venerdì, Marzo 29, 2024
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“Vecchia casa” di Paolo Lioy

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È il 1908, l’anno dell’assassinio del re del Portogallo Carlo I, l’anno della più grande catastrofe naturale del XX secolo: il sisma che colpì Messina e Reggio Calabria. Paolo Lioy, già nominato senatore del Regno tre anni prima, ha al suo attivo una sterminata e variegata produzione (stimata in oltre trecento scritti). “Apparizioni e ricordi” è l’ultima opera, pubblicata da Treves appunto nel 1908, e “Vecchia casa” ne è il brano di apertura.

Sono anni di profonde trasformazioni sociali e politiche. La “belle epoque” sta procedendo con quieta spensieratezza, così come l’orchestrina continua a suonare sul Titanic che sta per affondare (nel 1912). Ma l’’Europa, dopo circa trent’anni di pace, si sta avviando a un massacro senza precedenti. I grandi Imperi si sgretoleranno e con loro molte illusioni, per dare inizio a una nuova era.

“Il vecchio mondo, nell’ora del suo tramonto era bello a vedersi” scrisse di quegli anni Winston Churchill ne La crisi mondiale (1921). Invece Lioy ne percepisce la sofferenza e lo sgomento. “La fredda ala del tempo, dice l’autore, fa dissipare le idealità”. L’io narrante descrive il ritorno, in una malinconica atmosfera autunnale e nell’età del proprio declino, ad una sua vecchia villa di campagna vuota ed abbandonata. Il senso di disfacimento è quello che Lioy avverte per quel mondo decrepito avviato al tramonto. In queste pagine dal tono autobiografico e memorialistico, come il titolo del volume indica, c’è a differenza di altri scrittori coevi questo evidente senso di amarezza e di sgomento per un’epoca che sente avviata a finire. Lioy morirà tre anni dopo, il 27 gennaio 1911, nella villa di campagna a Vancimuglio di Grumolo delle Abbadesse. (Luciano Cestonaro)

vecchia casa
La Villa a Vancimugliuo

VECCHIA CASA
Paolo Lioy

Col trotto di due vecchi ronzini, dopo anni di assenze, la carrozza mi riconduceva alla villa da tanto tempo disabitata. Veramente la campagna si presentava sotto ad auspici punto attraenti: era autunno inoltrato, e l’ora tarda coloriva il paesaggio di mestizia.

La caduta delle foglie aggiungeva tristezze a tristezze. Gli ultimi raggi di solei inargentavano le piume delle vitalbe e facevano rilucere le bacche nere dei ligustri; qualche tronco contorto si mostrava già spoglio di fronde. Quando con l’incominciare della salita i cavalli si arrestavano per prendere fiato, si udivano tra le macchie pigolii di uccelli giunti dal settentrione, e sulle aie cicalecci di passere. Le allegre spighe che in primavera aveano biondeggiato tra fiordalisi e papaveri, giacevano accatastate in montagnacce di paglia.

Si era fatto buio, fitto; soltanto i pioppi spiccavano ritti quali alberi di navi in mari di nebbie. Senza che nella mia astrazione mi accorgessi, incominciarono a cadere goccioloni di pioggia: il provvido cocchiere scese di cassetta, alzò il mantice, mi rinchiuse in una apparenza di feretro; e avanti avanti, senz’altro udire che lo scalpiccio dei cavalli, i tintinnii dei sonagli, gli schiocchi della frusta. D’improvviso la vettura si arrestò sotto a un diluvio. Eravamo giunti. La luce dei lampioni illuminò il cancello; cercando cercando la campanella sonò così strepitosa che i rintocchi parvero squilli della valle di Gioafat. Si aprì il finestrino del portinaio, apparve un lumicino, una voce rauca gridò: – Chi è?

Finalmente, tra rumori di chiavi e di catenacci, il vecchio custode, con una lanterna che lo lasciava nell’ombra venne ad aprire. La vettura entrò sotto al grande portico, mentre sempre più fitta la pioggia rovesciandosi dalle grondaie strepitava sul cortile. Levai di mano al custode la lanterna; lo contemplai: era curvo, decrepito, una rovina ambulante. La vecchia sua Bauci era morta, e se non vi fossero i barbagianni intenti a ronfare sotto ai tetti, il guardiano era il solo vivente. Prima di penetrare nella vecchia casa ebbi a vincere le sue ritrosie. – Venga, – diceva stralunando gli occhi – venga a dormire in fattoria; lassù, di notte, nelle stanze abbandonate, si ascoltano strepiti. Qui tutti ne hanno paura…. –

Povera casa, per tanto tempo deserta, un giorno nido all’amore e al piacere, buon è che ritornavo io a farti rivivere, cara e memore morta! Mi feci porgere le chiavi, impugnai la lanterna e, come se spalancassi una tomba, entrai. In una famosa romanza Gounod esprimeva coi versi di Lamartine la dolce commozione del pellegrino reduce di sera, dopo lunga assenza, al luogo nativo; ma codeste essenze diventano poco propizie ai ritorni quando sia deserta la casa che, muta, aspetta. Spalancata la porta, grandi ombre si alzarono dai seggioloni; gli alti armadi guardarono con aspetto di mummie ravvolte in bruni mantelli. Le camere si perdevano in fughe interminabili. Non anima viva, ma ogni angolo ricordava scomparsi; tutto vi era muto, ma ogni cantuccio aveva un linguaggio. Tumultuose risurrenzioni di affetti invitavano a stendere le braccia dove non si incontrava che il vuoto, o a mormorare evocazioni di lontani o di morti. Regnava dovunque l’espressione di disfacimento propria a vecchie mura lasciate sole, dalle seggiole a tende, a tappeti, ad arazzi cadenti. Avanzavo avanzavo, e vedevo biancheggiare i grandi letti antichi, coi padiglioni distesi quali nascondigli in nascondigli; e più avanti alcove simili ad antri. Dovunque reliquie di vite spente: mantelle sugli attaccapanni, pantofole sotto a divani, coppe su un desco; su una tavola enormi mazzi di fiori stecchiti. Sui doppieri di bronzo e d’argento restavano candele da tanto tempo non più accese; nella grande sala, in affreschi attribuiti a Tiepolo , corrosi dal tempo, guardavano matrone scollate, con enormi cuffioni; parevano allora allora corse a rincantucciarsi, mentre davanti agli immensi specchi la mia ombra nera passava, allungandosi sulle pareti, o strisciando sul pavimento. Il respiro diventava affannoso. Non capivo dove andavo, né dove la casa grande avesse a finire. Volli aprire un finestrone rammentando i giorni quando col mattino entrava la luce tra profumi di pergole; ma appena socchiuse le imposte una raffica di vento mi rigettò indietro; le tende si agitarono come vesti di fuggiasche; due o tre porte in fondo, quasi urtate da gente che tentasse nascondersi, sbatacchiarono con fracasso; altre si spalancarono cigolando come se dovessere fuggirne ombre spaurite.

Di Luciano Cestonaro da Storie Vicentine n. 3 Luglio-Agosto 2021


In uscita il prossimo numero di Marzo 2023
distribuito nelle edicole del centro e prima periferia e agli Abbonati
Prezzo di copertina euro 5
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