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Assunta Gleria: Breve storia ad immagini della Valle dell’Agno e altri racconti di respiro ambientalista

In ogni nostro incontro, e sono ormai diversi anni che ci conosciamo, Assunta Gleria riesce a sorprendermi con idee sempre nuove, sperimentazioni e sfide creative.

Nulla di strano, considerando lo spessore intellettuale e umano del suo curriculum: formatasi come architetto-urbanista a Milano, con un dottorato conseguito a Parigi, visse per molti anni con la famiglia in Africa sub-sahariana (Nigeria, Kenya, Etiopia), lavorando nell’ambito della cooperazione internazionale. Le origini beriche la riportarono poi a Vicenza, dove per quasi un ventennio insegnò con entusiasmo disegno tecnico nelle scuole superiori.

Il pretesto formale per questo articolo è il suo libro uscito di recente: Io mi ricordo com’era… Breve storia ad immagini della Valle dell’Agno e altri racconti, edito da Altra Definizione “che si occupa da anni su temi e campi che hanno a che vedere con le fasce deboli della società, le relazioni tra le persone e la valorizzazione dei territori”, come si legge sul sito dell’associazione che ha sede a Vicenza.

Assunta Gleria
Due illustrazioni di Assunta Gleria tratta dal racconto Io mi ricordo com’era

Il volume di 80 pagine raccoglie tre “graphic docu-stories” – impreziosite da brevi ma assai meditati testi firmati assieme a Paolo Boscato – che illustrano altrettante questioni ambientali. Oltre al caso veneto menzionato nel titolo, emergono due narrazioni di grande impatto emozionale ed etico legate al continente africano, conosciuto in modo approfondito dall’autrice nell’arco della sua esperienza professionale, che ha offerto spunti per una serie di articoli di carattere divulgativo pubblicati in diversi periodici italiani.

Il lavoro di illustrazione a fumetti – assai originale e apprezzato anche all’estero dove l’artista ha intrecciato fecondi contatti editoriali – ha avuto il suo inizio qualche anno fa con Due storie illustrate (2017) e Sei passaggi in Morigi (2018), con i quali ha partecipato, per la categoria graphic novel/fumetti, al concorso nazionale “Il mio esordio” indetto da www.ilmiolibro.it, qualificandosi tra i finalisti.

Assunta Gleria
Illustrazione di Assunta Gleria tratta dal racconto Suakin – Port Sudan 1986 Fig.

Tornando invece al libro appena pubblicato, il primo racconto della triade, Io mi ricordo com’era!!! Storia illustrata della Valle dell’Agno, coinvolge la memoria del territorio in questione delineata con un ampio respiro temporale, partendo addirittura dall’epoca preistorica in cui si creano presupposti per il successivo sviluppo sociale ed economico dell’area.

L’autrice procede creando una sorta di dossier dedicato all’ambiente naturale e antropico di questa valle, in cui si insediano nel tempo varie popolazioni: prima gli Euganei e i Reti, poi i Longobardi e gli Ungari, e infine i Cimbri che giungono a mantenere la loro specificità linguistica fino alla metà del XX secolo. L’eredità di questi gruppi etnici, che hanno lasciato impronte significative della propria presenza, ha reso possibile un caratteristico melting pot alla base della ricchezza culturale di un territorio dove le importanti risorse acquee hanno determinato lo sviluppo economico e sociale delle comunità, impegnate soprattutto nella produzione tessile.

Nasce così una narrazione complessa e multifocale che trae spunto dalle origini familiari e dai ricordi materni, ma anche dall’esperienza infantile che torna indispensabile nel momento in cui la mano dell’artista comincia a tracciare uno storyboard concepito al contempo come ricerca documentaria, testimonianza diretta e interpretazione libera dei fatti storici e di attualità.

“La storia dedicata alla Valle dell’Agno è il frutto di una mia rabbia profonda”, racconta l’autrice in una presentazione dell’opera e aggiunge: “Un giorno, mentre scendevo dai colli, ero passata per Brogliano – il paese d’origine di mia madre – e, arrivata in pianura, non avevo più riconosciuto il luogo. La campagna era stata completamente sconvolta, ettari di terreni un tempo fertili e coltivati erano stati spostati e scavati per lasciar posto a rotatorie e scavi per il movimento terra della Pedemontana Veneta in costruzione. Saltavano all’occhio ancora devastazioni dopo quelle permesse da un’urbanizzazione selvaggia negli anni della ricchezza. Ma la deindustrializzazione non necessita più di infrastrutture di quel tipo, che hanno reso la valle un catalogo di interventi da non ripetere. Da qui nasce il bisogno di raccontare la storia della valle, di come era nel ricordo e di immaginarne un futuro diverso, sempre possibile. L’immagine di questo futuro, necessaria per esorcizzare la paura della distruzione totale, inclusa quella della memoria, deve includere però anche i disastri ambientali già compiuti”.

Le immagini rafforzano le parole, all’insegna di un profondo desiderio di restituire allo sguardo non solo i ricordi, ma anche la fiducia nel futuro riscatto dell’ambiente ferito in modo così drastico. Non a caso, le ultime due vignette presentano un’immaginaria proiezione verso un domani diverso: il paesaggio violato dalla tracotanza dell’uomo si ripopola gradualmente di piante e di animali selvatici, tornando quindi allo stato primigenio, libero finalmente dall’ansia devastante del progresso finalizzato a sé stesso.

Assunta Gleria
Illustrazione di Assunta Gleria tratta dal racconto Suakin – Port Sudan 1986

Le altre due storie – Suakin, dedicata alla magnifica ma abbandonata città sudanese di corallo, il cui afflato quasi surreale ricorda Le città invisibili di Italo Calvino, e La Karura Forest a Nairobi, ispirata al progetto di valorizzazione di circa 500 ettari di parco naturalistico, svincolato da mire espansionistiche di costruttori e sottratto da artigli della criminalità – conducono il lettore verso il continente africano dove si scoprono due percorsi storici assai travagliati e complessi, ma anche le pratiche virtuose di partecipazione civica in grado di far decollare un importante progetto ambientale, considerevole sia dal punto di vista turistico che di fruizione locale.

Scritto da Paolo Boscato, archeozoologo e viaggiatore di origine vicentina, il racconto Suakin fa trasparire una preziosa sintonia tra due livelli di narrazione: le immagini entrano in piena sintonia con il flusso lirico, quasi sognante, delle parole.

Quando Paolo mi ha proposto di illustrare il suo racconto, il fascino che la cultura araba ha sempre esercitato in me e la voglia di ritornare, anche solo con la memoria, nelle città della costa africana sull’oceano Indiano, mi hanno spinto subito al lavoro”, afferma l’illustratrice entusiasta di questa collaborazione.

Attraverso non molte ma intense pagine del libro, il lettore può sorvolare millenni di storia e distanze geografiche davvero cospicue, facendosi coinvolgere nei racconti in grado di toccare corde profonde del sentimento etico. In un mondo globalizzato, queste testimonianze custodiscono un invito alla riflessione e alla presa di posizione civica all’interno delle proprie comunità e ambiti di azione, nell’ottica della salvaguardia e della rigenerazione dell’ambiente e della memoria storica dei luoghi.

Assunta Gleria
Illustrazione di Assunta Gleria tratta dal racconto La Karura Forest a Nairobi

Per questo motivo, l’armonia ritrovata della foresta di Nairobi offre un esempio virtuoso anche sul piano sociale. Anche in questo caso, il racconto passa attraverso il filtro dell’esperienza autobiografica: “La Karura Forest a Nairobi è il frutto di una grande emozione, questa volta positiva, nel poter camminare – finalmente – all’interno di una foresta, un tempo terreno proibito per i rischi fisici che comportava l’accedervi. Ritornata di recente a Nairobi, dopo avervi lavorato a lungo negli anni ‘90, avevo scoperto con piacere che la Karura Forest, un’area di più di 500 ettari all’interno della città, era diventata un parco pubblico, accessibile a tutti, molto frequentato, ben gestito e conservato. Questo risultato era stato possibile grazie all’impegno e alle lotte di gruppi di cittadini, in particolare delle donne del Green Belt Movement che avevano trovato il modo di evitare che la speculazione edilizia si impadronisse completamente della foresta”.

Titolo: Breve storia ad immagini della Valle dell’Agno e altri racconti

Autori: Assunta Gleria e Paolo Boscato Illustrazioni: Assunta Gleria Prefazione: Agata Keran

Progetto grafico: Fernanda Cereda Prezzo di copertina: 18,00 euro

A Vicenza, il libro è in vendita alla Libreria Traverso (corso A. Palladio, 172), oppure si può richiedere all’editore a questo link:https://www.altradefinizione.it/edizioni/io-mi-ricordo-com-era

Di Agata Keran da Storie Vicentine n. 2 Aprile maggio 2021


In uscita il prossimo numero di Marzo 2023
distribuito nelle edicole del centro e prima periferia e agli Abbonati
Prezzo di copertina euro 5
Abbonamento 5 numeri euro 20
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L’Anello Magico in centro a Vicenza: brutta meravigliosa condanna la memoria

Compio un “anello magico nel centro di Vicenza. Lascio l’auto a Piazzale del Mutilato, rigorosamente sulle strisce blu per non correre rischi. Un euro di pedaggio mi basterà di sicuro per il paio di commissioni che debbo sbrigare in centro. Pure io mi devo comunque sbrigare, perché sono coperto per solo una mezz’oretta. Posteggiare costa un botto. Bei tempi andati quelli delle strisce bianche e della sosta gratuita ad libitum.

Risalgo verso Piazza Castello, taglio internamente in direzione del duomo. Passo davanti al ristorante Agli Schioppi che non c’è più, arrivo alle Poste ed infilo Contrà Muscheria, annuso il ricordo della libreria Piccioli, della bottega del gusto di Araldo Geremia e della pescheria Tiozzo, che sopravvivono solo nella penombra della mia nostalgia canaglia.

Deglutisco ed infilo lo sguardo dentro Contrà Do Rode: il cenacolo dei letterati di Virgilio Scapin per me da là in fondo si ostina ad occhieggiarmi, anche se sono l’unico convinto ancora di riuscire a scorgerlo. Sbuco in piazza dei Signori, piena di sole ma vuota stamattina di vita, quasi come quella volta in cui anche a me capitò di incrociarvi Paolinorossigol. Il groppo risale. Lo caccio indietro con uno spritz alla Triestina, anche se è un’altra roba rispetto a quando sul serio in quel locale si respirava profumo di Sudamerica e ti tostava il caffè ed inventavano miscele.

Ad occhi chiusi provo a rievocare l’aroma do Brasil ma con poco successo. Do la colpa alla mia senescente capacità olfattiva, che orgogliosa e piccata si vendica subito di tanta mancanza di rispetto, costringendomi ad inalare il puzzo delle deiezioni appena lasciate da un cagnone in Contrà Porti, dove ho optato per transitare assieme alla mia voglia un po’ insulsa di percepire aria di vecchi palazzi e di passato. I cani una volta erano più educati. Facevano le loro cose a casa. Evidentemente hanno imparato la signorilità dai propri padroni.

Guardo al maestoso portone d’ingresso del prestigioso stabile che fu sede d’una banca popolare divenuta così tristemente impopolare prima di defungere. Poi piego su Via Riale, a metà della quale troneggia sempre ma un po’ imbolsita la facciata imponente della mia stagionata scuola media (allora la si poteva chiamare così senza rischi di passare per oscurantisti che si ostinano a non digerire le più moderne “secondarie di primo grado”). Segno di croce in suffragio dei miei prof di allora, che sono uno alla volta saltati come birilli e non ci sono ormai tutti da un po’.

Torno su Corso Palladio. Rivedo la vecchia sacra sede d’angolo della cartolibreria Galla, quella in cui quand’ero ragazzo si entrava cercando istintivamente un’acquasantiera per affrontare purificati il santuario della cultura. Più avanti, di fronte a quella che fu la BNL, c’è sempre l’androne sul quale affacciavano dirimpetto le due botteghe d’arte di Gueri da Santomio e di Berto Mottin. Magone montante, ossigeno che pare rarefatto ed andatura che comincia perciò ad essere disorientata e caracollante.

Avanzo zigzagando e mi ritrovo ad esplorare Stradella dei Filippini. Lì, prima dell’attuale multisala, c’era il mitico Cinemateatroroma. Sì, pensato e pronunciato come un’unica parola, sul genere del Mariaverginesantissima di mia nonna quando si apprestava ad inseguirmi dopo l’ennesima marachella di quel selvaggio irrecuperabile che in quegli attimi sospesi tra la scopa in aria e la scopa sulle mie terga smetteva di essere il suo adorato nipotino e diventava curiosamente invece soltanto il figlio di sua figlia. A rifletterci ora mi chiedo come avrò fatto, sul finire di quegli scoppiettanti Anni Ottanta, ad infilarmi nei camerini di tanto glorioso teatro con faccia tosta il giusto per affrontare senza che mi tremassero le gambe i vari Gaber, Milva, Vanoni e Jannacci per farmi rilasciare interviste a domande che solo oggi scopro di una banalità sconcertante. Però allora mi sentivo giovane ed intelligente. Adesso, che sono di sicuro meno giovane e probabilmente non molto più acuto, guardo e passo oltre per non commuovermi al pensiero che quei giganti se ne siano già tutti andati o siano comunque abbastanza morti lo stesso.

Anche Bramieri. Che quel venerdì di settembre, quasi a mezzanotte, mi prese sottobraccio e si lasciò guidare attraverso la magia di un centro storico deserto, ascoltando le mie illustrazioni da cicerone improvvisato che gli raccontava la poesia di tanti scorci palladiani durante il quarto d’ora impiegato per raggiungere a ritmo blando la trattoria di fronte al Patronato Leone XIII, dove il resto della sua compagnia d’attori lo aspettava per la cena notturna post spettacolo. Il tutto mentre la fanciulla che ci faceva da scorta ed ancora non sapeva che sarebbe diventata mia moglie mi domandava estasiata da quando conoscessi l’indiscusso re italiano della barzelletta d’autore, che con così naturale confidenza mi si rivolgeva. “Da dieci minuti” le dissi, perché era un mondo di anime candide. Divi compresi.

Resisto alle lacrime di commozione anche mentre svolto in Contrà San Marcello, dove il mio liceo Pigafetta resiste abbastanza dignitosamente allo scorrere dei decenni ma è orfano di quelle facce che allora lo popolavano. Facce di studenti che oggi hanno già scollinato il mezzo del cammin di loro vita. Ma pure volti di docenti senza più voce, perché in larga parte hanno già scollinato anche il secondo mezzo e consumato già tutto il proprio tempo mortale.

Affronto – adesso di corsa per fuggire i ricordi – anche la piccola discesa che mi riporta su Piazzale del Mutilato, idealmente completando quell’anello magico che è stato il mio viaggio nel presente e nel passato che sta volgendo a conclusione. Un viaggio più lungo del previsto, ad onor del vero, considerato che ci ho impiegato un’ora abbondante. Maledizione, sono fuori orario col parcheggio! Non ho modo di terminare il preoccupato pensiero che già scorgo, dietro alla mia auto, un lungagnone in divisa da vigile che sta verosimilmente prendendo nota della targa.

È però anche l’attimo di un’inattesa e perciò spiazzante evocazione: proprio su questo trafficato quadro d’asfalto trent’anni fa rimediai la mia prima contravvenzione per aver posteggiato fuori dalle strisce (allora democristianamente bianche). Vivo l’istante surreale in cui una forza misteriosa mi trattiene dal prostituirmi per negoziar clemenza al cospetto dell’integerrimo servitore delle forze dell’ordine, perché con un tuffo al cuore realizzo che la contravvenzione che sta per essermi spiccata è in questa strana giornata l’unica cosa che vedo ripetersi identica alla scena che andò in onda quella volta che proprio qui fui multato.
Lo so, non è forse un ragionare sano. Ma quando nulla ritrovi del tuo mondo che non c’è più, anche quelli che allora recitavano come adesso la parte dei cattivi ti appaiono curiosamente reliquie da custodire con gelosia, perché sono nella tua fantasia distorta i soli superstiti di un’arcadia lontana.

Forse lo spritz di mezz’ora fa sta andando in circolo, ma provo una sensazione dolcissima mentre il signore mi mette in mano copia del verbale. Nemmeno sono curioso di controllare l’importo, che intimamente confido non sia in ogni caso da accensione di mutuo. In fondo sono colpevole solo di ritardo nel ritiro della vettura ma non di mancato pagamento di pedaggio. Insomma, più roba da pacca sulla spalla che da calcione sui glutei.
Il poliziotto locale ci rimane quasi male mentre prendo il foglio con la sanzione e me lo infilo in tasca senza obiettare ma al contrario omaggiandolo con un “grazie di cuore” che lui sicuramente interpreta come canzonatorio ma io al contrario vivo quale esternazione di doverosa riconoscenza per avermi regalato la gioia di catapultarmi indietro a quegli anni di cui per un miracoloso istante mi par di riassaporare l’impossibile magia di ritorno.

Brutta meravigliosa condanna la memoria…

Di Davide Sacco da Storie Vicentine n. 2 Aprile maggio 2021


In uscita il prossimo numero di Marzo 2023
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Il Tre visi (e i tanti volti) di Vicenza: un ristorante storico che rappresentava un autentico pezzo di storia

C’era una volta, tanto tempo fa, in un luogo di fiaba che si chiamava Vicenza, un piccolo e grazioso ristorante, seminascosto tra palazzi antichi di lusso in Contrà Porti. Il Tre Visi – così era conosciuto – aveva un volto curato ed elegante e lo frequentavano tante facce di cittadini più o meno illustri.

E in genere facoltosi. Perché va detto che negli anni migliori il Tre Visi non era alla portata di tutte le tasche. Di sicuro almeno non le mie all’epoca in cui ero ragazzino. Poi, quando nel portafoglio aveva cominciato a germogliare qualche banconota, ecco che intanto se ne era andato lui.

Un vecchio amico di famiglia, bazzicatore seriale del locale, mi raccontava che in più d’una occasione gli era capitato di incontrarvi Mariano Rumor, che nella discrezione di un ambiente raccolto cenava spesso anche da solo, così come da solo poi se ne usciva per attraversare una città vuota di vita ma potenzialmente più pericolosa di adesso.

Erano infatti anni complicati per la Repubblica, e a maggior ragione i rischi avrebbero potuto celarsi in ogni anfratto di quelle notti deserte per un professore che si alternava tra la carica di ministro e l’altra da presidente del consiglio. La scorta non faceva per lui, o almeno così era abitudine quando si trovava nella sua Vicenza, dove si ritagliava acconti di libertà non vigilata lontano dai clamori romani.

Durante le proprie indimenticabili stagioni di biancorosso vestite, pare fosse di casa al Tre Visi anche Paolo Rossi, altro riconosciuto campione di riservatezza. Molto più modestamente, una manciata di volte ero riuscito ad affacciarmi pure io – ormai una ventina di primavere orsono – nella piccola sala della trattoria.

tre visi

Ma scorrevano già quasi i titoli di coda: il baccalà continuava ad avere il sapore che in tanti mi avevano decantato, però l’aria da fine impero che ormai lì dentro si respirava non prometteva bene. La storia per fortuna o purtroppo ha sempre ragione, per cui anch’io me ne sarei fatto una ragione quella domenica (parecchi anni fa) in cui, transitando in Contrà Porti, avrei trovato l’uscio del locale chiuso per sempre e non soltanto per il rituale turno di riposo.

Evidentemente non porta bene aprire attività su quella strada, come immagino avranno pensato i liquidatori dell’allora confinante Banca Popolare. Anche lì ad occhio si mangiava parecchio, e il conto alla fine per troppi onesti vicentini è stato ingiustamente salato. Ma questa è altra faccenda.

Ho avuto un sussulto nello scoprire come – araba fenice in salsa nostrana – il locale fosse ad un certo punto ricomparso. O, meglio, avesse provato a nascere un nuovo e diverso ristorante, non più nella vecchia sede ma nell’ancor più centrale Corso Palladio. Non nascondo, per me orgoglioso oscurantista, la mezza sorpresa (anzi, i tre quarti di sorpresa) nell’apprendere in quei lontani giorni che all’anagrafe la resuscitata bottega del gusto era registrata quale “Antica trattoria Tre Visi di Lan Ping”.

A scanso di fraintesi, sono sempre stato per la democrazia, compresa quella alimentare, perché credo che ciascuno abbia diritto di gioire o soffrire a tavola come meglio creda. Peraltro avevo pure sentito parlar bene di quel redivivo luogo conviviale, cui prima o poi avrei voluto far visita perché si narrava che le specialità vicentine (sì, proprio vicentine!) fossero preparate e servite con assoluta cura. Oltretutto mi sovveniva, per una curiosa e rivisitata legge del contrappasso, di aver mangiato la mozzarella di bufala più buona della mia vita proprio a Shanghai, per la precisione al ristorante Da Marco, un campano intraprendente tra i primi a capire che la Cina poteva anche diventare un’opportunità.

Dunque perché stupirmi del Tre Visi new style? Non dovevo. Cioè, non avrei dovuto. Il fatto è che mi faceva un effetto strano l’immagine degli abbinamenti che istintivamente mi sfilavano davanti: il Mediterraneo e l’Oceano, l’Oriente e l’Occidente. Ma pure il dragone e il gatto, lo spaghetto di soia e il baccalà. Com’è vicina sulla carta geografica ma lontana dalla nostra cultura la Venezia serenissima che con la terra dei soli levanti aveva dimestichezza ed era riuscita a combinarci affari per secoli. La storia, insisto, ha sempre ragione. E il tempo non passa. Lui è lì, fermo. Dall’eternità. Siamo noi che lo attraversiamo senza esagerata consapevolezza e perciò talora non lo capiamo.

Così succede che ci scopriamo regolarmente in ritardo rispetto ad una realtà che sa essere spesso più avanti. Avrei avuto voglia domani a pranzo di prenotare proprio da Lan Ping. Ma pure lui è da diversi anni passato, gastronomicamente parlando, a miglior (forse) vita. Ha serrato i battenti e ormai buttato via la chiave, visto che al civico 25 del Corso resiste in un cortile interno solo un’insegna consunta su una facciata di costruzione dimessa.

Sento che sarò controvoglia dirottato al McDonald’s, dove alla fine riuscirà a sequestrarmi per un paio d’ore il mio ragazzo più piccolo. Che ho la netta impressione nutra al momento più simpatia per l’America.

Di Davide Sacco da Storie Vicentine n. 2 Aprile maggio 2021


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Lonigo, il Santuario della Madonna dei Miracoli dove la Vergine che fu sfregiata concede le “grazie”

Meno conosciuto del Santuario di Monte Berico di Vicenza, a circa 2 km dal centro di Lonigo, nel Basso Vicentino, si trova il Santuario della Madonna dei Miracoli, una chiesa dal fascino misterioso che, ogni anno, accoglie migliaia di pellegrini. Qui si possono chiedere le “grazie” che teniamo nel cuore. Appena si arriva al Santuario, si rimane sorpresi dalla facciata che si ha di fronte. Ma all’interno l’immagine della Madonna colpisce ancora di più. Appare con una mano sulla fronte, vicino ad un occhio, in uno dei punti dove era stata sfregiata…

L’edificio

Il luogo di culto attuale fu eretto tra la fine del XV e l’inizio del XVI secolo su un’antica chiesa benedettina dedicata a San Pietro, per devozione a un’immagine della Vergine, che alla fine del Quattrocento fu al centro di un evento miracoloso.

facciata
la facciata esterna della chiesa. Foto: Marta Cardini

Nel 1444 i monaci Olivetani erano subentrati ai benedettini nell’abbazia di Santa Maria in Organo a Verona e quindi anche nei suoi possessi sul territorio, tra cui Villanova di San Bonifacio e Lonigo, che assegnarono ad un rettore.

L’edificio è una delle più interessanti architetture quattro-cinquecentesche del territorio vicentino per la grandiosità e l’equilibrio rinascimentale delle proporzioni. L’ampliamento dell’edificio sacro iniziò a ridosso del miracolo, tanto che la nuova chiesa fu inaugurata già nel settembre 1488. La grande struttura di impronta rinascimentale, tradizionalmente assegnata a Lorenzo da Bologna e Alvise lamberti da Montagnana, si sviluppò intorno all’immagine miracolosa innestandosi alla primitiva chiesa gotica. Il lato sud è caratterizzato da una elegante facciata lombardesca scolpita in pietra di Vicenza attribuita al Lamberti. L’apparato decorativo interno è generalmente attribuibile all’ambiente degli scultori lombardeschi attivi nelle principali chiese di Vicenza tra Quattro e Cinquecento.

soffitto
Il soffitto della cappella-santuario. Foto: Marta Cardini

Appena si entra nella chiesa, sulla destra, appare la cappella-santuario che protegge l’affresco miracoloso, inglobato nella parete destra della piccola abside. La cappella è impreziosita da un accumulo di decorazioni. Si rimane stupiti da una bella decorazione a stucco barocca di ambito veronese di metà ‘500 attribuita a Domenico Brusasorci, oggi solo in parte visibile nella lunetta superiore della parete di fondo.

cappella lonigo
La cappella che contiene la Madonna dei Miracoli. Foto: Marta Cardini

Il miracolo

Il primo maggio 1486 la Madonna dipinta fu oltraggiata con bestemmie e sfregiata con un pugnale da due calzolai veronesi che poco prima avevano ucciso un compagno di viaggio per rapinarlo. L’Immagine portò la mano sinistra all’occhio ferito, mentre dall’altra ferita sul petto sgorgavano gocce di sangue. Gianantonio e Guglielmo, gli autori della profanazione, fuggirono. Gianantonio riuscì a far perdere le sue tracce, mentre Guglielmo, che si era rifugiato nell’abbazia di San Zeno, fu catturato, torturato, processato e giustiziato a Verona il 5 maggio. Il fatto ebbe una vastissima risonanza e già il 24 maggio il rettore del neonato santuario rinunciò al beneficio sulla chiesa di San Pietro in favore dell’abate di Santa Maria in Organo per il grande afflusso di fedeli che non poteva più gestire da solo.

madonna lonigo
La Madonna dei Miracoli. Foto: Marta Cardini

Le guarigioni

Sette giorni dopo, il 7 maggio 1486, avvenne la prima guarigione. Stefano Cavaccione da Zimella fu risanato in seguito alle preghiere rivolte alla Vergine di Lonigo dopo un grave incidente a cavallo che lo rese invalido. Fin da subito la devozione popolare si manifestò vivace e assidua, con l’arrivo di pellegrini, donazioni testamentarie per la ricostruzione della chiesa, grandi processioni devozionali organizzate dalle comunità del territorio e offerta di ex voto, offerti alla Madonna ormai popolarmente indicata come la Madonna dei Miracoli di Lonigo.

La fama della Madonna miracolosa di Lonigo si consolidò da subito, grazie all’opera degli Olivetani. I monaci ebbero un ruolo chiave nella diffusione della devozione all’immagine sacra che si sviluppò ben oltre i confini del territorio. Essa assunse una dimensione nazionale, sfruttando la rete di monasteri dell’ordine che faceva capo all’abbazia di monte Oliveto Maggiore (Si). Le festività dell’Annunciazione (25 marzo), dell’Assunzione (15 agosto) e della Natività di Maria (8 settembre) assunsero sempre maggiore rilievo, perché in corrispondenza di queste feste si svolgevano importanti fiere presso il santuario.

altare
L’altare nell’abside della chiesa. Foto: Marta Cardini

Già nei primi decenni del Cinquecento numerosi erano i pellegrini e le testimonianze di devozione da altre regioni italiane, confermate dalla documentazione e dagli storici coevi. Nel 1510 la nobildonna romana Angiola venne a Lonigo da Roma per chiedere la guarigione di un cancro al seno.

Il museo dell’ex voto

All’interno del Santuario si trova anche una stanza con una delle più rilevanti raccolte di tavolette votive dell’Italia settentrionale. La stupefacente collezione copre un arco temporale di cinque secoli, dalla fine del Quattrocento alla fine dell’Ottocento, e comprende 360 ex voto dipinti su tavola e su tela, oltre 250 ex voto anatomici su lamina, gioielli, lampade votive, cuori d’argento, ricami, stendardi, ex voto oggettuali, conservati nel museo annesso al santuario e in chiesa. Sono solo un residuo di quello che era un patrimonio certamente molto più vasto, poiché le fonti seicentesche testimoniano la presenza di doni votivi oggi non più rintracciabili, molti dei quali di tipologie diverse da quelle rimaste al santuario: calici, paramenti, sculture in legno, argento o cera che riproducevano la Madonna o le parti del corpo guarite.

ex voto
Le tavolette votive ex voto. Foto: Marta Cardini

 

Lupo protagonista a Vicenza, serata con Club Alpino Italiano nella circoscrizione 4

È il lupo il protagonista della serata Cai di martedì 14 febbraio 2023, proposta dalla Commissione Naturalistica e TAM “B. Peruffo” in circoscrizione 4 a Vicenza.

Ne parleranno la naturalista Jessica Peruzzo e il fotografo Silvano Paiola, autori, rispettivamente, di un saggio sul ritorno del grande carnivoro sulle montagne vicentine e di un libro fotografico sulla sua presenza in Lessinia. 

L’appuntamento, a ingresso libero, è alle 20.45 nella sala consiliare della circoscrizione 4, in via Turra 69 a Vicenza.

lupo
Jessica Peruzzo

Jessica Peruzzo, giovane naturalista di Valdagno, laureata in Gestione del territorio e dell’ambiente, impegnata nel monitoraggio della fauna locale e cofondatrice dell’associazione Naturalisti Vicentini, nel libro “Il ritorno del lupo sulle montagne vicentine” indaga a 360 gradi gli effetti del ritorno del carnivoro. Quali sono le conseguenze sull’ecosistema e sulla vita delle persone? Cosa ne pensano gli allevatori, i turisti e gli operatori economici? A partire dal suo saggio, frutto di studi bibliografici, ricerche sul campo e centinaia di interviste, l’autrice fornirà alcune risposte sull’impatto della presenza del lupo in zone dove mancava da molto tempo, tra Veneto e Trentino. Il fenomeno, controverso e di grande impatto sull’opinione pubblica, sarà analizzato con dati aggiornati al 2022.

Seguirà la presentazione del libro fotografico “10 anni con i lupi dei Monti Lessini” (Edizioni ViviDolomiti – Collana Mountain Geographic) in cui il fotografo naturalista Silvano Paiola descrive l’avventura di due amici alla ricerca dei lupi sugli altipiani, nell’asprezza degli inverni, tra foreste selvagge, dentro albe misteriose e tormente di neve. Un viaggio alla scoperta di creature che si muovono guardinghe nei boschi, cercate con discrezione dal fotografo che entra in punta di piedi a far parte del loro mondo.

Sarà un racconto denso di emozioni quello proposto dal fotografo veronese, grande appassionato di fauna selvatica e di paesaggi montani, le cui immagini sono state pubblicate da riviste  e portali naturalistici, tra cui National Geographic, La Rivista della Natura, Atlas Obscura, Montagne 360, e gli hanno valso riconoscimenti in prestigiosi concorsi tra cui Glanzlichter, GDT Nature Photographer of the Year, Siena Drone Awards, NPOTY Nature Photographer of the Year e Big Picture Natural World Photographer.

Maurizia Cacciatori a Vicenza presenta il suo libro “Senza Rete”

Il libro “Senza Rete” di Maurizia Cacciatori sarà presentato a Vicenza mercoledì 8 febbraio 2023, presso Palazzo Bonin Longare, nell’ambito della rassegna di letteratura sportiva “Lo sport si racconta” di BaldiLibri.

Maurizia Cacciatori ha sempre affrontato la sua vita spinta da un forte desiderio di libertà e da una forza incrollabile. Uscita di casa a sedici anni per inseguire la passione della pallavolo e liberarsi da regole troppo strette, ha collezionato titoli nazionali e internazionali, fino alla nomina come migliore palleggiatrice al mondo, una serie di avventure con le compagne di squadra e ben ventidue traslochi in giro per il mondo.

In carriera ha conquistato 5 scudetti, 5 Coppe nazionali, 3 Supercoppe italiane, 3 Coppe Campioni, 1 Coppa Cev. Inoltre, è stata capitana della Nazionale dove ha totalizzato 228 presenze, vincendo un oro ai Giochi del Mediterraneo (2001), un bronzo e un argento agli Europei del 1999 e del 2001. Con lo stesso spirito ha affrontato i momenti meno felici come l’esclusione dalla Nazionale o una fuga dall’altare a una settimana dal matrimonio.

Oggi Maurizia Cacciatori è madre di due bambini e si è costruita una carriera completamente nuova, opinionista televisiva per Sky Sport per la pallavolo femminile.

Questo libro è il racconto emozionante, coinvolgente e a tratti comico di una donna che ha imparato l’arte più difficile: quella di reinventarsi per ricominciare. Non era banale in campo e non lo è nella scrittura, Maurizia. Non tanto per lo stile, quanto per la rara capacità di coinvolgere, di portare il lettore dentro un mondo che, a dirla tutta, spesso si segue soltanto nelle parentesi delle nazionali.

Un mondo fatto di spogliatoi, di fatica negli allenamenti, di difficoltà per convincere qualcuno a godersi il tuo talento più delle tue gambe o del tuo sedere messo lì in bella mostra da divise che ben poco lasciano all’immaginazione. Ma non soltanto. La Cacciatori ha spiegato due cose, di questo libro: che lo ha scritto in primis per i suoi due figli; e che lo ha scritto di notte, con un bicchiere di Baileys in mano. Sinceramente, stupiva che colei che è stata per anni l’emblema (almeno mediaticamente parlando) della pallavolo italiana per anni e anni, non avesse ancora scritto un libro.

Ma è stata lei stessa ad ammettere di aver sempre rifiutato le richieste che le sono arrivate. In alcuni casi non era il momento, in altri non sapeva che dire. Alla fine ha scelto la via più facile, ma anche più coraggiosa: raccontare tutto. Che ha capito che il suo vero posto nel mondo lo ha trovato solo quando è diventata madre.

Lorenzo Dallari dialoga con l’autrice. Ingresso libero fino ad esaurimento dei posti disponibili. Prenotazione obbligatoria a [email protected] oppure sms o whatsapp al 3383946998.

Lonquich suona lunedì 6 febbraio con OTO Haydn, Beethoven, Mozart

Lunedì 6 febbraio Alexander Lonquich torna a guidare la OTO in un nuovo concerto della stagione sinfonica promossa dall’orchestra vicentina al Teatro Comunale (proprio pochi giorni dopo il Musical Pretty Woman, ndr). In primo piano brillanti capolavori di tre grandi compositori legati fra di loro da un filo rosso: Haydn (Sinfonia da Armida), Beethoven (Ottava Sinfonia) e Mozart (Concerto per pianoforte in Do minore).

È sicuramente un concerto “di cartello” quello in programma lunedì 6 febbraio alle 20:45 per la rassegna sinfonica realizzata dalla OTO al Teatro Comunale di Vicenza.
I motivi di interesse sono il ritorno alla guida dell’orchestra di Alexander Lonquich –  – e l’impaginato della serata, che mette insieme tre giganti del classicismo viennese come Haydn, Mozart e Beethoven.
Particolarmente brillante e spumeggiante, il concerto inizia sulle note della Sinfonia avanti l’opera Armida, dramma eroico in tre atti che debuttò nel 1784 a Eisenstadt. Il lavoro di Haydn riscosse un tale successo presso la corte degli Esterházy che il principe Nicola nei successivi quattro anni volle rappresentarlo altre 54 volte. Successivamente l’opera cadde nell’oblio fino alla ripresa in tempi moderni che riportò in auge quello che viene considerato il più importante contributo di Haydn – maestro insuperato di quartetti per archi e sinfonie – in campo operistico.
Dopo l’ouverture haydniana, Lonquich e la OTO affrontano la Sinfonia in Fa maggiore di Beethoven, l’ottava della serie. Sbozzata nel 1811 insieme alla Settima che poi ebbe la precedenza, la “piccola” – passata alla storia con questo appellativo per le dimensioni più contenute rispetto ai precedenti lavori – fu portata a termine nei mesi estivi del 1812 e debuttò a Vienna nel dicembre dell’anno successivo. L’opera venne accolta tiepidamente dal pubblico del Burgtheater perché evidentemente non corrispondeva alle aspettative. Dopo gli slanci eroici, le tensioni emotive e il vigore messi in luce nei precedenti lavori sinfonici, con l’Ottava Beethoven sembra prendersi una pausa di riflessione volgendo lo sguardo all’indietro e tuffandosi nell’ottimismo e nell’allegria della musica del tardo Settecento. Ne esce un’opera intrisa di leggerezza e sorretta da una linea melodica “semplice” affidata agli archi e al suono del corno inglese. Poco compresa dal pubblico dell’epoca, oggi l’Ottava suscita immancabilmente nell’ascoltatore un sentimento di piacevole sorpresa e di ammirazione.
Anche l’ultimo brano in programma – il Concerto per pianoforte n. 24 in Do minore di Mozart – non venne accolto calorosamente dai contemporanei e il motivo è anche qui da ricercarsi in un desiderio di rottura dell’autore rispetto al passato. Il lavoro chiude la felicissima stagione dei Concerti per pianoforte e orchestra che Wolfgang compose ad un ritmo frenetico per le sue Accademie viennesi: 12 dei 27 Concerti concepiti dal genio salisburghese nacquero a Vienna nel breve arco di tempo che va dal 1784 al 1786. Dopo la leggerezza e il disimpegno dello stile galante tanto amato dai viennesi, con questo Concerto proposto la sera del 3 aprile del 1786 Mozart sembra voler sottolineare la fine di un’epoca. Lo fa con un particolare impegno espressivo offerto dalla tonalità minore e utilizzando per la prima volta un organico più ampio con oboi e clarinetti che conferiscono all’insieme sonorità più soffuse.
Protagonista del Concerto mozartiano sarà Alexander Lonquich, artista sempre più coinvolto, negli ultimi anni, nella duplice veste di direttore e solista. Fra le tappe più significative della sua lunga e fortunata carriera internazionale c’è proprio un meticoloso lavoro di approfondimento sui Concerti per pianoforte di Mozart realizzato con l’Orchestra da Camera di Mantova. L’ultimo successo discografico di Lonquich, che in passato ha inciso per EMI e ECM, risale al 2020 con l’integrale delle Sonate per violoncello e pianoforte registrate per Alpha Classics insieme a Nicolas Altstaedt.

I biglietti si possono acquistare sul circuito online del Teatro Comunale, presso la sede della OTO in Vicolo Cieco Retrone (0444 326598) e alla biglietteria del Comunale (0444 324442).

Gallio, non solo è meta per gli sport invernali, ma anche un viaggio sui luoghi della Grande Guerra

Nel cuore dell’Altopiano di Asiago, a soli 4 Km da Asiago, si trova Gallio, una meta gettonata per gli sport invernali. Per gli amanti dello sci di fondo e di discesa e per gli escursionisti, Gallio è uno dei Comuni con più attrattive sportive e turistiche. Ma si tratta di un luogo che ha anche itinerari culturali, perchè anche qui, come negli altri Comuni dell’Altopiano è stata vissuta la Grande Guerra.

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A Gallio la natura montana è spettacolare.

Gli sport praticabili

Nella stagione invernale Gallio è una meta ideale per gli amanti dello sci. Nel suo territorio comunale, infatti, si trovano le piste da sci alpino “Ski Area Le Melette” e “Valbella”, entrambe a soli 4,5 Km circa dal centro del paese, ed il Centro Fondo Campomulo in località Campomulo, con i suoi 150 km di piste da sci nordico. E’ possibile inoltre effettuare  lunghe ciaspolate sulla neve. A 1 km dal centro di Gallio, in località Pakstall, si trova la Valle dei Trampolini, così chiamata appunto per la presenza di trampolini per il salto con gli sci, tra i quali svetta, il famoso K95, dove si sono svolte gare internazionali.

In estate, sono numerosi gli itinerari immersi nella natura e percorribili a piedi, a cavallo ed in mountain-bike alla scoperta di veri e propri angoli di paradiso e dei luoghi della Grande Guerra. Molti di questi percorsi seguono le mulattiere costruite dai soldati nel corso della Prima Guerra Mondiale.

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Panorama su Gallio. Foto: Pag facebook Gallio Turismo

Cosa vedere

La prima cosa che spicca è il Santuario della Madonna del Buso, un tempio dedicato alla Madonna del Caravaggio, edificato nella prima metà del ‘800, distrutto dai bombardamenti del Primo Conflitto Mondiale e poi ricostruito. Nelle vicinanze del Santuario si trova uno strettissimo canyon scavato nella roccia dal torrente Frenzela.

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Il Santuario della Madonna del Buso. Foto: Pag. fb Gallio Turismo

E’ possibile inoltre passeggiare nella Valle dei Mulini della Covola, caratterizzata dall’abbondanza d’acqua, cosa rara data la natura carsica dell’Altopiano. Nel suo primo tratto la valle prende il nome dal torrente che la attraversa, la Covola. Passeggiando per i sentieri spiccano mulini e lavatoi nel passato adoperati per macinare i cereali e conciare le pelli.

C’è poi il Sentiero del Silenzio che si snoda nel bosco in località Campomuletto. Questo particolare itinerario, ha l’obiettivo di mantenere viva la memoria degli eventi bellici che hanno interessato l’Altopiano di Asiago negli anni 1915-18. Lungo il percorso sono state collocate 10 installazioni artistiche, ognuna corredata da una poesia o da uno scritto, con lo scopo di far riflettere i visitatori sull’orrore della guerra e sulla tragedia consumatasi proprio in quei luoghi cent’anni orsono.

E infine è molto suggestivo lo Spitzknotto o Spizegonotto, un enorme masso che, come l’Altar knotto di Rotzo, ricorda per la sua forma un altare.

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Le escursioni possono diventare esperienze uniche. Foto: pag fb Gallio Turismo

 

 

La versione teatrale di “Quasi Amici” con Massimo Ghini e Paolo Ruffini arriva al Teatro Comunale di Vicenza

Al Teatro Comunale di Vicenza, una doppia data per il nuovissimo spettacolo “Quasi amici” con Massimo Ghini e Paolo Ruffini, con regia e adattamento di Alberto Ferrari.

“Quasi amici”, tratto dall’omonimo film, è in programma sabato 4 e domenica 5 febbraio 2023 alle 20.45.

La versione teatrale del film francese del 2011 che ha conquistato le platee di tutto il mondo, tratto da una storia vera, è presentato per la prima volta sul palcoscenico, in Italia.

Il nuovissimo spettacolo, una produzione Enfiteatro che ha debuttato solo qualche settimana fa, ha ottenuto ovunque un grande successo; gli interpreti in scena con Ghini e Ruffini sono Claudia Campolongo, Francesca Giovannetti, Leonardo Ghini, Giammarco Trulli, Alessandra Barbonetti, Diego Sebastian Misasi; le scene sono di Roberto Crea, i costumi di Stefano Giovani, il disegno luci di Pietro Sperduti, le musiche di Roberto Binetti, i video di Robin Studio.

Anche per la Prosa, come per la Danza, riprendono al Tcvi le consuetudini e così sabato 4 e domenica 5 febbraio alle 20.00 al Ridotto, lo spettacolo “Quasi Amici” sarà presentato nell’Incontro a Teatro condotto da Antonio Di Lorenzo, giornalista e scrittore, che racconterà al pubblico i temi affrontati e “italianizzati” nello spettacolo, costruito con una particolarissima ambientazione, temi importanti come le differenze sociali, l’inclusione, la disabilità.

Lo spettacolo, così come il film, appassiona per la potenza della vicenda narrata e la complessità dei due protagonisti: l’incontro casuale tra due persone con un senso della vita completamente diverso che giungono però a stringere una vera, solida amicizia, attraverso un reciproco percorso di crescita. Provenienti da due mondi lontani, praticamente agli antipodi, i due capiranno di essere l’uno indispensabile alla vita dell’altro e sapranno costruire un legame fondamentale, necessario per curare le ferite che ciascuno porta dentro di sé. Ma tutto questo potrà avvenire solo quando entrambi ritroveranno la consapevolezza di poter finalmente ridere di sé e dell’altro, in totale libertà.

Lo spettacolo “Quasi amici” appartiene al filone “cinematografico” della stagione di Prosa, in cui dominano la leggerezza e l’ironia, l’aspirazione a sorridere con intelligenza, con titoli che rimandano agli omonimi blockbuster (“Tre uomini e una culla” il prossimo, in programma a marzo) per dire che i linguaggi dello spettacolo possono avere codici comuni che si nutrono reciprocamente, passando da un genere all’altro, trasmettendo nuova linfa e inaspettate suggestioni agli spettatori.

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Massimo Ghini e Paolo Ruffini

Nella versione teatrale di “Quasi Amici” i due protagonisti, Massimo Ghini e Paolo Ruffini, si calano alla perfezione, con il loro personalissimo modo di interpretare i personaggi che animano la vicenda, nei ruoli che furono di François Cluzet e Omar Sy, due uomini molto diversi per carattere ed estrazione sociale, ma che troveranno insieme il modo di aiutarsi e riuscire a cambiare le proprie vite. Nel 2011 in Francia il film, diretto da Olivier Nakache ed Eric Toledano, sbancò il botteghino con quasi venti milioni di spettatori, vinse un César e fu un successo internazionale, tanto che nel 2017 uscì il remake in lingua inglese “The Upside”. 

Philippe, interpretato da Massimo Ghini, è un uomo molto ricco, intelligente, affascinante, che vive di cultura e che soddisfa il suo narcisismo con le sue attività intellettuali; il destino ha voluto, per contrappasso, relegarlo a solo cervello, dopo averlo fatto precipitare con il parapendio rendendolo tetraplegico, completamente prigioniero del suo corpo. Driss, l’uomo che arriva per assisterlo, è interpretato da Paolo Ruffini ed è l’esatto contrario: un uomo che entra ed esce di galera, sin da ragazzino, svelto, con una intelligenza vivace e una cultura fatta sulla strada, ma che preferisce porre il suo corpo avanti a tutto, per lasciare il cervello quieto nelle retrovie. Questi due uomini si incontrano per caso, ma diventeranno indissolubili l’uno per l’altro, l’uno indispensabile alla vita dell’altro, in grado di lenire le ferite fatali che ognuno porta dentro di sé. Se uno usa il corpo e uno la mente, occorre dunque una ridistribuzione dei talenti. 

Nello spettacolo i due ruoli sono dunque equiparati, mentre nel film erano sbilanciati a favore di Driss, il giovane badante che arriva per aiutare Philippe in sedia a rotelle; questo per poter scavare di più nel loro rapporto e portare alla luce quella leggerezza calviniana in grado di farci emozionare e ridere fino alle lacrime, per arrivare in profondità, grazie alle loro riflessioni, alle loro vite così diverse e alle differenze dei mondi da cui provengono. Ma si ride anche molto, in questo spettacolo, perché la ricerca della leggerezza passa per la comicità. E ridere sarà il veicolo segreto per arrivare a comprendere i meccanismi che regolano la vita e i destini di questa strana coppia: ridere di sé e dell’altro per conoscere meglio chi ci sta davanti. Così accade che “la loro amicizia diventi una centratura, per vivere ed essere uomini un po’ più consapevoli della meraviglia e poter ridere, finalmente, a crepapelle” (Alberto Ferrari, note di regia).

Enego, dalle piste da sci alle testimonianze della Grande Guerra

Un’affascinante località montana è Enego, il più orientale del 7 Comuni dell’Altopiano di Asiago. Si estende dai margini della Valsugana al massiccio dell’Ortigara. Mentre Rotzo è conosciuto per essere il paese dlle patate e per i magnifici paesaggi montani, Enego è conosciuto per le piste da sci e per i boschi ricchi di maestosi pini. Si tratta inoltre di una località montana che presenta numerose testimonianze della Grande Guerra.

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Uno scorcio sulle montagne dell’Altopiano. Foto: Marta Cardini

Cosa vedere

Oltre ai panorami montani e alle piste da sci, a Enego è possibile vedere la Torre Scaligera di Piazza San Marco. La torre, alta circa 22 metri, è l’unica rimasta intatta delle quattro torri originali poste agli angoli del castello a forma quadrangolare eretto dai Veronesi Scaligeri. Unica costruzione medievale presente in tutto l’Altopiano di Asiago Sette Comuni, è sopravvissuta negli anni a bombardamenti ed eventi catastrofici e indiscutibilmente rappresenta, assieme al Duomo di Santa Giustina, il simbolo di Enego.
C’è poi il Forte Lisser, un’imponente opera di architettura militare costruita tra il 1911 ed il 1914 allo scopo di controllare la Valsugana, che fu ribattezzata dai corrispondenti di guerra il “Leone dell’Altipiano”.

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Piazza San Marco e la Torre Scaligera. Foto: Instagram enego_altopiano Pro Loco Enego

I segni delle vicende storiche della Grande Guerra sono visibili anche nel Forte Coldarco e nella Batteria di Coldarco di sotto, complesso di circa 300 metri di galleria scavata nella roccia viva, ristrutturato negli ultimi anni e anch’esso visitabile.

In piazza del Popolo, nel centro del paese, si può ammirare il Duomo di Santa Giustina, dall’aspetto ottocentesco. Mentre la Piana di Marcesina, situata a 1.300 metri d’altezza, è un vasto pianoro con ampi pascoli e maestosi boschi, meta di escursionisti e gitanti sia d’estate che d’inverno.

La storia

Grazie alla sua posizione, ai limiti dell’altopiano di Asiago e affacciata sul Canale di Brenta e la Valsugana, la zona di Enego suscitò l’interesse della civiltà sin dall’epoca romana. Probabilmente fu in questo periodo che sorse un primo insediamento, una stazione di sosta e rifornimento lungo la strada che conduceva in Germania. Attorno al III secolo, quando si verificarono le prime invasioni barbariche, venne eretto un fortilizio di cui restano i ruderi in località Bastia.

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I boschi di maestosi pini sono affascinati sia d’inverno che d’estate. Foto: Instagram enego_altopiano Pro Loco Enego

Nel 1508 Enego venne occupata dall’esercito della Lega di Cambrai, ma tornò presto alla Serenissima. Tra il Cinque e il Seicento insorsero delle controversie con i vicini di Grigno sul possesso della Marcesina e del monte Frizzon. Con la caduta della Repubblica di Venezia e l’arrivo di Napoleone la secolare federazione fu sciolta.

Durante la grande guerra l’altopiano si venne a trovare lungo la linea del fronte e la stessa Enego subì gravi devastazioni. Mentre i soldati combattevano aspramente, specie attorno al monte Ortigara, la popolazione civile fu costretta ad abbandonare il paese per stabilirsi profuga nel sud dell’Italia.

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Una pista da sci ad Enego. Foto: Instagram enego_altopiano Pro Loco Enego