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L’oro di Vicenza. Il XVII secolo, l’epoca delle riforme e la passione per lo sfarzo

Prosegue il viaggio di L’altravicenza con l’oro grazie alla pubblicazione a puntate della tesi di laurea di Anna Milan “Dalla Fiera al Museo dell’oro: oreficeria e gioielleria a Vicenza” pubblicata a puntate sul numero 10, settembre-ottobre 2022, di Storie Vicentine.

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Nozze di Caana dipinto nel 1663 da Luca Giordano (1634 – 1705)

Dopo un florido periodo di benessere, Vicenza, nei primi decenni del XVII secolo, dovette affrontare una situazione aggravata dall’esplosione della peste e dal regresso economico della Serenissima, la cui potenza mercantile si indebolì fino a perdere il suo monopolio. Nonostante la situazione non fosse positiva, tra i patrizi veneziani e i nobili vicentini esplose lo sfarzo. L’aristocrazia veneta visse staccata dalla realtà, quasi in un clima di continuo sfoggio, malgrado i continui decreti suntuari. Questi documenti, i lasciti degli iscritti alle confraternite e i testamenti privati, oggi diventano un utile strumento di indagine per conoscere l’accessorio ornamentale. Da essi apprendiamo che nel Seicento erano in uso le borchie che trattenevano i drappeggi dei tessuti ricamati con oro, argento e impreziositi da pietre, perle e corallo; i bottoni e i bracciali cominciavano ad aumentare a causa del cambiamento delle maniche dell’abito; erano in auge varie fogge di orecchini e collane a catena lunghe o corte, con o senza perle. Gli anelli erano indossati dalle autorità religiose, anche in tutte le dita. Gli uomini indossavano sui cappelli dei fermagli d’oro. I cavalieri esibivano l’oro nelle catene, nelle spade, nei pugnali e nelle cinture. Inoltre, nel gioiello del XVII secolo, continuava ad imperare il soggetto floreale: fiori smaltati o impreziositi dalle pietre preziose, altri ornati da perline infilate su perni d’oro, alcuni aperti e altri in boccio. Per poter individuare con maggiore precisione gli accessori inseriti nel costume del XVII secolo, occorre, ancora una volta, rivolgere l’analisi alla pittura e alle opere a fresco nelle ville dove i pittori, nel ritrarre gli uomini e nel riprodurre le immagini del proprio tempo, ci trasmettono tutta la ridondanza e la ricchezza del Barocco, uno stile che era un tutt’uno con quello sfarzo tanto condannato dalle leggi suntuarie.

Se guardiamo alle testimonianze conservate presso la Pinacoteca di palazzo Chiericati possiamo vedere ad esempio come nelle Nozze di Cana, dipinto nel 1663 da Luca Giordano (1634 – 1705)63, vengano riprodotte delle fogge di gioielli in stile tardo rinascimentale e orecchini di perle a goccia. I fermagli femminili con cornice a volute e perla pendente, hanno al centro pietre rosso vivo. Il nobile al centro del dipinto indossa un fermaglio rotondeggiante con perla pendente e altre infilate a lato. Il cambiamento che più incise nello stile del gioiello seicentesco venne però dal contributo delle pietre e dalla scoperta di nuovi tagli, una moda questa che imperversava in tutta Europa. In Dama col guanto, eseguito intorno al 1645, Giulio Carpioni (1613 – 1678) ci propone la moderna interpretazione del fermaglio che trattiene il mantello. L’accessorio ha una linea semplificata, con la lastra a base quadrata contenente al centro una mezza sfera che dal colore descritto potrebbe risultare in cristallo di rocca, anticipando il gusto neoclassico ottocentesco. I gioielli riprodotti in queste opere sono propri degli ambienti nobili. Per quanto riguarda il gioiello popolare non abbiamo a disposizione immagini significative, ma possiamo recuperarne informazioni dai documenti dei lasciti. Nonostante le condizioni di vita precarie la popolazione, sia pur su abiti di cotone e lana grezza e a volte a piedi scalzi, non trascurava di ornarsi con nastri e oggetti, di scarso valore materiale, ad imitazione delle forme di quelli ricchi.

oroLa semplice corona del rosario, ornamento dalla duplice funzione di espressione di un atteggiamento religioso e di abbellimento, già diffuso tra i nobili, diventa per le popolane un gioiello ricorrente. Spesso tra i grani vi erano inserite delle medagliette in metallo vile, realizzate in alpacca o piombo e in argento per chi poteva permetterselo. La storia racconta di avvicendamenti che riguardarono le botteghe degli orefici che, tra il Seicento e il Settecento, subirono delle modifiche. Da un documento del 1666 sappiamo che due botteghe, situate sotto il palazzo della Ragione a Vicenza, furono divise in quattro e terminavano al “Canton del Volto di Mezzo”. Circa un secolo dopo, sotto la gastaldia di Antonio Marinali e Francesco Marchioretto, tra il 1746 e 1752, quattro botteghe erano poste sotto la Basilica e risultavano affittate ai signori Simeoni Antonio, Lucillo Pilatti che sarà poi sostituito da Giacinto Vieri, Vincenzo Marangoni, Giacomo Vigorio e Lorenzo Montagnana. Per il periodo che va dal 1746 al 1800 l’attività della fraglia vicentina, i regolamenti emanati per l’attività orafa e, il numero degli iscritti furono sintetizzati nella Relazione delli Pubblici Rappresentanti di Vicenza al Magistero dei Provveditori in Zecca in materia di orefici. Nel 1785 al provveditore in zecca risulteranno 27 iscritti e fra questi non erano rari gli orefici non vicentini.

Il magistero rinnovò e adattò ai tempi i regolamenti fissati nei secoli precedenti, inerenti non solo l’iscrizione alla fraglia ma anche la manifattura degli oggetti in metallo prezioso, riconfermando la proibizione della vendita di oggetti preziosi da parte dei non iscritti alla fraglia e testimoniando un continuo rispetto della materia di vendita dei preziosi. Tuttavia tutte le confraternite, compresa quella degli orefici, furono soppresse nel 1807 da Napoleone; tale decisione non implicò la fine dell’attività orafa che, infatti, venne gestita dal nuovo organismo voluto dall’impero francese: l’Istituto della Camera di Commercio delle arti e manifatture. Per quanto riguarda le fiere, nel XVIII secolo, la municipalità vicentina si preoccupò che fossero spostate da piazza dei Signori a Campo Marzo, allo scopo di sottrarle al pericolo di incendi. Malgrado la soppressione della confraternita, l’oro continuò ad essere lavorato come elemento decorativo ed investimento economico. Le richieste del metallo prezioso nel Seicento erano infatti in continuo aumento e le poche quantità che venivano estratte nel nord Italia, come a Recoaro o a Trissino nel vicentino, erano ormai esaurite ed era impossibile soddisfare la domanda.

Per questo motivo alcune riserve furono create, ancora in età rinascimentale con gli ori conquistati o scambiati durante i viaggi in Oriente, ma il grande contributo aurifero giungeva dall’Europa e dagli stati d’America, soprattutto dal Brasile, facendo anche il giro per il Baltico. Dopo il 1700 l’oro cominciò a diventare ancora più raro ma, malgrado questo, su di esso si basava il commercio internazionale e la Zecca di Venezia, che nel Veneto si occupava di gestire l’oro, diventò un istituto autorevole, un punto di riferimento per quasi tutti gli altri organismi operanti nel territorio. L’interesse al metallo non era più riservato a pochi: i grandi stati sentirono il bisogno di possedere una riserva aurea, i singoli cittadini, da parte loro, iniziarono a considerare l’oro un investimento oppure un elemento di distinzione e di piacere tutto personale. Nel XVIII secolo, a livello ornamentale, il gioiello si alleggerì. Le montature dei gioielli con pietre diventarono più delicate in modo da esaltare al massimo lo splendore delle pietre incastonate una vicina all’altra.

Comparvero i motivi floreali e gli orecchini pendenti a girandola, impreziositi dalle pietre tagliate oppure incise con figure classicheggianti. Il lavoro di sbalzo e fusione con pesanti volute si ridusse. Primeggiava l’eleganza della lavorazione a traforo che alleggeriva l’oggetto e gli forniva nuove trasparenze: i riccioli in filo sembravano dei pizzi sottili che trattenevano zaffiri, rubini e diamanti. Le perle non scomparvero mai dall’accessorio ornamentale, si diffusero quelle scaramazze e il loro coinvolgimento in eleganti abbinamenti raggiunse una notevole sintesi. I grandi cambiamenti riguardavano soprattutto il gioiello profano, il cui lo stile doveva essere adattato alle mutate esigenze del costume. Per l’analisi delle mode di questo periodo storico anche gli affreschi delle ville vicentine diventano lo strumento di ricerca essenziale.

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Affreschi di G.Tiepolo a Villa Valmarana ai Nani

Nel Settecento le famiglie Loschi, Valmarana e Cordellina decisero di affrescare le ampie pareti delle loro ville. A svolgere tale compito vennero chiamati due tra i pittori più validi dell’epoca quali Giambattista Tiepolo (1696 – 1770) e il figlio Giandomenico (1727 – 1804). Tra i due Tiepolo esiste una sostanziale differenza: il padre dedicherà la sua vita ad interpretare il mito di corte e a ritrarne i protagonisti, mentre Giandomenico lentamente si allontanò da questa linea espressiva influenzato dal nuovo e intenso fermento popolare. Proprio per queste due diverse posizioni, ci troviamo di fronte a due diverse raffigurazioni del gioiello: quello nobiliare, quasi “mitico” realizzato dal Tiepolo padre e quello maggiormente realistico ritratto dal Tiepolo figlio.

Il ciclo di affreschi di Giambattista Tiepolo a villa Loschi Zileri Motterle, a Monteviale di Vicenza, costituisce una delle più ricche fonti documentarie sul gioiello in voga nel Settecento. Giambattista Tiepolo portò a termine la decorazione dello scalo- ne e della sala principale della villa nell’autunno del 1734. Tra i numerosi dipinti l’affresco raffigurante la Liberalità dispensatrice di doni, costituisce la più esaustiva raccolta di oreficeria del Settecento riprodotta con la tecnica pittorica. In questa opera si può osservare una cintura a fascia con un ritratto a cammeo che sorregge parte del costume della Liberalità che raccoglie e dispensa perle e pietre preziose. Nell’Umiltà scaccia la Superbia, altro affresco eseguito da Giambattista nel 1734, nella sala principale della villa LoschiZileri, la figura della Superbia è vestita in rosso con file di perle rade che attraversano il corpo. L’Umiltà, con lo sguardo abbassato, si priva dei gioielli allontanandoli con il piede. In questo affresco il Tiepolo utilizza i gioielli non come oggetto d’ornamento, ma come metafora di comportamenti superbi e altezzosi.

La decorazione ad affresco di Giambattista Tiepolo presso la villa Cordellina, a Montecchio Maggiore, si estende sulle pareti e sul soffitto del salone. La data di esecuzione degli affreschi, commissionati dal celebre giureconsulto Carlo Cordellina, si desume da una lettera dello stesso Giambattista Tiepolo, indirizzata a Francesco Algarotti da Montecchio il 26 ottobre 1743, nella quale il pittore informa il suo corrispondente di aver già terminato otto chiaroscuri e la metà del soffitto, tanto che spera di completarlo per il 10 o il 12 novembre: nessun accenno agli affreschi parietali che si deve quindi presumere siano stati eseguiti nella primavera dell’anno seguente. Sulla parete est è raffigurata la Continenza di Alessandro dove la dama dal volto supplichevole indossa degli ori sul capo che fungono da fermaglio per trattenere il mantello.

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Contadini a mensa di Giandomenico

Quest’ultimo è esaltato al centro da un cammeo con cornice decorata a figure. La bianca figura nella pietra dura si intona con le tre perle pendenti alla base (stile a girandola). Il mantello è trattenuto da due borchie laterali ovali, tra di loro unite da una fascia arricchita da perle e pietre incastonate. I gioielli realizzati sugli affreschi di villa Cordellina si fanno visibilmente più ricchi e abbondanti, alcuni particolari sono frutto dell’immaginazione del pittore stesso, tuttavia lo stile ricorda quello del tempo. In villa Valmarana ai Nani operarono, nel 1757, entrambi i Tiepolo ed è possibile notare le differenze prima descritte. Il committente volle per la decorazione della palazzina scene tratte dai poemi classici e cinquecenteschi, più consone all’aulico pennello di Giambattista, e per la foresteria per lo più episodi di vita quotidiana, dove il trentenne Giandomenico avrebbe potuto dare sfoggio della sua collaudata vena pittorica estremamente realistica. In Contadini a mensa di Giandomenico la contadina indossa un abito popolare veneto e porta al collo sottili fili di stoffa o catena leggera che cadono a coprire il petto e una collana in corallo che stringe il collo.

Dalla tesi di laurea di Anna Milan “Dalla Fiera al Museo dell’oro: oreficeria e gioielleria a Vicenza” pubblicata a puntate su Storie Vicentine n. 10 settembre-ottobre 2022


In uscita il numero di Giugno 2023
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“Il sogno di diventare una ginnasta”… ritmica: il tema del saggio di fine anno di Vicenza Ginnastica

Si è quasi concluso un altro anno sportivo della Vicenza Ginnastica, Associazione Sportiva presieduta da Santa De Rosso, il “Ventitreesimo”, un anno ricco di soddisfazioni e di impegno, incominciato a settembre con la partecipazione alla manifestazione “Camminando tra gli sport”, proseguito poi con le diverse esibizioni natalizie delle 440 atlete dell’associazione organizzate nelle otto zone della Vicenza Ginnastica ed infine con la partecipazione allo stage di ginnastica ritmica delle ginnaste frequentanti i gruppi agonistici, appuntamento di alto livello tenuto dalla campionessa olimpica Laura Vernizzi.

A marzo vi è stata la gara sociale dedicata alle ragazze frequentanti i terzi corsi e la partecipazione alle gare federali e alle gare del circuito A.i.c.s. dove le ginnaste del settore promozionale ed agonistico sono riuscite a raggiungere numerosi podi e ad ottenere numerosi riconoscimenti.  Per finire sabato 27 maggio è stato un successo corale il saggio pomeridiano dedicato alle allieve più piccole e al saggio serale riservato alle allieve più grandi.

Ci eravamo fermati al saggio del 2019, un saggio spettacolare, in grande, sui Queen (qui il saggio sull’Europa Unita, minuto per minuto, del 2015, ndr), ma quest’anno la direttrice tecnica Marta Magrin, figlia del mai abbastanza rimpianto Maurizio, e le numerose istruttrici della Vicenza Ginnastica hanno saputo migliorarsi. Un vero e proprio spettacolo è quello che si è potuto vedere al palazzetto dello Sport di Vicenza.

L’emozione, la paura, l’agitazione era tanta soprattutto perché con l’assenza di esibizioni dovuta al Covid, si era persa la continuità. Un saggio dal titolo “Il sogno di diventare una ginnasta” (una clip è pubblicata in copertina così come nel nostro canale YouTube LaPiù Tv e sull’omonima app scaricabile gratuitamente dagli store Android e iOs).

Una storia interpretata dalle tantissime allieve che, con i loro esercizi, musiche, coreografie e costumi, hanno saputo emozionare il numerosissimo pubblico che ha visto come protagonista “Stella” una bambina che aveva un sogno: il sogno di diventare una ginnasta e che, con tanta dedizione, impegno e forza è riuscita ad esaudire il suo desiderio. “Stella” sabato è stata interpretata da Ginevra Pozzato, un’allieva che molti anni fa aveva indossato il primo costumino verde nella sede di Laghetto e, grazie alle sue capacità e doti fisiche e dopo un percorso di impegno e di sacrificio, è riuscita ad entrare nella squadra nazionale Junior.

«Quello appena trascorso è stato un saggio magico ed emozionante» commenta la direttrice tecnica Marta Magrin mentre ancora l’energia della musica, i boati delle allieve, gli scroscianti applausi del pubblico, il gioco di luci accompagnano la parte finale delle esibizioni.

Come dimenticare – aggiunge Marta nella bolgia del palasport – quegli occhi emozionati di centinaia e centinaia di ginnaste pronte a dare il massimo e che non vedevano l’ora di esibirsi in un palazzetto dello Sport gremito di spettatori, tra mamme, papà nonni, nonne e appassionati di questa disciplina. I battiti del cuore, l’emozione, i brillantini sui capelli, i chili di trucco, il profumo del gel per lo chignon. Ricordi indelebili che sicuramente ci accompagneranno per tutta la vita. È un team di insegnanti quello della Vicenza Ginnastica con tanta voglia di condividere un’unica passione “la ginnastica ritmica”, un bel gruppo di insegnanti e credo proprio che la strada, sia pure costruita sull’impegno di tutti noi, possa essere solamente lastricata di gioie”.

Al termine della serata, come ormai di consuetudine, è stato consegnato il premio in ricordo del fondatore e presidente Maurizio Magrin per il grande impegno, la forza e la passione sportiva. Quest’anno a ricevere il premio è stata Lisa Gerolimon ginnasta frequentante il gruppo promozionale di Altavilla Vicentina.

Ma l’anno sportivo 2022/2023 della Vicenza Ginnastica non è ancora concluso.

Sono, infatti, in programma, le Finali Nazionali di Ginnastica Ritmica organizzate dall’A.I.C.S. di Biella in programma dal 15 al 19 giugno e le finali Nazionali della Federazione Ginnastica d’Italia a Rimini programmate sempre per fine giugno.

Museo Diocesano e Museo del Gioiello di Vicenza: alla scoperta della corona e del pettorale della Madonna di Monte Berico

Una visita guidata originale tra Museo Diocesano e Museo del Gioiello alla scoperta  della corona e del pettorale della Madonna di Monte Berico.  

Sabato 10 giugno l’occasione unica per conoscere da vicino la storia e le particolarità dei due gioielli che dal 1900 sono pregiato emblema della devozione della città di Vicenza per la sua santa protettrice, assieme ai tre capolavori di arte sacra che li hanno ispirati. Un tesoro molto amato dai vicentini, esempio magistrale  delle abilità degli artigiani orafi cittadini.  

“La corona e il pettorale della Madonna di Monte Berico: una storia vicentina” è un percorso cross museale  che da Piazza del Duomo a Piazza dei Signori accompagna i visitatori nel racconto delle origini del culto della  Santa Patrona, indissolubilmente intrecciato alla storia della gioielleria vicentina. I due gioielli devozionali che  la celebrano – corona e pettorale – furono magistralmente composti dal celebre artigiano orafo Angelo  Marangoni, nella bottega sotto le logge della Basilica Palladiana (attuale sede della Gioielleria Soprana), a  partire da opere di oreficeria, ex voto e doni preziosi delle famiglie più importanti della città.  

“Siamo di fronte a un tesoro cittadino dal valore inestimabile che è parte integrante dell’identità culturale  dei vicentini – sottolinea Michela Amenduni, direttore gestionale del Museo del Gioiello e responsabile  marketing della divisione Jewellery & Fashion di Italian Exhibition Group. – Un capolavoro di alta oreficeria  tanto originale quanto ricco di significati che siamo onorati di ospitare al Museo del Gioiello grazie alla gentile  concessione della comunità dei frati di Monte Berico dell’ordine dei Servi di Maria, e lieti di far conoscere  meglio a cittadini e turisti con una collaborazione col Museo Diocesano che vuole essere un contributo  all’offerta turistica e culturale del nostro territorio”.  

IL TOUR GUIDATO  

Alle ore 10 e alle ore 15 la partenza da Piazza del Duomo, sede del Museo Diocesano (è richiesta la  prenotazione). Qui i partecipanti potranno ammirare tre straordinari manufatti: il Reliquiario della Sacra  Spina (XIII-XIX secolo), con la sua forma unica ad albero della vita frutto di lavorazioni attraverso quattro 

secoli, il Calice della chiesa di Santa Corona (XVII secolo), e la Croce astile della Cattedrale (XV secolo). Sono  i pregiati pezzi di arte sacra che furono presi a ispirazione dalla commissione scelta nel 1899 per la  realizzazione della corona apposta sul capo della statua della Beata Vergine – oggi collocata sull’altare  maggiore del Santuario di Monte Berico – dal patriarca di Venezia, mons. Giuseppe Sarto, il 25 agosto del  1900. Un evento che associò all’iconografia della Mater Misericordiae, che protegge i fedeli sotto il suo  manto, quella imperiale della Vergine Regina Coeli.  

“Il Museo Diocesano – spiega il suo direttore, mons. Francesco Gasparini – ha pensato di proporre questo  tour partendo da piazza del Duomo, perché in esso sono conservati questi tre pezzi straordinari che sono tra  i pochi che si sono salvati dalla distruzione napoleonica, che ha fatto fondere tutti gli oggetti d’oro e d’argento  di proprietà ecclesiastica. C’è un collegamento unico, quindi, tra il Diocesano e il Museo del Gioiello. Ho  chiesto ai Servizi Educativi del nostro Museo di progettare e condurre il percorso, perché proprio al Museo  Diocesano – con la preziosa collaborazione della gioielleria di Stefano Soprana – i due capolavori dell’arte  orafa vicentina furono esposti nella mostra Il gioiello di Vicenza. Arte orafa nel Museo Diocesano dall’8  settembre al 1 ottobre 2006”.  

Arrivati al Museo del Gioiello, i visitatori potranno ammirare la corona e il pettorale, i due capolavori dell’arte  orafa vicentina realizzati a partire da gioielli preesistenti di grande valore e di pregiata fattura. Tra questi  l’anello donato da Papa Leone XIII, incastonato nella sua interezza sul fronte della corona a sancire la  solennità dell’evento, o la croce donata al santuario dal vescovo Marco Zaguri che risplende al centro del  pettorale, in un’armoniosa combinazione di raffinate creazioni, scelte tra le migliaia di offerte giunte per  l’incoronazione e poi incastonate e fuse tra loro. L’unicità della composizione realizzata a partire da orecchini,  anelli, spille, croci in oro giallo, diamanti, peridoto, ametista, rubini, zaffiri, perle e pietre colorate, svela  tecniche e innovazioni orafe di grande fascino che saranno illustrate dal gioielliere Stefano Soprana, che ha  curato il restauro delle due opere realizzato, poco prima del Giubileo del 2000, dall’orafo Giovenzio Posenato.  

“È stato un dono per me potermi occupare del restauro, – commenta Soprana – un progetto di grande  impatto emotivo e formativo: ho potuto ricostruire parte della storia di fede e della tecnica orafa dietro ai  gioielli. Dalle maestranze impiegate all’epoca, come incastonatori e cesellatori, alle lavorazioni innovative  che già suggerivano l’inclinazione alla produzione industrializzata che è il dna del nostro distretto”.  

Tra le curiosità tecniche attorno alla realizzazione dei gioielli, l’arabesco che decora a contrasto la calotta aurea  della corona: ottenuto utilizzando per metà oro e per metà argento, è un primo tentativo di creare l’oro bianco  che troverà piena applicazione a partire dagli anni Venti. Un’innovazione che attesta l’abilità raggiunta dagli  artigiani orafi della città.  

LA DEVOZIONE ALLA MADONNA DI MONTE BERICO  

L’origine dell’affezione alla Madonna di Monte Berico, protettrice della città di Vicenza, risale al 1428 quando  – si narra – sul colle adiacente al centro abitato apparve a una donna per annunciarle la fine della peste. Allo  stesso anno risale la costruzione della chiesa a lei consacrata, divenuta poi il Santuario che tradizionalmente  l’8 settembre accoglie i pellegrini devoti. La dedizione alla Santa si radicò profondamente nella tradizione e  nella cultura dei vicentini, al punto che nel 1978 papa Paolo VI la proclamò patrona della città.  

INFO E PRENOTAZIONI: [email protected]; tel. 0444226400 (fino ad esaurimento posti). Costo della  visita guidata: €12,00, comprensivi dell’ingresso ai due musei. Il tour dura circa 1 ora, due le partenze: alle  ore 10.00 e alle ore 15.00 dal Museo Diocesano. È richiesta la prenotazione. 

IL MUSEO DEL GIOIELLO  

Inaugurato a fine 2014 al piano nobile della Basilica Palladiana, nel cuore del distretto orafo vicentino, il Museo del  Gioiello è riferimento culturale dell’intero settore orafo-gioielliero. Le nove sale tematiche dell’allestimento dello studio  di Patricia Urquiola permettono di scoprire le meraviglie della gioielleria Made in Italy grazie alla mostra permanente 

“Gioielli Italiani”, che celebra le migliori storie orafe nazionali con pezzi iconici firmati da artisti, artigiani, designer e  maison da tutti i poli manifatturieri della penisola. Laboratori per famiglie, attività formative, workshop ed eventi  contribuiscono ad arricchire l’offerta artistica e culturale della città con l’obiettivo di valorizzare un patrimonio unico,  coinvolgendo e avvicinando le giovani generazioni alla tradizione orafa. Il Museo del Gioiello è un progetto di Italian  Exhibition Group, gestito con il Comune di Vicenza.  

Orari di visita dal martedì al venerdì dalle 10:00 alle 13:00 e dalle 15:00 alle 18:00, sabato e domenica dalle 10:00 alle  18:00. Ingresso intero €10, ridotto €8. Per conoscere i vantaggi della “Vicenza Card” e tutte le convenzioni  www.museodelgioiello.it. Info sul calendario attività e prenotazioni: +39 0444 320799, [email protected]

IL MUSEO DIOCESANO “Pietro G. Nonis” di Vicenza 

Il Museo Diocesano di Vicenza – inaugurato nel 2005 – è situato nel “cuore sacro” della città, la piazza del Duomo, allestito all’interno del Palazzo Vescovile.  

Il grande spazio espositivo, che abbina un’architettura antica ad un allestimento contemporaneo, raccoglie oltre  duemila anni di testimonianze di arte sacra vicentina. Il Museo è allestito con eleganti forme di comunicazione  contemporanea, in un sistema espositivo concepito sia come spazio di conservazione che luogo di conoscenza.  Il percorso presenta una preziosissima sezione di archeologia cristiana con provenienze dalle più antiche chiese del  territorio vicentino: la Cattedrale di Vicenza e la basilica dei Santi Felice e Fortunato. La collezione di dipinti è  testimonianza dell’arte vicentina tra il ‘400 e l’800 come pure la raffinata raccolta di oreficerie sacre presente nello  scrigno della Loggetta Zeno (1494).  

Nella selezione di paramenti liturgici emerge il raro Piviale dei Pappagalli (XIII sec.). Notevole il materiale scrittorio  proveniente dagli archivi del Capitolo e il corredo liturgico della cappella di Villa Fogazzaro a Montegalda.  Di grande interesse le collezioni di mons. Nonis tra cui spiccano le ricchissime raccolte etnografiche, provenienti da Asia,  Africa, Oceania e Sud America, le coloratissime sfere di minerali e le croci etiopi collocate nei sotterranei del Palazzo  Vescovile dove troviamo resti di strutture medioevali e reperti di epoca romana.

“Cattive immagini”, a Vicenza la presentazione del libro di Valeria Bucchetti

Martedì 6 giugno alle 17.30, nella sede della Biblioteca civica Bertoliana di Palazzo Cordellina in contra’ Riale 12, verrà presentato il libro “Cattive immagini. Design della comunicazione, grammatiche e parità di genere” di Valeria Bucchetti.

L’evento che vedrà la partecipazione dell’autrice affiancata da Laura Badalucco e Barbara Pasa, docenti dell’Università Iuav di Venezia, rientra nel calendario di iniziative legate al 150° anniversario della nascita di Elisa Salerno.

L’iniziativa è promossa dall’associazione Presenza Donna e dalla Congregazione delle suore Orsoline del Sacro cuore di Maria, con il patrocinio del Comune e della Diocesi di Vicenza, e in collaborazione con la civica vicentina.

Il volume Cattive immagini di Bucchetti si interroga sui modi in cui il design della comunicazione sostiene il potere dell’androcentrismo, sulle relazioni tra cultura della parità e sul mondo della rappresentazione che andiamo a costruire. Attraverso la lettura di alcuni artefatti comunicativi, di cui ci si avvale per far circolare informazioni, dati, merci e servizi, viene analizzato il mondo delle immagini e fatti emergere gli elementi costitutivi di una memoria visiva di cui si nutrono tanto la nostra cultura quanto la nostra quotidianità.

Valeria Bucchetti è professoressa ordinaria al dipartimento di Design del Politecnico di Milano. Insegna Design della comunicazione nel corso di laurea in Design della comunicazione, del quale è coordinatrice, e Design della comunicazione e culture di genere nei corsi di laurea magistrale della Scuola del design. Visual designer, laureata in Dams a Bologna, dottore di ricerca in disegno industriale, è autrice di numerosi saggi e membro del collegio di dottorato in design e del consiglio scientifico del centro di ricerca interuniversitario Culture di genere. La sua attività di ricerca è orientata in particolare negli ambiti dell’identità visiva e dell’identità di prodotto, dell’identità di genere e degli stereotipi comunicativi e, più in generale, dei sistemi di comunicazione visuali.

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Fonte: Comune di Vicenza

L’oro di Vicenza. Il Rinascimento

Il Rinascimento, anche a Vicenza, fu un momento di fioritura delle arti, dell’architettura e della letteratura. Soprattutto le influenti famiglie della nobiltà vicentina si interessarono al mondo delle arti e cominciarono a collezionare alcune cose, in particolare gli artificialia, realizzati con tecniche complicate o segrete, provenienti da ogni parte del mondo e che suscitavano grande interesse e meraviglia.

Nel 1404 Vicenza si sottomise spontaneamente a Venezia. Fino al 1797 la Serenissima ebbe uncontrollo relativamente tranquillo sul territorio vicentino. Le due città avevano obblighi reciproci e distinte libertà; a Venezia interessava ottenere abbastanza denaro dalla colonia per la realizzazione delle sue imprese.

All’inizio del XV secolo si assistette ad una espansione della produzione mineraria e metallurgica, soprattutto di argento, oro, ferro e rame. Dalle cronache, dai rapporti di visite effettuate dai funzionari della Repubblica di Venezia, sappiamo di alcuni giacimenti di argento presenti nell’alto vicentino che attirarono l’attenzione della Serenissima.

Il Rinascimento, anche a Vicenza, fu un momento di fioritura delle arti, dell’architettura e della letteratura. Soprattutto le influenti famiglie della nobiltà vicentina si interessarono al mondo delle arti e cominciarono a collezionare alcune cose, in particolare gli artificialia, ovvero gli oggetti creati dalle mani dell’uomo, interessanti per la loro originalità ed unicità, realizzati con tecniche complicate o segrete, provenienti da ogni parte del mondo e che suscitavano grande interesse e meraviglia.

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Giovanni Antonio Fasolo,Ritratto di Giuseppe Gualdo con i figli Paolo e Paolo Emilio,1566-67,Vicenza

Una delle personalità più interessanti ai fini del nostro discorso è ad esempio il conte Girolamo Gualdo, nato in Vicenza nel 1492 e morto nel 1566, che fu amico di alcuni suoi insigni concittadini, quali Valerio Belli e Giangiorgio Trissino. La sua casa, dove volle il “Giardino di Cha Gualdo”, era situata in contrà Pusterla.

Qui creò uno spazio pensato come un museo all’aperto dove la collezione di opere d’arte era divisa cronologicamente tra gli autori più significativi nell’attività artistica di Vicenza. L’abitazione – museo, oggi distrutta, si componeva di due edifici speculari con porticati e logge, affrescati all’esterno e all’interno prospicienti un cortile scoperto che immetteva nel largo giardino abbellito di cippi, statue e sculture.

Nello studiolo erano raccolti gli oggetti più insoliti: ampolle, sigilli, carte di tarocchi, anelli, fossili, minerali, reliquie e talismani, monete,gemme, bronzi, bassorilievi, modelli di gesso. Dell’amico Valerio Belli, famoso orafo dell’epoca (fig.17), Girolamo Gualdo conservava due ritrattini in due tondelli dorati, l’uno “di Valerio intagliatore fatto per mano di Raffael d’Urbino”, l’altro “di Elio medico suo figlio fatto da Giovanni Antonio Fasolo”, oltre a numerose medaglie di cristallo di Benedetto Montagna e due paci d’oro scolpite con scene della Santissima Circoncisione e l’Adorazione dei Re Magi, che il Belli stesso aveva donato al Conte Girolamo dopo averle salvate dal sacco di Roma.

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Valerio Belli, Cofanetto in argento e cristallo di rocca, 1525

La sua casa – museo si presentava insomma come una raccolta di oggetti di cultura umanistica con riferimenti all’arte classica romana e veneziana che rappresentava bene la complessa situazione culturale di Vicenza sottoposta all’influenza della visione più moderna e aperta della Serenissima.

Gli esponenti della nobiltà e della classe erudita vicentina sentirono il bisogno di incontri e di convegni letterari che all’inizio del XVI secolo si tennero nei giardini delle case patrizie della città. Iniziò così, con la partecipazione di uomini illustri come Giangiorgio Trissino e Giangaleazzo Thiene, la tradizione dei circoli culturali a Vicenza che diventerà, nel 1555, una vera istituzione con l’Accademia Olimpica, il cui scopo era la ricerca su tutti i misteri delle scienze e delle arti.

Dagli ultimi anni del Quattrocento sino agli anni Trenta del Cinquecento, le notizie relative all’operato a Vicenza di maestri orafi si diradano notevolmente tanto da far pensare ad una crisi del settore che è in parte con- fermata dai soli cinque iscritti alla corporazione nel 1536, anno in cui vengono rinnovati gli Statuti.

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Opere di Alessandro Magonza

Tuttavia con l’elezione a gastaldo del famoso maestro Valerio Belli, si ebbe un movimento di rinascita della fraglia. Belli, noto anche come Valerio Vicentino, perché nato a Vicenza nel 1468, fu appunto un orafo, un incisore e medaglista fra i più abili del Rinascimento, elogiato da Giorgio Vasari nel suo trattato Vite de’ più eccellenti pittori, scultori e architetti italiani, da Cimabue insino a’tempi nostri.

Come il Gualdo, anche Valerio Belli fu amico di molti uomini colti suoi concittadini e, a differenze del conte, l’incisore conobbe persino Michelangelo Buonarroti e Raffaello Sanzio che lo ritrassero, il primo in un tondo di marmo e il secondo in uno di bosso. Produsse opere commissionate dai potenti di Firenze, Roma e Venezia, le tre capitali dell’arte rinascimentale: i papi, i Colonna, i Medici, i dogi. Se guardiamo alla produzione personale di Belli possiamo notare che gli oggetti per cui era famoso, e che firmò, sono o cristalli e gemme intagliate, o medaglie coniate, anch’esse risultato di una procedura di intaglio, nell’acciaio duro del conio.

Tra le sue opere più famose rimane la cassetta in argento con 24 piastrine incise in cristallo di rocca con scene della vita e della Passione di Cristo, commissionata da papa Clemente VII nel 1525, attualmente custodita al Museo degli Argenti di Firenze. La cassetta ha la forma di un piccolo sarcofago: lungo i lati maggiori una sequenza di colonnine doriche divide i vari riquadri, raffiguranti episodi della vita di Cristo dove si riconosce una forte influenza dei modelli classici dei quali Belli era un estimatore.

Altre scene evangeliche sono inserite nel coperchio e nel fondo della cassetta, che ospita le immagini dei quattro evangelisti. La cornice di argento dorato, che racchiude le diverse formelle, è decorata con fiori stilizzati e rosette disposte ad intervalli regolari entro due fasce di smalto policromo.

Nella matricola della fraglia degli orefici del 1536, accanto al prestigioso nome di Valerio Belli vi erano i nomi di altri maestri che vennero riconosciuti quali grandi interpreti dell’arte orafa, come Battista della Fede e un’intera famiglia di orefici provenienti da Schio: i Capobianco. Di questi artigiani restano poche notizie.

Sappiamo che Battista della Fede era considerato un uomo di buona fama ed era il genero del famoso architetto Andrea Palladio. Giangiorgio Capobianco fu il maggior discepolo del Belli, anche se in realtà fu un emulo di Benvenuto Cellini, uno dei più noti orafi rinascimentali che, per intercessione del duca di Urbino, gli salvò la vita dopo esser stato condannato a morte per aver ucciso in Venezia un suo nemico, e così dovette vivere esule fra Urbino, Milano e Roma dove morì nel 1570.

Alcune fonti testimoniano che a Giangiorgio Capobianco vengono attribuiti un anello d’oro dentro al quale stava un orologio che mostrava e batteva le ore, donato al duca di Urbino Guidobaldo II Della Rovere, un altro orologio, dentro a un candelabro d’argento, che nel battere le ore accendeva le candele, e una navicella d’argento semovente con varie figurine. Di Capobianco rimane anche il racconto del lavoro realizzato per l’ammissione alla fraglia: “un anelo d’oro con figure, et in la testa de lanello uno spinello per bandae di un altarolo in cristallo inciso”.

Purtroppo nessuna di queste opere ci è pervenuta. L’ultimo atto di presenza del Belli nella corporazione è citato il 27 giugno 1544, in cui si deliberò che nessuno dei confratelli si potesse recare a Venezia a farvi, in concorrenza con gli orefici veneziani, catene d’oro, braccialetti, anelli e altri lavori d’oro.

Questa deliberazione, come anche le successive leggi suntuarie, che vietavano lo sfoggio di vesti e di gioie lussuose, ebbero come conseguenza l’emigrazione di tutti i nostri migliori artisti, i quali, sull’esempio del Capobianco, abbandonarono Vicenza e andarono ad arricchire le varie corti principesche d’Italia e di Europa.

Tra le molte opere che sfortunatamente non ci sono giunte resta il modello della forma urbis di Vicenza, un modellino della città in legno, progettato dai maggiori esperti, e rivestito in argento dono alla Madonna di Monte Berico per la scampata peste del 1576.

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Il modello in argento di Vicenza ricostruito sulla base delle immagini dei dipinti di Maganza e Maffei

Nel modellino la città era circoscritta entro la cerchia di mura alto medievali con alte torri e porte. L’originale è andato perduto durante l’occupazione napoleonica nel 1797, ma alcuni dipinti hanno permesso la sua ricostruzione: due dipinti di Alessandro Maganza (1556 – 1630), uno del 1613, conservato a Thiene nella chiesa di San Vincenzo e raffigura la Madonna con il Bambino e i santi Vincenzo e Anastasio, l’altro del 1593 è una pala raffigurante San Vincenzo e un angelo che presentano a Cristo il modello della città ed è conservato nella chiesa parrocchiale di Poiana Maggiore.

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Maffei- San Vincenzo con il modello della città

Altri due dipinti sono di Francesco Maffei (1605 – 1660), uno del 1635 circa, che è attualmente nella sala di giunta della residenza comunale a palazzo Trissino a Vicenza e rappresenta San Vincenzo che regge la città di Vicenza e una pala del 1625 circa, raffigurante San Vincenzo con il modello della città, conservata al Museo diocesano di Vicenza.

Il modellino, inaugurato in occasione della festa della Madonna di Monte Berico dell’8 settembre 2016, è attualmente esposto presso il museo diocesano di Vicenza. Nel ‘500 la bottega artigiana acquisì importanza perché era diventata anche un luogo di collezione, nel senso che l’oggetto raccolto era, contemporaneamente, manufatto quotidiano, pezzo esemplare e modello da conservare.

I libri dell’Estimo del 1563-64 testimoniano la demolizione di sette botteghe che si affacciavano sul Peronio perché non più inserite nel nuovo assetto estetico strutturale del progetto della piazza, la loro locazione fu spostata sotto il volto degli Zavattari al compimento del palazzo della Ragione. L’Estimo informa che esistevano due botteghe sotto il palazzo della Ragione “da capo della piazza”, quattro botteghe situate “de dredo” verso piazza delle Erbe, affittate estraendo a sorte i nomi dei maestri orafi, come a un certo Iseppo Parente, a Cesaro orefice, a Troilo orefice e a Francesco Montecchio.

Questi erano i luoghi preposti per l’esercizio e il commercio degli orafi, ma non tutti si adeguarono alle norme dettate dagli statuti. Dai documenti notarili sappiamo che Giorgio Capobianco stava in una “apoteca” del corso. Le botteghe, inoltre, non dovevano esercitare il commercio durante tutto il periodo della durata delle fiere cittadine che, dal 1570 diventò una sola fiera, aperta dal 28 ottobre all’11 novembre.

In quest’epoca Venezia era considerata la porta per l’Oriente per tutti i paesi della mappa commerciale, di conseguenza a Vicenza vi giungevano gli echi delle culture straniere che influirono sul gusto e sulle scelta degli ornamenti e del costume. Da quei legami nacquero manifatture peculiari che evocano un’origine esotica. Tra i prodotti che giungevano nella Dominante grande parte avevano le perle e i coralli, l’avorio e le pietre preziose. L’imitazione degli stili e delle tecniche di lavorazione dei metalli preziosi per gli orafi vicentini fu inevitabile.

Un’interessante testimonianza sui modi per lavorare i metalli preziosi nelle botteghe del Cinquecento ci è offerta da Vannoccio Biringuccio (1480 – 1539), un metallurgista di Siena che viaggiò in Italia e in Germania, esercitando l’arte di fonditore e di tecnico minerario. Conosciuto soprattutto per il suo trattato De la Pirotechnia pubblicato nel 1540, dove fornisce una dettagliata descrizione delle principali operazioni di chimica e di lavorazione metallurgica e descrive anche l’attività orafa presente a Vicenza, all’interno delle botteghe del ‘500. Nel libro IX intitolato “Dell’arte del Fabbro Orefice” si dice che per poter lavorare bene oro e argento occorreva imparare a disegnare e, una volta acquisita tale disciplina, l’orafo doveva apprendere la tecnica della fusione.

La tecnica di fusione era di due tipi: una era necessaria per preparare la lega e l’altra per ricavare delle forme decorate. Per rifinire l’oggetto, occorreva conoscere altre tecniche, per smaltare e niellare, per dorare e lavorare di martello, di bulino, di lima e cesello. Nel Rinascimento trovò grande sviluppo l’arte dei battiloro per la grande richiesta di foglie d’oro usate nella doratura di sculture e cornici e per la produzione di fili d’oro impiegati nella tessitura di preziosi broccati.

La laminazione delle foglie d’oro avveniva in tre operazioni distinte: la laminazione, con il laminatoio a cilindri, la fusione e la battitura. Anche le fonti iconografiche acquisiscono importanza per venire a conoscenza dei diversi modi di lavorare i metalli preziosi. A tal proposito, infatti, sappiamo che per ridurre in filo l’oro era usato un banco a trafila sempre più piccola, dove il metallo era tirato con l’ausilio di una tenaglia trascinata da una corda avvolta sul cilindro di un argano mosso a mano.

Con il crescente impiego di pietre preziose provenienti dall’Oriente e dalle nuove terre scoperte, da incastonare negli anelli, diventò necessario possedere una approfondita conoscenza sulla qualità e i difetti delle pietre preziose. Per questo motivo, nel Cinquecento, si sviluppò l’arte della glittica, ossia l’arte dell’intaglio di pietre dure e gemme a “risalto”, cioè con l’utilizzo di strati sovrapposti di pietre di diverso colore per lasciar spazio ad una figurazione chiara su sfondo scuro, o gemme a “incavo”, dove la figura diventa matrice per sigilli.

Se nel primo Cinquecento i grandi incisori preferivano la perfezione e la limpidezza dell’intaglio in cristallo di rocca, solo nella seconda metà del secolo ritornò l’interesse per le pietre dure colorate – onici, agate – ed i cammei presero il sopravvento sugli intagli. I soggetti decorativi scelti seguivano il gusto rinascimentale dei modelli e dei temi dell’antichità classica: i miti greci e romani, il simbolismo magico o religioso, la ritrattistica.

Nel Rinascimento le placchette erano molto usate in bottoni di cappe, fermagli da vestiti, insegne e fregi da berretto, ornamenti a armatura o cintura e finimenti di cavalcature e in oggetti di uso quotidiano, come calamai, saliere o cassette e forzieri. Cesare Vecellio (1521 – 1601) nel 1589 disegnò 503 personaggi in Habiti antichi et moderni.

L’opera colossale riporta minuziose descrizioni di costumi dall’antica Roma al primo Rinascimento, ma soprattutto in uso negli anni fra il 1550 e il 1590. L’autore, oltre a citare i turbanti dei sovrani orientali impreziositi di gioie, i ricchi broccati arabescati d’oro e d’argento che gettano un ponte tra le ornamentazioni del Levante e i decori delle dogaresse e donzelle veneziane e delle signore vicentine, descrive anche per intero il costume delle vicentine della metà del XVI secolo: “Vestono vesti di raso con collari accollati dai quali vengono fuori le lattughe delle camicie ben lavorate e sottili, le maniche aperte giù per il braccio fermate con bottoni d’oro.

Usano portare al collo collane d’oro e aver per cinture alcune catene fatte di bottoni d’oro, con un capo delle quali legano un ventaglio di piume bellissime”. Nel Rinascimento il gusto della moda coglieva spunti delle corti europee e asiatiche: le collane di perle incorniciavano la base del collo, mentre pendenti di perle a goccia ornavano l’orecchio e le acconciature. Le spille, tanto in uso fino al XV secolo, con funzione di fermaglio della veste o del mantello, persero di importanza con l’avvento dei bottoni.

Questi, prima posizionati lungo la schiena divennero veri e propri gioielli di oreficeria quando il costume cambiò, portando la allacciature sul davanti. La moda dell’epoca prevedeva anche l’uso delle catene sottili a più fili, era adottato indistintamente dalle donne, dagli uomini e dagli ecclesiastici. Le prime catene prodotte furono le forzatine, la catena ad otto, la coda di volpe.

Questa moda è documentata in numerosi dipinti di artisti che operavano nell’area vicentina. Tra questi Giovanni De Mio (1510/12 – 1570), definito dal Palladio “homo di bellissimo ingegno”, che nella Adorazione dei Magi, firmata e datata al 1563, eseguita per la chiesa di Santorso, nel vicentino, oggi nella chiesa di San Lorenzo a Vicenza, rappresenta la catena come un ornamento di uso quotidiano.

Nel Ritratto di nobile giovinetto di Girolamo Forni (1558 – 1620), eseguito nel primo decennio del XVII secolo, oggi conservato nella Pinacoteca di palazzo Chiericati a Vicenza, una catena a tre fili viene indossata a bandoliera sul vestito damascato. Un altro esempio è offerto da un dipinto della seconda metà del XVI secolo, anch’esso conservato presso la Pinacoteca di palazzo Chiericati a Vicenza, il Ritratto di Ippolito da Porto, eseguito da Giovanni Antonio Fasolo (1530 – 1572), nella seconda metà del XVI secolo, dove il condottiero indossa una catena doppia, a losanghe, con un ciondolo posato sul petto che riporta sbalzata una quercia mentre la spilla con brillanti e piume da cappello mostra una palma.

Da tutti questi esempi è facile capire come la ritrattistica veneta del Cinquecento sia, ai fini della ricerca storica, una fonte iconografica preziosa per la storia del costume sociale, della moda e dell’uso dei gioielli. Le opere pittoriche diventano la testimonianza di un particolare momento storico che offre la possibilità di evidenziare diversi aspetti della vita dell’epoca, come ad esempio il gusto dei gioielli.

È necessario però prestare attenzione nel distinguere di volta in volta l’elemento realistico da quello simbolico delle raffigurazioni. Antonio Fasolo, pittore di origine lombarda, ma vicentino d’adozione, a Vicenza lavorò come ritrattista per la nobiltà cittadina. I suoi dipinti sono interessanti testimonianze di quella “civiltà di villa” peculiare del Veneto, dove i soggetti sono sempre aggiornati secondo i dettami della moda veneziana imperanti tra il sesto e l’ottavo decennio della seconda metà del Cinquecento.

Gli affreschi del Fasolo nel salone di villa Caldogno Pagello, a Caldogno, costituiscono un episodio particolarmente significativo. Il pittore è chiamato soprattutto a mettere in scena una serie di tranches de vie giocate anche sull’apparente caratterizzazione ritrattistica dei personaggi, raffigurati nelle dilettevoli occupazioni della villeggiatura con una libertà di atteggiamenti “fuori etichetta”, del tutto inedita e certo concepibile solo in villa, ma che, lo stesso, pone più di qualche interrogativo.

Gli affreschi Scene di vita in villa, eseguiti sullo scorcio del settimo decennio del Cinquecento, mostrano le figure maschili elegantemente vestite in velluto di seta, con le corte brache rigonfie e la giubba dalle aderentissime maniche staccabili, abbinate al colore delle calze e del berretto piatto di feltro con piume di struzzo infilate in un medaglione d’oro e le pesanti auree catene intorno al collo. Le giovani nobildonne indossano ampie vesti in seta allacciate sul davanti, al collo portano semplici catene o fili di perle. Hanno i capelli raccolti con dei fermagli in oro arricchiti con perle e pietre preziose.

Presso la Pinacoteca di palazzo Chiericati, a Vicenza è conservato un altro dipinto di Antonio Fasolo, il Ritratto di Paola Bonanome Guoaldo con le figlie Laura e Virginia, eseguito intorno al 1566. In questo dipinto è la perla a dominare l’immaginario femminile veneziano o vicentino dell’epoca: così le fresche donzelle del Fasolo portano gli orecchini allora più diffusi e un anello da cui pende una goccia di grandi dimensioni.

Paola Gualdo indossa un girocollo di perle, una catena ad anelli che pende fino alla vita e un’altra più corta che è fissata sul petto da una spilla con pendente di perla, gli anelli sono numerosi. Anche le figlie sono riccamente addobbate e indossano un girocollo a grossi grani di corallo a cui si alternano fusarole d’oro filigranato, anticipando quella che sarà la moda del secolo successivo dove i vivi cromatismi sono la caratteristica principale del gioiello. Le scollature sono nascoste da veli d’oro e d’argento, ricamati a Cipro; ai polsi, bracciali dal gusto veneziano a catena di maglia doppia.

Le cinture d’argento dorato, su cui sono inca- stonate perle e gemme policrome, segnano il punto vita delle vesti broccate. Anche il piccolo cane ha il suo collare ornato e prezioso. In questo episodio pittorico Fasolo descrive una delle pagine più vive della ricca storia del costume rinascimentale e del gioiello in uso nella società vicentina del tardo Cinquecento, ma occorre ricordare che questo era il costume tipico delle famiglie nobili e, in questo caso, le fanciulle ostentano una certa ricchezza per soddisfare il desiderio della committente stessa.

Nel Ritratto di giovane donna, del 1566 – 1567, sempre del Fasolo e oggi parte della collezione Zanella a Santorso, i monili esprimono uno stile smisurato. Il suo corredo si distingue per la ricercatezza dei particolari nei gioielli propri del XVI secolo. La collana di perle è in coordinato con i fili che intrecciano l’acconciatura, trattenuti da fiocchetti di seta che caratterizzano la moda della metà del Cinquecento.

La lunga collana di perle naturali di dimensioni diverse e pietre preziose, termina alla vita con un pendente ovale che delimita un cammeo a testa rossa. Sui fianchi è appoggiata una cintura a catena e vaghi in oro cui è appeso il ventaglio. Gli anelli sono in rubini e diamanti e al polso sinistro indossa un bracciale a catene fissate a una perla nera.

La testimonianza più esaustiva degli ornamenti femminili cinquecenteschi a Vicenza si trova nel Ritratto di Isabella Valmarana – Thiene , opera del Forni, eseguita nel 1594. I cordiali rapporti di Forni col padre di Isabella, Leonardo Valmarana, del quale fu esecutore testamentario, rendono ancor più verosimile il suo coinvolgimento nell’esecuzione del dipinto, realizzato con ogni probabilità in occasione del matrimonio della giovane con Ludovico Thiene nel 1594: lei aveva giusto vent’anni, un’età conveniente ai lineamenti poco più che adolescenziali del ritratto. Il rosso, poi, nel Cinquecento, era il colore degli abiti nuziali e anche i fiori sulla spalla e tra i capelli s’inscrivono nella tradizione matrimoniale. L’abito che indossa è ricco, ma non sontuoso, profilato alla vita da un grosso cordone dorato.

I capelli sono raccolti in un’acconciatura di perle e fiocchetti di seta rosa intenso; porta due bracciali a filo cordonati doppi e orecchini di perle grigie a goccia, legati da un fiocco di tessuto dello stesso colore dell’abito arricchito con una gorgiera in pizzo. Al collo sfoggia una robusta catena d’oro a maglia larga con pendaglio che incornicia, sempre in oro, un grosso cammeo. Se il gioiello laico si avvicinava sempre più al moderno concetto dell’ornamento di bellezza, l’oreficeria di oggetti sacri risentiva di più lenti cambianti di stile.

Dalla tesi di laurea di Anna Milan “Dalla Fiera al Museo dell’oro: oreficeria e gioielleria a Vicenza” pubblicata a puntate su Storie Vicentine n. 10 settembre-ottobre 2022


In uscita il numero di Maggio 2023
distribuito nelle edicole del centro e prima periferia e agli Abbonati
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L’oro di Vicenza. L’età medievale e i capolavori di arte sacra

La storia dell’arte sacra vicentina racconta una profonda devozione di popolo e il forte richiamo all’identità culturale oltre che religiosa della città. Attraverso la generosità delle donazioni diventava possibile la realizzazione di autentici capolavori in oro.

I capolavori di oreficeria sacra, attualmente conservati nella diocesi di Vicenza – sebbene non siano oggetto centrale dello studio, più orientato alla ricerca sulla gioielleria – sono, comunque, un elemento importante nell’analisi dello stile e delle tecniche orafe dell’epoca tra la fine del XIII e il XV secolo.

arte sacra
Reliquia della Sacra Spina a Santa Corona

Ne è un esempio il Reliquiario della Santa Spina, donato nel 1259 da San Luigi re di Francia al vescovo vicentino Bartolomeo da Breganze che volle la costruzione della chiesa di Santa Corona per conservare la reliquia e dove è ancora oggi custodita. In origine il reliquiario era costituito da una croce d’argento dorato che reggeva una teca in cristallo ove era posta la reliquia sormontata da una corona anch’essa d’argento.

Successivamente venne ingrandito con un basamento in forme gotico–internazionali, con una parte centrale a corona e con una sovrastante struttura a rami di pruno. La corona centrale, originale, lavorata come una corona di spine, regge una piccola teca contenente la reliquia di una spina della corona di Cristo, con raffigurazioni delle Marie al sepolcro da un lato, della Resurrezione dall’altro e da iscrizioni liturgiche in gotico.

Alla corona sono applicate altre tre placche con miniature tipicamente duecentesche disegnate su pergamena e protette da vetro, esse raffigurano San Luigi e il Beato Bartolomeo. Una recente e accurata ispezione delle parti interne del reliquiario ha potuto accertare un intervento ottocentesco che comportò il rifacimento completo del fusto e del piede, cui si sono aggiunti il completamento delle parti decorative mancanti e la indoratura del coronamento floreale.

Di epoca posteriore sono la base, con struttura piramidale a sei facce, le cui bordature a traforo contornano sei placchette in argento smaltate a traslucido con raffigurazioni di santi. L’impugnatura è costituita da tre parti sovrapposte ispirate all’architettura gotica con edicole, finestrelle, pinnacoli e statuine a cesello e fusione.

L’albero, che sovrasta il reliquiario, è composto da sei rami laterali, terminanti in piccoli busti di profeti, e uno centrale con la figura di un angelo alato, l’influenza è chiaramente gotico-naturalistica. Se si considera un confronto con l’oreficeria veneziana, il reliquiario, non considerando il nucleo centrale più antico, viene datato tra la seconda metà e verso la fine del XIV secolo.

Madonna con Bambino

Un altro modello esemplare dell’oreficeria sacra di impronta trecentesca è la statuina in argento della Madonna con Bambino, oggi conservata al Duomo. Voluta dal vescovo di Vicenza Giovanni de Surdis nel 1383, quando Vicenza era in preda alla peste, egli volle spendere, come si legge nel testamento, cinquanta ducati d’oro per costruire una figura della Madonna tutta in argento, “…per porla sopra l’altare di Maria Vergine nel Duomo di Vicenza”. Alta 54 centimetri, lavorata in argento tutto tondo, la statua raffigura la Vergine a figura intera che, ritta in piedi, regge sul braccio sinistro il piccolo Gesù.

Il capo è senza velo, sovrasta la corona regale. La lunga tunica, cinta in vita, le cade ai piedi in ricco panneggio curato. Lo scollo e i bordi delle maniche sono impreziositi da fine decorazione, di gusto rinascimentale. La figura poggia su uno zoccolo ottagonale a due fasce sovrapposte, di gusto gotico. La prima fascia sopra il bordo sagomato reca alternate i simboli della famiglia dei de Sordi (tre aquile imperiali ad ali spiegate disposte a triangolo su sfondo azzurro) e una rosa araldica.

Su un piccolo braccio a sporto proprio di fronte alla Vergine è applicata la piccola immagine del vescovo Giovanni de Surdis, il committente dell’opera, con mitra in capo, in ginocchio e a mani giunte, in posa solenne. Da queste sue caratteristiche si presume che l’opera sia da assegnarsi ad artefice, per ora anonimo, settentrionale con forti influssi nordicotedeschi. Un altro esempio di oreficeria sacra trecentesca è la Croce processionale del Duomo di Vicenza.

La croce poggia su un nodo nella consueta struttura a tempietto gotico-internazionale, con piccole guglie, nicchie e statuine di santi, cui sovrasta un cupolino a spicchi; di qui si dipartono due rami recanti le figure della Vergine addolorata e di San Giovanni. Per la tipologia e i suoi caratteri stilistici, la grande croce è stata riferita dall’Arslan alla bottega dei Da Sesto (Venezia), ipotesi successivamente confermata da Steingräber, che vi riscontra altresì influssi del primo Rinascimento, e da Mariacher, che tende a ricollegarla allo stretto ambito dei Da Sesto per il permanere del gusto tardogotico nel nodo e nella decorazione del fondo delle lamine.

Questi sono i prodotti più significativi dell’oreficeria sacra a Vicenza nel tardo Trecento, alcuni dei quali divennero in seguito modelli per la realizzazione della corona della statua della Madonna di Monte Berico, ma non mancano altri elementi di tradizione tardo gotica custodite nelle parrocchie della provincia di Vicenza, come il calice di rame e argento dorato della chiesa parrocchiale dell’Assunta a Sarego o la croce astile in lamina d’argento della chiesa parrocchiale di Cornedo Vicentino.

Dalla tesi di laurea di Anna Milan “Dalla Fiera al Museo dell’oro: oreficeria e gioielleria a Vicenza” pubblicata a puntate su Storie Vicentine n. 10 settembre-ottobre 2022


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L’oro di Vicenza. L’Età Medioevale, la fraglia degli orafi e le regole dell’apprendistato

Prosegue il viaggio di L’altravicenza con l’oro grazie alla pubblicazione a puntate della tesi di laurea di Anna Milan “Dalla Fiera al Museo dell’oro: oreficeria e gioielleria a Vicenza” pubblicata a puntate sul numero 10, settembre-ottobre 2022, di Storie Vicentine.

oro
La Matricula Vetus degli orefici di Vicenza (o Statum Aurificum Vicentiae)

Il travagliato periodo politico che seguì la crisi del regno longobardo portò, nel giugno del 774, l’avvento del dominio franco di Carlo Magno. Passata sotto i franchi, Vicenza divenne sede di contea e rimase un centro gravitazionale nella mappa dei territori soggetti ai carolingi. Durante tutta l’età carolingia, e nei difficili secoli che si susseguirono, l’attività artigianale non era istituzionalizzata e gli artigiani non avevano l’obbligo di riunirsi in corporazioni (collegia): l’artigiano era classificato tra il popolo di bassa condizione perché la sua immagine non si conciliava con il modello di massimo riferimento culturale, che era rappresentato dal guerriero.

Tale considerazione era così diffusa che anche la storia dell’orefice, e poi vescovo di Noyon, Eligio, veniva ricordata come un riferimento d’eccezione e, non a caso, Sant’Eligio divenne il patrono degli orefici: vissuto dal 590 al 660 d.C., apprese l’arte dell’oreficeria sotto la guida del maestro Abbone a Lemovacium (Limoges) e dimostrò le sue doti di artista eseguendo lavori importanti. Eccellente nella lavorazione di gioielli d’oreficeria quanto in pietà e carità cristiana, venne, infine, chiamato a reggere il seggio vescovile di Tournai e Noyon dove morì.

Dalle fonti apprendiamo che l’artigiano, tra la fine dell’VIII e l’inizio del IX secolo, acquisì una propria identità grazie alla presenza delle “gilde”, ossia dei raggruppamenti sociali che li classificavano, ma che non possono considerarsi preludio delle corporazioni artigiane del tardo medioevo che, invece, fiorirono tra il XII e il XIII secolo, quando le associazioni artigiane, riunitesi per tutelare i propri interessi, assunsero un ruolo importante nella vita della città.

Tale tendenza a difendersi nacque spontaneamente nel momento in cui l’autorità dello stato si indebolì o si rivelò assente. Fu così che commercianti e artigiani fecero il loro ingresso nella vita politica comunale e si posero come terza forza tra nobili e ricchi mercanti. Il primo documento ufficiale in cui si fa esplicito riferimento agli artigiani orafi vicentini è lo Statuto comunale del 1339, periodo in cui Vicenza si trovava sotto il dominio scaligero. In questo documento si trova registrata la fraglia degli orefici, ossia la corporazione d’arte e mestieri che riuniva tutti gli artigiani orafi e che veniva ammessa all’elezione di un membro del consiglio degli anziani. In questo modo la fraglia degli orefici poteva partecipa- re attivamente alla vita economica e politica di Vicenza.

Nonostante questo riconoscimento la corporazione ancora non possedeva un proprio statuto che ne regolamentasse la vita consociativa, la quale si basava essenzialmente su regole non scritte ma rispettate dagli appartenenti alla congregazione. Negli statuti approvati dal consiglio cittadino nel 1352 troviamo i documenti ufficiali della categoria degli orefici, come l’elenco dei maestri confratelli iscritti alla Matricula, ossia i capitoli con le norme per il buon governo della fraglia, con la quale gli orefici ottenevano una tutela dei propri interessi e facevano riconoscere la loro posizione attraverso i rispettivi rappresentanti: i gastaldi e il consiglio minore dei quaranta. La Matricula Vetus degli orefici di Vicenza (o Statum Aurificum Vicentiae), conservata nella Biblioteca civica Bertoliana della città, è il documento fondamentale della fraglia degli orefici.

Questo statuto, che costituisce la più antica testimonianza storica in età medioevale dell’istituzione che associa ufficialmente gli Artieri dell’oro vicentini, raccoglie le prime norme scritte riguardanti l’organizzazione gerarchica e le regole di condotta alle quali gli affiliati del XIV secolo dovevano attenersi; inoltre contiene la lista, o matricola, dei nomi degli iscritti all’arte orafa.

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Gli spazi commerciali sotto il portego della Basilica Palladiana

La Matricola è trascritta in fogli di pergamena, la compilazione è in caratteri “gotico – librari”. Il volume non è in realtà un testo unitario. È costituito dalla riunione di carte di cancelleria realizzate come copie di atti notarili, da alcuni stralci dei più antichi statuti della fraglia – datati di recente entro un arco cronologico collocabile tra il 1322 ed il 1339, forse addirittura risalenti al Vicariato imperiale su Vicenza del 1311 – 1312 a cui sembra riferirsi il proemio degli statuti – cui sono allegate alcune parti di antiche matricole, ossia di elenchi dei maestri iscritti all’arte, risalenti, queste, al XIV e XV secolo con alcune aggiunte cinquecentesche.

Il codice si apre con una maestosa invocazione alla Trinità, alla Vergine Maria, agli Apostoli, ai Santi patroni della città (Felice, Fortunato, Leonzio e Carpoforo) e a tutti i santi, affinché veglino sui vicentini e mantengano la pace. A questa segue la lista delle domeniche e delle festività religiose che gli orefici, molto ossequienti al culto cristiano, erano tenuti a celebrare, con l’astensione al lavoro e la partecipazione alle cerimonie, pena una multa pecuniaria. Successivamente venne definita l’organizzazione gerarchica delle autorità che governano la fraglia: il gastaldo era il capo indiscusso, che possedeva una rilevante responsabilità giuridica ed era affiancato dal consigliere.

Entrambi erano eletti dal capitolo, ossia l’assemblea dei confratelli; il loro incarico durava quattro mesi e al momento della nomina essi giuravano di operare per il bene della fraglia sui Vangeli. Spettava al decano recapitare le convocazioni alle riunioni, a frequenza obbligatoria, della confraternita e alle cerimonie religiose. Nell’ambito del capitolo tutte le proposte erano vagliate, discusse e votate con il sistema del ballottaggio. In questo modo gli affiliati erano coinvolti attivamente nella votazione delle delibere e erano così maggiormente motivati a rispettarle. La Matricola doveva essere presentata ogni anno al podestà, che delegava un giudice ed un notaio per esaminarla e verificare che rispettasse gli statuti della città.

Talora quindi per decreto dei deputati alcuni capitoli, benché approvati dalla fraglia intera, venivano cancellati; tal altra modificati. Il gastaldo aveva il compito di controllare periodicamente la qualità e il titolo dell’oro e dell’argento, l’esattezza dei pesi e delle bilance, e i manufatti degli orefici presso le loro botteghe collocate, per statuto, nel Peronio di Vicenza, cioè nell’attuale piazza dei Signori.

Queste continue ispezioni garantivano la qualità del manufatto, costituendo la premessa allo sviluppo di questo mestiere, il cui prestigio si consoliderà nei secoli potendo avvalersi di questa solida tradizione. L’associato veniva radiato qualora non avesse rispettato le risoluzioni del capitolo. Dopo aver descritto l’organizzazione della confraternita, la durata e i compiti delle varie cariche istituzionali, nella Matricula si affrontano tutte le regole che disciplinavano la vita lavorativa e i rapporti fra gli affiliati: ad esempio, quando un confratello moriva, tutti i componenti della fraglia dovevano rendere omaggio al suo corpo accompagnandolo nel rito funebre.

Nell’ultima parte del documento si arriva alla Matricula vera e propria, ovvero l’elenco dei nomi dei confratelli, dal quale risulta che spesso il mestiere si tramandava da una generazione all’altra. La lista rivela anche l’eterogeneità della provenienza degli orefici attivi a Vicenza; oltre agli autoctoni si deve però ricordare che nella fraglia erano entrati diversi orafi foresti, evidentemente attirati dall’importanza e dal prestigio attinto dall’arte orafa. Erano presenti orafi lombardi, piemontesi, emiliani e perfino francesi e tedeschi24.

Questo dimostra che già nel XIV secolo la fraglia godeva di grande credito e rappresentava un notevole polo di attrazione e di fiorente attività commerciale. Lo statuto si interrompe a questo punto, tuttavia esistono dei documenti che testimoniano come il codice abbia subito delle mutilazioni, perciò oggi possiamo leggere solo una parte del regolamento al quale erano sottoposti gli orefici della confraternita vicentina.

Da questo importante documento si nota come gli orefici conquistarono, nel corso del XIV e XV secolo, una determinante rilevanza politica, che consentirà loro un notevole sviluppo economico. L’ammissione alle fraglie era riservata solo a chi esercitava il mestiere, a patto che l’artigiano, di età maggiore ai venticinque anni, riuscisse a sostenere i pesanti oneri finanziari richiesti per l’ammissione, sapesse leggere e scrivere e non avesse debiti con la fraglia o con il Comune.

Inoltre era necessario esibire l’attestato redatto dalla parrocchia che assicurava la buona moralità dell’aspirante e l’attestato che certificasse il tirocinio e la pratica dell’arte esercitata. Lavoratori e garzoni erano esclusi dal Capitolo e pertanto, non avevano diritto di voto, non potevano prendere parte alle decisioni della fraglia né accedere a nessuna carica direttiva. Erano però soggetti al pagamento di un contributo simbolico, all’osservanza di tutte le norme statuarie e all’obbedienza del maestro che li guidava e li istruiva all’arte. Per passare dalla categoria più bassa, quella dei garzoni, alla successiva dei lavoranti, e da questa alla superiore dei maestri, era quasi sempre indispensabile sostenere e superare specifiche prove di abilità nell’esercizio dell’arte.

Dopo un lungo tirocinio di cinque anni il lavorante o il garzone poteva sostenere l’esame per il passaggio alla categoria superiore. In tal caso il richiedente doveva eseguire un’opera d’arte da sottoporre a una commissione di esperti giudicanti. Se la prova veniva superata la richiesta di ammissione veniva proposta al Capitolo e quindi messa ai voti. Se il numero di votanti a favore raggiungeva la maggioranza relativa il candidato, dopo aver giurato fedeltà allo statuto, otteneva il diritto di ascrivere il proprio nome nella lista della matricola.

Dal momento dell’iscrizione alla matricola, il corporato godeva di tutti i diritti concessi dalla fraglia, compreso quello di aspirare alle varie cariche direttive, esercitare l’arte e vendere i prodotti nella propria bottega, avere alle dipendenze garzoni e lavoranti. Per la fraglia degli orefici la festa del patrono si celebrava il 25 giugno, giorno di Sant’Eligio, con una messa solenne a cui dovevano partecipare tutti i confratelli iscritti nella chiesa di San Eleuterio, sede della confraternita.

Questa era una delle sette proto-cappelle vicentine, sorta prima del Duecento, nell’attuale slargo nell’odierna contrà Santa Barbara verso piazza Biade e dove nel 1454 venne eretto un altare a lato dell’altare maggiore, a spese degli orefici, dedicato al patrono della fraglia. Alla fine del XVII secolo la chiesa subì gravi danni a causa di un terremoto e, ricostruita, divenne sede della confraternita dei Bombardieri, cambiando nome in Santa Barbara. Oggi la chiesa non esiste più in quanto altri avvenimenti storici hanno portato alla sua soppressione e demolizione.

Tra le altre regole che lo statuto della fraglia orafa imponeva, vi era il controllo sul titolo dell’oro e la bollatura degli oggetti che veniva eseguita dai capi delle università e dei collegi. I rei erano soggetti a pesanti sanzioni pecuniarie e non solo; era anche prevista la chiusura della bottega e la distruzione degli oggetti prodotti con metallo non legalmente accettato. Queste regole statutarie furono una garanzia della validità dei pro- dotti per tutelare sia il cliente che tutta la categoria artigiana e, allo stesso tempo, il loro rigore giustificò l’ascesa della confraternita a Vicenza. Le botteghe dei maestri orafi venivano controllate con regolarità.

Esse dovevano essere locate esclusivamente nella piazza principale della città: il Peronio, oggi piazza dei Signori, in mostra nella più antica planimetria di Vicenza, che si conosca, fortunatamente recuperata più di trenta anni fa da Ettore Motterle. Si tratta di un disegno a inchiostro, di 61 cm x 43 cm, su una carta purtroppo strappata, databile con quasi assoluta precisione all’attacco degli anni Ottanta del XV secolo, dove sono segnati i seguenti toponimi: Pescharia, la piaza dal pesse menudo, la strada se va al Domo, la via dala Rota, la contrada di Zudei, la via dala Malvasia, la contrada dale veture, la contrada di Santo Eleuterio, piaza dale Biade, via di Servi, la piaza dal vino.

Il Peronio, oggi piazza dei Signori, in mostra nella più antica planimetria di Vicenza

Quindi la pianta del Peronio, conservata nella Biblioteca Bertoliana di Vicenza, mostra le piazze e le strade che confluiscono nell’attuale piazza dei Signori, centro dell’attività commerciale e amministrativa della città dove trovano spazio sette costruzioni al pianterreno, affianco al palazzo e alla torre dei Bissari. Queste non sono altro che alcune delle botteghe degli orefici iscritti alla fraglia, edifici che nel XVI secolo il Comune farà abbattere e trasferire sotto la Basilica palladiana.

In questa area erano ubicate anche altre botteghe di artigiani, come quelle dei recamatores, tessitori di fili d’oro, che a loro volta erano prodotti dai battiloro: orafi specializzati nella tiratura dei metalli preziosi, in foglia, richiesta per le grandi opere pittoriche su tavola, o in filo, utilizzato in ricami e broccati. Le fraglie vicentine si presentano come dei “micro – governi”, all’interno di uno più grande: il Comune. Le fraglie, infatti, erano considerate come enti giuridici ai quali venivano riconosciute dall’autorità pubblica le facoltà di emanare leggi proprie, di autogovernarsi e di amministrarsi autonomamente.

Tale forza politica – economica non poteva prevaricare l’autorità del Comune che attuava dei controlli legislativi. Tutte le norme statutarie elencate resteranno in vigore, unitamente ad altre prescrizioni o leggi in materia di lavorazione e vendita emanata dal governo veneziano, sino alla fine del 1700 quando, come vedremo, gli orafi vicentini provvederanno ad un aggiornamento del loro Statuto che, unitamente alla fraglia stessa sarà cancellato nel 1806 dai nuovi padroni francesi.

L’artigiano orafo, staccatosi dalla mera manualità artigiana, andava progressivamente esprimendo una propria individualità artistica che lo poneva in un determinato rapporto nei confronti dei committenti: all’artigiano venivano conferiti precisi incarichi, strettamente collegati alla funzione delle opere di gioielleria. In questo periodo, però, la produzione orafa era ancora riservata alle cerimonie e pochi erano i gioielli di uso quotidiano prodotti. Lo stile del gioiello nel periodo medioevale deve considerarsi in stretta relazione con il costume del tempo. Nella seconda metà del Duecento, a testimonianza dei primi lunghi viaggi, la moda prevedeva l’adozione di materiali provenienti dall’Oriente, nuovi tessuti di lana e seta, e l’impiego del ricamo in filo d’oro.

Il costume assunse un’importanza sociale: abiti e gioielli identificavano certe classi sociali come i nobili e i grandi proprietari terrieri che indossavano i preziosi indumenti intessuti d’oro e si ornavano di preziosi. La gioielleria prodotta in Italia fino al Trecento si ispirava ancora a motivi ornamentali gotici: anelli formati da semplici cerchi d’oro sormontati da soggetti in rilievo o da pietre incise, collane in filigrana a cui era appesa una piastrina tonda o romboidale dove campeggiava una croce ornata e incorniciata da pietre preziose, fermagli da mantello preziosamente lavorati a cesello o a rilievo e ornati da pietre con taglio a tavoletta o da decorazioni a smalto.

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Tavola del 1412 della Madonna della Misericordia

Di questo tipo gotico d’ornamento ne è un esempio il fermaglio che regge il mantello di Maria nella tavola del 1412 della Madonna della conservata all’oratorio dei Proti a Vicenza. La ricostruzione della gioielleria usata a Vicenza tra il X e XIV secolo risulta difficile poiché mancano quasi totalmente dei riferimenti iconografici o fonti descrittive e sono andate perdute testimonianze di opere d’oreficeria prodotte in quel periodo. Nel XIV secolo lo stile della gioielleria si stacca gradualmente dagli schemi tardo – gotici e acquista linee che troveranno pieno compimento nel Rinascimento.

I metalli principalmente usati sono l’argento e il rame dorato, mentre l’impiego dell’oro è più raro e arricchito dalla lavorazione a smalti colorati. Alcuni elementi d’oreficeria assumono un aspetto funzionale, ad esempio i bottoni lavorati in filigrana diventano piccoli gioielli. Verso la metà del secolo si diffuse la moda di ornare gli abiti con nastri di velluto o di raso terminanti con ciondoli d’oro o d’argento lavorati a sbalzo. Nel gusto dell’epoca erano in voga acconciature create dall’intreccio dei capelli ai lati del capo e rese preziose da reticelle di filo a cui erano fissate perle, grani di pietre oppure veri e propri gioielli.

Per questo motivo gli orecchini non trovarono largo riscontro nel costume dell’epoca. Largo spazio trovò invece l’oreficeria sacra. In quest’epoca vennero eseguiti calici, reliquiari, croci astili e processionali, dal forte gusto gotico e la loro costruzione si ricollega a tipologie più propriamente architettoniche: con i fusti e supporti foggiati a forma di piccole chiese e di torrette, con finestrelle, guglie, pinnacoli e statuine minutissime.

Dalla tesi di laurea di Anna Milan “Dalla Fiera al Museo dell’oro: oreficeria e gioielleria a Vicenza” pubblicata a puntate su Storie Vicentine n. 10 settembre-ottobre 2022


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L’oro di Vicenza, dall’età antica ai longobardi

La tradizione orafa vicentina ha origini antiche. A Vicenza l’oro, prezioso metallo, è stato impiegato sin dai tempi passati, per realizzazioni di grande prestigio. L’artigianato ha vissuto il periodo più fiorente nei secoli del Rinascimento e del Barocco, ma è uno Statuto comunale del 1339, in cui si trova registrata la fraglia degli orefici la quale veniva ammessa all’elezione di un membro del consiglio degli anziani e poteva partecipare attivamente alla vita economica e politica di Vicenza, che testimonia l’inizio della tradizione orafa vicentina, nata da artigiani che lavoravano il metallo all’interno di botteghe prese in affitto dal Comune e collocate nel Peronio, ossia l’attuale piazza dei Signori, le quali hanno fatto diventare l’oreficeria un mestiere e un’arte che hanno reso Vicenza una delle capitali mondiali dell’oro.

In realtà la tradizione orafa vicentina ha appunto origini antichissime, risale addirittura all’epoca paleoveneta quando, intorno al VIII secolo a.C., gli antichi veneti o paleoveneti, una popolazione indoeuropea proveniente dall’Illiria che si era stanziata nella regione dopo aver allontanato gli Euganei, cominciò ad esprimere un artigianato capace di produrre oggetti metallici lavorati di vario genere quali quelli rinvenuti, all’inizio degli anni Sessanta, in uno scavo delle fondazioni fra corso Palladio e piazzetta San Giacomo a Vicenza, che mise in luce quel che rimaneva di una struttura di grosse pietre, probabilmente un santuario, dove vennero ritrovati pezzi di estremo interesse archeologico.

oro
lamine

Tra di essi si annoverano laminette rettangolari, allungate verticalmente o orizzontalmente, cerchietti singoli o collegati a bracciale, rotelline radiate e pochissimi oggettini in ferro. Buona parte del materiale fu raccolto dal personale del Museo civico di Vicenza, e in seguito venne catalogato e conservato ai chiostri di Santa Corona, dove è tuttora visibile al pubblico. Le lamine  sono tutte tirate a martello, decorate a incisione dal diritto e a sbalzo dal rovescio, alcune a stampo.

Recano figure di animali, guerrieri, atleti, donne con una veste corta e uno scialle che copre la testa. Per la presenza di piccoli fori esistenti ai margini, più che come ornamento, si ipotizza che le laminette fossero un insieme di ex – voto dapprima affissi tramite chiodi ad una stipe votiva, poi staccati per essere sepolti all’interno di un santuario. Oltre alle laminette sono stati rinvenuti, nei siti funerari nei pressi di Vicenza, altri oggetti di pregevolissima fattura dell’epoca paleoveneta.

A Lumignano ad esempio è stata rinvenuta una figurina zoomorfa stilizzata in bronzo a fusione piena databile tra il VII e il VI secolo a.C. L’ornamento, a forma di canide, poteva far parte di un corredo funerario o essere la decorazione di un oggetto da toilette. In una tomba, sempre paleoveneta, nei pressi di Montebello Vicentino, sono stati raccolti bracciali, orecchini, fibule dalle linee eleganti, deliziosamente decorate.

fibule di tipo Certosa

Tutti questi oggetti in bronzo erano realizzati con la tecnica di fusione a cera persa che consisteva nel costruire il modello desiderato in cera; questo veniva successivamente avvolto nella terra refrattaria formando una sorta di contenitore chiuso nel quale si praticavano i fori per fare uscire la cera che si liquefaceva quando lo stampo veniva inserito in forno per la cottura del materiale refrattario. Dopo questa operazione si colava nello stampo, attraverso questi fori, il metallo fuso ottenendo l’oggetto voluto il quale veniva rifinito a mano dall’artista. Le fibule ritrovate negli scavi archeologici dell’area vicentina si possono classificare in due tipologie: fibule di tipo Certosa e fibule di schema La Téne.

Perle e pendenti di pasta vitrea

Le prime hanno un arco asimmetrico verso la molla, il cordone che sottolinea lo stacco tra arco e staffa e il bottone peduncolato o appiattito. Appartengono ad un periodo che va tra la fine del VI secolo e l’inoltrato IV secolo a.C.12 Le seconde, invece, suggeriscono contatti tra il mondo celtico d’oltralpe e l’area vicentina, sono in fusione di bronzo del IV secolo a.C., hanno arco a profilo simmetrico a sezione ellissoidale, molla bilaterale a doppia spirale, corda e staffa esterna. Tra i vari prodotti di ornamento i veneti apprezzavano le perle e i pendenti di pasta vitrea, di derivazione greca, sovente alternati a perle di altri materiali quali l’ambra, il corallo, il bronzo, l’osso e l’oro.

I frammenti ritrovati fanno pensare a una produzione in loco, tra il IV e il II secolo a.C., a scopo ornamentale come grani di collane o pendenti, ma anche con funzione di identificazione del ceto sociale o con valore apotropaico di amuleto. Tutti i reperti archeologici in metallo fin qui presi in esame hanno permesso di documentare la presenza paleoveneta a Vicenza la cui attività di lavorazione dei metalli è da considerarsi la vera e propria alba d’un artigianato artistico vicentino ed anche il primo passo verso quella che diventerà più tardi la nostra arte aurificiaria.

L’ipotesi di tutte queste testimonianze starebbe ad indicare che vi fosse una struttura sociale organizzata già in epoca preromana, con artigiani specializzati nella lavorazione del metallo, commercianti e sacerdoti; e quando Roma cominciò a guardare verso il territorio vicentino, questo aveva già messo in atto un processo spontaneo di trasformazione socioeconomica che la romanizzazione riassestò con la diffusione di monete e con la produzione agricola. Roma conquistò la Gallia Cisalpina e l’Illiria con la II guerra punica (218 a.C. – 202 a.C.), le città venete alleate si sottomisero a Roma e fra esse anche Vicenza (177 a.C.).

Era chiamata Vicetia o Vincentia: una città inizialmente piuttosto piccola e modesta, l’urbicula di cui parlano alcune fonti, divenuta via via sempre più ricca e prospera, dopo aver ottenuto, nell’89 a.C., il diritto latino ed essere stata, dal 49 a.C., finalmente eretta in municipium. Non esistono tracce documentate, quali oggetti o iscrizioni, di una attività orafa a Vicenza in età romana e, poiché la normativa romana vietava la sepoltura dei morti all’interno della cerchia abitata, a Vicenza non sono stati rinvenuti corredi funerari; per questi motivi i ritrovamenti dell’età romana sono molto scarsi.

Oro amuleto del IV secolo d.C
Amuleto del IV secolo d.C

Tuttavia un recente scavo nella necropoli della Madonnetta a Sarcedo, un paese della periferia di Vicenza, ha portato alla luce un amuleto del IV secolo d.C. Si tratta di una sottilissima lamina rettangolare, in oro, (alt. 2,5 cm; lungh. 8,5 cm; spess. 0,02 cm) rinvenuta in una sepoltura a inumazione poco sotto il mento dell’inumata. Strettamente arrotolata, era probabilmente un pendente sospeso al collo con un filo di materiale non conservato. L’iscrizione latina, preceduta da una serie di quindici segni magici, disposti su due righe, è stata vergata con uno strumento dalla punta arrotolata.

Nel testo si invocano gli angeli a prestare il loro aiuto affinché nulla di male possa capitare a Letilia Ursa, figlia di Letilius Lupus e di Ovidia Secunda, personaggi non altrimenti noti: “Ne quidquam mali facere possit aut nocere/ Letiliam Ursam, filiam Letili Lupi vel Ovidies Secundes, vos, ancili, estote in aiutorio”, ovvero: “Affinché nulla di male possa capitare o nuocere a Letizia Orsa, figlia di Letilio Lupo e di Ovidia Seconda, voi, o angeli, prestate il vostro aiuto”. In età romana, la figura dell’orefice rivestiva un peso politico ed economico notevole in quanto solo chi possedeva un cospicuo patrimonio, proprio come quello degli aurifices, poteva intraprendere la carriera politica e i gioielli prodotti per i potenti committenti patrizi facevano degli orefici i loro confidenti e parte dei familiares.

Esistevano, inoltre, gli artigiani addetti alle diverse specializzazioni dell’arte orafa: caeselatores (cesellatori), bractearii (battiloro), auratores (decoratori), margaritarii (commercianti di perle). L’oreficeria dell’età romana fu influenzata dallo stile dei gioielli greci, dal quale si differenziò fino ad assumere una fisionomia propria.

Gli anelli, talvolta semplicissimi e in metallo povero, recavano sovente un casto inciso su pietra dura o pasta vitrea. I bracciali erano semplici cerchi a tubo cavo o a elementi emisferici in lamina d’oro saldati tra loro, o erano forgiati a serpente ricordando gioielli di età ellenistica. A partire dal III secolo d.C. agli elementi classici della gioielleria romana si aggiunsero nuove forme espresse da tecniche importate dall’oriente e in particolare dalla cultura bizantina, come ad esempio l’opus interassile, caratterizzato da una lavorazione a trina della superficie del gioiello, resa a traforo per mezzo del bulino; tecnica adatta alle decorazioni astratte, floreali e arabescate.

Dal IV secolo d.C. a questi motivi di origine orientale si sommarono altri di derivazione “barbarica”, si ottennero gioielli arricchiti di pietre e paste vitree policrome, dove la funzione del metallo aureo era limitato alla sola montatura. Nell’autunno del 568 i longobardi, guidati da Alboino, occuparono Vicenza con una rapida azione militare che non trovò grandi resistenze da parte dei bizantini. La città, dopo i momenti duri e turbolenti vissuti nella lunga guerra tra ostrogoti e bizantini (535 – 554), visse un periodo florido.

I longobardi si insediarono nel territorio vicentino ridefinendone i frazionamenti e stabilendo nuove strutture amministrative e legislative. Vicenza divenne il quarto ducato della conquista longobarda, dopo Cividale del Friuli, Ceneda e Treviso. La loro presenza nel vicentino durerà fino al 774, con l’avvento dei franchi di Carlo Magno.

Testimonianze della presenza longobarda sono affiorate soprattutto a Sovizzo e a Dueville e sono ora raccolti al Museo civico di Vicenza. Si tratta, per lo più, di oggetti di corredo funebre, di resti antropologici, come linguette e placche da cintura, fibbie di scarpe e borse, armi, perle in pasta vitrea, pettini, gioielli e altri oggetti.

I corredi funerari forniscono elementi che ci permettono di definire i prodotti della civiltà longobarda nei suoi aspetti culturali, tecnici e sociali. I criteri più attendibili che si possono osservare per riconoscere le tombe longobarde sono principalmente le fibule a staffa e a “S” nelle tombe delle donne, e le armi (come spathe, scramasax, lance, scudi e accessori dell’armatura) nelle sepolture maschili, essendo l’esercizio delle armi l’attività principale del longobardo.

Tra gli oggetti ritrovati nei corredi della necropoli di Sovizzo, di particolare interesse sono: l’umbone di scudo da parata in ferro con decorazione a croce in agemina d’oro, due guarnizioni – una fibbia in bronzo da borsa a forma di grifone fantastico, databile verso la fine del VI secolo, e una placca formata da due uccelli affrontati del VII sec. -, alcune armille in bronzo, le collane di paste vitree variamente colorate, fibule di varia forma, orecchini in fili di bronzo, aghi crinali in argento e un collare in argento massiccio.

L’oggetto più prezioso fu scoperto nel 1912 a Dueville in una necropoli longobarda. Si tratta di una crocetta aurea, del VII secolo d. C., la cui parte centrale lascia intravedere un volto femminile. Le braccia sono di uguale lunghezza, leggermente espanse e ritmicamente dotate di otto fori lungo i bordi perlinati.

I quattro personaggi visibili all’interno sono figure mitizzate in abbigliamento cerimoniale con copricapo decorato da corna ritorte di derivazione asiatica. Essa veniva cucita in un velo posto sul viso del morto e si otteneva battendo una sottilissima lamina d’oro su di un modello di metallo o di avorio o di legno duro con l’ornamentazione in rilievo, oppure era decorato a punzoni. Un altro oggetto prezioso del VI secolo, ritrovato a Dueville, è un anello in oro con gemma ovale in pasta vitrea policroma, con matrice raffigurante due figure, una femminile e una maschile, oggi conservato ai Musei civici di Vicenza.

Come la crocetta aurea, è un oggetto prezioso presente solo in tombe di persone di status sociale particolarmente elevato e tutti questi reperti, congiunti alla probabile esistenza, in questa età, di una Zecca a Vicenza e, quindi, di orafi coniatori, sono una evidente dimostrazione della perizia dell’arte orafa longobarda nel territorio vicentino.

Dalla tesi di laurea di Anna Milan “Dalla Fiera al Museo dell’oro: oreficeria e gioielleria a Vicenza” pubblicata a puntate su Storie Vicentine n. 10 settembre-ottobre 2022


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Museo Zannato, uno scrigno di storia da oltre 100 anni

Numerose sono state nel 2022 le iniziative e le attività organizzate per festeggiare il centenario del Museo Zannato e coinvolgere la cittadinanza, spesso succede infatti che i tesori più a portata di mano siano anche i meno conosciuti, e così accade anche per questa struttura, rinomata tra ricercatori e studiosi di tutto il mondo, soprattutto per la collezione paleontologica, una delle maggiori del Veneto, di granchi fossili.

Un vero e proprio scrigno di reperti fossili che racconta la storia antica del nostro territorio, 20, 30, 40 milioni di anni fa. Il Museo, che ha sede in villa Lorenzoni in piazza Marconi, conserva anche notevoli testimonianze della storia passata delle nostre genti, dai Veneti Antichi ai Romani, dai Celti ai Longobardi. Il Museo è inoltre il punto di riferimento culturale dell’Ovest Vicentino per tutte le problematiche relative all’archeologia e alle scienze naturali.

Fondato dal Cavalier Giuseppe Zannato inizialmente come museo scolastico nella vicina scuola “A. Manzoni” nel 1922, nel corso degli anni fu visitato da Ministri, sottosegretari di Stato, professori di Università e direttori di musei di ogni parte d’Italia. Nel 1983, con delibera del Consiglio Comunale, assunse la nuova denominazione di Museo Civico “G. Zannato”.

Dal 2007 occupa l’intero palazzo di villa Lorenzoni e si compone di 12 sale espositive più cinque attualmente in via d’allestimento. Aula didattica, depositi e laboratori sono ospitati in sedi separate tra la Scuola Primaria Manzoni e la Materna Dolcetta.

Momento clou delle iniziative per festeggiare il Centenario è stata la Romeo Expedition, la spedizione in Argentina di un team di ricercatori ed esperti sulle tracce di Romeo, il coccodrillo del Museo. Si tratta di un progetto scientifico e divulgativo che prende spunto dal suo reperto più iconico, il caimano tassidermizzato (appartenente alla specie Caiman latiro-stris).

Proprio quello che compare in alcune foto storiche di Giuseppe Zannato. La Romeo Expedition nasce dall’intento di raccontare l’evoluzione nel corso del tempo dei musei e dell’ambiente e si pone in perfetta armonia con lo spirito del Cavalier Zannato, veronese di nascita e montecchiano d’adozione, che desiderava fortemente incuriosire, soprattutto i più giovani.

Per tutta la durata del viaggio infatti il team (composto da Roberto Battiston, capospedizione, conservatore e naturalista del Museo Zannato; Michele Ferretto, presidente della cooperativa sociale Biosphera ed esperto in sostenibilità, Emma Borgarelli, responsabile di Biosphera per i viaggi di ecoturismo internazionale di tipo sostenibile, Andrea Colbacchini documentarista specializzato in storia, antropologia e ambiente, e Arianna Caneva, laureata in Scienze Ambientali e specializzata nell’elaborazione di modelli ambientali per la conservazione delle risorse naturali) ha mantenuto il contatto costante con Vicenza attraverso i canali Social, rispondendo in tempo reale alle domande inviate dagli alunni delle scuole. Il progetto è stato possibile grazie al contributo di Trevisan Macchine Utensili.

Va detto inoltre che il Museo svolge attività di ricerca, didattica e divulgazione, seguendo le orme del suo fondatore, che tra i 14 e i 20 anni raccolse in Italia e all’estero minerali, fossili, insetti, esemplari di botanica e ricordi storici. A dicembre è stata inaugurata della mostra “Zannato and friends” allestita nelle sale espositive dell’ultimo piano di villa Lorenzoni per raccontare i 100 anni del Museo.

Per l’occasione sono stati esposti dei reperti inediti del fondatore, oltre a un’intera sala dedicata alla wunderkammer, la camera delle meraviglie per raccontare il collezionismo ottocentesco che ha permesso la nascita dei grandi musei. Va inoltre ricordato che l’associazione Amici del Museo, nata da un primo nucleo di appassionati l’11 dicembre del 1992, ha spento 30 candeline.

Tra le attività di maggior rilievo vanno ricordati gli scavi in cui l’associazione ha collaborato con Università e Soprintendenza, lo scavo della Lovara, quello di Castelgomberto per la messa in luce di tronchi di palma fossili, lo scavo ai Castelli di Montecchio che ha rivelato un villaggio preromano e quello della villa romana nell’attuale parcheggio dell’ospedale. Infine, è possibile visitare nel Museo l’esposizione permanente “Il Cavaliere Longobardo di Monticello di Fara”, che ospita i preziosi reperti venuti alla luce grazie ai recentissimi scavi della Soprintendenza.

Eccezionale è il corredo del cavaliere sepolto presso una chiesa e che dà il titolo alla mostra, tra cui diverse armi da offesa, cinture con elementi decorativi, uno sperone e uno scudo riccamente decorato. «La nostra città considera il Museo Civico Zannato un prezioso protagonista della vita culturale, – spiegano il sindaco di Montecchio Maggiore, Gianfranco Trapula e l’assessore alla Cultura, Claudio Meggiolaro – le collezioni continuano ad aumentare e il Museo è sempre più punto di riferimento archeologico per l’intera zona compresa dal Sistema Museale Agno Chiampo».

Di Loris Liotto da Storie Vicentine n. 11 novembre-dicembre 2022


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Antonio Turcato, una memoria del cospiratore fucilato a Vicenza

Antonio Turcato, cospiratore contro l’Imperiale governo, fu fucilato a Vicenza come monito alla cittadinanza. Nella facciata nord del Teatro Verdi, era stata apposta nel 1903 la lapide ad Antonio Turcato, nato a Castelfranco Veneto il 20/09/1817, che lasciò la moglie e tre figli in tenera età quando fu fucilato in quel luogo a Campo Marzio il 21/12/1860.

Una delle poche esecuzioni marziali effettuate in Città dal Governo austriaco, la quale fece scalpore in tutta la cittadinanza perché eseguita davanti agli occhi degli attoniti vicentini affinché servisse da monito, nei confronti del cosiddetto sovversivo Antonio Turcato “reo di tradimento per cospirazione contro l’Imperiale governo”.

Turcato era membro attivo del Comitato Segreto di Liberazione che si occupava di arruolare segretamente volontari per l’esercito piemontese durante Ie Guerre di Indipendenza Risorgimentale (1848-1860). Antonio Turcato risiedeva a Castelfranco Veneto e svolgeva, prima l’attività di artigiano calzolaio e poi di offeliere/pasticciere.

Fu arrestato il 16 dicembre 1860 a Castelfranco Veneto e trasferito successivamente a Vicenza. Qui, a ridosso di un capannone nel luogo dell’esecuzione, il 21 dicembre 1860 venne fucilato. Ad Antonio Turcato venne anche intitolata una via cittadina nella zona di Via dei Mille nel 1960 con deliberazione consiliare del 24 maggio 1960.

La lapide affissa a lato del Teatro Verdi (bombardato nel 1944) recava la seguente iscrizione (tratta dal libro di Giambattista Giarolli “I nomi delle nuove vie del Comune di Vicenza” – 2° volume – pag. 448 – anno 1988): ANTONIO TURCATO – DI CASTELFRANCO VENETO – DALL’AUSTRIACO OPPRESSORE – CONDANNATO A MORTE – PER ATTENTATA SEDIZIONE – QUI – INVOCANDO L’ITALICA LIBERTÀ – PERDEVA LA VITA – IL XXI DICEMBRE MDCCCLX – A PERENNE MEMORIA (firmato all’epoca I SUPERSTITI PATRIOTI – POSERO – Vicenza X giugno MCMIII)

Di Loris Liotto da Storie Vicentine n. 11 novembre-dicembre 2022


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