(Articolo di Alessandra Borin su Giacomo Puccini da VicenzaPiù Viva n. 294, sul web per gli abbonati tutti i numeri, ndr).
Uno dei più grandi compositori al mondo visse nel privato la passione per le donne, le ruote e i motori: praticamente ideò il primo fuoristrada italiano, ma morì con nessuna delle sue amate accanto.
Vincerò! Vinceròòò! Vinceeeeeeròòòòò! L’iconico motivo cantato dal tenore è oramai diventato quasi un tema pop, ma porta con sé molto più di una semplice esortazione alla vittoria. Andando oltre la parola in sé, una domanda sorge spontanea: cosa si vince?
Siamo a Pechino, il protagonista è Calaf, figlio di Timur, principe errante e senza regno che canta quest’aria alle luci dell’alba, un’alba in cui nessuno ha potuto riposare.
E infatti per indicare questo brano musicale il titolo corretto sarebbe Nessun dorma.
La notte dunque si sta dileguando, e Calaf sta già assaporando la sua vittoria!
Ma vittoria su che cosa? Sarebbe più corretto chiedersi su chi! L’algida e crudele principessa Turandot, di cui si era innamorato ad un solo sguardo, gli aveva posto tre enigmi sicura che egli non avrebbe potuto risolverli: «Popolo di Pekino! La legge è questa: Turandot, la Pura, sposa sarà di chi, di sangue regio, spieghi i tre enigmi ch’ella proporrà. Ma chi affronta il cimento e vinto resta, porga alla scure la superba testa!».
Ma il nostro tenore Calaf non perde la testa e inaspettatamente risolve gli enigmi, ma la sua nobiltà d’animo lo porta a metter in gioco la propria vittoria, egli non vuole sposare la principessa contro la sua volontà, perciò le offre una nuova possibilità: se Turandot riuscirà a indovinare il suo nome prima dell’alba, potrà condannarlo a morte. Calaf è sicuro di sé, nessuno conosce il suo nome («il nome mio nessun saprà»). Turandot ordina che quella notte nessuno dorma a Pechino, si deve trovare il nome; le sue guardie bussano a ogni porta, cercando qualcuno che conosca il principe straniero. Alla fine trovano Timur e Liù, l’anziano padre del principe che per una casualità tutta tipica dell’opera si era ritrovato nella stessa città. Liù, la serva del vecchio re, per paura di lasciarsi sfuggire sotto tortura il nome del suo amato principe Calaf, si uccide con una spada.
Fu alla morte di Liù che la partitura di Turandot intraprese un viaggio per Bruxelles. Infatti, proprio mentre Puccini stava terminando la scrittura dell’opera, gli venne diagnosticato un cancro alla gola.
La data della prima alla Scala di Milano era stata già stabilita nella primavera del 1925. Il direttore sarebbe stato Arturo Toscanini, il tenore protagonista Ernico Caruso. Mancavano solo le ultime scene, quel lieto fine in cui Turandot dichiara – davanti a suo padre imperatore – che il nome dello straniero è ‘Amore’.
Puccini voleva concludere l’opera, dicono le cronache che fosse il suo unico pensiero quando venne ricoverato all’Institut du Radium di Bruxelles. Il prof. Louis Ledoux eseguì un’operazione sperimentale e invasiva che non ebbe purtroppo successo: il paziente morì in pochi giorni tra febbre, morfina e atroci sofferenze.
Dicono che Puccini rimase cosciente fino alla fine, avrebbe voluto finire Turandot.
Turandot rimase però incompleta e lui morì con la sua Liù il 29 novembre del 1924, 100 anni fa. La fine dell’opera fu commissionata a un altro compositore: Franco Alfano. Ma durante la prima il direttore Arturo Toscanini si interruppe nel momento in cui le note di Puccini avevano finito di uscire dalla sua mente e dal suo cuore dicendo: «Qui finisce l’opera rimasta incompiuta per la morte del Maestro» e scese dal podio.
Puccini resta uno dei più grandi compositori al mondo, genio e vanto per l’Italia. Quest’anno 2024, che oramai volge al termine, ha visto in ogni parte del mondo celebrazioni per il centenario della sua scomparsa che ne hanno sancito la grandezza.
Ma chi era il Puccini uomo? Nato a Lucca, il 22 dicembre 1858, in una famiglia di organisti, restò orfano di padre a cinque anni e sua madre Albina, per farlo studiare, fece molti sacrifici vendendo i terreni e la casa di proprietà, scrisse persino alla Regina Margherita perorando la causa del figlio e ottenendo una borsa di studio.
Ammesso al conservatorio di Milano, soffrì per anni tali ristrettezze economiche da non
riuscire a mangiare regolarmente, finché il suo genio fu compreso dall’editore Ricordi di Milano.
Quando finalmente il trionfo e il successo ebbero la meglio, il Puccini uomo ricomprò la casa paterna a Lucca e divenne uno dei più grandi esploratori della rivoluzione tecnologica tanto osannata dal Futurismo vivendo nel privato la passione per le ruote e i motori.
Il suo primo acquisto fu il ‘bicicletto’ (bicicletta), e in una lettera scrisse di averlo acquistato per smaltire ‘l’indecentissima pancia’ che si ritrovava. Partecipò a numerose competizioni ciclistiche e le cronache lo descrivono così: “tipo forte e simpatico d’uomo, come nella musica, anche nel ciclismo egli semina molti per la strada”.
Puccini, poi, fu tra i primi in Italia a possedere un’automobile: già nel 1901 aveva acquistato per 3.800 lire una De Dion Bouton 5 cavalli targata 33-40 quando ancora il Re d’Italia non ne aveva una. Poi volle una Clement Bayard, una Fiat 60, poi una Isotta Fraschini 14 22 HP e, quindi, una Fiat 501, una Lancia Lambda Cabriolet e poi ancora e ancora. Neppure un grave incidente d’auto fermò la sua smania per i motori.
Vista poi la sua passione per la caccia, pare che abbia domandato al produttore di automobili Vincenzo Lancia un’auto personalizzata con ruote artigliate per potersi muovere su terreni più difficili: praticamente ideò il primo fuoristrada italiano.
Puccini fu tra i primi a possedere un orologio piatto da polso e a commissionare la costruzione di un motoscafo che allora veniva denominato ‘battello automobile’.
Amante dell’avventura anche in campo sentimentale ebbe numerosissime amanti: «Io sono innamorato sempre innamorato come a vent’anni! Il giorno in cui non lo sarò più fatemi il funerale. Ad un artista aspetterebbero speciali diritti.
Se comandassi io – parola d’onore – promuoverei una legge per dare facoltà ai compositori di musica di prendere una nuova moglie ogni 5 anni e mi pare di essere modesto».
Di contro la sua vita matrimoniale fu difficilissima.
Elvira Bonturi, donna più grande di lui già divorziata e con due figli, era detestata da tutti, non amava la musica anzi non le importava nulla del Giacomo compositore, fomentando scenate e litigi frequenti. I superstiziosi pescatori di Torre del Lago dicevano che ‘portava iattura’. Il compositore dovette persino supportarla in un processo penale poiché – per gelosia – la Bonturi indusse una giovane cameriera, Doria Manfredi, al suicidio.
Tale scandalo costrinse Puccini a trasferirsi per qualche tempo in America, per questo alcune prime di sue opere vennero date al Metropolitan di New York.
Ma di tutte le donne amate nessuna accorse al suo capezzale quando quel 29 novembre del 1924 Puccini si aggravò.
Il più grande genio italiano della melodia morì con accanto qualche amico, il figlio Tonio e la partitura incompleta di Turandot.