venerdì, Aprile 19, 2024
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“Templum diaboli”: l’osteria tra donne, vino e gioco

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Nel mondo antico il concetto di ospitalità pubblica e privata spesso coincideva così pure le funzioni di osteria (templum diaboli) e locanda, in questo modo talora la casa personale diventava anche albergo, e l’oste non disdegnava di offrire ai viaggiatori oltre al vino, cibo e stallatico, pure una dolce compagnia femminile.

Luogo di sosta di viaggiatori e pellegrini, a partire dal secolo tredicesimo l’osteria divenne topos letterario quale spazio di incontri, sotterfugi e raggiri, dove spesso a farne le spese erano proprio gli osti sprovveduti che venivano beffati, come nel Decameron (IX giornata, sesta novella) quando un buon uomo della piana del Mugnone, oste in caso di necessità, ospitò gli occasionali avventori nella sua stessa camera, in letti accostati, ma alla moglie toccò la disavventura di scambiare il letto del marito con quello dell’ospite.

Elementi grotteschi e farseschi sono parte integrante anche dei racconti del Novellino di Masuccio Salernitano dove l’oste amalfitano Trofone, reo di troppa gelosia nei confronti della moglie viene gabbato dall’amante travestito da donna (novella XII) o l’oste di Iovenazzo, dal nome parlante di Tonto de Leo, al quale un giovane mercante raguseo sottrae la moglie con la stessa collaborazione del marito, per mezzo di uno stratagemma ingegnoso (novella XXXIV).

La taverna, locale fumoso, talvolta torbido, è un luogo che appartiene all’immaginario di molti scrittori, dalle osterie di medioevale memoria (Carmina Burana, sec. XIII) a quella manzoniana di Gorgonzola (Promessi Sposi), dove il povero Renzo Tramaglino, in quelle stanze un po’ sordide, con l’aria pesante e il frastuono che si spande attorno, spinto dal buon vino, si lascia andare a affermazioni che lo costringeranno alla fuga: «Due lumi a mano, pendenti da due pertiche attaccate alla trave del palco, vi spandevano una mezza luce. Molta gente era seduta, non però in ozio, su due panche, di qua e di là d’una tavola stretta e lunga, che teneva quasi tutta una parte della stanza: a intervalli, tovaglie e piatti; a intervalli, carte voltate e rivoltate, dadi buttati e raccolti; fiaschi e bicchieri per tutto … Il chiasso era grande. Un garzone girava innanzi e indietro, in fretta e in furia, al servizio di quella tavola insieme e tavoliere: l’oste era a sedere sur una piccola panca, sotto la cappa del cammino, occupato, in apparenza, in certe figure che faceva e disfaceva nella cenere, con le molle; ma in realtà intento a tutto ciò che accadeva intorno a lui».

Tutti i quartieri della città e tutti i paesi del territorio erano pieni di taverne e bettole. A Vicenza gli osti si erano riuniti in una fraglia, una corporazione di mestiere, fin dal 17 luglio 1458 come attestato da un manoscritto in pergamena conservato alla Biblioteca civica Bertoliana (ms.185). Si tratta di un codice contenente una matricola, il registro, con i nomi di coloro che appartenevano alla fraglia, e in aggiunta gli statuti, ossia le regole fondamentali relative all’organizzazione e all’ordinamento giuridico dell’associazione. Il capitolo, l’organo direttivo, della fraglia si riuniva una volta all’anno, il 25 aprile, giorno di San Marco, per eleggere il gastaldo che aveva la funzione di governare la corporazione e far rispettare gli statuti. Per esercitare l’arte del «tavernare» ci si doveva iscrivere alla fraglia e pagare una tassa di adesione, cifra che doveva essere corrisposta anche per partecipare alle fiere che si svolgevano in Campo Marzio o in altri luoghi della città e dei borghi.

Chi voleva vendere in piazza o in città «carne, pesse, torte o altre cosse cote da magnare» doveva pagare alla fraglia 15 soldi di denari oppure entrare nella fraglia stessa. Nella Matricola degli Osti è inserita anche una rubrica degli statuti del Comune di Vicenza: Rubrica de falsitate statere ponderum et mensurarum, concernente i giusti pesi e le giuste misure che gli osti della fraglia dovevano osservare scrupolosamente nell’esercizio del loro mestiere.

In particolare, dovevano misurare e vendere il vino, sia al minuto che in quantità, secondo due giuste misure, di mezza e di bozza («due mensure medie seu bozole»), fatte di metallo o di bronzo, solide, che non si potessero rompere e piegarsi («bone et solide quae rumpi et flecti non possint»), uguali nella forma e misura al modello scolpito nel quadro di pietra collocato nel peronio o piazza della città di Vicenza.

Per misura giusta e corretta s’intendeva il colmo fino all’orlo, ma se il recipiente fosse arrivato al tavolo del cliente con una quantità di vino inferiore, l’oste o l’ostessa sarebbero stati sanzionati con una multa. Nel caso in cui, però, durante il tragitto fino al cliente, ne avessero versato o bevuto, non sarebbero stati penalizzati se avessero giurato che all’origine la misura era colma fino all’orlo.

Pur essendo un lavoro umile, il mestiere dell’oste era tenuto in grande considerazione: la sua rimuneratività faceva dimenticare una certa fama equivoca che aleggiava attorno alla figura di chi svolgeva tale attività. La fraglia, infatti, godeva di una configurazione sociale dotata di un certo rilievo: aveva un suo posto assegnato nel corteo delle processioni cittadine (Corpus Domini, Santa Corona e San Vincenzo, il patrono della città), dove i suoi membri dovevano sfilare dietro al proprio stendardo.

L’osteria è lo spazio della gioia e del non lavoro, il territorio sacro del tempo libero e del gioco, dove spesso fra denaro, vino e carte, finivano per ritrovarsi, presenti nella stessa stanza, o anche seduti allo stesso tavolo, borghesi e ambulanti, artigiani e girovaghi, contadini e nobili.

Definita il «tempio dell’Anticristo», «templum diaboli», la «navata della controchiesa», l’osteria diventa il luogo privilegiato del vivere trasgressivo alle gerarchie e ai valori costituiti, mondo rovesciato rispetto alle regole della società ufficiale.

In questa sospensione del presente scompaiono le differenze sociali fra gli individui e la taverna è avvertita come un rifugio dove tutti sono uguali e possono interagire tra di loro senza alcuna barriera o distinzione sociale. Naturalmente i membri dell’aristocrazia che frequentano le taverne e che finiscono nelle risse come i popolani, non sono quelli più in vista della città: si tratta, in genere, di famiglie con una lunga e importante tradizione, ma dotate di scarso potere politico all’interno del consiglio cittadino.

L’8 settembre 1791, Nicola Velo, figlio del conte Giobatta, era stato tutto il giorno a «uccellare» con il nobile Antonio Monti ed un certo Angelo Curti. Alla sera tutti e tre si erano recati all’osteria detta la Loggetta, situata in borgo San Felice, dove avevano bevuto del vino. Tutti e tre ubriachi cominciarono a litigare cercando di coinvolgere estranei e conoscenti, spintonando, insultando, picchiando, puntando le armi. Un paio di mesi prima Antonio Longo e il conte Ugolino Sesso, figlio del conte Scipione, stavano giocando nell’osteria di Domenico Brunello al Tormeno quando scoppiò un furibondo litigio. Anche in questo caso gli esiti della lite finirono davanti ai giudici poiché, una volta usciti dal locale, cominciarono a bastonarsi a vicenda e a ferirsi con armi da taglio. La Matricola degli Osti del 1458 riporta al

suo interno i nomi dei 12 tavernieri che facevano parte della fraglia. Ogni nome era accompagnato dal nome fantasioso dell’insegna, posta solitamente all’ingresso della bottega, scolpita in legno o incisa in metallo: a la Crose, a l’Orso, al Sole, a l’Agnolo, e così via. I locali della taverna si trovavano sovente nella casa stessa dell’oste che aveva, naturalmente, una cantina, la «cella vinaria», una cucina che comunicava o, più spesso, si trovava nello spazio riservato agli avventori, fornito di focolare, tavoli e panche. Accanto alla porta d’entrata vi era quasi sempre la «restrelliera» dove i clienti deponevano i fucili. Talora, oltre all’ambiente principale, vi erano altre stanze disposte in parte al piano terra e in parte su quello superiore, nelle quali, volendo, si poteva anche dormire alla notte in una delle camere oppure organizzare una festa danzante al suono di qualche violino durante il carnevale. All’osteria si stava seduti per ore intere mangiando trippe, pollastro o castagne, e bevendo vino. Si chiacchierava e si discuteva, ma soprattutto si giocava alla «mora», a carte, il «tressette», al gioco del «tibusco» o dell’«amore», al «trionfo degli uccelli», al

«tornello della bianca e della rossa». Si giocava anche al tiro a segno, «a trare al segno»: si appendeva un «coppo» ad un filo e vinceva colui che sparando riusciva a perforarlo da parte a parte, senza romperlo. In ogni gioco, pur non essendo d’azzardo, c’era una posta: una piccola somma di denaro oppure un boccale di vino. Il gioco era segno di allegria e di svago, e chi non trascorreva il tempo partecipando non era degno di far parte di una buona compagnia, per cui, attorno ad esso, vi erano sempre concentrati gruppi di uomini.

Paolo Rampon detto Smiderle e Giuseppe Talin stavano giocando a carte, mentre Giuseppe Pozzer detto Palesa si mise a guardare. Questi ad un certo punto invitò il Rampon, che accettò prontamente, a scommettere cinque soldi sulla partita. Nonostante le proteste di Palesa che a torto dichiarava di essere lui il vero vincitore, il Rampon si prese i soldi della scommessa avendo vinto. Allora il Pozzer tirò fuori la pistola che aveva nascosto dietro la schiena durante il gioco e sparò contro l’avversario che con uno scatto si rifugiò dietro un tino posto vicino all’entrata, raccattando un grosso pezzo di legno.

L’osteria si svuotò degli avventori che se ne andarono temendo ognuno per la propria vita. Rimasti soli Palesa, sempre armato, sfidò l’avversario ad uscire dal nascondiglio e, infatti, il Rampon uscì con un balzo e con il bastone gli diede in testa un «sì gagliardo» colpo che il Pozzer cadde a terra tramortito«gridando ajuto».

Le occasioni di maggiore affluenza erano i giorni festivi e le ore serali, ed erano anche i momenti in cui si verificava il maggior numero di delitti: gli uomini mangiavano e bevevano di più, alterando il normale comportamento, trasgredendo le regole della vita quotidiana, che scandivano i ritmi di una sottoalimentazione cronica. Nonostante le reiterate istanze dei rettori, i governanti cercarono sempre di intervenire con moderazione sui momenti e sui luoghi di festa, ben sapendo che la festa forniva una valvola di sfogo per le tensioni sociali.

templum diaboli
Jan Steen: Giocatori d’azzardo litigano

Le risse si sprecavano, così come i gesti inconsulti dovuti ai fumi del vino tanto che per ammazzare qualcuno non occorreva avere a portata di mano un’arma. Nel febbraio del 1789 alcuni avventori si divertivano ballando al suono di un violino in una delle camere superiori dell’osteria.

Zuanne aveva pagato 15 soldi al musicista affinché lo seguisse per suonare in un altro luogo, suscitando così le proteste dei presenti, soprattutto di Francesco e in breve ne era nata una rissa. I partecipanti alla festa scesero frettolosamente nella cucina. Zuanne prese dal focolare un «supioto» di ferro e si mise a inseguire Francesco attraverso la corte, ma questi, più veloce, raccolse un sasso e glielo scagliò contro colpendolo alla testa e uccidendolo sul colpo.

Le motivazioni che portano all’aggressione e al delitto denotano chiaramente l’impu sività e l’immediatezza di quel genere di violenza: le festa catalizza umori ed euforie che sfociano nelle liti, ma vede anche i devastanti effetti dei fumi dell’alcool. I fratelli Gaiga, Domenico e Francesco, avevano suonato, tutta la sera della domenica 22 luglio 1759, in un’osteria di Valdagno, l’uno il violino, l’altro il violoncello, dilettando le persone presenti, che avevano ballato fino alle quattro di notte, allorché, stanchi di suonare, decisero di uscire dal locale seguiti da diverse persone. Passati sulla piazza contigua all’osteria per incamminarsi verso casa, i due fratelli s’invitavano l’un l’altro a riprendere a suonare.

Avendo udito ciò, Francesco Nissaro cominciò a deriderli perché, essendo ubriachi, non potevano suonare. Alle risentite risposte di Francesco Gaiga, un compagno del Nissaro, Domenico Tomba, cominciò a percuoterlo con il fucile, finchè dall’arma stessa uscì un colpo che uccise, quasi istantaneamente, il Gaiga.

L’osteria, «luogo laico della mensa fraterna», della convivialità popolare, del mangiare e del bere in compagnia, svolgeva un ruolo particolare nella vita degli emarginati, di coloro che senza fissa dimora non possedevano una casa e per i quali l’osteria, in particolar modo quella urbana, era una specie di focolare domestico, un luogo, comunque, dove passare il tempo, soprattutto in inverno.

Qui vagabondi e “falsi bordoni” scialacquavano le elemosine ricevute, i ladri sperperavano il denaro proveniente dalle refurtive, malviventi e meretrici si incontravano. A Vicenza la banda di Geffe Beccaro, detto Enea, durante l’estate del 1764 aveva assaltato notte tempo alcune case private, nelle campagne contigue alla città, rubando denaro e oggetti in oro. Del gruppo facevano parte, oltre a Geffe originario di Arzignano, Agostino Manetto, «stroppio» d’un braccio, di mestiere scarparo nel borgo di Porta Castello; Zuanne detto Anzolon, figlio di Angelo Tremeschin che aveva osteria al Duomo; Bortolo Pedana e Giuseppe Occhioni di professione samitari (tessitori di seta). Nel giugno del 1764 essi alloggiavano tutti a Vicenza, alla locanda di Zuanne Rossi, soprannominata la Casa del diavolo.

Secondo l’interrogatorio di Giulia, una testimone, questi uomini erano tutti di «carattere tristo dati ai vizj ed ai rubamenti, con abbandono dei propri respetivi impieghi», anzi il Manetto ed il Beccaro erano usciti da poco tempo dalla prigione, dopo aver scontato una condanna per furto. Questa compagnia di «scavezzoni», secondo un’altra testimone, frequentava pure l’osteria di Perotin al Monte e talvolta «aveano seco loro delle donne […] di mala vita». L’osteria/locanda aveva la funzione di offrire ristoro e riposo per il viandante, in particolare per il pellegrino, colui che si recava in pellegrinaggio a piedi in un luogo santo, da solo o in gruppo.

In realtà, le sentenze criminali raccontano come spesso le taverne fossero punti di ritrovo per i componenti delle bande, dove si stipulavano patti criminali e si architettavano azioni delittuose, al punto da diventare un luogo di insidie e pericoli per gli sprovveduti, una vera e propria trappola per i viaggiatori. Anzolo Pasqualin, detto Panzale, da Lonigo, i fratelli Antonio e Domenico Lavezzo, Zuanne Caichiolo, da Lonigo e Gregorio Panzoldo da Noventa Vicentina, Bastian de Grandi, ferrarese, si ritrovarono la mattina del 23 agosto 1700 nell’osteria dei Ponteseli, tra Barbarano e Noventa, e stettero tutto il giorno a bere e a giocare. Verso sera arrivarono dalla parte di Noventa, Alessandro Nievo e Domenico Gobbato insieme con Francesco dalla Rizza e Zuanne Negroti, i quali, in «habito di pellegrini» stavano tornando da Roma dove si erano recati, «per puro istinto di pietà e divotione per l’anno Santo», insieme ai confratelli della compagnia del Santissimo Crocefisso. Poco lontano dall’osteria, li incontrò Domenico Lavezzo, che attaccò discorso unendosi a loro per la strada.

Scorgendo l’osteria i pellegrini mostrarono desiderio di fermarsi, perché l’aria cominciava ad oscurarsi, ma l’«empio» Lavezzo li convinse a proseguire il viaggio, come fecero, tenendo il cammino verso Barbarano. Intanto il Lavezzo, entrato nell’osteria, raccontò ai suoi compagni del passaggio dei pellegrini e subito decisero di inseguirli per derubarli. Armati tutti di un fucile, rincorsero i viandanti e raggiuntili all’altezza della fornace dei Rosa, li assalirono per rapinarli. Ne uccisero barbaramente tre, quindi, spogliati i morti e fattisi consegnare gli averi dai vivi, tornarono all’osteria dei Ponteseli, dove fecero un resoconto del misfatto a Bastian de Grandi, capo della banda, e ad Antonio de Mori, suo servitore, che s’incaricarono poi di vendere la refurtiva ad un ricettatore dl la zona di Cologna Veneta. 

Di Sonia Residori da Storie Vicentine n. 3 Luglio-Agosto 2021


In uscita il prossimo numero di Marzo 2023
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