alias Lurè, artista e figlio d’arte trissinese

Lorenzo Perlotto è un giovane artista e figlio d’arte trissinese: il racconto di Storie Vicentine.

Il giovane artista è nato nel 1985 e, come da tradizione famigliare, ha bottega-fucina a Trissino, il paese che rappresenta tutta la storia della sua famiglia. E’ infatti figlio d’arte ma anche di più: discende da un’antica famiglia di maestri fabbrili, che inizia nell’Ottocento con Antonio Lora e continua attualmente con Gilberto Perlotto, eccellente scultore del ferro, della quarta generazione.

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Un’opera di Lorenzo Perlotto

Lorenzo, soprannominato Lurè, ha frequentato il liceo artistico Umberto Boccioni di Valdagno e poi ha lavorato per nove anni presso la Fucina Trissinese, specializzata nella lavorazione del ferro. Le sue opere sono realizzate a mano, con rigorose tecniche fabbrili. Dall’ideazione grafica dei soggetti Lorenzo Perlotto poi passa alla realizzazione che prevede una pigmentazione davvero originale. Sono ballerine che si slanciano leggere con silhouette agili e affusolate, le protagoniste dell’originale prima serie di sculture di Lorenzo Perlotto.
Ridotte a forme essenziali si lanciano disinvolte nello spazio, animate da un senso di leggerezza e agilità. Alcune sculture hanno colorazioni date con stesura a freddo sulla superficie di patine, fissate successivamente con vernice acrilica.
Altre sono rifinite con basi cromatiche in acrilico Ral o fluorescenti, tamponate o punteggiate con procedimenti particolari, con tecniche a spolvero, nylon a bolle o a pennello.

Di Katia Brugnolo da Storie Vicentine n.13-2023

Risorgimento a Vicenza, nella notte tra il 12 e il 13 luglio 1866, cessava la dominazione austriaca

Risorgimento a Vicenza. Storie Vicentine ci racconta come Vicenza si liberò dalla dominazione austriaca nella notte tra il 12 e il 13 luglio 1866.

Sorgeva immediatamente il libero Municipio, a capo di esso misero Gaetano Costantini,
con il commissario del Re Antonio Mordini il quale, decise che si doveva ricostruire l’amministrazione municipale secondo la legge dalla Sovrana Patente del 7 aprile 1815 che era in pratica la Costituzione del Regno Lombardo-Veneto. Il Regio Decreto 1 agosto 1866 n° 3130 dava disposizioni relative alla costituzione dei consigli comunali, nelle province liberate e in base all’articolo 29 del decreto si convocarono in Provincia le elezioni fra il 23 e il 30 settembre. Le elezioni seguirono in Vicenza il 1° ottobre. L’amministrazione ebbe breve durata perché con R. D. 2 dicembre 1866, nel Veneto e nella provincia di Mantova vennero promulgate tutte le disposizioni comunali e provinciali del 20 marzo 1865 che, si accordavano con il Veneto e Mantova: vennero bandite nuove elezioni per il 31 dicembre 1866.

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Vicenza, 11 giugno 1848. Da Porta Monte i Patrioti difensori della città sono esiliati, vanno verso Ferrara allora territorio Pontificio. I nobili fratelli Pasini, Fogazzaro, Bonollo, Negri, e molti altri andranno in Piemonte al Servizio dei Savoia. Altri moriranno in esilio senza aver rivisto Vicenza Libera.

L’articolo 88 della legge comunale R.D. 2 Dicembre 1866 recitava: “le sedute del Consiglio
Comunale saranno pubbliche quando la maggioranza del Consiglio lo decida.” Il 13 marzo 1867, per discutere di una mozione dell’ing. Francesco Formenton, si accenna alla pubblicità sui giornali delle adunanze consiliari. L’anno dopo l’on. Paolo Lioy in una adunanza del 25 maggio 1868, propose una commissione composta da Gaetano Costantini,
Fedele Lampertico, Vincenzo Fontana, per la stesura di un Regolamento che fu adottato dal 21 luglio 1868. Il periodo che succedette ai giorni del nostro riscatto, fu memorabile, negli scritti esaminati, in archivio, si rispecchia la perizia amministrativa e la prudenza che in quei tempi ebbero il governo del Comune, ma pur tra le difficoltà del dopo occupazione, i governatori cittadini seppero trasformare la città in quella che si potrebbe definire Vicenza, città bellissima, grazie anche al Sindaco di Vicenza Conte Cavaliere Antonio Porto. E G. Mosconi – L. Fogazzaro – E. Boschetti – G. Costantini. I primi provvedimenti urgenti della Giunta Municipale, furono molti, in primis: Polizia, ordine pubblico e sicurezza.

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La cerimonia ufficiale con Vittorio Emanuele II

La dirigenza dei lavori e modalità fu affidata a Luigi Fogazzaro, il quale servendosi di impiegati ed inservienti non coinvolti con la polizia imperiale, riattivò l’ufficio di guardia civica cittadina, la cui organizzazione fu demandata al nobile Fabrizio Franco, il quale assunse diversi cittadini per perlustrare la città nella stessa serata del 13 luglio, immediatamente si fece il rilascio dei fogli di via e passaporti. Sotto stretta sorveglianza
si posero le carceri per criminali e politici.
Inquisiti per soli titoli politici furono scarcerati. Non si ottenne dal Tribunale la scarcerazione del condannato politico signor Zattera. Molti impiegati compromessi con il Governo austriaco furono consigliati di allontanarsi al solo fine di salvare la loro vita. Questi furono il signor Buzzi Commissario Distrettuale, Bonaldi professore al Ginnasio (ora Liceo Pigafetta), ed Eccli ragioniere capo. Le licenze per porto d’armi e le armi furono restituite ai richiedenti, con la promessa di porsi in regola con domanda e pagamento della tassa. Al Vescovo salvato da una violenza popolare per interposizione della Giunta, fu consigliato di emettere una circolare per parroci e cappellani onde, “lungi da farsi fautori di opposizioni,
abbiano da assecondare l’impulso nazionale e influire sull’ordine pubblico”.
Il canonico e direttore scolastico Eugenio Meggiolaro, arrestato su ordine del commissario del Re, e tradotto alle carceri di San Biagio. Antonio Mordini aveva scritto un telegramma a Ricasoli chiedendo immediata sospensione del Concordato della Santa Sede con l’Austria
e l’immediata estensione anche nel Veneto delle corporazioni religiose, il commissario fece licenziare dal Liceo Pigafetta Don Andrea Scotton ed allontanare dalle parrocchie cinque parroci ed una accurata ispe-zione al Seminario ritenuto un covo austriacante.
Poste e Telegrafi :L’ufficio postale era stato abbandonato dal suo capo, riaperto sotto la guida del cittadino Domenico Piccoli in collaborazione con l’impiegato Rossi e con altri assunti la cui condotta non aveva motivi di rimarco. Le comunicazioni con i maggiori centri
della provincia furono riaperte e l’ufficio cominciò a funzionare. Il Direttore delle Poste, al momento della partenza, asportò diversi gruppi di denaro diretti a privati per una somma ragguardevole, senza rilasciare quietanza. Il fatto fu denunciato al Tribunale. E’ arrivato
dalle Poste di Bologna un Commissario Regio, il quale con istruzioni verbali dichiarò che la Posta dipenderà dalla Direzione di Bologna.

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Barricate in Corso San Felice

Finanze: l’ufficio è stato chiuso e l’intendente ha dichiarato di cessare dalle sue funzioni. Il Municipio dispose che a mezzo del signor Scanferla e del membro di Giunta signor Nicoletti, venisse redatto un atto di consegna, colla chiusura di tutti i giornali e con un riscontro di cassa.
Militare: prima di andarsene, la milizia imperiale, a mezzo di un ufficiale del Genio, consegno le chiavi di tutte le caserme. L’Ospedale sito in Santa Maria Nova (già collegio Cordellina) fu consegnato al facente funzione di Podestà con circa 60 malati da curare. La cura dei malati fu affidata ai signori Villanova Girolamo, Gianesin , Biagio, e Vejer Federico, ordinando la somministrazione dei medicinali alla farmacia della Carità e gli alimenti alla impresa Laschi, che anche prima ne era la fornitrice e nominando custode e sorvegliante di tutto il nobile Uberto Barbaran. Per le caserme si commise al personale tecnico di fare gli inventari dei beni mobili. Inventari nelle caserme e magazzini erariali nel giorno
13 luglio e dichiarati preda bellica dal capitano dei Lancieri Dario De Lu e portati a Padova.
Il 15 Luglio 1866 altri Lancieri, provenienti da Padova asportarono dalla caserma di San Felice e Fortunato, numero 820 sacchi di farina erariale. Una terza spedizione requisì gli oggetti e strumenti di un Ospedale da campo, con lingerie per i feriti, nonché la farmacia completa. Di tutto il materiale fu rilasciata ricevuta. Il Commissario Regio di Guerra Mordini diede l’ordine di confezionare una vistosa quantità di pane da fornire prima ad un corpo militare accampato a Grisignano e quindi all’armata principale, accampata a Padova.
Le razioni previste 20 mila al giorno. Fu acquistato del frumento e avvalendosi dei forni
dell’impresa Laschi fu fatto il necessario, ma non bastò. In un deposito si trovarono 500 sacchi di farina, non soggetta a preda bellica, e con assenso del Regio Commissario, approfittando dei mezzi del signor Gnoato e dei forni militari si confezionò una buona partita di pane da spedire a Padova. L’argomento importante di quei giorni è il pane che verrà a mancare ed è attualmente pagato dalla Intendenza dell’Armata, in misura inferiore al costo commerciale e forse con monete soggette a “disagio”.
Requisizioni: sarà necessario riattivare la Commissione Provinciale per le requisizioni e trasporti militari, con residenza negli alloggi del comune.
Commercio: lagnanze sorgevano tutti i giorni per i pagamenti con moneta italiana e specialmente con carta moneta. La Camera di Commercio ha in via di pubblicazione un avviso con il ragguaglio tra la moneta italiana e quella austriaca, istruzioni da Padova non giunsero. I venditori di merci sono stati diffidati a non alterare i prezzi senza motivo, sotto pena di chiusura e la privazione della licenza per i girovaghi.

Di Luciano Parolin Da Storie Vicentine n. 14-2023.

Goffredo Parise, lo scrittore che trovò le sue risposte nei viaggi

Storie Vicentine ci racconta l’interessante storia dello scrittore Goffredo Parise, un uomo dal destino fortunato e insaziabile di conoscenze.

Alcuni sostengono che sia l’uomo a forgiare il proprio destino e in parte non ci si può esimere dall’essere d’accordo. Sono infatti le nostre scelte che, una volta intrapresa una determinata strada, ci conducono nella giusta direzione. Sta di fatto però che c’è sempre una componente legata al destino e questo si rispecchia perfettamente nella figura di Goffredo Parise: scrittore, giornalista, sceneggiatore, saggista e poeta vicentino.

Nato a Vicenza nel 1929 Goffredo Parise inizia la sua esistenza senza un padre, salvo poi essere riconosciuto dall’uomo che sposa sua madre: il giornalista Osvaldo Parise, allora direttore del Giornale di Vicenza. Mettendo in relazione questo col preambolo inziale ci si potrebbe chiedere: “Cosa sarebbe successo se la madre di Goffredo Parise avesse sposato un altro uomo?” “E se non si fosse sposata affatto? Perché si è innamorata proprio di un giornalista?“.

Non è facile trovare risposta a queste domande o meglio, è quasi impossibile saperlo
ma il fato non è certamente rimasto indifferente davanti ad un grande talento. Tornando comunque alla vita concreta dell’autore, a quindici anni prende parte alla resistenza nella provincia di Vicenza e, alla fine della guerra, si diploma al liceo classico come privatista. A questo punto ci si aspetterebbe la sua successiva iscrizione all’università con conseguente laurea, invece non è così. Bisognerà attendere il 1986 per poterlo chiamare Dottor Parise, con laurea ad honorem in lettere all’Università di Padova.

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Parise mentre scrive

Ricollegandoci alla suddetta riflessione, su come il destino ci metta sempre un pizzico del suo intervento, è proprio grazie al marito della madre se inizia a lavorare per quotidiani come “Alto Adige” di Bolzano “L’Arena” di Verona e “Il Corriere della Sera”. Ed ecco che arriva l’illuminazione nella sua vita. Il giovane Parise capisce qual è la sua vera passione: scrivere storie. Di conseguenza, per rincorrere il suo sogno, si trasferisce a Venezia dove scrive il suo primo libro “Il ragazzo morto e le comete”, pubblicato dall’amico Neri Pozza.
Quest’opera in realtà è però anticipata da un prosa che lui aveva composto anni prima, dal titolo “I movimenti remoti”. Arriva poi un secondo scritto “La grande vacanza”, elogiato persino dal grande Eugenio Montale, il quale esalta la capacità dell’autore di calarsi nel tema dell’infanzia, senza cadere però nella classica nostalgia.

Lasciata la romantica e misteriosa Venezia, si trasferisce poi a Milano, dinamico centro culturale, pullulante di opportunità pronte per essere colte. Qui lavora alla casa editrice di Livio Garzanti e nel 1954 scrive “Il prete bello” che gli permette di scalare la vetta del successo a livello internazionale. A cui seguono “Il fidanzamento” e “Atti impuri”, costituendo una trilogia realista. Da questo momento in poi tutto cambia e per Parise inizia un periodo intenso di viaggi.

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Parise in viaggio.

Decide di non tornare a Vicenza ma è indeciso se recarsi a Milano, Venezia o Roma. Nella capitale diventa amico di Carlo Emilio Gadda, uomo dalle mille sfaccettature in cui convivono e coesistono un animo letterario di scrittore e uno pragmatico di ingegnere.
La sua sete di conoscenza è però implacabile, tanto da portarlo in America , dove Dino De Laurentiis vorrebbe che scrivesse un film per il regista Gian Luigi Polidoro. La “Grande Mela” però rappresenta per Parise un contrasto vivente, tanto da esserne al contempo colpito e deluso. “Di una città non apprezzi le sette o settantasette meraviglie, ma la risposta che dà ad una tua domanda” disse Italo Calvino e probabilmente Parise di quesiti da risolvere ne aveva molti.

La sua esplorazione del mondo infatti prosegue tra Cina, Laos, Vietnam, Malaysia, Regno Unito, Francia, Russia, Indonesia e Giappone. Ed è proprio in questa lontana terra orientale che, dopo essersi ristabilito in seguito ad un infarto, ha l’ispirazione per la sua opera “L’eleganza è frigida”. Nel 1986 la frenetica corsa dell’autore verso le risposte tanto ambite però si placa, poiché sopravviene la morte. Questa pone infatti fine alla vita di uomo che non si è mai accontentato e che ha sempre percorso imperterrito la sua strada verso il successo, senza perdere mai di vista l’obbiettivo ma ricordando sempre perché tutto è iniziato: la scrittura.

Di Giulia Bisognin da Storie Vicentine n.13-2023.

Il bambino di Vicenza: Guido Piovene

Andrea Zanzotto, nella prefazione a Le stelle fredde di Guido Piovene, Premio Strega del 1970, si riferisce all’autore definendolo come l’uomo del perpetuo ritorno a un luogo. Più precisamente, Vicenza, l’unica dimensione spaziale che è stata per l’autore il suo ‘grembo materno’. La sognava quando era distante proprio perché era l’unica origine a cui ricondurre la sua vita e la sua intera produzione artistica, ma soprattutto era un bisogno per esistere, per tornare a respirare e a riconoscersi.

Civenza, era bastato uno scambio di consonanti perché tutto, ne Le Furie del 1963, diventasse romanzescamente finto; il covo di malafede e di serpi che aveva descritto per tutta la sua vita e da cui si era allontanato viaggiando, era stato da lui sapientemente adattato alla finzione artistica.

L’intenzione autoriale era quella di trasferire e sradicare dal loro luogo d’appartenenza le persone e le vite vere del suo passato, tornate presenti, che non riusciva a tollerare. Le collocava, quindi, in una cittadina dal nome leggermente differente e, sfruttando le sue conoscenze di giornalista, che aveva viaggiato per molti anni, faceva apparire tutto in una nuova veste. Una bipartizione, perenne e parimenti in una forma sempre in fieri, che ha caratterizzato la sua scrittura, tra dimensione romanzesca e giornalistica.

Umilmente e instancabilmente, in ogni reportage, Piovene rivolgeva il suo sguardo verso il luogo in cui si trovava con la volontà di scattare un’istantanea con i suoi occhi, ‘in punta di piedi’, senza sfiorare o manipolare la realtà con preconcetti e filtri che risultavano ad hoc per molti viaggiatori e giornalisti occidentali ma di certo non per lui. Alla ricerca della verità per ogni elemento d’indagine che diventava un tutt’uno con la sua persona, per descrivere la profondità sentendosi parte della medesima, ‘dall’interno’.

Guido Piovene si immergeva in ogni nuovo contesto, rifiutando le vie di comunicazione predisposte, per analizzare ogni aspetto sociale, politico ed economico del luogo in cui si trovava come ne sentisse e ne parlasse per la prima volta. Un modus operandi volto alla descrizione e difesa della realtà, senza mezzi termini.

Quando si trattava di Vicenza, tuttavia, questo processo non gli riusciva. Due o tre punti, definiti da lui stesso, di paesaggio assoluto, a causa del troppo dolore presente nel ricordo, resistevano al suo tentativo di manipolarli per non dover affrontare il momento di confronto con quell’insieme di “mostri”, di “Furie”, con il suo passato. Il tentativo era quello di alienare se stesso e il lettore forzando uno psicologismo in primo piano ma manipolato.

La progressione nelle differenti dimensioni spaziali è, senza dubbio, uno dei temi centrali della produzione pioveniana; un movimento inteso in senso letterale ma anche figurato. Proprio perché l’atto del camminare, nella sua scrittura, è sempre connesso a quello del capire. Si tratta dell’espressione di un percorso che non è da intendersi limitatamente a livello di estensione nello spazio ma, al contrario, si intreccia col perenne mutamento della condizione esistenziale dell’autore, che si riflette, soprattutto, nella dimensione romanzesca.

«Uno scrittore, veneto come me, parla del bisogno cocente che prova di staccarsi dalla schiavitù (fantastica, morale) dei luoghi dov’è nato. Ossia di sradicarsi, di rinascere in un ambiente estraneo. La forza del legame e dell’attrattiva per quello dov’è nato gli si muta in disgusto. È un sentimento che anch’io provo, insieme con il suo contrario; in un’alternativa di movimenti, verso il proprio sangue e contro, senza poter decidere in quale di essi si conquista una libertà maggiore. E vorrei che i miei scritti riuscissero a rappresentare questi due movimenti, il sorgere l’uno dall’altro, la loro relazione». (Guido Piovene, La coda di Paglia, Milano, Mondadori, 1962, cit., p. 480).

Vicenza rappresenta quindi il centro, da cui allontanarsi ma anche ricondursi; la ragione, pura e unica, dietro e dentro la materia della sua produzione artistica, considerata nella sua interezza. La ‘distruzione’ di quella visione e conseguente percezione salvifica di questo luogo era stata provocata dal dolore che non aveva ancora avuto il coraggio di affrontare.

Nonostante la difficoltà del percorso che si prospettava, l’autore riuscì a porre fine a quella ‘fuga’, procedendo in direzione di una coraggiosa accettazione del suo passato. Cambiò rotta e dopo lunghissimi anni di silenzio, soprattutto grazie alla lunga e difficoltosa genesi e stesura de Le Furie, tornò all’origine. Questa è la Vicenza di Guido Piovene.

«Diventa sempre più necessaria e interna quanto più la allontano, la stacco, la converto in un luogo della fantasia ed in una realtà morale; il punto d’avvio obbligatorio di mille fantasie centrifughe, anche quando è taciuto. Se penso o immagino qualcosa, prima sono costretto a tornarvi dentro in me». (Ivi, p. 585).

L’ospedale dei Proti, un capolavoro di Antonio Pizzocaro

Storie Vicentine ci racconta storia e architettura dell’Ospedale dei Proti, un capolavoro di Antonio Pizzocaro.

Poco oltre la metà del XVII secolo i governatori dell’ospedale dei Proti di Vicenza si rivolgevano al più autorevole architetto e impresario a quell’epoca operativo in città: Antonio Pizzocaro. Il Pizzocaro era nato a Montecchio Maggiore allo scadere di settembre del 1605 dal padre Battista, di professione muraro, proveniente da Lonato e che lo aveva instradato alla professione di architetto. Proprio per avere migliori possibilità lavorative, Antonio, raggiunta la maggiore età e divenuto pienamente responsabile sul piano giuridico del proprio patrimonio, sino ad allora gestito da un tutore testamentario, decideva di stabilirsi a Vicenza. Qui, infatti, nel 1625 veniva ascritto negli elenchi della fraglia dei lapicidi della città – la corporazione di mestiere che riuniva le professioni di quanti lavoravano con la pietra: architetti, scultori, capomastri, tagliapetre, murari ecc. – a quel tempo diretta dalla gastaldia di Giambattista Albanese, il celebre scultore e architetto postpalladiano di una trentina d’anni più anziano rispetto ad Antonio col quale il nostro avrebbe collaborato negli anni giovanili, per proseguire poi la collaborazione, dopo la morte di costui nel 1630, col fratello e cotitolare della bottega Girolamo Albanese.

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Il prospetto dell’oratorio dei Proti. (Foto dell’autore).

Rivolgersi per i governatori dei Proti al Pizzocaro dovette essere inevitabile, se si considerano i successi professionali maturati dall’architetto a partire dalla metà degli anni Trenta in avanti e se si tien conto della sua capacità di stagliarsi sul palcoscenico vicentino dell’epoca. Dove, del resto, usciti di scena i grandi del passato (Palladio era morto nel 1580, Scamozzi nel 1616, Giambattista Albanese, appunto, nel 1630, Ottavio Revese Bruti sarebbe invece morto poco dopo, nel 1648) e dove mancava una grande concorrenza (Girolamo Albanese era maggiormente orientato alla scultura, mentre Domenico Borella non aveva la levatura del nostro), al Pizzocaro riuscì in qualche modo di emergere proponendo un linguaggio tutto suo. Un linguaggio architettonico sicuramente memore della lezione di maestri, che inevitabilmente dovette subire il fascino dell’antico proiettato
dalle rivoluzionarie architetture palladiane, ma che si fece maggiormente incline a subire la seduzione di un’architettura dalle linee più secche e severe qual era quella scamozziana.
Peraltro, filtratagli e resagli più immediata e accessibile dalla semplificazione formale proposta proprio da quel Giambattista Albanese che lo aveva accolto in fraglia e sulla cui
lezione e intermediazione Antonio dovette a lungo meditare negli anni giovanili.
Quindi approdò ai Proti. Dove, non si dimentichi, a segnalare ancor più le ragioni di una scelta, tra i governatori dell’ospedale figurava il conte Alessandro Godi, il quale nel 1652 aveva tenuto a battesimo, in qualità di padrino, l’ultimogenito di Antonio, Giambattista, e che contemporaneamente all’avvio del cantiere dei Proti era anche magistrato sopra la fabbrica delle prigioni nuove, ove l’impegno del nostro è cosa nota.

Già da tempo si stava valutando l’opportunità di rinnovare il vecchio ospedale dei Proti, fondato ai primi del Quattrocento in seguito alle disposizioni testamentarie di Giampietro de’ Proti che aveva voluto dar vita a un istituto sul luogo dove sorgevano le case della sua famiglia che potesse accogliere nobiluomini «vegnudi in povertà». La struttura si dimostrò ben presto di grande utilità per il centro berico. Tuttavia, dopo più di due secoli
di attività, essa necessitava di consistenti lavori di ripristino.
A rendere improcrastinabile l’intervento furono essenzialmente due circostanze: anzitutto un incendio che verso la fine del 1606 aveva pesantemente danneggiato l’ospedale, il quale, per quanto riparato tempestivamente dai capomastri Natale Baragia e Barnaba
Mazzonchi, ancora alla metà del Seicento si presentava bisognoso di riordino. Ma fu soprattutto la particolare e assai delicata congiuntura sociale ed economica, aggravata com’è stato osservato dalla peste del 1630, a determinare l’urgenza non solo di un rinnovo della struttura, bensì, soprattutto, di un suo significativo ampliamento.
La crisi che permeava la società vicentina arrivando a lambire in misura preoccupante persino gli strati dell’aristocrazia – configurandosi come una piaga dolorosa se paragonata alla floridezza della condizione cinquecentesca – aveva determinato una povertà mai sino
ad allora sperimentata con tanta brutalità dalla classe nobiliare, in seno alla quale furono diversi gli esponenti che si videro costretti a svendere il proprio patrimonio immobiliare.
Cattive congiunture climatiche iniziate già alla metà del XVI secolo avevano iniziato a condizionare pesantemente la vita della popolazione. Intorno al 1550 aveva iniziato a presentare il conto quella che gli storici avrebbero chiamato la piccola glaciazione dell’età moderna. Ad inverni rigidi si susseguirono con costanza estati brevi e poco assolate. A livello globale si assistette, allora, all’avanzata dei fronti glaciali. In alcuni inverni persino
i fiumi nel mezzogiorno della Francia ghiacciarono, come ha ricostruito lo storico del clima Leroy Ladurie.

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L’ingresso dalla Contrà omonima. (Foto dell’autore)

Non solo: basta leggere le cronache del vicentino Fabio Monza allo scadere del Cinquecento per accorgerci di quanto il clima si fosse fatto rigido. I lupi erano scesi dai colli e dai monti e, affamati, erano arrivati a lambire la città. I nobili vicentini vengono immortalati dal cronista all’interno delle proprie dimore urbane o delle residenze di campagna in pieno luglio col fuoco del camino acceso e la pelliccia indossata.
Questa piccola glaciazione, che si sarebbe prolungata sino alla metà dell’Ottocento con una maggior incidenza proprio tra il 1550 e il 1650 circa, determinò, come causa più diretta,
una drammatica crisi agraria, che mise nel giro di pochi decenni, a partire dalla fine del XVI secolo, in ginocchio buona parte dell’aristocrazia terriera che proprio sui latifondi rurali dell’entroterra veneto aveva costruito la sua fortuna economica.
È nei confronti di questa nobiltà decaduta, allora, che il Consiglio cittadino intero si sentì in obbligo di assumere urgenti manovre riparatrici che potessero venire in aiuto dei “colleghi di ceto” in difficoltà. L’unica strada percorribile era l’ampliamento dell’ospedale dei Proti, istituto già deputato a tale funzione di assistenza sociale. L’unico architetto, poi, su cui si poteva contare a quell’epoca, per esperienza, serietà, fiducia, come chiarito, era Antonio Pizzocaro. Egli poteva da un lato vantare una lunga e ben collaudata collaborazione con l’amministrazione civica e, dall’altro, aveva maturato, soprattutto nel corso degli ultimi quindici anni, una perizia nel campo dell’arte architettonica in grado di proiettarlo sulla ribalta della scena vicentina, al centro di un palcoscenico ambito che da troppi anni aveva perso i ricordati protagonisti di riferimento.
L’edificio pizzocariano assolve alle esigenze di pura funzionalità: semplice ed essenziale, si presenta spoglio e severo all’esterno, dov’è bandito qualsiasi orpello decorativo. Estremamente asciutto e rigoroso anche – e forse in misura ancora più evidente – il cortile interno, strutturato nel ritmo incalzante degli archi, d’un nitore e di una secchezza pressoché tagliente. Una vera e propria scatola “psichedelica” che attraverso la scansione modulare raggiunge esiti altissimi, toccando i vertici di un lirismo mai sino ad allora esibito dal Nostro. Una scatola, dicevamo, dove tutto è giocato sull’iterazione delle arcate secondo un valore di razionalità e pragmatismo, nell’intento di evidenziare attraverso l’identità di
queste aperture filtranti – che servono a dar luce ai loggiati – la pari dignità dei nobiluomini ospitati nelle corrispondenti sale retrostanti, indistintamente beneficati in ugual misura.
Qui si consuma forse la più brillante e moderna sperimentazione del Pizzocaro. Un cortile di una purezza senza eguali, dove a regnare è il confronto con l’antico. Non una citazione
proiettata verso la città, ma intima, introversa, interiore. Risolta nell’intimità e nella discrezione degli interni. Un luogo inscalfibile da occhi indiscreti, di un razionalismo asciutto, teso, severo, finanche austero che porta alle estreme conseguenze quella meditazione pizzocariana intorno all’opera e alla lezione di Vincenzo Scamozzi. Un’opera di un razionalismo modernissimo, dicevamo, che anticipa di ben tre secoli la soluzione formale che, estroversa e proiettata alla città, sarebbe stata proposta nella palazzina della civiltà italiana all’EUR di Roma.
I lavori presero il via nel 1655 dall’oratorio annesso alla struttura per poi estendersi all’ospedale vero e proprio, e proseguirono a lungo (fino al 1668) sotto la direzione di
Antonio Pizzocaro che poteva in questo modo contare su di un introito fisso mensile per la supervisione alla fabbrica. Si trattava di compensi continuativi e di assoluta soddisfazione
cui si aggiungevano i guadagni via via crescenti derivanti anche dalle commissioni di natura privata evase in quegli anni. Fu su questa base economica sicura e stabile che al Pizzocaro risultò possibile sviluppare i propri investimenti finanziari nella natia Montecchio, ove curò l’acquisto di nuovi terreni, immobili e livelli, nell’intento di rinvigorire i possedimenti
nella zona ereditati dal padre o già acquisiti negli anni passati, o nella stessa Vicenza e in alcune delle sue più riguardevoli appendici territoriali.

Di Luca Trevisan (Accademia Olimpica di Vicenza- Università di Verona) da Storie Vicentine n.14-2023.

Bibliografia essenziale di riferimento:
L. Trevisan, Antonio Pizzocaro architetto vicentino 1605- 1680, Rovereto 2009, pp. 70-73, 123-127 cat. DA7 (con bibliografia precedente).
L. Trevisan, Antonio Pizzocaro. Un architetto del Seicento da Montecchio Maggiore a Vicenza, Rovereto 2010, pp. 35-37.
L. Trevisan, Per la famiglia dell’architetto vicentino Antonio Pizzocaro nella sua terra d’origine. Tracce dei Pizzocolo a Lonato attraverso inediti documenti d’archivio, in “Postumia”, 2016, pp. 307-322.

Johann Wolfgang von Goethe e il suo viaggio a Vicenza: una bellezza da lui magnificata ma ancora ignota a troppi

Era il 3 settembre 1786 quando Johann Wolfgang von Goethe, letterato tedesco il cui nome echeggia nel mondo intero, iniziò il suo viaggio in solitaria da Karlsbad verso l’Italia («Conosci il paese dove fioriscono i limoni, / tra scure foglie le arance d’oro risplendono…?».” scrisse al riguardo), fermandosi anche a Vicenza dove arrivò da Verona.

Johann Wolfgang von Goethe nella campagna romana, dipinto di Johann Heinrich Wilhelm Tischbein
Johann Wolfgang von Goethe nella campagna romana, dipinto di Johann Heinrich Wilhelm Tischbein

La partenza del grande autore è stata oggetto di numerose ipotesi e discussioni, vista la sua singolarità. Fu notturna, segreta e sotto fittizia identità, ed è stata quindi interpretata da molti come una fuga. Altri invece sono di parere discordante, in quanto Goethe si era comunque preparato con studi approfonditi riguardo la lingua e la storia della sua destinazione. Ragion per cui le cause di questa repentina partenza potrebbero essere legate invece a motivi personali, politici o esistenziali.

In modo particolare, tra le principali tappe di questo discusso viaggio, dal 19 al 26 Settembre 1786 Goethe soggiornò presso la nostra bella città, Vicenza (leggi anche «Goethe e Vicenza: la città vista con i suoi occhi», ndr), che lo ricorda con una lapide a palazzo Garzadori vicino ponte S. Michele (autrice della foto in copertina è Diana Cocco per ComuniItaliani.it, ndr).

Aveva da poco iniziato la sua avventura e rimase qui per una settimana, alloggiando al “Cappello rosso”. Dopo Roma, Vicenza fu la città che lo interessò maggiormente dal punto di vista artistico: l’architettura palladiana gli apparve varia di prospettive scenografiche e suggestioni fantastiche (da “fantasia”), mentre gli uomini e le cose della città gli sembrarono così integrate da renderla la patria, oggi diremmo la location, ideale per ispirare un’idea grande di se stessi.

Nei “Tagebücher 1775 – 1803”, i suoi Diari di quel periodo, si trova in particolare la profonda ammirazione che Ghoete nutriva per Andrea Palladio, tanto da attribuirgli l’aggettivo “göttlich” ovvero “divino”. Di lui, infatti, scrisse: “C’è qualche cosa di veramente divino nei progetti del Palladio, proprio come la forza di un grande poeta che dalla verità e dalla finzione plasma una terza cosa che ci incanta”. Fu l’equilibrio nelle opere del grande maestro a colpirlo e ne scrisse, infatti, molto nelle sue annotazioni. La Basilica e la Rotonda lo affascinarono profondamente e, per quanto lo riguarda, pose il Teatro Olimpico in contrapposizione con i grandi teatri moderni. Lo paragonò, infatti, ad un bambino nobile, ricco, educato con cura in confronto a uomini sapienti e di mondo, che hanno a disposizione tutti i mezzi per funzionare bene.

La permanenza a Vicenza permise a Goethe di ammirare le meraviglie della nostra città, antica ma al contempo moderna, elaborata ma allo stesso tempo lineare e dotata di un fascino senza eguali, che ancora oggi non è valorizzato quanto anche Johann Wolfgang von Goethe avrebbe suggerito.

La chiesa Santa Maria Nova torna alla città

È partita stamane alla presenza del sindaco Giacomo Possamai l’operazione che consentirà di restituire alla città all’inizio del 2024 la chiesa di Santa Maria Nova. L’edificio, attribuito a Palladio eprogettato intorno al 1578, ospita infatti dal 2007 gli archivi e i materiali documentari della Biblioteca Bertoliana che ora saranno spostati all’ex scuola Giuriolo.

«È iniziato il trasloco dei beni della Biblioteca Bertoliana conservati nella chiesa di Santa Maria Nova, l’unica chiesa della nostra città attribuita a Palladio, beni che confluiranno nella ex scuola Giuriolo che già conserva parte del patrimonio della biblioteca cittadina – ha dichiarato il sindaco Giacomo Possamai -. Riusciremo, così, a raggiungere un obiettivo che ci eravamo fissati in campagna elettorale a completamento di un iter già avviato dalle precedenti amministrazioni: entro la fine dell’anno il trasloco verrà completato e appena possibile riusciremo a rendere accessibile a tutti uno dei luoghi più affascinanti della città».

Dopo un lungo intervento di riqualificazione dell’ex scuola media di contra’ Riale, che si è concluso ad ottobre con il collaudo degli impianti anti intrusione, antincendio e spegnimento automatico con aerogel, e con il sopralluogo dei vigili del fuoco, parte dunque il trasferimento in questa sede degli archivi e materiali documentari stoccati a Santa Maria Nova.

Le operazioni di trasloco, che si concluderanno entro fine anno, permetteranno non solo di spostare dalla chiesa 1.100 metri lineari di documentazione, ma di alleggerire in parte anche i magazzini della sede storica di Palazzo San Giacomo in contra’ Riale 5: all’ex Giuriolo verranno infatti spostati oltre 650 metri lineari di periodici, per alleggerire il carico dei magazzini collocati all’ultimo piano dell’ex convento dei padri somaschi, adibito a Biblioteca nel 1910.
Contemporaneamente verranno spostati e ricompattati nei magazzini di San Giacomo anche 820 metri lineari di libri antichi, operazione necessaria per recuperare spazio utile per le nuove acquisizioni.
Preliminare al trasloco vero e proprio dei materiali è un delicato intervento di depolveratura degli archivi storici e dei libri antichi, garantito attraverso macchinari aspiranti in grado di evitare qualsiasi danno ai documenti.
Una volta spolverati, archivi e libri verranno riposti su scaffalature metalliche collocate nei tre piani fuori terra dell’ex Giuriolo.
L’utilizzo del nuovo deposito sarà finalizzato esclusivamente alla conservazione libraria; la consultazione dei documenti da parte del pubblico continuerà a essere garantita nelle sale studio di Palazzo San Giacomo.

 

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Fonte: La chiesa Santa Maria Nova torna alla città , Comune di Vicenza

Ettore Pagano: il giovane e talentuoso violoncellista si esibirà martedì 7 novembre all’Odeo del Teatro Olimpico di Vicenza

Ettore Pagano, il giovane e talentuoso violoncellista, sarà l’ospite speciale del Recital che si terrà martedì 7 novembre alle 20:30 presso l’Odeo del Teatro Olimpico di Vicenza. Lo accompagnerà al pianoforte Monica Cattarossi.

Questo eccezionale evento è organizzato dall’assessorato alla cultura, al turismo e all’attrattività della città ed è parte del cartellone della prima edizione del Festival Internazionale di Musica del Veneto, promosso dall’associazione Musica & Cultura con il patrocinio della presidenza del consiglio regionale del Veneto e il sostegno di numerosi enti pubblici che partecipano all’evento.

Il festival mira a mettere in rete le diverse municipalità della Regione del Veneto per valorizzare le peculiarità e le bellezze del patrimonio locale attraverso un circuito di concerti ad alto valore artistico, che vede la partecipazione di musicisti di fama internazionale e giovani talenti emergenti.

Il programma della serata prevede l’esecuzione di brani di compositori quali Rachmaninov, Busoni e Stravinsky.

L’ingresso al concerto all’Odeo di Vicenza è gratuito, ma è necessario prenotare i posti inviando una email a [email protected].

Ettore Pagano, nato a Roma nel 2003, ha iniziato a studiare il violoncello all’età di nove anni. Ha ricevuto la sua formazione presso l’Accademia Chigiana sotto la guida di Antonio Meneses e David Geringas, e ha frequentato la Pavia Cello Academy con Enrico Dindo, oltre all’Accademia W. Stauffer di Cremona. Ha concluso il suo corso di Laurea triennale al Conservatorio S. Cecilia di Roma, ottenendo il massimo dei voti, la lode e una menzione speciale.

Dal 2013, ha vinto il primo premio in oltre 40 concorsi nazionali e internazionali. Il suo più recente riconoscimento internazionale è il primo premio al prestigioso Khachaturian Cello Competition, tenutosi a Yerevan nel giugno 2022. È stato invitato a esibirsi su importanti palcoscenici internazionali, sia in recital che come solista con orchestre in molte parti del mondo, tra cui Parigi, diverse città in Germania, Austria, Ungheria, Croazia, Lituania, Albania, Armenia, Kuwait, Oman e Stati Uniti d’America. Per il periodo 2023/24, ha già ricevuto inviti da rinomate società concertistiche italiane e istituzioni sinfonico-orchestrali, con impegni confermati in città come Torino, Milano, Genova, Verona, Venezia, Trieste, Bologna, Ancona, Roma, Napoli, Palermo e Cagliari. Inoltre, sarà ospite dell’Orchestra Sinfonica Nazionale della RAI, con esibizioni programmate all’Auditorium Toscanini di Torino con diretta su Radio3 e Rai Cultura, oltre a una tournée presso la Royal Opera House di Muscat, Oman.


Qui tutti i comunicati ufficiali del Comune di Vicenza

Villa San Fermo a Lonigo: una bellezza senza tempo

All’ingresso di Lonigo, sul colle che domina la città, salta subito all’occhio la maestosa Villa San Fermo, una bellezza architettonica che risale al X secolo quando una comunità di monaci provenienti da Mantova fondò qui un’abbazia e un luogo di culto. Il complesso passò successivamente ad un’altra comunità di religiosi, ovvero i monaci di San Giorgio in Alga, finché, a metà del 1600, il monastero venne acquistato dal procuratore di San Marco, Nicolò Venier.

Villa San Fermo, un maestoso salone
Villa San Fermo, un maestoso salone

Fu, però, con i successivi proprietari, dapprima i Contarini e poi i Giovannelli, che Villa San Fermo raggiunse l’apice del suo splendore. Andrea Giovannelli, nominato principe dall’Imperatore d’Austria nel 1838, stabilì qui la sua dimora e ben presto il convento divenne una villa-palazzo, come simbolo di potenza della famiglia. Conclusa l’era dei principi, seguì il ritorno nell’ambito religioso con i Gesuiti e infine con i Pavoniani.

La struttura architettonica, che si sviluppa dal basso verso l’alto, incomincia col monumentale ingresso dei Fiumi situato lungo la strada comunale, progettato dallo scenografo Francesco Bagnara. Composto da due enormi propilei collegati dalla cancellata e da una loggia, l’ingresso presenta delle statue dedicate all’Italia e ai suoi fiumi, assumendo così un significato allegorico.

Un ambiente della villa di Lonigo
Un ambiente della villa di Lonigo

Varcato il possente cancello ha, quindi, inizio il percorso che conduce alla villa culminante con maestose scale d’epoca. Attraverso l’entrata principale, attorniata da aiuole perfettamente curate, si giunge al piano terra, dove si trova la limonaia, antico giardino invernale, con le sue ampie e luminose vetrate. Salendo, poi, le eleganti scale di marmo decorate ai lati con magnifici stucchi, si giunge al piano nobile di Villa San Fermo.

Qui la suggestiva biblioteca d’epoca, ricca di arredamenti originali, vanta raffigurazioni di Dante, Beatrice, Petrarca, Laura e, infine, dall’Aldilà Paolo e Francesca, arricchendo così l’ambiente con riferimenti letterari. Spalancate, quindi, le porte a doppio battente si ha accesso alla sala rossa, affrescata ispirandosi al palazzo ducale di Venezia, dove si fondono soggetti moderni e mitologici.

Porte aperte sulla villa di Lonigo
Porte aperte sulla villa di Lonigo

Nel mezzo della stanza, addossato alla parete ed opposto a fastosi tendaggi, si trova un camino d’epoca in pietra nera, che contrasta con la successiva tenue sala della musica, dove si sviluppano le stagioni danzanti. Il cuore pulsante della villa è però l’antico chiostro, al centro del quale si trova un antico pozzo, circondato da maestosi colonnati.

Ad incorniciare l’intero complesso di Villa San Fermo ci pensa, infine, il vasto parco circostante, ricco di sentieri, alberi secolari e punti panoramici, creando così un’atmosfera suggestiva ed indimenticabile.

Villa San Fermo, che attualmente ospita visitatori ed artisti da tutto il mondo ed è anche scenario di numerosi eventi, è la chiara dimostrazione di come il passato e il presente possano convivere in perfetta armonia tra loro: un gioiello antico che sovrasta una moderna piccola città, rendendo l’intera struttura una bellezza senza tempo.

Un altro volo su Villa San Fermo a Lonigo
Un altro volo su Villa San Fermo a Lonigo

La lettura del tempo, conferenza a Palazzo Chiericati sabato 28 ottobre

In occasione del cambio dell’ora previsto nella notte tra il 28 e il 29 ottobre, quando le lancette degli orologi dovranno essere spostate all’indietro di 60 minuti, passando così dall’ora legale all’ora solare, il salone d’onore del Museo civico di Palazzo Chiericati ospiterà la conferenza “Come religione, politica, trasporti e comunicazioni hanno cambiato nei secoli la lettura del tempo. L’appuntamento, ad ingresso libero fino ad esaurimento posti, organizzato da Soprana dal 1910 “da oltre 100 anni segniamo il tempo delle vostre emozioni” e associazione Pigafetta 500, in collaborazione con il Comune di Vicenza, è in programma sabato 28 ottobre alle 16.30 e interverrà in veste di relatore Stefano Soprana.
L’appuntamento si configura come un viaggio nel tempo per comprendere come l’uomo ha misurato nei secoli la lettura del tempo.
La Torre Bissara ne è testimone perché in essa fu collocato nel 1378 uno dei primi orologi meccanici. Il Ferracina nel 1744 realizzò una misurazione del tempo unica nel suo genere testimoniata anche dalla veduta della Torre nel quadro del Ferrari. Un’iscrizione sul lato della Torre ricorda che nel 1884 Vicenza unificò la sua ora a quella di Roma.
La testimonianza dell’uso religioso del tempo si trova a Vicenza nella chiesa di Sant’Agostino, dove un affresco del 1400 indica la misurazione del tempo in 24 ore: la prima ora inizia con il tramonto del sole come il quadrante di San Marco a Venezia.
Il primo uomo che misurò l’influenza del tempo negli spostamenti fu Antonio Pigafetta rendendosi conto che la misurazione si perde navigando sempre ad ovest.
La lettura dell’ora nei diversi paesi non coincide esattamente con i meridiani. Se un meridiano misura 15 gradi, perché l’ora di Londra è diversa da quella di Parigi che dista ad est di Greenwitch di soli 2,5° circa e l’ora di Madrid posta ad ovest di Greenwich usa l’ora Italiana? In Europa oggi si discute di abrogare l’ora legale, perché?
L’obbiettivo dell’incontro sarà dare risposte a tutti questi interrogativi.

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Fonte: La lettura del tempo, conferenza a Palazzo Chiericati sabato 28 ottobre , Comune di Vicenza