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“Templum diaboli”: l’osteria tra donne, vino e gioco

Nel mondo antico il concetto di ospitalità pubblica e privata spesso coincideva così pure le funzioni di osteria (templum diaboli) e locanda, in questo modo talora la casa personale diventava anche albergo, e l’oste non disdegnava di offrire ai viaggiatori oltre al vino, cibo e stallatico, pure una dolce compagnia femminile.

Luogo di sosta di viaggiatori e pellegrini, a partire dal secolo tredicesimo l’osteria divenne topos letterario quale spazio di incontri, sotterfugi e raggiri, dove spesso a farne le spese erano proprio gli osti sprovveduti che venivano beffati, come nel Decameron (IX giornata, sesta novella) quando un buon uomo della piana del Mugnone, oste in caso di necessità, ospitò gli occasionali avventori nella sua stessa camera, in letti accostati, ma alla moglie toccò la disavventura di scambiare il letto del marito con quello dell’ospite.

Elementi grotteschi e farseschi sono parte integrante anche dei racconti del Novellino di Masuccio Salernitano dove l’oste amalfitano Trofone, reo di troppa gelosia nei confronti della moglie viene gabbato dall’amante travestito da donna (novella XII) o l’oste di Iovenazzo, dal nome parlante di Tonto de Leo, al quale un giovane mercante raguseo sottrae la moglie con la stessa collaborazione del marito, per mezzo di uno stratagemma ingegnoso (novella XXXIV).

La taverna, locale fumoso, talvolta torbido, è un luogo che appartiene all’immaginario di molti scrittori, dalle osterie di medioevale memoria (Carmina Burana, sec. XIII) a quella manzoniana di Gorgonzola (Promessi Sposi), dove il povero Renzo Tramaglino, in quelle stanze un po’ sordide, con l’aria pesante e il frastuono che si spande attorno, spinto dal buon vino, si lascia andare a affermazioni che lo costringeranno alla fuga: «Due lumi a mano, pendenti da due pertiche attaccate alla trave del palco, vi spandevano una mezza luce. Molta gente era seduta, non però in ozio, su due panche, di qua e di là d’una tavola stretta e lunga, che teneva quasi tutta una parte della stanza: a intervalli, tovaglie e piatti; a intervalli, carte voltate e rivoltate, dadi buttati e raccolti; fiaschi e bicchieri per tutto … Il chiasso era grande. Un garzone girava innanzi e indietro, in fretta e in furia, al servizio di quella tavola insieme e tavoliere: l’oste era a sedere sur una piccola panca, sotto la cappa del cammino, occupato, in apparenza, in certe figure che faceva e disfaceva nella cenere, con le molle; ma in realtà intento a tutto ciò che accadeva intorno a lui».

Tutti i quartieri della città e tutti i paesi del territorio erano pieni di taverne e bettole. A Vicenza gli osti si erano riuniti in una fraglia, una corporazione di mestiere, fin dal 17 luglio 1458 come attestato da un manoscritto in pergamena conservato alla Biblioteca civica Bertoliana (ms.185). Si tratta di un codice contenente una matricola, il registro, con i nomi di coloro che appartenevano alla fraglia, e in aggiunta gli statuti, ossia le regole fondamentali relative all’organizzazione e all’ordinamento giuridico dell’associazione. Il capitolo, l’organo direttivo, della fraglia si riuniva una volta all’anno, il 25 aprile, giorno di San Marco, per eleggere il gastaldo che aveva la funzione di governare la corporazione e far rispettare gli statuti. Per esercitare l’arte del «tavernare» ci si doveva iscrivere alla fraglia e pagare una tassa di adesione, cifra che doveva essere corrisposta anche per partecipare alle fiere che si svolgevano in Campo Marzio o in altri luoghi della città e dei borghi.

Chi voleva vendere in piazza o in città «carne, pesse, torte o altre cosse cote da magnare» doveva pagare alla fraglia 15 soldi di denari oppure entrare nella fraglia stessa. Nella Matricola degli Osti è inserita anche una rubrica degli statuti del Comune di Vicenza: Rubrica de falsitate statere ponderum et mensurarum, concernente i giusti pesi e le giuste misure che gli osti della fraglia dovevano osservare scrupolosamente nell’esercizio del loro mestiere.

In particolare, dovevano misurare e vendere il vino, sia al minuto che in quantità, secondo due giuste misure, di mezza e di bozza («due mensure medie seu bozole»), fatte di metallo o di bronzo, solide, che non si potessero rompere e piegarsi («bone et solide quae rumpi et flecti non possint»), uguali nella forma e misura al modello scolpito nel quadro di pietra collocato nel peronio o piazza della città di Vicenza.

Per misura giusta e corretta s’intendeva il colmo fino all’orlo, ma se il recipiente fosse arrivato al tavolo del cliente con una quantità di vino inferiore, l’oste o l’ostessa sarebbero stati sanzionati con una multa. Nel caso in cui, però, durante il tragitto fino al cliente, ne avessero versato o bevuto, non sarebbero stati penalizzati se avessero giurato che all’origine la misura era colma fino all’orlo.

Pur essendo un lavoro umile, il mestiere dell’oste era tenuto in grande considerazione: la sua rimuneratività faceva dimenticare una certa fama equivoca che aleggiava attorno alla figura di chi svolgeva tale attività. La fraglia, infatti, godeva di una configurazione sociale dotata di un certo rilievo: aveva un suo posto assegnato nel corteo delle processioni cittadine (Corpus Domini, Santa Corona e San Vincenzo, il patrono della città), dove i suoi membri dovevano sfilare dietro al proprio stendardo.

L’osteria è lo spazio della gioia e del non lavoro, il territorio sacro del tempo libero e del gioco, dove spesso fra denaro, vino e carte, finivano per ritrovarsi, presenti nella stessa stanza, o anche seduti allo stesso tavolo, borghesi e ambulanti, artigiani e girovaghi, contadini e nobili.

Definita il «tempio dell’Anticristo», «templum diaboli», la «navata della controchiesa», l’osteria diventa il luogo privilegiato del vivere trasgressivo alle gerarchie e ai valori costituiti, mondo rovesciato rispetto alle regole della società ufficiale.

In questa sospensione del presente scompaiono le differenze sociali fra gli individui e la taverna è avvertita come un rifugio dove tutti sono uguali e possono interagire tra di loro senza alcuna barriera o distinzione sociale. Naturalmente i membri dell’aristocrazia che frequentano le taverne e che finiscono nelle risse come i popolani, non sono quelli più in vista della città: si tratta, in genere, di famiglie con una lunga e importante tradizione, ma dotate di scarso potere politico all’interno del consiglio cittadino.

L’8 settembre 1791, Nicola Velo, figlio del conte Giobatta, era stato tutto il giorno a «uccellare» con il nobile Antonio Monti ed un certo Angelo Curti. Alla sera tutti e tre si erano recati all’osteria detta la Loggetta, situata in borgo San Felice, dove avevano bevuto del vino. Tutti e tre ubriachi cominciarono a litigare cercando di coinvolgere estranei e conoscenti, spintonando, insultando, picchiando, puntando le armi. Un paio di mesi prima Antonio Longo e il conte Ugolino Sesso, figlio del conte Scipione, stavano giocando nell’osteria di Domenico Brunello al Tormeno quando scoppiò un furibondo litigio. Anche in questo caso gli esiti della lite finirono davanti ai giudici poiché, una volta usciti dal locale, cominciarono a bastonarsi a vicenda e a ferirsi con armi da taglio. La Matricola degli Osti del 1458 riporta al

suo interno i nomi dei 12 tavernieri che facevano parte della fraglia. Ogni nome era accompagnato dal nome fantasioso dell’insegna, posta solitamente all’ingresso della bottega, scolpita in legno o incisa in metallo: a la Crose, a l’Orso, al Sole, a l’Agnolo, e così via. I locali della taverna si trovavano sovente nella casa stessa dell’oste che aveva, naturalmente, una cantina, la «cella vinaria», una cucina che comunicava o, più spesso, si trovava nello spazio riservato agli avventori, fornito di focolare, tavoli e panche. Accanto alla porta d’entrata vi era quasi sempre la «restrelliera» dove i clienti deponevano i fucili. Talora, oltre all’ambiente principale, vi erano altre stanze disposte in parte al piano terra e in parte su quello superiore, nelle quali, volendo, si poteva anche dormire alla notte in una delle camere oppure organizzare una festa danzante al suono di qualche violino durante il carnevale. All’osteria si stava seduti per ore intere mangiando trippe, pollastro o castagne, e bevendo vino. Si chiacchierava e si discuteva, ma soprattutto si giocava alla «mora», a carte, il «tressette», al gioco del «tibusco» o dell’«amore», al «trionfo degli uccelli», al

«tornello della bianca e della rossa». Si giocava anche al tiro a segno, «a trare al segno»: si appendeva un «coppo» ad un filo e vinceva colui che sparando riusciva a perforarlo da parte a parte, senza romperlo. In ogni gioco, pur non essendo d’azzardo, c’era una posta: una piccola somma di denaro oppure un boccale di vino. Il gioco era segno di allegria e di svago, e chi non trascorreva il tempo partecipando non era degno di far parte di una buona compagnia, per cui, attorno ad esso, vi erano sempre concentrati gruppi di uomini.

Paolo Rampon detto Smiderle e Giuseppe Talin stavano giocando a carte, mentre Giuseppe Pozzer detto Palesa si mise a guardare. Questi ad un certo punto invitò il Rampon, che accettò prontamente, a scommettere cinque soldi sulla partita. Nonostante le proteste di Palesa che a torto dichiarava di essere lui il vero vincitore, il Rampon si prese i soldi della scommessa avendo vinto. Allora il Pozzer tirò fuori la pistola che aveva nascosto dietro la schiena durante il gioco e sparò contro l’avversario che con uno scatto si rifugiò dietro un tino posto vicino all’entrata, raccattando un grosso pezzo di legno.

L’osteria si svuotò degli avventori che se ne andarono temendo ognuno per la propria vita. Rimasti soli Palesa, sempre armato, sfidò l’avversario ad uscire dal nascondiglio e, infatti, il Rampon uscì con un balzo e con il bastone gli diede in testa un «sì gagliardo» colpo che il Pozzer cadde a terra tramortito«gridando ajuto».

Le occasioni di maggiore affluenza erano i giorni festivi e le ore serali, ed erano anche i momenti in cui si verificava il maggior numero di delitti: gli uomini mangiavano e bevevano di più, alterando il normale comportamento, trasgredendo le regole della vita quotidiana, che scandivano i ritmi di una sottoalimentazione cronica. Nonostante le reiterate istanze dei rettori, i governanti cercarono sempre di intervenire con moderazione sui momenti e sui luoghi di festa, ben sapendo che la festa forniva una valvola di sfogo per le tensioni sociali.

templum diaboli
Jan Steen: Giocatori d’azzardo litigano

Le risse si sprecavano, così come i gesti inconsulti dovuti ai fumi del vino tanto che per ammazzare qualcuno non occorreva avere a portata di mano un’arma. Nel febbraio del 1789 alcuni avventori si divertivano ballando al suono di un violino in una delle camere superiori dell’osteria.

Zuanne aveva pagato 15 soldi al musicista affinché lo seguisse per suonare in un altro luogo, suscitando così le proteste dei presenti, soprattutto di Francesco e in breve ne era nata una rissa. I partecipanti alla festa scesero frettolosamente nella cucina. Zuanne prese dal focolare un «supioto» di ferro e si mise a inseguire Francesco attraverso la corte, ma questi, più veloce, raccolse un sasso e glielo scagliò contro colpendolo alla testa e uccidendolo sul colpo.

Le motivazioni che portano all’aggressione e al delitto denotano chiaramente l’impu sività e l’immediatezza di quel genere di violenza: le festa catalizza umori ed euforie che sfociano nelle liti, ma vede anche i devastanti effetti dei fumi dell’alcool. I fratelli Gaiga, Domenico e Francesco, avevano suonato, tutta la sera della domenica 22 luglio 1759, in un’osteria di Valdagno, l’uno il violino, l’altro il violoncello, dilettando le persone presenti, che avevano ballato fino alle quattro di notte, allorché, stanchi di suonare, decisero di uscire dal locale seguiti da diverse persone. Passati sulla piazza contigua all’osteria per incamminarsi verso casa, i due fratelli s’invitavano l’un l’altro a riprendere a suonare.

Avendo udito ciò, Francesco Nissaro cominciò a deriderli perché, essendo ubriachi, non potevano suonare. Alle risentite risposte di Francesco Gaiga, un compagno del Nissaro, Domenico Tomba, cominciò a percuoterlo con il fucile, finchè dall’arma stessa uscì un colpo che uccise, quasi istantaneamente, il Gaiga.

L’osteria, «luogo laico della mensa fraterna», della convivialità popolare, del mangiare e del bere in compagnia, svolgeva un ruolo particolare nella vita degli emarginati, di coloro che senza fissa dimora non possedevano una casa e per i quali l’osteria, in particolar modo quella urbana, era una specie di focolare domestico, un luogo, comunque, dove passare il tempo, soprattutto in inverno.

Qui vagabondi e “falsi bordoni” scialacquavano le elemosine ricevute, i ladri sperperavano il denaro proveniente dalle refurtive, malviventi e meretrici si incontravano. A Vicenza la banda di Geffe Beccaro, detto Enea, durante l’estate del 1764 aveva assaltato notte tempo alcune case private, nelle campagne contigue alla città, rubando denaro e oggetti in oro. Del gruppo facevano parte, oltre a Geffe originario di Arzignano, Agostino Manetto, «stroppio» d’un braccio, di mestiere scarparo nel borgo di Porta Castello; Zuanne detto Anzolon, figlio di Angelo Tremeschin che aveva osteria al Duomo; Bortolo Pedana e Giuseppe Occhioni di professione samitari (tessitori di seta). Nel giugno del 1764 essi alloggiavano tutti a Vicenza, alla locanda di Zuanne Rossi, soprannominata la Casa del diavolo.

Secondo l’interrogatorio di Giulia, una testimone, questi uomini erano tutti di «carattere tristo dati ai vizj ed ai rubamenti, con abbandono dei propri respetivi impieghi», anzi il Manetto ed il Beccaro erano usciti da poco tempo dalla prigione, dopo aver scontato una condanna per furto. Questa compagnia di «scavezzoni», secondo un’altra testimone, frequentava pure l’osteria di Perotin al Monte e talvolta «aveano seco loro delle donne […] di mala vita». L’osteria/locanda aveva la funzione di offrire ristoro e riposo per il viandante, in particolare per il pellegrino, colui che si recava in pellegrinaggio a piedi in un luogo santo, da solo o in gruppo.

In realtà, le sentenze criminali raccontano come spesso le taverne fossero punti di ritrovo per i componenti delle bande, dove si stipulavano patti criminali e si architettavano azioni delittuose, al punto da diventare un luogo di insidie e pericoli per gli sprovveduti, una vera e propria trappola per i viaggiatori. Anzolo Pasqualin, detto Panzale, da Lonigo, i fratelli Antonio e Domenico Lavezzo, Zuanne Caichiolo, da Lonigo e Gregorio Panzoldo da Noventa Vicentina, Bastian de Grandi, ferrarese, si ritrovarono la mattina del 23 agosto 1700 nell’osteria dei Ponteseli, tra Barbarano e Noventa, e stettero tutto il giorno a bere e a giocare. Verso sera arrivarono dalla parte di Noventa, Alessandro Nievo e Domenico Gobbato insieme con Francesco dalla Rizza e Zuanne Negroti, i quali, in «habito di pellegrini» stavano tornando da Roma dove si erano recati, «per puro istinto di pietà e divotione per l’anno Santo», insieme ai confratelli della compagnia del Santissimo Crocefisso. Poco lontano dall’osteria, li incontrò Domenico Lavezzo, che attaccò discorso unendosi a loro per la strada.

Scorgendo l’osteria i pellegrini mostrarono desiderio di fermarsi, perché l’aria cominciava ad oscurarsi, ma l’«empio» Lavezzo li convinse a proseguire il viaggio, come fecero, tenendo il cammino verso Barbarano. Intanto il Lavezzo, entrato nell’osteria, raccontò ai suoi compagni del passaggio dei pellegrini e subito decisero di inseguirli per derubarli. Armati tutti di un fucile, rincorsero i viandanti e raggiuntili all’altezza della fornace dei Rosa, li assalirono per rapinarli. Ne uccisero barbaramente tre, quindi, spogliati i morti e fattisi consegnare gli averi dai vivi, tornarono all’osteria dei Ponteseli, dove fecero un resoconto del misfatto a Bastian de Grandi, capo della banda, e ad Antonio de Mori, suo servitore, che s’incaricarono poi di vendere la refurtiva ad un ricettatore dl la zona di Cologna Veneta. 

Di Sonia Residori da Storie Vicentine n. 3 Luglio-Agosto 2021


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La storia delle famiglie nobili vicentine presenti nella toponomastica vicentina

Vi proponiamo La storia delle famiglie nobili vicentine presenti nella toponomastica vicentina, Tratto dal libro “Storie di Strade”. 

Gli storici moderni, hanno ormai definito i tratti culturali della famiglia di nobile lignaggio, concepita oggi, come un’entità del passato. Per  lignaggio si intende un’ unità famigliare estesa alle relazioni di parentela avendo come gruppo, un antenato comune. Questo aspetto non è da ritenersi solo in riferimento a titoli, onorificenze che sicuramente distinguevano certi gruppi famigliari da altri, ma è anche una dimensione di valori diversi come l’onore, il diritto di precedenza, l’esclusione di altri ceti sociali. Il lignaggio aristocratico fu anche la conoscenza della propria antichità storica, le imprese gloriose degli avi, la consapevolezza di appartenere ad un gruppo cui spettava l’onore e l’onere di guidare le sorti della città di origine. L’emergere della nobiltà in tutti i paesi europei fu un fenomeno significativo in particolare nelle città e nei comuni minori italiani. La gestione della res publicae era inscindibile dal ruolo svolto dalle famiglie aristocratiche, il lignaggio aveva la sua preminenza economica per la capacità dei nobili di interagire con altri nelle complesse reti di amicizia. L’eguaglianza di tutti i cittadini nei doveri e nei diritti era del tutto compatibile con l’esistenza di forti differenze nel peso politico, nelle ricchezze, perché la partecipazione alla vita politica non era individuale, ma Comune come associazione giurata, importante il ruolo di pacificatori svolto dagli aristocratici nei confronti delle beghe che animavano i sudditi. 

la storia nobiltà vicentina

L’Onore distingueva tutti i rapporti sociali e sanciva la gerarchia nella società.

Lo status di nobile aveva affermato alcuni privilegi come il diritto di precedenza e la distinzione tra tutti gli altri.

La dimensione dell’onore non era una posizione economico sociale ma era anche un pericoloso terreno di conflitti. Il rapimento di giovani ereditiere era frequente e ridefiniva la dimensione dell’onore. La Repubblica Serenissima per i rapimenti, emanò nel 1574 una legge contro questi crimini particolarmente odiosi. L’ideologia nobiliare aveva una cultura intrisa di valori mitici e religiosi. Per le famiglie nobili era comunque necessario trovare alleanze soddisfacenti magari attraverso i matrimoni per cui si concedevano alle figlie doti matrimoniali cospicue purché si maritassero convenientemente. Il matrimonio era una strategia elaborata e ponderata che mirava a creare alleanze famigliari. I nobili celebravano i loro riti con scambi sociali e relazioni affettive ma anche scegliendo edifici sacri come chiese, cappelle, oratori, i grandiosi sepolcri di famiglia come nel Cimitero Monumentale della città dove la dimensione sacrale del lignaggio era massima. Un’ altra voce che dava il grado del prestigio raggiunto da una famiglia era il Palazzo cittadino che misurava il valore della famiglia destinata a governare la città. La storia di una città è la storia delle famiglie che avevano un ruolo di prestigio, per molti secoli gli aristocratici Vicentini svolsero questo ruolo con onore. 

Di Luciano Parolin da Storie Vicentine n. 3 Luglio-Agosto 2021


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Un viandante all’oratorio della Salve Regina

Il viandante è appena entrato nel bosco abbandonando la strada dei Berici dopo Perarolo. Conosce bene la deviazione che lo condurrà alla meta, ma gli piace fermarsi davanti al grande cippo viario in pietra e leggere le indicazioni incise per Sant’Agostino, Vicenza, Perarolo, San Gottardo.

La stradina è sterrata in ripida discesa. Quando spiana, il bosco si apre sulla valle delle Casare. Nel vicino orizzonte a oriente si disegnano contro il cielo la cupola e il campanile della Basilica di Monte Berico, sulla sinistra Valmarana segna la collina col campanile dell’antica chiesa di San Biagio.

La ragazza col berretto rosso, che accompagna il viandante, correndo è già davanti all’oratorio. Al mattino di buon’ora, erano entrati nella cappella del convento di clausura delle Carmelitane a Monte Berico. Di là della grata protetta da una tenda verde si alzò il canto della Salve Regina. Pareva che le suo- re donassero un augurio per il cammino li aspettava. Prima dell’oratorio si scorgono i cipressi e le acacie che incalzano il pendio ai lati della strada. Sull’arco dell’ingresso è scritto SALVE REGINA, nell’inferriata che chiude l’ogiva, sopra la porta di ferro, è ritagliato un cuore. “Sacello della Beata Maria Vergine Addolorata”: così lo chiama Papa Pio X in una sua lettera spedita da Roma il 30 luglio 1904 per la concessione di indulgenze.

E’ la chiesa più vicina al cielo sul territorio di Altavilla, solo il nucleo centrale, quello originario, poi le estensioni successive ricadono anche nel territorio del Comune di Arcugnano. Mi hanno raccontato che il cippo di confine tra i due Comuni sia proprio sotto l’altare. I Papi scrivono in latino. Sacellum: recinto all’aperto con un’area consacrata si legge nel vocabolario. Qui la sacralità la percepisci anche attorno, come se il bosco fosse una cattedrale vivente e prende anche un senso di serenità nell’essere lì, immobile e non parlare, non dire niente a chi ti sta vicino, neanche che sei felice. Luogo di grande riconciliazione spirituale con il cielo. Così pensava il viandante mentre lo sguardo scendeva dalle cime dei cipressi e si calava dall’azzurro del cielo al rosso dei coppi che coprono il tetto dell’ottagono originario. Già ci si accorge di come la chiesetta si inserisca nel paesaggio a somiglianza di chiaro elemento geometrico e diventi oggetto di contemplazione. Non ha nulla o quasi delle apparenze della natura, ma con questa entra in armonia senza quindi insidiarla o contrastarla. Prima che il sacello fosse costruito, un segnale religioso distingueva questo luogo: era un’immagine della Madonna affissa a una quercia. Il bosco diventava tempio senza confini. La prima segnalazione rintracciata della costruzione risale al 1893 in un verbale dell’Amministrazione Catastale per la delimitazione delle proprietà nel comune censuraio di Valmarana dove si legge: “Questo giorno 25 ottobre 1893 … onde determinare in modo certo e stabile i confini del fondo denominato Salve Regina posseduto da Bianchini Giuseppe fu Vincenzo, posto nella frazione suddetta, sono stati invitati oltre al possessore del fondo anche i possessori finitimi. Percorrendo le fronti di detta possidenza si è trovato che: A levante confina con Bianchini Giuseppe e che il confine è costituito da una linea retta individuata da un termine comunale e da un muro compreso dalla chiesetta di Salve Regina. Detta chiesa segna il confine fra il Comune di Arcugnano ed il Comune di Valmarana. A mezzogiorno e ponente confina con la strada vicinale detta di Malpasso e il confine è costituito da una linea curva.

individuata dallo spigolo della chiesetta di Salve Regina e da un picchetto provvisorio. A settentrione confina con Caneva Antonio e il confine è costituito da linea spezzata in tre tratti determinata da due picchetti uno già descritto da una croce in sasso e da un termine comunale pure descritto.”  I lavori di costruzione del sacello terminarono nel 1903, dopo essersi protratti per anni sotto la cura di padre Giovanni Maria Bianchini dei Servi di Maria. Chissà cosa pensavano i boscaioli nel veder sorgere quegli archi gotici uniti nella forma dell’ottagono. Nel 1904 il sacello era benedetto e l’otto del mese di maggio vi si celebrava la prima messa. Cinque anni dopo, un altro ottagono, più ampio, coronava il primo completando la costruzione.

E’ inaugurato solennemente solo il 12 settembre del 1910. Costruttore e forse progettista fu nonno Ettore che allora aveva ventinove anni. L’ottagono è simbolo della resurrezione ed evocatore della vita eterna. Le antiche fonti battesimali sono ottagonali o si innalzano su otto pilastri. L’otto è il numero dell’equilibrio cosmico e delle direzioni dei punti cardinali unite alle direzioni intermedie. Sul pinnacolo in pietra, al centro del tetto di coppi rossi, il viandante osserva una croce di ferro a quattro braccia. E` orientata secondo i punti cardinali.

Coincidenze? Continua a pensare che anche i raggi delle antiche ruote di legno erano, di solito, otto e che l’otto è legato alla Ruota e all’Ottuplice Sentiero buddista, ai petali del fiore di loto. Da un fiore ad otto petali escono le piccole croci di ferro, sempre a quattro braccia orientate, che concludono le due torrette sul tetto basso in pietra tenera finemente disegnata e bugnata, sormontate da una cupola vagamente orientale. Sulla cupola un fiore in pietra a otto petali si apre a contenere le croci. Sotto le croci le banderuole segnavento, bloccate dalla ruggine in direzioni di venti antichi. L’ottagono e il numero otto, si rincorrono continuamente, non come qualcosa di disperso, ma come un non numerabile mirato a costruire un’unica identità. Il viandante si rende conto che se continua a pensare entrerà in acque molto agitate.

Allora cerca una spiaggia cui approdare. Gira attorno alla chiesetta per scoprire a nord la facciata del romitaggio di fra Giovanni Maria con le finestre a bifora sovrapposta. Sopra la bifora superiore pende una campanella. Chissà quando suona, chissà come sarà questo suono libero sulla valle aperta e come voleranno via gli uccelli del bosco. Gli uccelli! Negli anni in cui celebrava padre Pietro Maria Contessa dei Servi di Maria, vi fu una domenica di primavera che la santa messa si celebrò con le porte spalancate. C’era nell’aria un profumo mai dimenticato e gli uccelli non smisero di accompagnare la celebrazione con i loro canti. Ad un certo momento il frate chiese a tutti, anche a se stesso, di stare in silenzio, di lasciar entrare nel sacello quel canto perché ci fosse solo quel suono negli ottagoni consacrati. La Beata Vergine sull’altare non pareva più Addolorata. Erano gli “uccelli dell’aria” di suo Figlio. Il romitaggio è impostato su due piani.

La porta d’ingresso verso mattina è ad arco gotico come la finestra che la sovrasta, quattro aperture a ogiva si aprono sulla parete verso il tramonto. Il viandante sorride vedendo ai lati delle porte i ‘feri par netàre le scarpe dal paltàn’. Pensa ai villici che arrivavano traversando i prati o per sentieri e mulattiere, le scarpe già pesanti, più pesanti ancora per il fango. Li vede fermarsi davanti a quel ‘fero’ poi entrare con tutta la loro fede addosso per recitare la Via Matris Dolorosae: Simeone davanti al gran Tempio, l’Angelo che invita Giuseppe a fuggire, Gesù che si smarrisce nel tempio, l’incontro sulla strada del Calvario, Gesù che muore, il Figlio deposto, il Figlio nel sepolcro. E la giovane madre sempre lì con il suo presente affanno e il suo dolore.

Il viandante non crede che la giovane Myriam abbia pianto, perché se le sue lacrime avessero profumato la terra, adesso il mondo sarebbe diverso. La statua della Madonna Addolorata ha conosciuto la strada per Ortisei quando nel 1955 vi fu portata per ricavarne una copia che sarebbe stata collocata nel santuario dei Servi di Maria di San Carlo a Milano. La nuova statua riesce male e così i Padri di Milano si trattengono l’originale che fanno benedire dall’Arcivescovo Giovanni Battista Montini il 7 dicembre 1955. Intanto il Priore di Monte Berico si vede ritornare la copia mal riuscita della Beata Vergine. Recita un paio di giaculatorie non previste dal breviario e rispedisce la statua a Milano. Il religioso trafugamento non dura molto. Il 22 aprile dell’anno dopo una folla acclamante assiste al solenne trasporto dell’originale nella chiesetta della Salve Regina.

Il parroco di Valmarana era allora don Mario Frangipane. Questo cognome dolcissimo insidia da sempre l’anima del viandante. Gli ricorda i viandanti del Vangelo nella casa di campagna di Emmaus, la cena, lo spezzare del pane, il riconoscimento. Adesso la statua è sull’altare, con le mani giunte, col capo rivolto verso il basso, verso di noi, gli occhi chiusi, una corona di stelle sul capo, il Figlio nel tabernacolo ai suoi piedi. Ai lati i sette Santi Fondatori dell’Ordine dei Servi di Maria. Padre Pietro Maria Contessa e don Mario Frangipane non ci sono più. Anche tanti altri sono partiti per quell’altrove che ci aspetta. Di loro due il viandante non ricorda le parole, ricorda solo la figura sacerdotale. Ma un altro Servo di Maria insegue il viandante, in questi tempi, con le sue parole: Padre Ermes Maria Ronchi. Lui racconta che è necessario molto silenzio per ascoltare lo stupefatto silenzio di Dio. Insegna che Dio non lo trovi negli abbagli delle grandi visioni, nello splendore di un grande tempio, ma nella vita che è un’anfora di ombre. Nel buio di un grembo sta la luce

della vita. Racconta ancora di Maria e di tutte le madri che attendono non per una mancanza o per un’assenza da colmare, ma per una pienezza, per una sovrabbondanza di vita, per generare. Poi ci chiede di partire in pellegrinaggio verso il luogo del cuore, per decifrare le radici delle nostre azioni. Ci guarda negli occhi e ci dice che non siamo fragili o poveri, quanto piuttosto creature incompiute in cammino verso forme più alte.

Il muro della chiesa è caldo nel sole di mezzogiorno. Qualcuno ha piantato rami fioriti nei due vasi al lato della porta. Il viandante si siede. La ragazza col berretto rosso che lo accompagna si è allontanata nei prati di sotto. Nel silenzio intatto basta un leggero richiamo. La ragazza si gira, fa un cenno alzando il berretto. Sarà qui subito. Intanto il viandante recita sottovoce una Salve Regina.

 

Di Giorgio Costantino Rigotto da Storie Vicentine n. 3 Luglio-Agosto 2021


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Alessandro Belluscio fra assicurazioni e golf. Fiorentino divide il tifo calcistico fra viola e biancorossi

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Festeggia nel 2023 il mezzo secolo a Vicenza, ma l’accento fiorentino è rimasto quello di quando Alessandro Belluscio è arrivato in città per un impegno di lavoro che doveva durare poco e, invece, è stato l’occasione di un trasferimento definitivo. “Ero ispettore della Fondiaria – ricorda –. Mi mandano a Vicenza per risollevare una piccola agenzia che non andava bene. Pochi giorni dopo, il 15 maggio 1973, mi chiama l’amministratore delegato della compagnia e mi propone di rilevare l’agenzia. La risposta? La mattina dopo! Ho detto sì e sono ancora qua.”

Alessandro Belluscio
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Cinquanta e più sono anche gli anni della collaborazione con Fondiaria di Alessandro Belluscio, titolare con il fratello della Belluscio Assicurazioni che ha sede nel Palazzo della Dogana, nel Centro Storico della città, e controlla una rete di dieci agenzie in provincia. “La nostra – sottolinea con palese orgoglio – è la prima agenzia di Vicenza e una delle più grosse d’Italia.”

Imprenditore sì, ma sportivo da sempre. “Sono di Borgo san Lorenzo, comune della Città Metropolitana, e i miei primi sport sono legati a Firenze. Facevo atletica leggera, correvo gli 800 metri, e giocavo a tennis, che ho dovuto lasciare per un infortunio. Andavo a vedere le partite della Fiorentina in Curva Fiesole. Non dimenticherò mai un gol di testa di Hamrin, che non era propriamente alto. Ricordo il debutto di Antognoni nel ’72. Dal Lanerossi vennero a Firenze Speggiorin, Vitali, dei bidoni…”

Handicap post Covid di 17 buche per assicuratore vicentino di... Firenze. Belluscio: migliorerò!
Handicap post Covid di 17 buche per assicuratore vicentino di… Firenze. Belluscio: migliorerò!

A Vicenza il colpo di fulmine: scopre il golf, che diventa una parte importante della sua vita e lo è ancora. I primi swing li prova sul campo pratica di Sant’Agostino perché a Vicenza non c’è ancora un campo, poi lezioni sulle 18 buche del Meltar di Asiago e si accasa, infine, al Club Colli Berici di Brendola. “Oggi ho un handicap 17 perché, a causa del Covid, ho giocato poco ma posso migliorarlo. Gioco tutte le domeniche e, d’estate, anche il sabato. Partecipo ai tornei sociali e anche a quelli ufficiali. Sono stato all’estero per giocare, in Scozia Spagna Portogallo…”

Le sfide non ufficiali sono sempre con gli amici del gruppo “Golf e Torcolato”, una ventina di golfisti che – come si deduce dal nome della compagnia – coinvolgono sport e buona cucina. “Siamo una ventina. Fa parte del gruppo anche il cardiochirurgo Sandro Frigiola, a cui sono molto legato. Dopo la partita, chi ha perso paga il pranzo agli altri. Mentre si gioca sono ammessi gli sfottò e le battute per deconcentrare chi deve tirare. Si può perfino gufare.”

Belluscio e il Luxury Golf Trophy a Brendola nel 2021
Belluscio e il Luxury Golf Trophy a Brendola nel 2021

La passione per il golf non si limita al green ma si è estesa da tempo alla scrivania: “sono vicepresidente del Club Colli Berici da quindici anni, sempre in tandem con il presidente Alberto Ferrari e sono anche presidente del cda dell’Immobiliare. Abbiamo fatto crescere il club, che oggi conta seicento soci. Abbiamo assunto dal 1° gennaio un nuovo direttore, Luigino Conti, molto noto nel nostro mondo e, con lui, puntiamo al ringiovanimento degli iscritti.”

Iscrizione, quindi, a 10 euro per i giovani per convincerli che il golf non è uno sport d’élite: “il maestro costa come quello di tennis, sacca e mazze un migliaio di euro ma durano dieci anni, il campo è un ambiente sano e curato dove si possono passare molte ore. Qui i ragazzi imparano l’autocontrollo, il rispetto delle regole e per la natura.”

A Vicenza Alessandro Belluscio, pur senza rinunciare al tifo per i Viola, s’appassiona al Lanerossi. “Erano gli anni del Real Vicenza, di G.B. Fabbri, di Paolo Rossi. Ho conosciuto alcuni di quei giocatori perché frequentavano come me il ristorante Sergio e Ciacio. Da allora sono rimasto sempre vicino al Vicenza, continuo ad andare a vedere tutte le partite al Menti. Sono anche sponsor, come lo sono dell’Arzignano.”

Non ha mai voluto entrare in società ma è stato uno dei fondatori di Vicenza Futura, il gruppo di imprenditori che voleva costruire a Vicenza est una Cittadella dello sport con nuovo stadio e nuovo palasport. “Era un grande progetto, volevamo dare qualcosa d’importante alla città ma abbiamo trovato ostilità dappertutto, dai politici ai tifosi ai gruppi economici.”

Alessandro Belluscio e il golf
Alessandro Belluscio e il golf

Un’altra avventura sportiva è stata il progetto dei Mondiali di ciclismo 2020 a Vicenza. “Abbiamo portato due arrivi del Giro in città e ci è venuta l’idea di portare il Mondiale. Nell’agosto del 2014 con Claudio Pasqualin, Moreno Nicoletti e Gabriele Viale abbiamo costituito il Comitato promotore. Nel congresso dell’UCI del 2017, in occasione del Mondiale di Bergen, abbiamo avuto l’aggiudicazione ufficiale. Abbiamo lavorato per due anni per preparare il progetto, investendo 100.000 euro, tutti a nostro carico. Ci siamo fatti vedere in tutti i Mondiali per promuovere Vicenza. All’ultimo sono mancate le fidejussioni, che doveva dare il Governo. Prima avevamo l’ostilità del ministro Lotti, che non voleva far fare bella figura a Zaia e alla Lega, poi, quand’è cambiato il Governo, era troppo tardi perché il sottosegretario Giorgetti non aveva le risorse in Finanziaria. Inoltre, il presidente della Federazione Di Rocco non ci ha sostenuto. Peccato, è stata un’altra grande occasione persa da Vicenza.”

 

Teatro Olimpico. Sedici statue del giardino restaurate da Engim Veneto con il contributo del Lions Host

Le sedici statue in pietra di Vicenza che abbelliscono le aiuole del giardino del Teatro Olimpico saranno restaurate dai giovani studenti di Engim Veneto, fondazione che si occupa di orientamento e formazione professionale e che ha sede a Vicenza.

Saranno i quattordici allievi del secondo anno del Corso Tecnico del restauro di beni culturali, seguiti da un team di professionisti e formatori, a occuparsi dell’intervento di manutenzione e ripristino. Dopo una prima fase di documentazione e rilievo dei manufatti è prevista una fase diagnostica seguita dall’intervento di restauro seguito dai restauratori e formatori Elena Gironda e Piero Ciampi con la supervisione della Soprintendenza.

L’annuncio è stato dato in una conferenza stampa convocata nel giardino del teatro palladiano ed a cui hanno preso parte il vicesindaco Matteo Celebron, l’assessore alla Cultura Simona Siotto e il direttore dei Musei civici Mauro Passarin. Engim era rappresentato da Ugo Pasquale, componente del comitato direzionale, da Barbara D’Incau, responsabile della sede vicentina, e da una dozzina di studenti. All’incontro ha partecipato anche Grazia Giordani Cielo, presidente del Lions Club Vicenza Host, che sovvenziona il lavoro.

Le statue hanno una origine molto varia. Ci sono quelle del Quattrocento, un rosone che probabilmente viene dalla Chiesa di Santa Maria degli Angeli, che sorgeva lungo il Bacchiglione all’imbocco di Largo Goethe e che è stata demolita nell’Ottocento. Le sculture di figure in piedi che scandiscono il viale interno erano decorazioni del Teatro Verdi, dalla cui distruzione bellica sono state recuperate. La statua accosciata proviene da Palazzo Repeta in piazza San Lorenzo.

Non si conoscono con precisione gli autori di gran parte delle opere. Il fauno con le zampe caprine e il cerbero con le tre teste di cane e il corpo umano risalgono al XVI secolo e sono da attribuire alla cerchia di Camillo Mariani. Quattro busti, due figure distese e una acefala sono state scolpite nel XVIII secolo e appartengono alla cerchia dei Marinali. Sette statue scolpite tra il 1920 e il 1924 dagli scultori vicentini Pozza, Morseletto e Caldana (quelle che si trovavano sulla balaustra superiore del Teatro Verdi) sono del secolo scorso  e sono attribuite a Giuseppe Giordani.

Fra quelle che saranno restaurate, non ci sono opere di grande valore ma fanno parte a buon titolo del patrimonio artistico comunale e contribuisco ad abbellire e arredare il piccolo parco retrostante il teatro.

Maria Elisa Avagnina, storica dell’arte, già direttrice dei Musei civici e segretaria dell’Accademia Olimpica ha sottolineato la necessità e l’urgenza di provvedere al recupero e al restauro delle statue che, essendo collocate all’aperto e scolpite in pietra di Vicenza e quindi in un materiale facile da lavorare ma molto delicato e poco duraturo e resistente, presentano segni di degrado e hanno le superfici ingrigite.

“Il restauro – ha spiegato Avagnina – sarà l’occasione per vedere quando e come è nato questo progetto di riuso antiquario all’aperto, che ha reso il giardino del Teatro Olimpico un luogo di raccolta delle sculture erratiche. E, come ogni buon restauro dovrà essere anche l’occasione per un risarcimento non solo materiale delle opere ma anche critico. Non è facile questa ricerca, avevamo già cercato in passato, ma bisognerà tornare negli archivi, approfondire e vedere.”

 

Giandomenico Tiepolo: Pranzo all’aperto di una famiglia di contadini

Giandomenico, figlio di Giambattista Tiepolo, entrò giovanissimo a far parte della bottega del padre e con lui collaborò in numerose opere, acquisendo però ben presto una sua particolare autonomia espressiva, moderna e libera.

Nel 1757 lavorò nella Villa Valmarana “Ai Nani”, in cui realizzò questi celeberrimi affreschi insieme al padre. Eppure una data in essi dipinta, interpretata come “1737”, sembrava escludere un intervento del figlio che all’epoca aveva solo 10 anni.

In realtà, in seguito a più attenti esami, venne appurato che quella cifra era un cinque e non un tre. Ecco quindi giustificato l’intervento del figlio trentenne e questo viene considerato il lavoro più famoso da parte di Giandomenico.

In particolare si dedicò alla Foresteria, dove si scostò dallo stile paterno, più classico, per assumerne uno più moderno, ispirato all’illuminismo. Alcune delle scene qui dipinte furono decisamente  precorritrici  per  i  gusti dell’epoca (nella Sala dei Contadini li dipinge durante il loro duro lavoro quotidiano, e nella sala delle Cineserie segue una moda del tempo).

Giandomenico Tiepolo
Giandomenico Tiepolo -Pranzo all’aperto di una famiglia di contadini

La scena del pranzo all’aperto della famiglia di contadini è di un realismo spettacolare. La donna, nonostante il fardello della gravidanza, resta in piedi a osservare e pronta a servire, mangiando con il piatto sopra la pancia. Alcune suppellettili già svuotate sono posate a terra ai suoi piedi.

Il contadino è ripreso di spalle su uno sgabello, senza alcun riguardo per l’osservatore, bada solo al suo pasto e imboccando il figlio più piccolo trova quel poco di tempo per trastullarlo sulle ginocchia.

L’altro figlio è seduto per terra mentre si rifocilla con appetito vorace, sembra guardare incuriosito e seccato l’inopportuno osservatore. Un cane alza il capo a fiutare e seguire con lo sguardo dove vanno i bocconi migliori.

Un’altra familiare di sghembo mentre esce infagottata, di spalle e a ridosso della moglie, forma con lei un’unica massa corporea che controbilancia la pancia enorme. Alcune zucche pendono dalla staccionata per finire, una volta maturate, sulla tavola dei signori. A pochi metri di distanza, dentro la villa, un servitore moresco scende una splendida scala di marmo per servire cioccolata in tazza ai suoi padroni e la tecnica illusoria del “trompe-l’oeil” è così realistica da staccarsi alla vista dalla parete su cui è dipinto.

Il realismo naturalistico di Giandomenico è di una qualità narrativa sorprendente, un passo più avanti rispetto alla pittura paterna. La sua pittura è il contraltare alle stucchevoli scene epiche, eroiche, mitologiche e sentimentalistiche del padre. Nella sua espressione usa volutamente un tono minore, quasi dimesso ma spontaneo, e lui così dipinge il “mondo nuovo” e descrive appieno la percezione di crisi del “mondo vecchio”.

Di Luciano Cestonaro da Storie Vicentine n. 3 Luglio-Agosto 2021


In uscita il prossimo numero di Marzo 2023
distribuito nelle edicole del centro e prima periferia e agli Abbonati
Prezzo di copertina euro 5
Abbonamento 5 numeri euro 20
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Biblioteca civica di Montebello Vicentino, riparte l’attività culturale

Riprendono a pieno ritmo, nella Biblioteca civica di Montebello Vicentino, le attività culturali e divulgative promosse dall’Assessorato alla Cultura e dalla biblioteca stessa.

La prima è in programma venerdì 24 febbraio 2023 alle 20,30, quando la professoressa Nicoletta Nicolin Tonelato proporrà un approfondimento sul santuario Madonna dei Miracoli di Lonigo: un avvincente e singolare percorso tra gli ex voto, la storia e il patrimonio artistico del santuario.

Il 3 e il 10 marzo 2023 alle 18 spazio nella Biblioteca civica di Montebello Vicentino invece ai temi informatici, con l’esperto Riccardo Zordan. Il primo appuntamento sarà un corso sulla sicurezza in rete: consigli su come acquistare e navigare sul web stando alla larga dai raggiri. Il secondo sarà un’introduzione ai social network: vantaggi, svantaggi e opportunità delle principali piattaforme. Partecipazione, per entrambi gli incontri, previa iscrizione, recandosi di persona in biblioteca oppure scrivendo a [email protected] o telefonando allo 0444 649378.

Lunedì 6 marzo 2023 toccherà al mondo della scuola. L’incontro, condotto dal pedagogista Stefano Coquinati, sarà infatti dedicato al metodo di studio, cioè all’insieme di strategie che si utilizzano per studiare in modo efficace. L’appuntamento sarà suddiviso in due parti: dalle 17 alle 18 i protagonisti saranno gli studenti della scuola secondaria di primo grado, dalle 19 alle 20 i genitori.

biblioteca civica montebello vicentino
La Biblioteca civica di Montebello Vicentino

Sabato 1° aprile 2023 alle 17, infine, è prevista una visita alla mostra in Basilica Palladiana a Vicenza “I creatori dell’Egitto eterno. Scribi, artigiani e operai al servizio del faraone”. I posti sono limitati e la prenotazione è obbligatoria. Per prenotare rivolgersi alla biblioteca oppure scrivere a [email protected] o telefonare allo 0444 649378.

Street food e Carnevale in piazza ad Altavilla Vicentina

L’Amministrazione Comunale di Altavilla Vicentina, in collaborazione con Dolomiti Eventi, ha organizzato l’evento “Carnival Street Food”, una tre giorni dedicata al cibo di strada rivisitato in chiave gourmet.

Dopo il successo della prima edizione autunnale, da venerdì 24 fino a domenica 26 febbraio i trucks di Street Food torneranno a popolare Piazza della Libertà. Dalla cucina spagnola a base di burritos, nachos ed empanadas, fino all’autentica pinsa romana, passando per cannoli siciliani, cassatine e arancini, i 12 trucks protagonisti dell’evento Street Food ad Altavilla Vicentina saranno in grado di soddisfare i gusti di ogni palato.

Si proseguirà sabato 25 febbraio con la sfilata di Carnevale che vedrà la partecipazione di carri mascherati ideati dalle associazioni del paese ed ispirati a personaggi di fantasia, come i Puffi e i Dinosauri, o a personaggi storici realmente vissuti, come Queen Elisabeth. I carri partiranno dal municipio di Altavilla Vicentina e sfileranno per le vie centrali fino all’arrivo in Piazza della Libertà dove avverranno la premiazione finale e la proclamazione del carro vincitore. La giornata si concluderà alle ore 20:00 con l’esibizione dei trampolieri e lo spettacolo di fuoco. 

Per tutta la durata della manifestazione sarà attivo lo stand della Pro Loco con crostoli, frittelle e vin brulè per tutti.

“Siamo soddisfatti di poter riproporre l’evento Street Food ad Altavilla Vicentina, considerato l’ottimo successo di pubblico riscosso alla prima edizione – dichiara Cora Pellizzari, assessore alle Politiche Giovanili del Comune di Altavilla Vicentina – Dopo la pausa dovuta al Covid, finalmente possiamo tornare a vivere liberamente la comunità attraverso momenti di festa e convivialità rivolti a tutti”.

“Vecchia casa” di Paolo Lioy

È il 1908, l’anno dell’assassinio del re del Portogallo Carlo I, l’anno della più grande catastrofe naturale del XX secolo: il sisma che colpì Messina e Reggio Calabria. Paolo Lioy, già nominato senatore del Regno tre anni prima, ha al suo attivo una sterminata e variegata produzione (stimata in oltre trecento scritti). “Apparizioni e ricordi” è l’ultima opera, pubblicata da Treves appunto nel 1908, e “Vecchia casa” ne è il brano di apertura.

Sono anni di profonde trasformazioni sociali e politiche. La “belle epoque” sta procedendo con quieta spensieratezza, così come l’orchestrina continua a suonare sul Titanic che sta per affondare (nel 1912). Ma l’’Europa, dopo circa trent’anni di pace, si sta avviando a un massacro senza precedenti. I grandi Imperi si sgretoleranno e con loro molte illusioni, per dare inizio a una nuova era.

“Il vecchio mondo, nell’ora del suo tramonto era bello a vedersi” scrisse di quegli anni Winston Churchill ne La crisi mondiale (1921). Invece Lioy ne percepisce la sofferenza e lo sgomento. “La fredda ala del tempo, dice l’autore, fa dissipare le idealità”. L’io narrante descrive il ritorno, in una malinconica atmosfera autunnale e nell’età del proprio declino, ad una sua vecchia villa di campagna vuota ed abbandonata. Il senso di disfacimento è quello che Lioy avverte per quel mondo decrepito avviato al tramonto. In queste pagine dal tono autobiografico e memorialistico, come il titolo del volume indica, c’è a differenza di altri scrittori coevi questo evidente senso di amarezza e di sgomento per un’epoca che sente avviata a finire. Lioy morirà tre anni dopo, il 27 gennaio 1911, nella villa di campagna a Vancimuglio di Grumolo delle Abbadesse. (Luciano Cestonaro)

vecchia casa
La Villa a Vancimugliuo

VECCHIA CASA
Paolo Lioy

Col trotto di due vecchi ronzini, dopo anni di assenze, la carrozza mi riconduceva alla villa da tanto tempo disabitata. Veramente la campagna si presentava sotto ad auspici punto attraenti: era autunno inoltrato, e l’ora tarda coloriva il paesaggio di mestizia.

La caduta delle foglie aggiungeva tristezze a tristezze. Gli ultimi raggi di solei inargentavano le piume delle vitalbe e facevano rilucere le bacche nere dei ligustri; qualche tronco contorto si mostrava già spoglio di fronde. Quando con l’incominciare della salita i cavalli si arrestavano per prendere fiato, si udivano tra le macchie pigolii di uccelli giunti dal settentrione, e sulle aie cicalecci di passere. Le allegre spighe che in primavera aveano biondeggiato tra fiordalisi e papaveri, giacevano accatastate in montagnacce di paglia.

Si era fatto buio, fitto; soltanto i pioppi spiccavano ritti quali alberi di navi in mari di nebbie. Senza che nella mia astrazione mi accorgessi, incominciarono a cadere goccioloni di pioggia: il provvido cocchiere scese di cassetta, alzò il mantice, mi rinchiuse in una apparenza di feretro; e avanti avanti, senz’altro udire che lo scalpiccio dei cavalli, i tintinnii dei sonagli, gli schiocchi della frusta. D’improvviso la vettura si arrestò sotto a un diluvio. Eravamo giunti. La luce dei lampioni illuminò il cancello; cercando cercando la campanella sonò così strepitosa che i rintocchi parvero squilli della valle di Gioafat. Si aprì il finestrino del portinaio, apparve un lumicino, una voce rauca gridò: – Chi è?

Finalmente, tra rumori di chiavi e di catenacci, il vecchio custode, con una lanterna che lo lasciava nell’ombra venne ad aprire. La vettura entrò sotto al grande portico, mentre sempre più fitta la pioggia rovesciandosi dalle grondaie strepitava sul cortile. Levai di mano al custode la lanterna; lo contemplai: era curvo, decrepito, una rovina ambulante. La vecchia sua Bauci era morta, e se non vi fossero i barbagianni intenti a ronfare sotto ai tetti, il guardiano era il solo vivente. Prima di penetrare nella vecchia casa ebbi a vincere le sue ritrosie. – Venga, – diceva stralunando gli occhi – venga a dormire in fattoria; lassù, di notte, nelle stanze abbandonate, si ascoltano strepiti. Qui tutti ne hanno paura…. –

Povera casa, per tanto tempo deserta, un giorno nido all’amore e al piacere, buon è che ritornavo io a farti rivivere, cara e memore morta! Mi feci porgere le chiavi, impugnai la lanterna e, come se spalancassi una tomba, entrai. In una famosa romanza Gounod esprimeva coi versi di Lamartine la dolce commozione del pellegrino reduce di sera, dopo lunga assenza, al luogo nativo; ma codeste essenze diventano poco propizie ai ritorni quando sia deserta la casa che, muta, aspetta. Spalancata la porta, grandi ombre si alzarono dai seggioloni; gli alti armadi guardarono con aspetto di mummie ravvolte in bruni mantelli. Le camere si perdevano in fughe interminabili. Non anima viva, ma ogni angolo ricordava scomparsi; tutto vi era muto, ma ogni cantuccio aveva un linguaggio. Tumultuose risurrenzioni di affetti invitavano a stendere le braccia dove non si incontrava che il vuoto, o a mormorare evocazioni di lontani o di morti. Regnava dovunque l’espressione di disfacimento propria a vecchie mura lasciate sole, dalle seggiole a tende, a tappeti, ad arazzi cadenti. Avanzavo avanzavo, e vedevo biancheggiare i grandi letti antichi, coi padiglioni distesi quali nascondigli in nascondigli; e più avanti alcove simili ad antri. Dovunque reliquie di vite spente: mantelle sugli attaccapanni, pantofole sotto a divani, coppe su un desco; su una tavola enormi mazzi di fiori stecchiti. Sui doppieri di bronzo e d’argento restavano candele da tanto tempo non più accese; nella grande sala, in affreschi attribuiti a Tiepolo , corrosi dal tempo, guardavano matrone scollate, con enormi cuffioni; parevano allora allora corse a rincantucciarsi, mentre davanti agli immensi specchi la mia ombra nera passava, allungandosi sulle pareti, o strisciando sul pavimento. Il respiro diventava affannoso. Non capivo dove andavo, né dove la casa grande avesse a finire. Volli aprire un finestrone rammentando i giorni quando col mattino entrava la luce tra profumi di pergole; ma appena socchiuse le imposte una raffica di vento mi rigettò indietro; le tende si agitarono come vesti di fuggiasche; due o tre porte in fondo, quasi urtate da gente che tentasse nascondersi, sbatacchiarono con fracasso; altre si spalancarono cigolando come se dovessere fuggirne ombre spaurite.

Di Luciano Cestonaro da Storie Vicentine n. 3 Luglio-Agosto 2021


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Palladio Museum, presentazione della mostra “Miseria e Nobiltà. Giacomo Ceruti nell’Europa del Settecento”

Venerdì 24 febbraio 2023, alle 17 al Palladio Museum, presentazione della mostra “Miseria & Nobiltà. Giacomo Ceruti nell’Europa del Settecento”, recentemente inaugurata al Museo di Santa Giulia a Brescia. Alla presentazione, realizzata nell’ambito del programma per il decennale del museo palladiano, dopo i saluti istituzionali dell’Assessore alla Cultura del Comune di Vicenza, Simona Siotto e del Direttore del Centro Internazionale di Studi di Architettura Andrea Palladio/Palladio Museum Guido Beltramini, interverranno il Direttore della Fondazione Brescia Musei, Stefano Karadjov e il curatore della mostra (insieme a Roberta D’Adda e Francesco Frangi), Alessandro Morandotti.

La mostra, inaugurata il 14 febbraio, aperta fino al 28 maggio, una coproduzione Fondazione Brescia Musei e Skira, in collaborazione con J. Paul Getty Museum di Los Angeles, inserita nel Programma Capitale Italiana della Cultura 2023, è la più importante esposizione mai dedicata al pittore lombardo. “Miseria & Nobiltà. Giacomo Ceruti nell’Europa del Settecento” fa parte dell’importante programma di valorizzazione di Giacomo Ceruti (1698-1767), maestro indiscusso della pittura del Settecento, uno dei grandi protagonisti dell’arte italiana e internazionale, di cui Brescia conserva, alla Pinacoteca Tosio Martinengo, il più importante corpus di opere (17 lavori). Dopo l’importante percorso di studi, acquisizioni, investimenti, restauri, collaborazioni con istituzioni internazionali degli ultimi anni promosso dalla Fondazione Brescia Musei, il programma scientifico sulla riscoperta dell’artista si articola in quattro mostre, di cui tre a Brescia (le altre due, nelle stesse date, sono dedicate a “Immaginario Ceruti. Le stampe nel laboratorio del pittore” sempre a Santa Giulia e “David Lachapelle per Giacomo Ceruti. Nomad in a beautiful land” alla Pinacoteca Tosio Martinengo), mentre l’ultima “Giacomo Ceruti. The Compassionate Eye”, è in programma a Los Angeles, al Getty Museum, dal 18 luglio, a cura di Davide Gasparotto.

“Miseria & Nobiltà. Giacomo Ceruti nell’Europa del Settecento”consente dunque una rilettura della grandezza dell’artista lombardo, una delle voci più originali della cultura figurativa del XVIII secolo, a trentasei anni dall’ultima grande mostra a lui dedicata. Pittore degli ultimi e ricercato ritrattista dell’aristocrazia, tra ombre e luci, dall’umanità sofferente a intonazioni serene, da scene di povertà fino alle più aggiornate e raffinate tendenze dell’arte europea del suo tempo: questo, in estrema sintesi, il profilo dell’artista; la nuova mostra propone una doverosa rilettura dell’opera di questo originale interprete della sua epoca, capace di dare forma alle contraddizioni della società del tempo, una mostra spinta dalle scoperte e dagli studi che hanno permesso una revisione radicale dell’artista, anche raccontando relazioni di Ceruti con autori precedenti e a lui contemporanei.

Attraverso oltre cento opere di Ceruti e di pittori che lo hanno preceduto o imitato, “Miseria & Nobiltà” fa emergere un nuovo, affascinante ritratto di questo grande artista caratterizzato da un lato dal radicamento entro l’avventura della “pittura della realtà” in Lombardia, dall’altro dal respiro internazionale del suo percorso. Giacomo Ceruti non solo Pitocchetto o l’Omero dei diseredati (come lo definì Giovanni Testori), ma, soprattutto, pittore europeo e ricercato ritrattista della nobiltà, anche se furono le scene popolari a farlo ricordare nei secoli/a renderlo celebre.

Originale interprete della sua epoca e attualissimo messaggero di umanità, capace di rappresentare le contraddizioni del suo mondo e di ricordarci, così da vicino, le nostre, Ceruti dimostra in ogni opera la propria modernità, coinvolgendo il pubblico con forza empatica; parla una lingua attuale che, a trecento anni di distanza, comprendiamo immediatamente e che, anche negli apparenti contrasti, subito ce lo fa riconoscere come un maestro di realismo. 

Pittore degli ultimi così come raffinato interprete dell’aristocrazia, capace di variare dall’umanità sofferente a intonazioni serene, da scene di povertà fino alle più aggiornate e raffinate tendenze dell’arte europea, Ceruti merita, a pieno titolo una nuova lettura che ne restituisca la fisionomia di artista eclettico e complesso, il “pittore più avventuroso del Settecento”.

Per informazioni e prenotazioni sulla mostra “Miseria & Nobiltà”, www.bresciamusei.com La presentazione del 24 febbraio è aperta al pubblico fino ad esaurimento dei posti disponibili.