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Michele Serra in scena a Schio per la rassegna “Grande Teatro”

Un grande protagonista del giornalismo italiano, Michele Serra, in scena al Teatro Astra di Schio per la stagione Schio Grande Teatro della Fondazione Teatro Civico e del Comune di Schio realizzata in collaborazione con Arteven Circuito Teatrale Regionale.

Michele Serra calca il palcoscenico scledense sabato 11 marzo ore 21 con il suo spettacolo “L’amaca di domani”.

Scrivere ogni giorno, per trent’anni filati, la propria opinione su un giornale è una forma di potere o una condanna? Un esercizio di stile o uno sfoggio maniacale degno di un caso umano? Bisogna invidiare le bestie, che per esistere non sono condannate a parlare? Michele Serra è per la prima volta a Schio con l’ironia pungente e provocatoria de “L’Amaca”, la rubrica di corsivi pubblicata su “La Repubblica”, attraverso cui punta i riflettori sulla politica e sulla società italiana.

Le parole, con le loro seduzioni e le loro trappole, sono le protagoniste di questo monologo teatrale comico e sentimentale, impudico e coinvolgente. Serra apre al pubblico la sua bottega di scrittura, senza nascondere le scorie, i trucioli, le fatiche. Le persone e le cose trattate nel corso degli anni – la politica, le star vere e quelle fasulle, la gente comune, il costume, la cultura – riemergono dal grande sacco delle parole scritte con intatta vitalità e qualche sorpresa.

Uno spettacolo intenso e nostalgico che mostra il giornalista e l’uomo, il mestiere e la passione di scrivere, le parole e la realtà che raccontano. Il Text Mining, una tecnica di classificazione e analisi del testo, aiuta Serra a dipanare la matassa della propria scrittura, ma gli fornisce anche traccia delle proprie debolezze e delle proprie manie attraverso un attento studio delle parole. Il vero bandolo, come per ogni cosa, forse è nell’infanzia. Il finale, per fortuna, è ancora da scrivere.

Michele Serra
Michele Serra

Michele Serra è nato a Roma nel 1954 ma cresciuto a Milano. Ha cominciato a scrivere a vent’anni e non ha mai fatto altro per guadagnarsi da vivere. Dal 1996 collabora con “La Repubblica”, per cui ha anche curato la rubrica quotidiana “L’amaca”. Ha fondato e diretto il settimanale satirico “Cuore”. Tra le sue opere letterarie, “Il nuovo che avanza” (1989), “Il ragazzo mucca” (1997), “Cerimonie” (2002), “Gli sdraiati” (2013). Nel 2017 pubblica la raccolta delle rubriche quotidiane scritte negli ultimi venticinque anni “Il grande libro delle amache”.

La Rua, ovvero una tradizione di VIcenza che continua

Inizialmente il pomposo «macchinario» de La Rua veniva condotto in corteo partendo da piazzetta Palladio di Vicenza, snodandosi poi per contrà Muschieria, piazza del Duomo, contrà Vescovado, piazza del Castello, il Corso, contrà Santa Barbara, per concludersi con il trionfale ingresso in piazza dei Signori.

Dopo l’uscita di domenica 8 settembre 1901, lo strascinamento si limitò alla piazza: i fili della illuminazione elettrica, le rotaie del tram e lo stato del manto stradale avrebbero poi impedito l’originario percorso. Dal 2007 è collocata stabilmente in Piazza dei Signori, mentre un suo modello ridotto, la Ruetta, sfila per il Corso, le contrà e le piazze per poi concludere la processione nel Palazzo del Capitanio.

«L’ha mai vista lei la Rua? Una torre di legno alta più delle case, con una ruota, la ‘rua’, nel mezzo, a metà della torre, come una ruota di molino con dei ragazzi legati dentro. Altri ragazzi alle finestre della torre; uno sulla punta… E tutti i costumi antichi…»: così il nostro concittadino e scrittore Gian Dauli la descrive nel suo omonimo romanzo del 1932.

Ma come è nata la tradizione che ancora continua? La storia è lunga e si vorrebbe affondasse le sue radici nientemeno che nel XIII secolo, al tempo delle frequenti lotte fra vicentini e padovani. Il campanilismo, infatti, aveva alimentato la leggenda – perché di leggenda si tratta, mancando ogni riscontro documentale – secondo la quale i vicentini avrebbero sottratto ai padovani una ruota del loro carroccio in occasione di uno dei tanti conflitti che li vedevano opposti e ne avrebbero fatto un trofeo da ostentare.

La verità storica, invece, assegna la nascita della Rua alla iniziativa del Collegio dei notai. Nei loro libri-registri si legge, infatti, che il 15 marzo 1441 fu proposto di «eleggere quattro notari, i quali debbono immaginare qualche cosa bella e venerabile per celebrare la festa del Corpus Domini», in sostituzione del modesto cero che quel giorno essi portavano in processione per le vie della città unitamente a tutto il clero, alle arti e alle fraglie, che, a loro volta, dovevano recare le loro insegne e ceri accesi. Nacque così la Rua.

Ma perché fu inserita – in una specie di tabernacolo – una ruota che oscilla in senso verticale, con dei sedili nei quali prendevano posto dei bambini? Scartata l’ipotesi dell’esibizione del bottino di guerra, due le probabili motivazioni. Una è legata alla articolazione professionale  dei  notai,  divisi  fra  «Vacantes» e «Modulantes».

I primi, superate le prove di ammissione alla professione, erano in attesa di entrare nel ruolo dei secondi, trecento in tutto, che, ripartiti in cinque gruppi o «module», oltre a redigere documenti a contenuto patrimoniale, esercitavano anche l’ufficio di cancelliere, verbalizzando gli atti giudiziari e amministrativi. Dalla rotazione nella carica alla ruota, emblema della professione, il passo fu breve.

Tanto che l’odierna stradella dei Nodari – dove aveva sede il loro collegio – che collega contrà delle Due Rode a piazza dei Signori, è denominata, nella pianta del peronio del 1481 (ovvero dell’area circostante piazza dei Signori), «via dala Rotta». La seconda motivazione sta nel fatto che essa rappresenterebbe la fortuna – che, si sa, «gira» – ma anche la nascita e la morte, il moto della terra e degli astri: una sorta, insomma, di richiamo alla ciclicità dell’esistenza, dell’universo, della storia.

Dal progetto alla realizzazione della Rua passarono tre anni: i già ricordati libri- registri del Collegio dei notai riportano infatti, sotto la data del 14 gennaio 1444, che «Nicolò Almerico, Cristoforo Muzan, Giovanni da Castelnuovo, Gabriele da Ridolfi e Giacomo Ferretto, eletti per il culto, ornamento ed aumento della festa del Corpo di Cristo, … debbano liquidare i conti con Maestro Giorgio Pittore per la fattura della Ruota e per altri ornamenti dal medesimo Giorgio fatti…». Nel successivo mese di giugno la «macchina» fece finalmente il suo primo trionfale debutto e continuò ad essere presente, con alterne vicende, nella vita della città fino al 1928.

E quasi a presagire che quella sarebbe stata l’ultima sua apparizione, lo Stabilimento tipografico Angelo Brunello celebrò l’avvenimento con la stampa di un opuscolo, riassuntivo della storia di questo simbolo vicentino.

Sopraggiungerà poi la seconda guerra mondiale e la Rua non uscirà più dal deposito di Gogna, dove era stata ricoverata, distrutta dagli incendi seguiti ai bombardamenti. La tirannia dello spazio non consente di rievocare tutte le vicende e le storie legate al manufatto. Basterà ricordare che ben presto l’evento perse la sua originaria valenza religiosa: già il 16 gennaio del 1483 il Collegio dei notai lamentava che la festa «che si fa nel giorno della processione del sacratissimo Corpo di Cristo, piuttosto che accrescere la devozione delle oneste e devote persone che vi intervengono, la diminuisce».

E che il 19 dicembre 1585 il Consiglio dei cento deliberò che la festa si sarebbe svolta, da allora in poi, annualmente – anche se in seguito non sarà sempre così – a cura e a spese della città e non più del Collegio dei notai. «Municipalizzando», così, l’evento, che divenne esibizione del potere costituito.

Tant’è che, oltre allo stemma di Vicenza, furono da allora collocati sulla «macchina» anche i simboli del dominante di turno: il leone marciano, il gallo francese, l’aquila asburgica e, finalmente, il tricolore con lo scudo sabaudo. Nel 1880 l’uscita della Rua cessò di celebrare la ricorrenza del Corpus Domini per diventare un’attrazione del «Settembre vicentino».

E proprio nell’Ottocento numerose riviste italiane e straniere, quali, L’illustrazione italiana del 1890, il Beilage zur Illustrirten Zeitung del 1857, L’univers illustré del 1860, Il mondo illustrato del 1847, dedicarono alla festa della Rua gratificanti articoli, corredati altresì da belle immagini del manufatto. Queste e molte altre testimoniano come la struttura abbia subito nel tempo mutazioni di rilievo. L’odierna ricostruita Rua, grazie al già ricordato intervento dell’AMCPS, che nel 2007 fece ricostruire l’imponente manufatto per festeggiare i cento anni della sua fondazione, riproduce, con fedeltà e in scala 1:1, quella ideata nel Settecento da Francesco Muttoni e rappresentata nell’incisione di Giorgio Fossati del 1760.

A proposito del progetto muttoniano è stato sostenuto che si tratterebbe – in realtà – della rimodulazione di un disegno di Palladio. Va osservato, al riguardo, che, per la parte sommitale dell’apparato – quella dallo stemma di Vicenza in su – e per le statue laterali, è da escludersi ogni suo intervento, essendo chiaramente cosa settecentesca. Il settore, invece, che va dalla base fino allo stemma cittadino è altrettanto chiaramente di gusto cinquecentesco. E qui, allora, potrebbe entrare in gioco il nostro architetto.

Sennonché manca ogni prova documentale che Palladio si sia effettivamente occupato del manufatto: il che, peraltro, non esclude neppure che egli sia in qualche modo intervenuto. Ecco servito un giallo da risolvere per chi volesse approfondire l’argomento.

Di Giorgio Ceraso da Storie Vicentine n. 4 Settembre-Ottobre 2021


In uscita il prossimo numero di Marzo 2023
distribuito nelle edicole del centro e prima periferia e agli Abbonati
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Vicentini sparsi nel mondo, li trovi anche in Australia: Steven Pesavento

Oggi viaggiamo fino in Australia per incontrare il primo protagonista di questo viaggio alla ricerca dei vicentini sparsi per il mondo, si tratta di Steven Pesavento, originario di Caldogno.

Suo zio, Dino Pesavento, era il presidente dell’associazione vicentini nel mondo di Sidney ed era riuscito a far costruire una cappellina alla periferia della città, dedicata alla Madonna di Monte Berico.

Ci troviamo a Woolongong, città costiera nell’Australia sud-orientale, nello Stato del Nuovo Galles del Sud, la terza città più popolosa dello Stato dopo Sidney e New Castle. Ora è estate e ci sono 30 gradi ed infatti Steven indossa una t-shirt.

vicentini sparsi nel mondo

Steven quando sei arrivato in Australia?

– “Ho lasciato Vicenza quando avevo trent’anni, nel 1998. In realtà dovevo partire con mio padre, ma morì poco dopo ed io decisi comunque di intraprendere questo viaggio. Appena arrivato, mi ospitò mio zio, ma poi, insieme ad altri giovani, affittai una casa che era sempre piena di gente. Ho fatto anche parte dell’associazione alpini di Sidney per dieci anni”.

Cosa ti ha più colpito dell’Australia?

– “Le distanze che ogni giorno bisogna percorrere per andare al lavoro, per andare a scuola. Io mi alzo alle 4 del mattino e percorro 50 chilometri in auto fino alla stazione dei treni a Sutherland, per prendere un treno che mi porta dopo 40 minuti al centro di Sidney, dove lavoro nella costruzione di un palazzo di 50 piani. Ritorno a casa alle 18. Quando lavoravo più distante partivo la domenica e tornavo il venerdì sera, oppure rientravo a casa ogni 15 giorni in aereo. Fisicamente è stata molto dura”.

Come sono gli australiani?

– “I veri australiani sono gli aborigeni, una civiltà antica decimata anche dalle malattie europee, ma oggi per australiani si intendono le persone di origine anglosassone, una volta detti Pom, Prisoner Of Her Majesty (l’Australia infatti era una colonia punitiva dell’Inghilterra). Oppure, secondo altri è l’abbreviazione di pomegranate, il melograno, in riferimento al colore rosso degli anglosassoni dopo una breve esposizione al sole. Gli australiani sono molto casalinghi, infatti, proprio a causa delle larghe distanze, non escono durante la settimana e non hanno l’usanza di andare al bar, ma vanno a casa di amici o parenti per bere una birra, un caffè. Si fanno anche grigliate dove le donne e gli uomini sono in gruppi separati, una cosa a cui non ero abituato nella vecchia compagnia a Vicenza, dove invece eravamo tutti insieme. Altrimenti si frequentano i club, per i vicentini c’era il club Marconi e una volta si poteva andare solo in quelli italiani“.

Ci racconti una curiosità sulla fauna australiana?

– “Ogni giorno devo uscire nel patio a pulire le sedie, dove si nascondono i pericolosi ragnetti redback, per il resto è tutto affascinante”.

Quando hai le prossime vacanze?

– “Qui si fa vacanza solo a Natale, oppure si fanno dei weekend lunghi”.

In cosa senti che sia rimasta la tua vicentinità?

– “Nella lingua, quando parlo dialetto con altri vicentini, anche se in casa parlo inglese, nell’abbigliamento, mentre gli australiani escono anche in ciabatte, nel cibo, il caffè, il vino, il prosciutto, il formaggio, nella cristianità, festeggiamo insieme l’8 settembre, nella musica”.

Steven, hai anche trovato l’amore in Australia, dove hai conosciuto infatti tua moglie Paulina, croata, e hai 2 splendide figlie.

– “Le mie figlie si possono definire australiane, o Aussie, come si chiamano gli stessi australiani nati in Australia, ma ognuno con le loro origini, oggi viste in un’accezione più positiva, non come in passato, quando gli europei del Mediterraneo venivano chiamati dispregiativamente Wog”.

Ti manca Vicenza?

– “Sì, molto. Mi manca la Vicenza della mia memoria, quella della mia giovinezza ed è per questo che cerco di rimanere distaccato emozionalmente, perché quella nostalgia te copa“!

La “Primavera” vicentina: eventi, battaglie e protagonisti 

Una “Primavera Vicentina“, attraverso vari autori per un approfondimento sulla nota primavera dei popoli, conosciuta anche come rivoluzione del 1848 o moti del 1848. Ovvero l’ondata di moti rivoluzionari avvenuti nella metà del XIX secolo contro i regimi assolutisti di tutta Europa.

La resistenza patriottica

L’anno ufficiale, che fece entrare in maniera prorompente Vicenza nel clima risorgimentale, già da tempo creatosi, è da considerare il 1848. A livello europeo, la cosiddetta “Primavera dei popoli”, che infiammò gli animi e le coscienze, venne recepita anche dalla Città Berica. Infatti, dopo la sollevazione di Vienna e di Venezia, il 25 marzo 1848, a Vicenza, le guarnigioni austriache lasciarono spontaneamente il territorio, senza spargimento di sangue, ritirandosi nel Quadrilatero (Verona-Mantova-Peschiera-Legnago). Fu costituito tempestivamente un Comitato Provvisorio, formato da alcuni membri appartenenti a diversi ceti sociali, sia per quanto riguarda l’ambito amministrativo che per l’organizzazione della difesa militare nel caso in cui fossero ritornati gli austriaci. Era già stata istituita la Guardia Civica composta prevalentemente da volontari cittadini. I Crociati invece erano soprattutto giovani e studenti universitari che provenivano da diverse città e furono ospitati, come le truppe regolari pontificie del generale Durando, nelle case abitate all’interno delle mura. Gli attacchi austriaci iniziarono nel maggio del 1848 e finirono il 10

giugno a Monte Berico con la capitolazione “gloriosa” di Vicenza. Determinanti furono le barricate ideate dal Comitato appositamente formatosi nell’occasione sotto la supervisione dell’arch. Caregaro Negrin. La Città di Vicenza aveva quindi tessuto un importante piano strategico difensivo onorando una strenua resistenza. Con la sua resa, tutte le altre città della terraferma caddero con effetto domino. Solo Venezia resistette fino all’estate del 1849.

(Loris Liotto)

ll 17 e 18 marzo del 1848 a Vicenza ci furono le prime manifestazioni patriottiche e il 1° aprile si formò la Guardia Civica e il Comitato Provvisorio era presieduto dall’avv. Giampaolo Bonollo e da altri membri tra cui l’avv. Sebastiano Tecchio che diventò il leader, Don Giuseppe Fogazzaro, il notaio Bartolomeo Verona, il conte Luigi Loschi, Giovanni Toniato commerciante, il canonico don Giovanni Rossi. Si erano anche formate le prime formazioni dei Crociati Vicentini che combatterono a Montebello e Sorio.

Vicenza era difesa da 5000 uomini e fu investita il 20 maggio a Porta Santa Lucia e San Bortolo, ma gli austriaci non riuscirono a passare e si ritirarono. In questi scontri emerse la figura di Antonio Piccoli che, manovrando un cannone da Porta San Bortolo, fece strage di nemici. Il 21 il gen. Giacomo Antonini uscì dalla città, riuscendo a respingere provvisoriamente gli Austriaci a Ponte Alto.

“Gli austriaci portarono quindi l’artiglieria sul piazzale di del Cristo (l’attuale piazzale del santuario non esisteva ancora) e co- minciarono a bombardare la città. La resa avvenne poco dopo…” ( tratto dal libro di Bruno Cardini: “Matteo Rasia, uno dei Mille da Cornedo Vic.”)

L’eroica difesa

Il 23 maggio, a mezzanotte, gli austriaci attaccarono in tre direzioni Monte Berico, la Rocchetta, Borgo Santa Lucia. Dal Monte Berico caddero sulla città oltre 6.000 proiettili, ma senza risultato; le armate imperiali si ritirano per sferrare l’attacco definitivo il 10 giugno quando 30 mila imperiali con 50 cannoni investirono la città dai colli Berici. La difesa vicentina si era ingrossata con soldati pontifici e volontari, circa 11 mila uomini e 38 cannoni al comando del Generale Giovanni Durando. L’azione principale austriaca si sviluppò contro le posizioni di Monte Berico, vera chiave di volta nella difesa vicentina; posizione presidiata da forze regolari pontificie e da volontari. Azioni secondarie in pianura avevano compiti di sostegno dell’azione principale. Il generale Giovanni Durando, comandante delle milizie “indigene ed estere”, posizionò sulla dorsale dei Berici due battaglioni di soldati svizzeri con otto pezzi di artiglieria, una legione romana comandata da Giuseppe Gallieno, il battaglione universitario del maggiore Luigi Ceccarini, il battaglione civico guidato dal maggiore Raffaele Pasi e alcuni volontari vicentini, tutti sotto il comando dei colonnelli Massimo D’Azeglio ed Enrico Cialdini. Qui combatterono anche i Bersaglieri Volontari del Po di Tancredi Trotti Mosti, quelli del Reno del Pietramellara e quelli vicentini e civici di Schio di Pier Eleonoro Negri e Arnaldo Fusinato. Dal Castel Rambaldo sino alle barricate che cingevano il Santuario della Madonna, attraverso le posizioni dei Colli Bella Guardia ed Ambellicopoli di Villa Guiccioli, si articolava così il sistema di presidi a protezione di Vicenza. Gli austriaci occuparono dapprima Castel Rambaldo poi presero, persero e ripresero la Bella Guardia. Mentre il Santuario veniva difeso da pochi valorosi risoluti al sacrificio, il grosso dei difensori si ritirava ordinatamente, tentando anche un ultimo contrattacco che però non poteva cambiare le sorti della giornata. Perduto il monte la città diventava indifendibile, anche per mancanza di riserve da gettare nella lotta, nonostante il fervore di Arnaldo Fusinato. Il 10 giugno 1848 fu la resa e all’alba dell’11 giugno, a Villa Balbi, fu firmata l’intesa. I difensori sarebbero usciti dalla città con l’onore delle armi. Le perdite furono per gli imperiali 304 morti, 541 feriti, 140 dispersi. Per gli Italiani 293 morti e 1665 feriti.

(Luciano Parolin)

Le conseguenze per la città

Il protagonista del dopo 10 giugno, fu il feldmaresciallo Costantino D’Aspre barone di Hoobreuck, nato a Bruxelles 18 dicembre 1789, morto a Padova, 24 maggio 1850. Gli ordini del generale d’Aspre nei confronti della popolazione vicentina erano molto duri. La prima diffida contro gli assenti era del 18 giugno 1848 e prevedeva la confisca dei beni.

Fu ordinato un prestito coatto per la sussistenza militare di lire 1,093,814,96 da pagarsi in tre rate il 10 luglio, il 31 e il 15 agosto. Contro i membri del Comitato Vicentino fu emanata una esecuzione fiscale di lire 168,000 per la demolizione delle barricate e di lire 159,000 per le spese di casermaggio dei militari. Furono inoltre emessi sequestri dei beni e taglie sui fuoriusciti, ad alcuni vicentini come: Giampaolo Bonollo, Sebastiano Tecchio, Valentino Pasini, Luigi Caffo, Carlo Pisani, fu inibito il rientro in città. I militari austriaci chiedevano continuamente lavori per le caserme, fortificazioni e altro, tutti i reggimenti civili erano stati sciolti, nel 1849 in città comparve il colera che fece numerose vittime. Vicenza si riebbe a fatica, ma per far dimenticare la durezza della repressione, si tentò di far divertire la cittadinanza a qualunque costo. Nel 1851, contro l’opinione pubblica si riaprì la fiera in Campo Marzo, nella serata del 14 agosto una bellissima luminaria, scarsa la partecipazione dei vicentini. Il 13 settembre dello stesso anno, si fece l’inaugurazione dell’Eretenio restaurato, con l’opera i Masnadieri di Giuseppe Verdi. Il giorno dopo nella mattinata del 14 settembre alla stazione ferroviaria si fermò l’imperatore Francesco Giuseppe. Nel 1852 il Podestà Francesco Bressan ricevette ordine di fare la Ruota, ma dopo un gran lavorio il maresciallo Radetzky, ordinò che tutto fosse disfatto, non si fece nemmeno la processione del Corpus Domini. Il 24 marzo 1854, muore il Conte Ottaviano Porto Angaran che lascia la sua casa al Ponte degli Angeli e la sua biblioteca al Comune di Vicenza. Nello stesso anno si apre il nuovo seminario vicentino nel Borgo di Santa Lucia. 

(Luciano Parolin)

da: “Memorie storiche della città di Vicenza” di Francesco Formenton

La posizione strategica di Vicenza

Radetsky aveva concentrato quasi tutte le sue forze (circa 40.000 uomini) a Verona. Confidava che a Vienna la situazione politica si chiarisse in breve e, ne era certo, chiunque salisse al governo non avrebbe abbandonato una armata in Italia. Le vie attraverso cui potevano giungere i rinforzi erano, come ai tempi della campagna d’Italia di Napoleone, tre: il Brennero, Il Tarvisio e la soglia di Gorizia. Da Vienna fino a Trento le linee di comunicazione erano sicure, ma erano bloccabili da forze esigue a Rivoli (come Napoleone aveva dimostrato), era necessario fossero mantenute libere la Valsugana e i passi degli altopiani Trento/vicentini. Le linee di comunicazione attraverso il bellunese erano minacciate dalle milizie di Pier Fortunato Calvi, il Tarvisio era libero da Vienna fino alla pedemontana. Su tutte le linee di comunicazione che dalle Alpi arrivavano a Verona, con la sola eccezione della Valle dell’Adige, la città di Vicenza stava come un minaccioso ostacolo. Per tenersi aperte tutte le opzioni, compresa quella di una ritirata, il Radetsky doveva liberarsi dell’ostacolo di Vicenza. La città era dotata di mura medioevali che non avrebbero resistito ad un assedio con moderne artiglierie, ma che costituivano un ostacolo formidabile per un colpo di mano. A Nord e a Sud Est il terreno era paludoso attraversato da poche strade facilmente difendibili; ma uno degli elementi di forza di Vicenza era anche la sua debolezza. Quel colle con il santuario che si prestava bene alla difesa una volta conquistato avrebbe posto la città sotto il tiro delle artiglierie costringendola alla resa.

A maggio la prima spedizione di rinforzo/soccorso a Radetsky scese in Italia dal Tarvisio, con 26 cannoni, sotto il comando del generale Nugent che occupava Udine vanamente contrastato. Il 20 maggio si portava sotto le mura di Vicenza tra porta S.Lucia e B.go Casale; nel frattempo il Durando, generale pontificio che aveva il comando dei crociati, aveva ordinato alle proprie truppe, che erano sparse per il veneto, di accorrere nella città. A Vicenza, messi sull’avviso dalla sconfitta di Udine, erano giunti rinforzi da Padova e Venezia. Il Nugent aveva 16.000 uomini che lanciò all’assalto, con l’appoggio di sei cannoni, ma venne sanguinosamente respinto, pur disponendo la città di Vicenza di un solo cannone e di soli 5.000 uomini armati; in questa battaglia si distinsero i volontari romani. Valutando che la sua missione fosse quella di portare munizioni e rinforzi a Verona il generale Thurn-Taxis che, grazie alla strage di Castelnuovo, era diventato l’uomo di fiducia del Radetsky  ed era subentrato al Nugent, abbandonava l’assalto e si dirigeva su Verona. Veniva inseguito il giorno 21 dai volontari del generale Antonini, ap- pena giunto da Parigi con un migliaio di uomini di tutte le regioni d’Italia (La cosiddetta Legione Straniera o Legione Antonini) a cui il Taxis rispondeva con un combattimento di retroguardia a Olmo. Il sopraggiungere di 5.000 soldati svizzeri e pontifici limitava la sconfitta degli italiani. In tale combattimento il valoroso Antonini perdeva il braccio destro. Il Radetsky, per quanto contento dei rinforzi e delle munizioni che gli giungevano era tuttavia un cervello militare di prim’ordine e non dimenticava che la priorità era quella di mantenere libere le linee di comunicazione: Vicenza quindi doveva cadere. E se questo comportava altissimi rischi avendo i piemontesi sull’uscio di casa era disposto a correrli.

Faceva  perciò  fermare  la  colonna Thurn-Taxis a S.Bonifacio e impartiva disposizioni di rinnovare l’attacco alla città berica. I vicentini che seguivano la colonna del Thurn videro che stava ritornando verso Vicenza e consapevoli della debolezza della città allagarono, con il Retrone, la zona di S.Agostino in modo da ostacolare un eventuale attacco verso il monte e cominciarono a costruire barricate e trincee sulle vie di accesso; per la costruzione di tali opere di difesa partecipò gran parte della città e non solo i combattenti.

Per impreparazione o sottovalutazione gli austriaci attaccarono frontalmente la notte del 23 maggio sotto un violento temporale. I difensori della Loggetta vennero sopraffatti, ma si resistette alla Polveriera sistemata alla “Rocchetta” (sull’attuale via Mazzini) e a Porta S.Croce con il bastione d’angolo verso l’attuale viale Trento. Da queste posizioni la modesta artiglieria vicentina riuscì, sparando a mitraglia, a mettere in fuga gli assalitori e con il fuoco di controbatteria a mettere fuori uso un paio di cannoni austriaci. Gli austriaci tentarono più volte, durante la notte e sotto un violento temporale, l’assalto frontale, ma furono respinti. Il poderoso corpo d’armata di 16.000 uomini se ne tornò a S.Bonifacio Vicenza era salva. La sollevazione iniziale di pochi giovani e dei volontari accorsi era diventata sollevazione popolare. Indipendentemente da quello che successe poi va considerato che un corpo di milizie cittadine e volontari eterogenei aveva sconfitto per due volte un corpo d’armata di uno degli eserciti meglio armati, addestrati e organizzati d’Europa.

 (Bruno Cardini)

La controffensiva di Radetsky

Il Radetsky che non era solo un militare, ma aveva anche un occhio politico comprese che la sconfitta dell’esercito a Vicenza poteva avere conseguenze gravissime sia sulle proprie truppe che sulle altre città del Veneto: se Padova e Treviso si fossero unite a Vicenza in un’unica forza militare si sarebbe trovato stretto tra i Piemontesi a S.Lucia e un esercito di 40-50.000 uomini che, anche se male armati, gli avrebbe tagliato i rifornimenti e ogni via di fuga; oltre ciò la sconfitta di Vicenza aveva demoralizzato le truppe imperiali e minacciava di entusiasmare le altre città del Veneto. L’infezione Vicenza doveva essere incisa e ripulita. Radetsky operò con audacia estrema: lasciò poche truppe a difesa del campo fortificato di S. Lucia di Veron, unì il grosso della sua armata alle sconfitte truppe del Thurn raggiungendo un organico di 30.000 uomini e 50 cannoni; Vicenza poteva contare su 11.000 armati e 38 cannoni. Con una marcia forzata notturna piombò su Vicenza. Evitò le strettoie allagate di Olmo e S.Agostino e le mura medioevali a Nord e si diresse da Lonigo attraverso i Berici lungo la strada che da Brendola arriva al colle Bella Guardia e da Montagnana lungo la Riviera Berica e attaccò la città da sud ovest. Militarmente parlando fu un capolavoro. Le pur stanche truppe croate presero all’assalto il colle di Ambellicopoli e la famosa villa La Rotonda del Palladio all’interno della quale avvennero feroci combattimenti alla baionetta, caduta La Rotonda le pur forti posizioni di Ambellicopoli dovettero essere abbandonate per rischio aggiramento da Est. L’immagine successiva è di una stampa dell’epoca che rappresenta l’assalto dei croati alla villa palladiana.

Segnaliamo la nazionalità degli attaccanti: croati. Come croati erano i soldati che avevano affrontato la rivolta delle cinque giornate di Milano. L’Austria aveva una politica militare che prevedeva l’oppressione reciproca delle singole nazionalità e la coltivazione dell’odio tra queste. I risultati si sono visti più di un secolo dopo nella guerra dei Balcani. Anima della difesa fu l’onnipresente Fusinato che tentò anche un contrattacco verso il Monte Bella Guardia da cui proveniva l’assalto austriaco ad Ambellicopoli. Il comando militare cittadino non seppe valutare in tempo se l’assalto fosse un diversivo o l’attacco principale e non riuscì a muovere per linee interne rafforzando i pur notevoli punti di resistenza che vi erano. Cadde, sotto la soverchiante pressione austriaca e la minaccia di aggiramento da valle la linea di Ambellicopoli, e i vicentini e i volontari svizzeri si ritirarono per un’ultima difesa attorno al santurario. Proseguirono ferocissimi combattimenti anche all’interno dello stesso dove venne ucciso, da uno svizzero, il principe Liechtenstein che era entrato in chiesa a cavallo. Cento anni dopo l’illustratore della Domenica del Corriere Walter Molino lo rappresenta in una immagine del settimanale per il fascicolo sul centenario dell’unità d’Italia. E’ nel corso di questo assalto che soldati croati, penetrano nella sala del refettorio e sfregiano e lacerano rabbiosamente con le baionette il famoso quadro di Paolo Veronese. Una offesa senza senso sia all’arte che alla religione. Gli austriaci portarono quindi l’artiglieria sul piazzale di del Cristo (l’attuale piazzale del santuario non esisteva ancora) e cominciarono a bombardare la città. La resa avvenne poco dopo; per accordo con gli austriaci, che volevano liberarsi rapidamente del problema Vicenza, le truppe dei volontari, in prevalenza romani, poterono lasciare la città assediata dirigendosi verso Este. Radetsky, intanto, aveva fatto fare dietro front alla maggior parte delle sue truppe che con una ulteriore marcia forzata tornarono a Verona prima che gli istupiditi piemontesi si accorgessero di avere di fronte una città indifesa e un esercito stanco fuori dalla sua linea dei forti.

Il 10 giugno 1848 a Monte Berico

«Nella chiesa della Madonna gli austriaci commisero tali profanazioni da far inorridire. Le candele tolte agli altari illuminavano i boschetti di rose e di gelsomini della terrazza; i soldati inebriati dall’ardore del combattimento e dal fumo della polvere ballavano fra i cadaveri dei loro compagni. Le magnifiche volte, che risuonarono di cantici e preghiere, ora echeggiano di osceni ululati, i paramenti sacerdotali mascherano a ludibrio i sozzi soldati dell’impero; non furono rispettati i monumenti d’arte, così le baionette croate lacerarono quel classico dipinto, capolavoro di Paolo Veronese, che raffigura la cena di San Gregorio Magno, più tardi ricomposto a brano a brano dall’arte magistrale del veneziano Andrea Tagliapietra.»

Vincenzo Bertolotti, “Storia dell’esercito sardo e dei suoi alleati nelle campagne di guerra 1848-1849”

Alla sera del 10 giugno 1848, la battaglia è finita; il marchese Georges de Pimodan, ufficiale dell’Esercito austriaco ed aiutante del maresciallo Radetzky, così descrive l’interno della Villa-castello dei conti Rambaldo: “Accesi la mia candela ed entrai nella cantina. Il terreno, temperato dal vino, formava una melma liquida; una cassa di legno duro era stata tolta con leve da una fossa. Salii al primo piano: le mobilie di legno di rosa coperte da marmi preziosi erano rovesciate sui tappeti, fra resti di specchi e di candelabri spezzati. Passai da un’altra parte camminando su un ammasso di biancheria, di robe di seta e di merletti fino al ginocchio; le casse di argenteria ingombravano i corridoi; i ritratti di famiglia erano stati stracciati a colpi di baionetta. Nella gran sala al piano terreno un cadavere era appoggiato al muro…”

Storia e immagini di villa di Santa Margherita dei Berici – Renzo Carlo Avanzo – Vicenza 2015

(Luciano Cestonaro)

 

Di Loris Liotto, Luciano Parolin, Luciano Cestonaro, Bruno Cardini da Storie Vicentine n. 4 Settembre-Ottobre 2021


In uscita il prossimo numero di Marzo 2023
distribuito nelle edicole del centro e prima periferia e agli Abbonati
Prezzo di copertina euro 5
Abbonamento 5 numeri euro 20
Over 65 euro 20 (due abbonamenti)

Viktoria, violinista, e Misha, contrabbassista: madre e figlio. Il 13 marzo la Società del Quartetto propone il duo al Teatro Comunale di Vicenza

Lunedì 13 marzo la Società del Quartetto propone al Teatro Comunale di Vicenza un insolito duo. Lei, Viktoria Mullova, è una delle più acclamate violiniste del nostro tempo. Suo figlio Misha Mullov-Abbado è un apprezzato contrabbassista cresciuto nel jazz britannico. In programma brani classici, pop, jazz e sonorità brasiliane. Prima del concerto, in foyer, una riflessione dell’archeologa Elena Marzola sulle libertà della donna nella Roma imperiale. Biglietti promozionali per la Giornata della Donna.

In prossimità della Giornata Internazionale della Donna la Società del Quartetto ha unito sotto il titolo “Questione di Donne” due concerti che hanno per protagoniste altrettante star della classica – la violinista Viktoria Mullova lunedì 13 marzo e la violoncellista Sol Gabetta domenica 19 – che sono nel contempo due donne con alle spalle storie personali fatte di passione e grande determinazione. I concerti saranno preceduti – alle ore 20 nel foyer del Teatro Comunale – da due momenti di riflessione sull’universo femminile, dell’antichità e dei giorni nostri, curati rispettivamente dall’archeologa Elena Marzola (il 13 marzo) e dalla psichiatra e psicoterapeuta Luisa Consolaro (domenica 19).

Lunedì 13 marzo Viktoria Mullova torna al Teatro Comunale, a 8 anni dalla sua ultima apparizione sulla scena vicentina, questa volta nella doppia veste di violinista e di… mamma. Al suo fianco infatti, a formare un insolito duo, ci sarà suo figlio Misha, avuto da Claudio Abbado nel 1991 e oggi affermato contrabbassista jazz, arrangiatore e compositore. «Per 18 anni con mia madre abbiamo vissuto sotto lo stesso tetto – ha confessato Misha in un’intervista – e sono stato letteralmente circondato da un’enorme quantità di musica. Ho iniziato pianoforte a 5 anni e corno a 7. Poi, verso i 15, mi sono appassionato al contrabbasso e al jazz, genere che ho approfondito alla Royal Academy of Music e all’Università di Cambridge».

«Grazie a lui ho affinato il senso del ritmo e il piacere di lasciarmi andare, di improvvisare – gli fa eco la violinista di origine russa – abbiamo anche scoperto di avere gusti musicali molto simili e di poterci completare a vicenda». Dalla curiosità di esplorare nuovi orizzonti e soprattutto dalla gioia di fare musica insieme nasce, poco prima del lockdown pandemico, l’album Music we Love, una raccolta di 12 brani che mette insieme pezzi originali di Misha, di Bach e Schumann, del chitarrista John McLaughlin e della rockstar israeliana Shalom Hanoch, più un omaggio alle sonorità brasiliane: dalla tradizione popolare alla bossa nova di Tom Jobim, dalla MPB allo choro.

È il programma, con qualche aggiunta, che Viktoria & Misha propongono lunedì sera al pubblico del Teatro Comunale di Vicenza. Del contrabbassista e prolifico compositore figlio d’arte ascolteremo quattro brani tratti dagli album Dream Circus del 2020 e Cross-Platform Interchange del 2017. Tre i pezzi “classici” in scaletta: i primi due movimenti dalla Partita in Si minore di Bach, il Moderato dalla Sonata in Re maggiore di Prokof’ev e il Träumerei dalla raccolta dei 13 Kinderszenen di Schumann. Il viaggio intorno ai più disparati stili musicali prosegue con il brano Shir Lelo Shem di Shalom Hanoch, classe 1946, cantautore israeliano di origine lettone considerato il padre del rock e della musica moderna israeliana. E ancora con Celestial Terrestrial Commuters di John McLaughlin, ottantenne chitarrista britannico che nel corso della sua lunga carriera si è distinto per le tante incursioni nella musica orientale, nel jazz, nel genere fusion e in quello classico.

Poi l’omaggio alla musica brasiliana, alla quale Viktoria Mullova nel 2014 aveva già dedicato un album in formazione di quartetto. Si parte dal languido motivo tradizionale Caicó, si passa attraverso la bossa nova Tom Jobim, la poetica di Laércio de Freitas, la Música Popular Brasileira del duo pernambucano Lenine & Dudu Falcão per arrivare al gran finale con il celeberrimo motivetto Tico-tico no Fubá che Zequinha de Abreu compose nel lontano 1917 e che da allora ha fatto il giro del mondo.

Ospite delle più rinomate orchestre, sale da concerto e festival internazionali, Viktoria Mullova è famosa per la straordinaria versatilità e curiosità che l’hanno portata ad esplorare tutto il repertorio per violino: dal barocco al contemporaneo, dalla fusion alla musica sperimentale. Grazie al suo interesse per la prassi esecutiva ha collaborato con i più importanti complessi su strumenti originali. Bach, compositore per il quale ha una grande affinità, è parte cospicua de suo storico repertorio, anche discografico. A partire dal 2000 Mullova ha intensificato le sue incursioni nella musica “altra” con gli album Through the Looking Glass, The Peasant Girl – dove suona brani classici, gipsy e jazz – Stradivarius in Rio e il recente Music we Love, tutti presentati con successo dal vivo in numerose città europee. Viktoria suona due straordinari strumenti di scuola italiana: un Guadagnini e lo Stradivari Julius Fak del 1723.

Per i due concerti “Questione di Donne” del 13 e 19 marzo la Società del Quartetto ha attivato una speciale promozione a 10 Euro per il singolo concerto e a 15 per entrambi. I biglietti si possono acquistare sul circuito online del Teatro Comunale (www.tcvi.it), presso la sede della Società del Quartetto in Vicolo Cieco Retrone (0444 543729) e alla biglietteria del Comunale (0444 324442).

Dal Passo Zovo alla chiesetta del Mucciòn fino al Monte Civillina, ecco alcuni percorsi storico-naturalistici da esplorare

Il passo dello Zovo è un valico alpino delle Prealpi vicentine posto a quota 631 m s.l.m. che mette in comunicazione le città di Schio e di Valdagno ed è il confine tra i territori dei due Comuni. Da qui si dipartono vari sentieri, tra cui uno che va al Monte Civillina. Non lontano dal passo c’è anche la suggestiva chiesetta del Mucciòn, con il vicino ristorante. Il territorio si presta a visite ed escursioni interessanti.

Il Passo Zovo e il ciclismo

E’ noto al pubblico per essere stato affrontato dal Giro d’Italia il 29 maggio 1998 dal versante valdagnese. La discesa verso Schio vide la caduta di Alex Zülle e di Marco Pantani che erano al comando, lasciando via libera alla vittoria di Michele Bartoli.

passo zovo
Il parchetto nei pressi del Passo Zovo. Foto: Marta Cardini

Proprio il versante valdagnese, con i suoi 4,5 chilometri e quasi 400 metri di dislivello, è quello più impegnativo da affrontare, con pendenze dure e costanti lungo i quattro tornanti centrali dell’ascesa, per poi farsi più pedalabile nella parte finale dopo contrada Grendene fino al passo stesso.

La chiesetta del Mucciòn

Situata nel territorio valdagnese, la chiesetta è dedicata alla Madonna Assunta ed è in stile alpino. Il tetto è spiovente e la facciata ha un rosone. Sul culmine del tetto vi è una croce in ferro battuto. L’interno è a navata unica e presenta alcune opere pittoriche interessanti. La suggestiva chiesa fu costruita con amore e sacrificio dagli abitanti di quelle zone collinari negli anni ’50 del Novecento.

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La chiesetta del Mucciòn. Foto: Marta Cardini

Il ristorante a fianco è noto per la cucina, elaborata con i prodotti del territorio. Pane fatto in casa con lievito madre, mostarde, insaccati, ravioli di tarassaco con burro di malga e Asiago stravecchio, tagliata di petto d’anatra con finferli, sono solo alcuni dei piatti in menu, da accompagnare con una delle etichette presenti nella ricca cantina.

Come raggiungere il Monte Civillina

Il monte Civillina è meta di appassionati e collezionisti per la varietà di minerali presenti. I percorsi naturalistici sono spettacolari. Lungo il tragitto si possono visitare, inoltre, trincee, gallerie e postazioni d’artiglieria.

E’ possibile partire a piedi o in bicicletta dal passo Zovo per raggiungere al vetta del Monte Civillina. Si tratta di un’escursione su questa montagna che ci permette di immergerci nella storia della Grande Guerra, ammirando panorami magnifici sulle Piccole Dolomiti. Il Monte Civillina è raggiungibile anche partendo da Valdagno in direzione Recoaro. Arrivati in località Bonomini, lasciando la strada principale, si scende a destra in direzione Rovegliana. Si prosegue per circa 1 km fino al primo tornante che sale a sinistra. Subito dopo si prende la strada a destra con indicazione Contrada Retassene.

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Il percorso naturalistico per andare al Civillina è incantevole. Foto: Marta Cardini

Superata la contrada si trova un primo parcheggio. Volendo iniziare da qui l’escursione calcolate almeno un’ora in più di cammino. Proseguendo, dopo il primo tornate, la strada non è più asfaltata ma percorribile. Si sale ancora per altri 12 tornanti per circa 2 km dove la strada si incrocia con la “Ortogonale 1” (c’è una tabella che indica la posizione) dove noi abbiamo lasciato la macchina per fare un percorso ad anello. E’ possibile proseguire per altri 400 mt fino alla fonte Civillina dove si può trovare posto per parcheggiare.

La Grande Guerra nel Civillina

Il Monte Civillina, già prima della guerra, faceva parte del sistema di difesa della viabilità vicino al confine. Per questo scopo, diventò sede di una batteria da fortezza che avrebbe dovuto proteggere la Valle dell’Agno da eventuali infiltrazioni nemiche provenienti dal Passo di Campogrosso.

Durante la Grande Guerra, sulla cima del monte, protetta da elementi di trincea utili in caso di attacco della fanteria nemica, oltre alle postazioni per cannoni, esistevano riserve per le munizioni, una polveriera, ricoveri per gli artiglieri e per il presidio della posizione, costituito da alcune  compagnie del 6° Reggimento Artiglieria da Fortezza. La guarnigione di Civillina usufruiva dell’acqua portata sulla sommità, con un acquedotto per sollevamento, da contrada Retassene. Per cause sconosciute la polveriera di Civillina esplose il 20 novembre 1915.

eco museo grande guerra
Uno dei cartelloni che spiega la Grande Guerra nel Civillina. Foto dal blog di Andrea Pizzato https://www.montagnadiviaggi.it/

Soprattutto dopo la Strafexpedition del 1916, il Monte Civillina, divenne sempre più importante, assumendo la funzione di perno della linea di resistenza ad oltranza, nonché rilevante stazione di smistamento per segnalazioni ottiche di artiglieria.

La cima

Il Monte Civillina, oltre a essere stato da scenario di strategie belliche, è ora un luogo adatto a tutti e ricco di interesse non solo per le testimonianze storiche, ma anche per le bellezze naturalistiche. Su questa cima è stato allestito un Osservatorio, dotato di pannelli descrittivi, da dove si può osservare, oggi come allora, tutto il fronte di guerra dell’Alto Vicentino dal Carega al Pasubio, dal Novegno all’Altopiano di Asiago e al Gruppo del Grappa.

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L’osservatorio dal Monte Civillina. Foto dal blog di Andrea Pizzato https://www.montagnadiviaggi.it/2020/09/monte-civillina-sentiero-del-sentinello-mtb.html

 

Festa della Donna, a Sovizzo “Chi ha sparato al maggiordomo”?

In occasione della festa della donna, il Comune di Sovizzo propone lo spettacolo teatrale “Chi ha sparato al maggiordomo”?, previsto per venerdì 10 marzo, alle 20 e 45, nell’Auditorium delle Scuole Elementari in Via Alfieri.

La manifestazione, ad ingresso gratuito, vedrà protagonisti diversi artisti, tra i quali Giorgia Antonelli, Annalisa Carrara e Titino Carrara. La produzione sarà curata dalla Compagnia Teatrale “Pipa e Pece” di Vicenza, mentre drammaturgia e regia saranno opera di Titino Carrara.

festa della donna sovizzo

Lo spettacolo è stato organizzato in occasione della Giornata internazionale dei diritti della donna, o Festa della Donna, ricorrente l’8 marzo di ogni anno per ricordare le conquiste sociali, economiche e politiche, ma anche le discriminazioni e le violenze di cui le donne sono state e sono ancora oggetto in molte parti del mondo.

“Questo evento vuole essere un importante momento di aggregazione per celebrare insieme il ruolo essenziale che le donne esercitano nella nostra società” incalza Paolo Garbin, Sindaco di Sovizzo, e conclude: “Ma è anche un’occasione per apprezzare il cruciale contributo che le donne regalano nella vita di ciascuno di noi”.

Mario Rigoni Stern nei ricordi di Gibo Perlotto

Mario Rigoni Stern, l’autore che più di ogni altro ha parlato di valori umani e civili attraverso storie di natura, boschi e montagne, passando per la tragica esperienza della guerra, protagonista di una testimonianza di Gibo Perlotto.

mario rigoni stern
Mario Rigoni Stern e “Gibo” Angelo Gilberto Perlotto

Un libro letto a quattordici anni ancora mi naviga nei circuiti del cuore: “Il sergente nella neve”. Era opera di uno scrittore di Asiago, un certo Mario Rigoni Stern. Alla fine del 1999 avevo terminato il complesso progetto scultorio sulla “Memoria Contadina”. Le trentadue sculture mi avevano impegnato per circa cinque anni. Finito il percorso, prima di organizzare delle mostre, cercavo qualcuno che commentasse l’opera.

Avevo incontrato alcuni critici, ma desideravo qualcuno slegato dal mondo dell’arte, incontaminato, una figura rappresentativa dei valori umani veri e profondi nei quali fermamente credevo e credo. Ne parlo con l’amico Padre Livio Pasqualon, francescano della Pieve di Chiampo. Secondo lui potevo chiedere di scrivere una presentazione a Mario Rigoni Stern.

L’idea era allettante, ma non sapevo come avvicinare lo scrittore, mi sembrava di dover affrontare l’Olimpo. Padre Livio disse: Non ti preoccupare, a Mario ci parlo io. Dopo qualche giorno mi richiama per comunicarmi la bella notizia che lo scrittore avrebbe visionato i miei lavori. Spedisco subito una lettera a Mario Rigoni Stern spiegando chi ero e illustrando il mio progetto. Non ho risposta. Passa circa un mese e richiamo Padre Livio raccontandogli l’accaduto. L’ingenuità mi aveva fatto commettere un grande errore, poiché avevo scritto a Mario senza allegare le foto delle sculture. Incredibile! Rispedisco il tutto, ma non arriva alcun segnale. Poi una sera squilla il telefono: Sono Mario Rigoni Stern.

Rispondo: Buona sera professore. Replica prontamente in dialetto stretto: A no’ so mia professore. Altra figuraccia. Non migliorerò mai! Mario mi comunicava che aveva visto le foto delle sculture e che avrebbe scritto qualcosa. Non ricordo se sono stati due o tre i salti di gioia. Dopo una ventina di giorni, mi ritelefona  chiedendomi  di  andare a trovarlo ad Asiago perché voleva conoscermi di persona e consegnarmi quanto aveva scritto. Mi consiglia di portare un paio di scarponi da montagna. La cosa mi sembra strana, ma questo era l’invito preciso: prendere o lasciare. Arrivo ad Asiago nel primo pomeriggio di un mercoledì di giugno. Il cielo è limpido, nell’aria vaga il profumo dell’erba falciata. Mario, in giardino, sta accatastando della legna. Dopo i primi convenevoli, m’invita a mettere gli scarponi perché saremmo andati a camminare nel bosco dietro casa, verso le colonie.

Lo seguo, adattando il passo alle sue soste. Preso da un’ineffabile agitazione, dovuta forse alla paura del confronto, continuo a parlare, probabilmente ripetendomi. A un certo punto Mario si gira e mi dice: No’ sito mia bon de stare in silensio? Ricordo con estrema precisione quel momento perché mi sentii precipitare nel vuoto. Poi fu silenzio a lungo. Solo il rumore dei passi nel gran tempio tra gli abeti. Seguo Mario come si segue una luce. Cammina nel bosco qualche passo avanti, la luce filtrata dagli alberi, imbianca le cose. Mi pare vedere Mario in ritirata nella steppa verso il Don, carico di munizioni e stanchezza e di giovinezza. Un Sergente nella neve che pensa nel freddo silenzio e poi scriverà: La terra è rotonda e noi siamo tra le stelle. Tutti.

Dopo un poco si rigira e mi dice: Ma dèsso no’ pàrlito pì. Non so cosa dire o fare. Continuiamo a camminare. Ci fermiamo dove finisce il bosco. Da qui si può gustare il regalo della Natura nell’orizzonte spalancato sul panorama stupendo. Con la tranquillità e la saggezza di un padre affettuoso, Mario mi rasserena dicendo: Ti ho ripreso perché, prima di parlare, bisogna saper ascoltare il silenzio, le voci del bosco, il resto è in più. Quanto ho imparato in quei pochi istanti! Stavo vivendo una magia. Come lui, quand’era nella steppa, pensavo: Che giorno è oggi? E dove siamo? Non esistono né date né nomi. Solo noi che si cammina.

Mi piacerebbe averlo conosciuto quand’era ragazzo e mi vien voglia di chiedergli perché è cresciuto. Torniamo verso casa. Ci accoglie la moglie Anna. Beviamo un buon caffè, mi consegna il suo scritto e iniziamo a confrontarci sui miei lavori. In calce al suo meraviglioso testo, con un post scriptum annotava:

Caro Perlotto, ho guardato le foto delle opere ed ecco quello che mi è venuto di scriverne. Spero le siano gradite, se no le bruci. Le auguro salute e una bella primavera.

La modestia è la grandezza di un uomo. Aveva scritto per me:

«Nella bottega del padre ha imparato l’arte di lavorare il ferro che assieme a quella della terracotta, è una delle più antiche. Nella memoria però, conserva ancora le immagini e l’uso di oggetti anche questi antichi di secoli, che oggi la tecnologia ha sostituito con altri molto più pratici ed efficaci ma che non hanno, però, l’impronta delle mani dell’uomo. Solo lo spirito di un poeta poteva pensare; fermiamoli nel tempo e nel ricordo con il ferro forgiato al color bianco e battuto sull’incudine; trasmettiamo per sempre il loro ricordo per quello che sono stati nella vita di tanti e per quello che sanno suggerirci. Così ecco la carèga di paglia consunta, il tabàro, la mònega, il bigòlo, la chitarra con le corde rotte e la cassa armonica scollata, il tajapàn… Ora sono fissati per sempre nella solidità del metallo anche per coloro che hanno memoria labile, o per chi non li aveva visti in uso: sono qui a trasmetterci di un tempo povero, sì, ma ricco forse di altre cose che abbiamo perduto.»

Mario presentò, nel 2001, una mia mostra personale alla Rocca di Castello di Arzignano, patrocinata dal Comune con l’organizzazione dell’amico Bepi De Marzi e la collaborazione di Carlo Geminiani. In quell’occasione Mario mi disse: Vengo con entusiasmo a presentarti, ma ti chiedo in cambio un cestino di ciliegie. Era di maggio. Gli portavo ogni anno due bottiglie di vino Durello Passito provenienti da un vitigno autoctono in San Benedetto di Trissino. Di questo vino potevo averne solo quattro bottiglie l’anno: due rigorosamente erano destinate a Mario. A lui sono sempre piaciute le cose semplici, senza mistificazioni, frutto della fatica dell’uomo e della tradizione.

Ho avuto la fortuna di frequentare un “Gigante” e di salire, per brevi tratti, sulle sue spalle e guardare più lontano. Confidenzialmente, Mario mi parlò del premio titolato La Penna d’Oro, ricevuto nel 1992, come massima onorificenza dalla Presidenza della Repubblica. Alla premiazione gli consegnano una pergamena e una busta.

Al momento del rinfresco chiede timidamente a un Ministro presente quando gli avrebbero consegnato la penna. La risposta del Ministro è che il premio è nella busta. Mario tocca la busta ma non avverte nessuna penna. In effetti, il riconoscimento era un premio in denaro.

Mi dice che a lui sarebbe bastata una semplice penna, magari con una dedica del Presidente della Repubblica. L’episodio mi colpì molto e di getto realizzai un’opera di ferro che donai allo scrittore. La scultura rappresenta una piccola tavola con sopra una boccetta d’inchiostro col tappo di sughero, una cannuccia munita di pennino Perry, la sua marca preferita, e un’ape d’oro. La piccola tavola è il mondo. L’inchiostro che, tracimando dalla boccetta si sparge, rappresenta la rigogliosità della scrittura, l’ape è simbolo della musa ispiratrice. Questa è la mia “Penna d’Oro” donata a Mario in segno d’amicizia.

Lui la conservava gelosamente sullo scrittoio. Me la prestò per esporla in alcune mostre. Ho sempre amato i poeti veneti e ho avuto la fortuna di conoscerne personalmente qualcuno tra cui Luigi Meneghello e Andrea Zanzotto.

Con Mario il triumvirato era perfetto per una mia ricerca artistica e una possibile realizzazione scultoria che potesse esprimere la devozione per loro. Nel 2007, dopo la morte di Luigi Meneghello, sentivo l’esigenza di dare vita a questo debito morale e artistico. Iniziai a gettare le basi, con schizzi e disegni preparatori, per realizzare una scultura per ognuno di loro. Dopo aver individuato il tema per Meneghello e Zanzotto, trovai la soluzione anche per Mario. Da un suo racconto scelsi un episodio che gli era accaduto nella campagna di Russia.

Aveva trasformato il contenitore della maschera antigas in un tascapane, dove conservava una copia dell’Iliade, una foto della morosa veneziana, un pettine e pochi generi di sussistenza. Nel racconto, Mario scrive che, perso il tascapane dopo uno scontro, era sicuro che, se qualche russo l’avesse ritrovato, si sarebbe reso conto che tutti erano coinvolti nello stesso dramma. La mia intenzione era di tradurre il tascapane in scultura ferrea, perché fosse riconsegnato a Mario e alla storia.

Ma dovevo parlare con lui per conoscere più dettagli: come fosse fatto, le dimensioni, e tutto il resto. Un tardo pomeriggio di fine ottobre del 2007, fisso un incontro. Mi accompagna in quell’occasione mia moglie Ines. Mario e Anna ci accolgono amorevolmente e ci ritroviamo in cucina a gustare una scodella di zuppa. Espongo l’idea, che Mario accoglie con grande entusiasmo. Le mie domande ottengono risposte che trascrivo, facendo qualche schizzo annotando delle misure.

A un certo punto Mario si alza dicendo di attenderlo. Ritorna dopo qualche minuto tenendo sottobraccio uno zaino e un’edizione dell’Iliade del 1940 per i tipi dell’editore Attilio Barion. Nella stanzetta regna un silenzio mistico saturo di curiosità e stupore. Mario con un sorriso afferma che il tascapane era del medesimo tessuto dello zaino e l’Iliade ha le stesse dimensioni di quella che stava raccontando.

Dice anche che era lo zaino col quale era tornato dalla Russia e che usava saltuariamente per portare a casa della legna dal bosco. Si lascia andare a tanti ricordi soffermandosi sui particolari dello zaino: nodi, cuciture, strappi. Quando lo usava aveva tutto quello che si può avere di peggio. Guardandomi fisso negli occhi mi dice: Questo zaino e l’Iliade voglio darli a te in ricordo.

Anna fa un cenno non so se di approvazione o altro. Io scoppio in lacrime, Ines mi tiene stretta una mano. Ripeto che non posso assumermi la responsabilità di una cosa tanto importante. Nell’accomiatarci saluto Anna e abbraccio forte Mario con la promessa di ritrovarci presto. Scendiamo da Asiago senza più dire una parola e restiamo in silenzio fino a casa. Non ho mantenuto la promessa di ritornare. Mario subito dopo si ammalò. Non lo rividi più. Ho conservato gelosamente lo zaino per un anno e mezzo in un contenitore senza mostrarlo mai a nessuno.

Nel 2009 Bepi De Marzi mi chiese, in nome della famiglia, di poterlo prestare per una mostra che sarebbe stata allestita a Luserna. Ho consegnato lo zaino a condizione che, terminata l’esposizione, mi fosse subito riconsegnato. Finita la mostra, con un’ennesima telefonata Bepi De Marzi mi suggeriva che sarebbe stato d’importanza storica e culturale, che lo zaino fosse ritornato alla famiglia per far parte di una futura fondazione-museo intitolata a Mario. Non ho più rivisto lo zaino. Un paio di mesi fa ho incontrato Gianni Stern, figlio di Mario, al quale ho raccontato il fatto.

Anche lui non sapeva che fine avesse fatto lo zaino, mi ha detto che avrebbe condotto delle ricerche. Poi Alberico, primogenito di Mario, ha ritrovato in soffitta quattro zaini, uno è sicuramente quello cercato. Le profonde fibre dell’anima ancora mi raccontano che l’intenzione originale di Mario, in quel pomeriggio di ottobre del 2007, fu di donarmi lo zaino a ricordo di un incontro durante il quale vivemmo un momento di alta intensità spirituale. Allora non si sapeva, ma sarebbe stato l’ultimo incontro. Lo zaino è a disposizione. Se si dedicherà a Mario una sala commemorativa,

è giusto che ne faccia parte perché, almeno io, lo considerò un Bene dell’Umanità per tutto quello che d’invisibile ma di eterno contiene. Uno zaino non è solo tela grezza, spallacci, stringhe. Uno zaino è chi lo porta sulle spalle, l’intriso del sudore, un cuscino nel riposo, Uno zaino è la fiducia del ritorno. Nel cammino verso casa sentirne l’abbraccio del dolore e della speranza consolante. Sono sicuro che Mario gli parlasse e che lo zaino rispondesse con i versi di Omero. Nei momenti di tensione e di paura e di stanchezza Mario allacciava i legacci consunti in nodi raggrumati. I nodi gli sarebbero serviti a ricordare il dovere di non dimenticare.

Di Giorgio Costantino Rigotto da Storie Vicentine n. 4 Settembre-Ottobre 2021


In uscita il prossimo numero di Marzo 2023
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Madame in concerto al Parco Ragazzi del ’99 di Bassano del Grappa

Parco Ragazzi del ’99 di Bassano del Grappa diventa palcoscenico della grande musica per il concerto di Madame, in programma il 26 luglio 2023. Si arricchisce quindi il programma dei grandi eventi dell’estate bassanese.

Madame, cantautrice di origine vicentina, è pronta a ricevere l’abbraccio della sua terra, in vista del nuovo tour estivo e della pubblicazione del suo secondo album “L’amore” (Sugar) in programma venerdì 31 marzo. Un nuovo progetto – quello discografico e live- per l’artista più ascoltata degli ultimi dieci anni (fonte Spotify) e che in soli quattro anni ha collezionato finora 35 certificazioni tra platino e oro.

Il nuovo disco è stato anticipato dal singolo già certificato platino e presentato a Sanremo 2023 “Il bene nel male”, scritto e composto da Madame e composto da Nicolas Biasin (in arte Bias) e Iacopo Sinigaglia (in arte BRAIL), che insieme a Shablo e Luca Faraone hanno prodotto il brano. Accanto ai numeri, Madame ha raccolto prestigiosi riconoscimenti per il valore musicale e letterario: è la più giovane vincitrice della Targa Tenco per il miglior album d’esordio e per la miglior canzone “Voce”, canzone che ha vinto anche il Premio Lunezia e il Premio Bardotti, entrambi per il miglior testo.

Madame ha già conquistato il pubblico anche dal vivo, in un tour sold out nel 2022 che ha confermato quanto sia nata per cantare e stare sul palco. Energica, spontanea, coinvolgente, la cantautrice ha condiviso uno spazio libero in cui essere al sicuro per essere veramente se stessi.

Le prevendite al concerto saranno disponibili a partire dalle ore 18.00 di lunedì 6 marzo nel circuito Ticketone. 

Goethe e Vicenza: la città vista con i suoi occhi

Vicenza, si sa, è una città dalle mille bellezze, ricca com’è di chiese, palazzi e storia. A dirlo non sono di certo solo dei vicentini troppo orgogliosi della propria città: il capoluogo ha infatti goduto degli elogi di numerosi forestieri, alcuni dei quali molto illustri. Scopriamo cosa Johann Wolfgang Goethe scrisse della città, che si trovò a visitare nel corso del suo viaggio in Italia.

Il Grand Tour

ritratto goethe
Ritratto dello scrittore (Goethe in der Campagna, Johann Heinrich Wilhelm Tischbein ca. 1787)

Johann Wolfgang Goethe è considerato il maggior esponente della letteratura tedesca, nonché il più famoso oltre i confini del paese. Conosciuto principalmente per le sue opere Faust, I dolori del giovane Werther e Le affinità elettive, Goethe fu un validissimo romanziere, poeta e drammaturgo.

Come molti giovani di famiglia nobile del tempo, nell’anno 1786 lo scrittore intraprese il Grand Tour. La moda consisteva nel mandare i rampolli delle famiglie più in vista in giro per l’Europa, per vedere da vicino la storia e la cultura dei paesi vicini, formando allo stesso tempo una coscienza politica. L’Italia era la meta preferita dei nobili europei, che desideravano vedere con i propri occhi i fasti dell’antica Roma, ma anche delle città del nord e del sud, in particolare Napoli.

Goethe a Vicenza

Il grande scrittore tedesco si fermò nel capoluogo vicentino per una settimana circa, dal 19 al 25 settembre, prima di incamminarsi per Padova. Se Roma rubò completamente il suo cuore, Vicenza non fu da meno: Goethe rimase affascinato dalla grandiosità delle opere del Palladio, che si precipitò a visitare:

Sono giunto da poche ore, ma ho già fatto una scorsa per la città e ho visto il Teatro Olimpico e gli edifici del Palladio.

La rotonda Goethe
La “Rotonda” del Palladio (foto flickr: Hilde Kari)

Goethe è allo stesso tempo critico e ammiratore dello stile del grande architetto, che infine definisce, inequivocabilmente, un genio:

C’è qualcosa di veramente divino nei suoi disegni: perfettamente come è la forma per un grande poeta, che dalla verità e dalla finzione plasma una terza cosa, la cui esistenza fittizia ci rapisce.

Di tutti gli edifici, il poeta rimase colpito in modo particolare dalla splendida Villa Capra, conosciuta come “La Rotonda“, di cui scrive:

Oggi ho visitato una splendida villa detta la Rotonda […]. Forse mai l’arte architettonica ha raggiunto un tal grado di magnificenza.

Così scriveva di Vicenza una pietra miliare della letteratura tedesca, un uomo colto che ben sapeva cosa fosse l’arte, avendola lui stesso rivoluzionata e portata ai massimi splendori. I vicentini hanno il privilegio di avere queste bellezze a poca distanza dalle proprie case, e i turisti la fortuna di poter ammirare  gli stessi capolavori che colpirono Goethe e che fanno di Vicenza una delle città più belle del nostro Paese.

 

*Le citazioni sono tratte dalle memorie di J.W. Goethe Viaggio in Italia, trad. italiana di Eugenio Zaniboni, ed. Sansoni