domenica, Aprile 20, 2025
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Chiesuola del Malòn alla Selva di Altavilla

Non “le campane de Masòn”, com’è nell’originale filastrocca. “Malòn” cantava mia madre per me bambino. Qui ci sono momenti in cui la realtà si sposta di lato e mi lascia libero. Esco dal tempo dei giorni per entrare nel tempo mitico tentando la rigenerazione delle cose. Sento in me una linfa nuova, una vita in esplosione accarezza le antiche presenze consumate. Non succede niente, apparentemente. Però, nel cuore delle cose, gli atomi corrosi si mettono in movimento. Assaporo il respiro dei luoghi che aspettano un incontro, spalancati al sole o nascosti nel verde, accompagnati dal suono delle acque, luoghi che offrono a piene mani una timida ricchezza. Dovrò avere lo sguardo come un raggio che vola verso il bersaglio perché è il modo giusto di guardare mentre sosto in questi luoghi privilegiati. Così posso fissare cose come carri che si mossero, oggetti che servirono, attrezzi che operarono, stie che ospitarono. Tutto ora qui è dormiente, forse lo sarà per sempre, ma rimane il lievito di recuperare memorie e costruire racconti. Non ha campanile la chiesetta del Malòn, non c’è niente che suoni né di giorno né di notte se non la filastrocca antica. Din don, din don. La cantilena mi suona dentro i lontani rifugi del cuore.

Sono salito alla Selva, conosco bene la chiesetta, potevo anche andare a memoria per descriverla. Ma i ricordi a volte ingannano la realtà e così ho scelto il contatto diretto come un pellegrino. Il proprietario del fondo, custode della chiesetta, sta riparando una scala a pioli sul banchetto di legno sotto il portico dell’ex convento. Un saluto, poche parole e mi consegna con fiducia le chiavi. La chiesetta dista pochi passi, il vento stira come un velo di tulle le poche nuvole in cielo. Lungo il basso muro che protegge dal pendio, c’è un rosaio, poi un rosmarino, la rosa del mare, un bordo di giacinti attende il sole caldo per fiorire. Un grande ciliegio fa da guardiano a questo posto carico di misticismo. I passi non fanno rumore sul sagrato d’erba. Verso il paese scende uno scosceso sentiero con quinte di siepi e alberi, sullo sfondo si apre lo scenario di Villa Valmarana, un gregge di case, la collina della Rocca. Sotto il ciliegio è adagiato un antico pilastro di pietra a riquadri che pare una panca con i posti segnati. La chiesetta si proietta sul ripidissimo pendio poggiata su una costruzione a contrafforti che serve da cantina raggiungibile con un breve viottolo tagliato sul monte. La pianta del tempietto è quadrata e si articola, verso mattina, con una minuscola appendice che funge da sagrestia. Due finestre si aprono sull’alba e sul tramonto, verso oriente guarda il piccolo oculo della sagrestia. L’arco di pietra che contorna la porta d’ingresso ha il concio della chiave di volta scolpito con lo stemma del casato dei Morsoletto. Nel cartiglio dello stemma una mano afferra un morso di cavallo. Nella parte inferiore chiude lo stemma un visino d’angelo sorridente. La data, scolpita sull’arco in caratteri romani, riporta al MDCXVI. Lo storico Gaetano Maccà (1740-1824) titola la chiesetta alla Madonna Ausiliatrice annotando che “ avanti era dei Valmarana”.

Sono accesi i soffioni del tarassaco sul prato davanti alla chiesuola, ne ho posti due sulla porta. Ho la tentazione bambina di soffiare. Lo farà il vento disperdendone gli stili delicati.

A primavera, Madre Natura, con la sua generosità estenuante, ingemmerà ancora di botton d’oro il prato. Spalanco i battenti della porta, prima di me entra il sole sbiancando di luce ogni cosa. L’altare è in marmi policromi incastonati dentro profili di pietra e intonaco. Un frontone, come di tempio greco, incornicia un arco che ha al sommo una piccola testa d’angelo ricciuto. Al centro dell’arco, entro una teca, la statua di una Madonna incoronata con Gesù bambino in braccio che stringe un libro nella mano sinistra. Sul lato destro dell’altare, è posato su un capitello di tavole, un Cristo crocefisso ligneo. Senza la croce, solo il corpo allungato con le braccia tese in alto, appena aperte verso il cielo che è la sua casa. Questo Cristo crocefisso conterà più di seicento anni e proviene dall’Agordino. Per molti anni, appeso a un albero, ha protetto l’orto di una casa a Montecchio Maggiore, proprietà di un emigrato bellunese. Lì era rimasto quando il padrone aveva lasciato la casa e lì era stato dimenticato, riverso nel terreno. Il nuovo abitante della casa trova nell’orto quello che sembra solo un ramo caduto da bruciare nel camino. Una specie d’istinto, sollecitato da un altrove misterioso, lo induce a ripulire il pezzo di legno che con meraviglia si rivela un intatto Cristo crocefisso con tutta la sua sofferenza addosso. Niente avviene per caso. Il nuovo abitante è fratello del custode della chiesetta. Il crocefisso, come rinnovando la Via Crucis, è portato dall’orto di Montecchio, fino al nuovo Golgota della collina alla Selva. Adesso, nella piccola chiesa i fedeli si inginocchiano ricordando il sacrificio del ragazzo di Galilea, e soffrono per tutto quel dolore rallegrandosi della resurrezione avvenuta in un lampo di luce e di calore che ancora ci avvolge. Guardo il crocefisso e non mi domando se ha qualità artistiche, però capisco subito che conquista lo spirito. Ed è questa la sua non misurabile qualità soggiacente. Scostando una tenda rossa entro nella minuscola sagrestia. Un cassettone contiene paramenti sacri, tovaglie d’altare ricamate, un messale di cuoio rosso con borchie datato 1877, scritto in latino. Sopra il cassettone ci sono due candelabri, la foto di papa Giovanni, una stampa di San Francesco. Tutto nel silenzio di una luce che continuamente varia. Da una scatola di cartone telato scuro, tolgo la patena dorata e la poso sul piano del cassettone. Poi sfilo il calice d’ottone argentato. L’interno riluce d’oro. Alzo il calice per vederlo meglio senza quasi accorgermi del gesto sacro che sto compiendo. Lo alzo verso la finestrella rotonda che si apre sul timpano della piccola sagrestia. Per un attimo il foro invaso dal sole pare un’ostia di luce appoggiata sul bordo del calice: un’ostia divisa dalla croce dell’inferriata. Una sorta d’improvvisa ierofania. Qui mi sento allineato con il tempo immobile e mi rendo conto di non poterne disporre ma di avere l’avventura di viverlo istante per istante. Ed entro nella pace. L’interno è di una semplicità disarmante, ma anche all’esterno non c’è ricchezza d’architettura, sarebbe inutile. C’è un esaurirsi nobile di linee e di volumi sul sagrato d’erba. Sto bene mentre giro attorno a questi muri che hanno subito gli anni in modo diverso secondo il loro affacciarsi al sole. Richiudo la porta, esce anche il sole, il luogo riprende la sua quiete. Il custode mi ha raggiunto e si tocca con la mano destra il berretto in segno di devozione. Sul tetto la croce di ferro si disegna contro il cielo. La banderuola è bloccata verso sera intanto che il vento soffia da mattina. Tornerò quando fioriranno i narcisi sotto il muro occidentale.

Beata Vergine delle Grazie

Din don Din don
Le campane del Malòn
che le sòna dì e note
e le bate so’ le porte
ma le porte xe de fero
Volta la carta ghe xe on …

Di Giorgio Costantino Rigotto da Storie Vicentine n. 4 Settembre-Ottobre 2021


In uscita il prossimo numero di Marzo 2023
distribuito nelle edicole del centro e prima periferia e agli Abbonati
Prezzo di copertina euro 5
Abbonamento 5 numeri euro 20
Over 65 euro 20 (due abbonamenti)

Maurizia Cacciatori: in “Senza rete” si racconta dalla “vecchia” alla nuova vita la regina del volley, che a Vicenza perse due dei suoi tanti titoli

Dallo sport alla storia personale, la campionessa di pallavolo Maurizia Cacciatori, racconta la sua vita nel libro autobiografico “Senza rete”, edito da Roi Edizioni nel 2018. Il libro fa parte di una collana a cura dell’ex calciatore Demetrio Albertini ed è stato presentato l’8 febbraio anche a Vicenza., dove, tra i suoi pochi insuccessi, nella stagione 2000-2001 perse una Coppa Cev (l’equivalente, per capirci, della Europa League del Calcio) e nella stagione 2001-2002 una Supercoppa Italiana (riservata alle squadre vincitrici della Champions, della Cev e della Coppa Italia), sempre contro la squadra di Vicenza allora gestita dal nostro direttore.

La carriera

La Cacciatori è un’ex pallavolista, opinionista televisiva per Sky Sport per la pallavolo femminile. Compie 50 anni proprio quest’anno, il 6 aprile. È una campionessa italiana, che in carriera ha conquistato 5 scudetti, 5 Coppe nazionali, 3 Coppe Campioni, 1 Coppa Cev, 3 Supercoppe italiane. Inoltre, è stata capitana della Nazionale dove ha totalizzato 228 presenze, vincendo un oro ai Giochi del Mediterraneo (2001), un bronzo e un argento agli Europei del 1999 e del 2001. Al Campionato mondiale di pallavolo femminile 1998 in Giappone, dove l’Italia raggiunse il quinto posto, venne eletta miglior palleggiatrice della manifestazione. Ora la Cacciatori è speaker aziendale e commentatrice tv.

maurizia cacciatori
La copertina del libro di Maurizia Cacciatori

Il libro

“Ora che la guardo, la mia vita è stata di sicuro intensa, complicata, meravigliosa, struggente, caotica, ricca di colpi di scena e di buone lezioni. Una storia che, nel bene e nel male, ho scritto sempre liberamente. Una storia che vale la pena di raccontare” riassume la Cacciatori nel risvolto di copertina. Si tratta di una storia di vita straordinaria, di valore e di sport, in cui vengono raccontate emozioni e strategie per vincere.

“Ho sempre pensato che la vita sia una miscela tra episodi che accadono e decisioni che con coraggio decidi di affrontare”- esordisce. La campionessa è sempre stata spinta da un forte desiderio di libertà e da una forza incrollabile. Uscita di casa a sedici anni per inseguire la passione della pallavolo e liberarsi da regole troppo strette, ha collezionato titoli nazionali e internazionali, fino alla nomina come migliore palleggiatrice al mondo, una serie di avventure con le compagne di squadra e ben ventidue traslochi in giro per il mondo. Con lo stesso spirito ha affrontato i momenti meno felici come, ad esempio, l’esclusione dalla Nazionale.

cacciatori
La sportiva negli anni 2000. Foto: fonte wikipedia

La vita privata

Nel 2004 fuggì dall’altare, a una settimana dal matrimonio, dopo un lungo fidanzamento con l’ex cestista italiano Gianmarco Pozzecco. Nel 2011 è diventata mamma di Carlos Maria, avuto dal compagno Francesco Orsini. Il 31 marzo 2012 ha avuto la figlia Ines. Maurizia ha dedicato il libro ai suoi 2 figli.

La nuova vita

Ora si è costruita una carriera completamente nuova. Fa l’opinionista televisiva per Sky Sport. Senza rete è il racconto emozionante, coinvolgente e a tratti comico di una donna che ha imparato l’arte di reinventarsi per ricominciare. Colpisce quando, a un certo punto del libro afferma che “il palleggiatore è un essere umano solitario. E’ una specie di roccaforte dentro alla quale i compagni cercano rifugio”. Oppure quando racconta le sensazioni che provava ad essere famosa. “Essere popolari è come guidare una Lamborghini a tutta velocità, a finestrini abbassati. Ti godi quegli istanti di ebbrezza […] con le ruote che schizzano sull’asfalto”. La sportiva afferma di aver sempre cercato di fare un uso intelligente della sua fama, con risultati non sempre ottimali.

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Maurizia alla Sirio Perugia nel 1992. Foto: wikipedia

 

Fondazione San Bortolo in bici per solidarietà, Scanagatta e Belluscio: aperte iscrizioni de “La Via dei Berici – Ride in Vicenza”

Quando lo sport fa rima con solidarietà. È stato sottoscritto nei giorni scorsi (il 24 febbraio) un nuovo accordo di collaborazione tra Fondazione San Bortolo di Vicenza e gli organizzatori de “La Via dei Berici – Ride in Vicenza”, alla presenza di Franco Scanagatta e Sandro Belluscio, rispettivamente presidente e vicepresidente della Fondazione San Bortolo e Andrea Cazzola, Angelo Furlan, Filippo Pozzato in rappresentanza del comitato organizzatore della manifestazione.

Una parte dei proventi delle quote di iscrizione alle gare e agli eventi dell’edizione 2023 de “La Via dei Berici – Ride in Vicenza” sarà devoluta in beneficenza alla Fondazione San Bortolo Onlus di Vicenza.

L’evento, le cui iscrizioni sono aperte al link https://laviadeiberici.com/ si svolgerà dal 29 settembre al 1°ottobre 2023, e ha già il supporto dell’Amministrazione comunale di Vicenza. Ricca di eventi, la manifestazione unirà sport, passione per le due ruote, turismo e mobilità sostenibile, oltre, ovviamente alla solidarietà.

«Siamo onorati di essere tra i sostenitori e di poter continuare la storica collaborazione tra La Via dei Berici e la Fondazione San Bortolo, che attraverso il proprio impegno ed operato svolge funzioni di importanza vitale in maniera continuativa» ha dichiarato Angelo Furlan, project manager “La Via dei Berici”.

«Il ricordo delle edizioni della Via dei Berici mi riporta ai tempi del mio ingresso in Fondazione in affiancamento all’intensa ed entusiasta partecipazione di Giancarlo Ferretto, anche lui protagonista nella ricerca di sostenitori per confezionare il pacco gara. In poco tempo era diventata un riferimento importante di connubio tra sport e solidarietà. – ha affermato Franco Scanagatta, Presidente Fondazione San Bortolo Ritrovare oggi lo stesso entusiasmo in un gruppo di organizzatori disponibili a mettere a disposizione esperienza e professionalità, e ad annoverare la Fondazione come importante riferimento benefico, ci riempie di orgoglio e ci aiuta a continuare nella missione di supporto agli ospedali del nostro territorio».

A guidare la macchina organizzativa, oltre ad Angelo Furlan ci sono Filippo Pozzato (PP Sport Events) come organizzazione; Andrea Cazzola e Federico Casalini, Moreno Mora (ASD Cortina Experience) come partners tecnici e Nicolò Muraro (Meneghini & Associati Sport Division) per la comunicazione dell’evento.

www.laviadeiberici.com

“Arte culi ‘n aria”, dal “ricettario biografia” di Umberto Riva l’ottava ricetta vicentina: ‘l formaio (coi bai o ‘a poenta), una passeggiata ecologica

Arte culi 'n aria
Arte culi ‘n aria

“Arte culi ‘n aria“ è il titolo di una serie di.. articuli così come li ha scritti (l’ultima pubblicazione di quello che ripubblichiamo oggi è del 2 novembre 2019, ndr) Umberto Riva per te che nel piacere della tavola, vedi qualcosa di più: gli articoli sono raccolti insieme alla “biografia” tutta particolare del “maestro” vicentino Umberto Riva nel libro “Arte culi ‘n aria”, le cui ultime copie sono acquistabili anche comodamente nel nostro shop di e-commerce o su Amazon31

Prima di “gustarti” la nuova ricetta fuori dal normale di Umberto Riva (il “formaio”) rileggi la Prefazione e il glossario di arte culi ‘n ariauna nuova serie di.. articuli così come li ha scritti il “nostro” Umberto per te che nel piacere della tavola vedi qualcosa di più

“El nono Toni disea, ‘l formaio xe bon se ‘l camina da solo”.
Quando lavorava al Monte di Pietà, era impiegato, partiva da casa, anche se non era lontana, con la “teceta de fero smaltà col covercio e ‘l magnare par mesogiorno”. Quando capitava il formaggio, il che era quasi normale, era felice soprattutto se “xera formaio verde”. Il gorgonzola era accompagnato, nel contenitore, da fette di polenta, importanti perché sarebbero divenute strumenti di guerra.
Il formaggio verde allo stato di immobilità era per se stesso puzzolente, se poi si pensa che il nonno metteva la “teceta de fero smaltà col covercio” sulla finestra verso la Piazza dei Signori, al sole, l’immobilità del formaggio diveniva frenetico movimento e la puzza rasentava una conclamata insopportabilità.
Con l’apertura “de ‘a teceta de fero smaltà” si apriva la caccia ai “bai”. Ecco l’arma! le fette di polenta.
Le gioie erano due, la caccia ed il sapore.
A voce degli intenditori, il formaggio così é buono anche se ad essere più buoni sono i “bai”. Potrebbe essere un esibizionismo, oppure una cineseria, ma, forse é proprio così come dicono “quei che se ne intende”.
“El formaio coi bai” fece parte di un mondo che ancora é presente e non solo come ricordo. “El sior Bortolo, el mario de ‘a siora Vitoria” la pensava proprio così, ma il signor Bortolo é morto da tempo, ma “Nani strase deto anca verniseta” perché lucida mobili antichi “el mario de la Sandra frutarola”, é qui e dice:
“el formaio xe bon se el camina da solo”
in barba alle normative europee.

C’era poi “’l vezena vecio, queo co ‘a lagrima”.
Non ricordo fosse formaggio “pal nono Toni”, ricordo che ne parlava. “El non Toni xe morto che mi gnanca ‘ndavo a scola”.
Veniva servito assieme alla verdura fresca e irrinunciabilmente, “co ‘a poenta brustoà”.
Non poteva essere una semplice “poenta brustoà”, era una “poenta brustoà” speciale.
Normalmente il piano prescelto per il brustolamento, era quello della “stua” (cucina economica). Doveva essere caldissimo, estremamente caldo. La polenta abbrustoliva senza attaccare. Quando la buttavi sulla piasta di ghisa “de ‘a stua” subito la “sfritegava”, poi si gonfiava come un crostolo. Sulla polenta restavano i segni scuri dei cerchi della cucina economica, ma questo era bello da vedere, non era importante per il sapore, era la cornice di un bel quadro.

La locanda di Piero a Montecchio Precalcino: la storia di un cuoco che cucina e scrive

La locanda di Piero è stata presa in mano da Renato Rizzardi nel lontano 1992, dopo essersi formato tra i fornelli di ristoranti blasonati in Italia, ad esempio il “San Domenico” di Imola, e all’estero, al “Donatello” di San Francisco. Con lungimiranza Renato sin da subito non ha voluto stravolgere un cucina già consolidata ma ha condotto i commensali volta per volta a incontrare il proprio stile inserendo gradualmente la sua impronta. Renato Rizzardi, si sa, non ama i compromessi e ancora oggi nella sua cucina non esistono materie semilavorate: li ama realizzare i propri piatti lavorando tutti gli ingredienti “dall’inizio alla fine”.

Nel 2017 Renato pubblica una sua biografia “Moto perpetuo”, che scherzosamente chiama “Il libretto”, talmente è lontano dagli atteggiamenti divistici che contaminano le scene culinarie dei nostri tempi. Antonio Di Lorenzo, giornalista-scrittore e membro dell’Accademia Italiana della Cucina, ne scrive l’introduzione dal titoloC’è Socrate nei suoi piatti”, in riferimento proprio al suo pensiero “mi sento uno stagista” che riflette il “so di non sapere” di Socrate. Come dire: c’è sempre da imparare.

Renato Rizzardi propone una succulenta cucina di sostanza e forma, il cui segno distintivo è la vera e reale cura delle materie prime.

Cucina e sala, Renato e Sergio

Sergio Olivetti a differenza di Renato Rizzardi non ama stare in prima linea, ma con la sua garbata presenza è un punto di riferimento essenziale per La Locanda di Piero di cui è Sommelier e Direttore di sala.

Sergio è un professionista capace di dare l’anima pur di vedere uscire il cliente felice, un vero interprete della moderna arte dell’ospitare a tal punto che oggi veste anche i panni del docente per diversi corsi di formazione sull’accoglienza e ospitalità tenuti dall’Esac Formazione di Creazzo (Vi). “Cucina e sala viaggiano a stretto contatto e in grande sintonia – spiega -. Oggi il valore aggiunto di un ristorante, sta nel servizio che deve essere professionale e coinvolgente senza essere invadente”.

Il punto di vista di Dario

Il gusto succulento e l’amore per il classico sono due elementi costanti della cucina di Renato Rizzardi, un cuoco (perché ama definirsi così, e non chef) che da sempre garantisce nello scenario berico un punto d’approdo dove gustare una cucina vivace e non legata a mode passeggere. Il piatto da non perdere? I primi piatti, soprattutto la pasta ripiena!

I Love Loison

Di Loison Renato Rizzardi racconata: “Vedo nei suoi panettoni una crescita che dimostra una maturità imprenditoriale incredibile. Trasformare il Panettone da dolce relegato alle festività natalizie, ad un prodotto da gustare tutto l’anno, come sta facendo Dario Loison oggi, è uno sforzo davvero notevole ed encomiabile”.

Il ristorante La Locanda di Piero fa parte del circuito JRE (Jeunes Restaurateurs d’Italia) ed è segnalato dalle guide: Guida Michelin, Le Guide de l’Espresso, Gambero Rosso, Venezie a Tavola, Ristoranti che Passione, Fuori casello, Insolito Panettone

La Locanda di Piero

via Roma 34, 36030
Montecchio Precalcino (Vicenza)
Tel: 0445 864827

Site https://lalocandadipiero.it/

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La Battaglia di Lepanto, 7 ottobre 1571: il tributo di Vicenza

Il 7 ottobre 1571 la flotta della Lega Santa vinse la battaglia di Lepanto sotto le insegne di Papa Pio V. La Lega Santa, composta dalla Repubblica di Venezia, dall’Impero Spagnolo – che al tempo conglobava il Regno di Napoli e il Regno di Sicilia – , la Repubblica di Genova, lo Stato Pontificio, i Cavalieri di Malta, il Ducato di Savoia, il Granducato di Toscana, il Ducato di Urbino, la Repubblica di Lucca e i Ducati di Ferrara e Mantova, riportò una schiacciante vittoria sulla flotta dell’Impero Ottomano al largo di Lepanto e più precisamente nello specchio di mare delle isole Echinadi.

L’antefatto: l’eccidio di Famagosta

Prima di narrare i fatti è opportuno chiarire alcuni aspetti dell’antefatto.Lepanto fu la conseguenza diretta di un’altra battaglia, quella di Famagosta, oggi città de facto sulla parte turca dell’isola di Cipro e dominio della Serenissima Repubblica di Venezia fin dal 1489 che ne rinverdirono i fasti fortificandola e rendendola uno dei crocevia privilegiati del Mediterraneo. Nelle intenzioni di Papa Pio V, secondo la versione ufficiale, c’era quella di vendicare la carneficina di Famagosta e Nicosia ma, secondo molti storici, la vera ragione che portò alla battaglia di Lepanto fu il timore di un allargamento dei domini ottomani e la conseguente islamizzazione dei popoli conquistati. Nel 1570 i Turchi, avendo appreso che all’Arsenale di Venezia erano stati danneggiati da un’esplosione i magazzini del legname e delle polveri, c’è il fondato sospetto che a provocarla siano state spie infiltrate del sultano turco Selim II, e che il grave danno aveva rallentato l’attività costruttiva ed i rifornimenti ai possedimenti veneziani del Levante, assediarono l’isola di Cipro. Dopo aver conquistato con una certa facilità Nicosia, governata al tempo dal veneziano Nicolò Dandolo, e aver ucciso oltre cinquecento tra veneziani e greci, rivolsero la loro attenzione su Famagosta che a differenza di Nicosia si dimostrò subito un osso ben più duro. Marcantonio Bragadin, senatore e governatore dell’isola, coadiuvato al comando da Astorre Baglioni, ufficiale perugino al servizio della Serenissima, da lungimirante uomo d’armi qual’era aveva messo in buon conto una sortita dei Turchi e aveva accumulato viveri, acqua dolce e munizioni per resistere ad un eventuale assedio, è opportuno precisare che il bastione Martinengo di Famagosta, opera di Michele Sammicheli (lo stesso che in laguna progettò e realizzò il forte di Sant’Andrea ndr) citato in molti testi come splendido esempio di fortificazione alla moderna, fu fondamentale per consentire ai veneziani la difesa ad oltranza durante un assedio durato quasi un anno. Alla fine i turchi riuscirono a far breccia nel muro fortificato

nei pressi dell’Arsenale e, anche se i veneziani respinsero con coraggio i ripetuti attacchi, la situazione si era fatta insostenibile per la scarsità di cibo, acqua e polvere da sparo della quale ne erano rimasti solo sette fusti. Il primo agosto 1751, nell’impossibilità di protrarre oltre la difesa della città, il Bragadin concordò la resa, chiedendo che tutte le persone ancora in vita fossero risparmiate, condizione accettata da Lala Mustafà. L’epilogo fu ben diverso perché Lala Mustafà non tenne fede a nessuno degli accordi presi, Astorre Baglioni venne impiccato ben tre volte a scopo dimostrativo ed il suo cadavere fu lasciato al ludibrio dei soldati turchi che ne fecero scempio, mentre Marcantonio Bragadin, dopo aver subito il taglio delle orecchie, venne rinchiuso in una piccola gabbia messa al sole e seviziato e torturato per sedici giorni per dover poi subire l’umiliazione di dover trasportare a spalle pesanti sacchi di terra verso le batterie d’artiglieria, dovendo baciare la terra ogni volta che passava davanti davanti alla tenda del mustafà per essere poi scuoiato vivo nella piazza principale di Famagosta di fronte ai superstiti delle milizie veneziane. Famagosta fu lasciata in balia delle milizie turche che si resero colpevoli di violenze inaudite trucidando veneziani e greci, di stupri di massa e di altri odiosi atti di violenza ai danni della città. La pelle del Bragadin fu trionfalmente inviata a Costantinopoli sull’ammiraglia della flotta turca e riposta in una cassa nell’arsenale di quella città ma il trofeo non rimase lì per molto perché nel 1580, la pelle, venne trafugata da Gerolamo Polidoro, un soldato veneto di Verona fatto schiavo dai turchi, che, corrompendo le guardie, in un barile di pesce salato riuscì, tramite il bailo della città Antonio Tiepolo, a farla rientrare a Venezia.

La battaglia navale di Lepanto

Da Famagosta e da Costantinopoli, spostiamoci di molte miglia marine e ritorniamo nello specchio di mare delle isole Echinadi (o Curzolari come le chiamavano i veneziani ndr) dove le 208 galee sottili e le 6 galeazze della Lega Santa armate con 1.815 pezzi di artiglieria oltre ad altre 25 navi di appoggio la cui propulsione era affidata alle possenti braccia di 43.500 rematori disposti ai banchi incrociavano in attesa di poter ingaggiare la flotta turca. Del totale della flotta cristiana il contributo veneziano è il più consistente con ben 109 galee, delle quali più della metà giunte da Candia (l’attuale Iraklio sull’isola di Creta, ai tempi possedimento veneziano ndr), e sei galeazze giunte direttamente da Venezia, intenzionata a vendicare nel sangue l’affronto di Famagosta e Nicosia e la morte di Marcantonio Bragadin che a Venezia aveva destato un enorme scalpore e molta rabbia, anche se, come abbiamo già detto, lo scopo principale era quello di mettere un freno all’espansione ottomana. Le centoquindici navi veneziane erano agli ordini di Sebastiano Venier, Capitano Generale Da Mar della Repubblica di Venezia, e di Agostino Barbarigo, prima diplomatico e poi anch’egli Capitano Generale Da Mar (fu il Barbarigo a trasmettere la carica di Capitano Generale Da mar al Venier il 10 aprile 1571 ndr) ed imbarcavano, oltre ai rematori, i fanti da mar della Repubblica di Venezia, mentre la flotta ottomana era comandata da Müezzinzade Alì Pascià ed era composta da ben 344 navi tra galee, galeotte e fuste che però erano armate nella loro totalità con soltanto 750 pezzi di artiglieria ed imbarcavano 41.000 rematori ed un totale di ben 118.000 uomini.

Sebastiano Venier era un uomo pragmatico, schivo, di quello che fu definito un “pronto ingegno” anche se a Venezia aveva fama di essere abbastanza iracondo e manesco. Fin da giovane si dimostra un abile giurista e ricopre per la Repubblica di Venezia molte cariche importanti tra le quali, nel 1548, quella di governatore di Candia. Nel 1562 viene eletto Savio Grande della Repubblica e nel 1570 Procuratore di San Marco, come vedremo più avanti arriverà al soglio dogale nel 1577. Ai tempi di Lepanto Sebastiano Venier aveva settantaquattro anni e dal ponte della Capitana, posta al centro dello schieramento aveva il compito di comandare la flotta che era schierata in formazione con al corno destro al comando Andrea Doria della Repubblica di Genova, al centro la Repubblica di Venezia con Sebastiano Venier, lo Stato Pontificio con Marcantonio Colonna e l’Impero Spagnolo con Giovanni D’Austria, al corno sinistro ancora la Repubblica di Venezia con Agostino Barbarigo, al tempo cinquantacinquenne, mentre le riserve erano comandate da Alvaro De Bazàn Marchese di Santa Cruz, al servizio dell’imperatore di Spagna. Il compito di fare da esca fu assegnato alle sei galeazze veneziane che erano le meglio armate e, per la loro altezza e la disposizione dell’artiglieria di bordo le più adatte allo scopo, sulle quali gli spadaccini erano stati sostituiti con altrettanti archibugieri allo scopo evidente di aumentare la potenza di fuoco già garantita dall’artiglieria. Le imponenti galeazze veneziane godevano di una sinistra fama tra le marinerie del tempo erano infatti ottimamente armate con cannoni di bordata, a prua e a poppa e nonostante la stazza erano veloci in manovra e quasi impossibili da abbordare, tanto da essere definite: “castelli in mare da non essere da umana forza vinti”. Fedeli al loro ruolo le sei esche veneziane aprono per prime il fuoco con il devastante effetto di affondare o danneggiare molto gravemente circa una settantina delle navi turche e di procurare danni e gravi perdite all’avanguardia dello schieramento navale ottomano, destabilizzando immediatamente il nemico. Alì Pascià vista la malaparata evita l’abbordaggio delle sei galea ze concentrando la sua attenzione sulla galea comandata da Giovanni D’Austria con l’intenzione di ucciderlo per demoralizzare gli altri comandanti della Lega Santa, con una manovra accerchiante convenzionale tenta di avvicinare la galea comandata da Giovanni D’Austria e le altre del centro dello schieramento cristiano ma quando è a tiro di artiglieria tutte le galee ammainano gli stendardi per issare lo Stendardo di Lepanto rappresentante il Redentore Crocefisso e lo stesso Giovanni D’Austria ordinò di dare fiato alle trombe mentre lui sul ponte principale della sua galea si produsse in una concitata danza che gli spagnoli chiamano la Gagliarda; in quello stesso momento avvenne il disimpegno della galea genovese comandata da Andrea Doria che rifiutò l’ingaggio, cosa che invece accettò Giovanni D’Austria mentre la galea di Alì Pascià, evitando le bordate delle galeazze, faceva prua verso la sua e quando fu a tiro venne abbordata dai fanti sardi (al servizio dell’impero spagnolo ndr) che da prua combattevano furiosamente per aver ragione dei turchi ammassati a poppa. Il disimpegno della galea di Andrea Doria aprì però un consistente varco nel corno destro dello schieramento della Lega Santa nel quale riuscì ad insinuarsi il comandante turco Uluč Alì attaccando un gruppo di galee dalmate in forza allo schieramento veneziano, trovando però la strenua resistenza della galea San Trifone di Cattaro e del suo comandante Girolamo Bisanti che fecero desistere i turchi dal continuare l’attacco. Uluč Alì dopo aver desistito per la resistenza della San Trifone si dirige su un altro gruppo di galee sottili e riesce ad avere il meglio, con un attacco da poppa, dell’ammiraglia dei Cavalieri di Malta, della Piemontesa del ducato sabaudo, della Fiorenza e della San Giovanni del Granducato di Toscana, causando lo scompiglio nella formazione del corno destro della formazione cristiana. Lasciamo il corno destro dello schieramento e portiamoci sul corno sinistro dove le cose stanno prendendo una brutta piega per il Capitano Generale Da Mar e nobile veneziano Agostino Barbarigo intento a respingere i continui e feroci attacchi del comandante turco Scirocco, al secolo Mehmet Shoraq, che tentava di insinuarsi tra le navi e la terraferma nel tentativo di accerchiare la parte sinistra dello schieramento cristiano, sulla galea del Barbarigo lo scontro è feroce e serratissimo e il ponte è ricoperto di sangue e corpi, lo stesso Barbarigo per impartire meglio gli ordini si alza la celata dell’elmo e viene quasi subito colpito da una freccia ad un occhio, morirà due giorni dopo il 9 ottobre. A scongiurare il peggio arriva in soccorso il Marchese di Santa Cruz con le galee della riserva che attaccate le navi di Scirocco riesce a catturarlo e lo fa decapitare immediatamente, riportando l’equilibrio in quella parte dello schieramento, nel frattempo al centro le galee del Granducato di Toscana abbordano la galea di Alì Pascià che muore combattendo durante lo scontro, il suo cadavere, nonostante il veto assoluto di Don Giovanni D’Austria, verrà decapitato e la testa verrà esposta sull’albero maestro dell’ammiraglia dell’impero spagnolo. I numeri della sconfitta turca sono, a dir poco, impressionanti: 107 tra galee e galeotte affondate e 130 catturate, trentamila pe dite tra morti e feriti, oltre quindicimila schiavi cristiani liberati. Il contributo dato dalla Repubblica di Venezia fu determinante ai fini della schiacciante vittoria che affievolì la potenza navale turca nel mediterraneo garantendo un periodo di pace. Nel combattimento morirono 7.500 icristiani dei quali ben 4.700 veneti.

Di Giovanni Veronese da Storie Vicentine n. 4 Settembre-Ottobre 2021


In uscita il prossimo numero di Marzo 2023
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Giovanni Cariolato, imprenditore di successo nella Valle dell’Agno, si racconta: dalla CA&G di Cornedo alla sua multinazionale GDS

Ci ha accolto con il sorriso l’imprenditore Giovanni Cariolato, fondatore e leader dell’azienda GDS (Global Display Solutions), prima CA&G, con sede a Cornedo Vicentino. e che produce display per varie applicazioni (da quelli presenti in aeroporti e stazioni ferroviarie fino alle fermate dei pullman), sistemi di illuminazione tecnologia avanzata, stampanti e apparecchiature OEM e ODM. Cariolato si è raccontato a noi a 360 gradi, dai progetti aziendali a quelli scolastici fino a vari aneddoti, tra cui una vecchia collaborazione con il nostro direttore Giovanni Coviello

Cariolato, ci racconta un po’ della sua vita e di come è nata l’azienda?

Sono nato a Valdagno il 21 aprile 1957 da genitori contadini. Siamo in sei fratelli, 4 maschi e 2 femmine. Sono sposato e ho due figli, uno di 31 e uno di 38 anni, che entrambi oggi lavorano all’interno della mia azienda. I miei genitori erano due classici contadini con quattro campi in collina, sotto a Montepulgo di Cornedo.

Capii già da bambino che il contadino è un imprenditore: deve investire continuamente, seminare per raccogliere dopo un certo tempo, resistere se le cose vanno male e avere un senso del sacrificio elevato. Mi sono diplomato in elettronica all’Istituto Rossi di Vicenza nel 1976. Mi sono poi iscritto alla facoltà di Ingegneria di Padova. Nel frattempo lavoravo anche per la Olivetti.

Dopo i primi due anni di università ho lasciato gli studi e sono stato chiamato a fare il servizio militare. Nel 1979 io e mio fratello Andrea abbiamo fondato la società CA&G Elettronica snc, dove il nome dell’azienda significava “Cariolato Andrea e Giovanni”. L’impresa è nata dalla passione di costruire apparecchi elettronici. Dapprima eravamo nel settore della televisione a circuito chiuso, poi siamo passati alla progettazione e produzione di monitor per pc. Nel 1987 c’è stata una separazione da mio fratello Andrea. Abbiamo scelto strade diverse. Lui ha continuato l’attività commerciale e si è trasferito a Vicenza in un capannone nuovo. Io ho continuato nell’attività industriale“.

giovanni cariolato
L’imprenditore Giovanni Cariolato al lavoro nel suo ufficio.

Quale è stato il periodo più difficile per l’azienda?

Ci sono stati molti periodi difficili, ma ricordo in particolar modo quello dell’anno 2013. Abbiamo attraversato una crisi, alla quale non sapevamo se saremmo sopravvissuti. Il periodo che va dal 1995 al 2015 è stato un ventennio difficile per l’industria. Anche le aziende migliori per sopravvivere hanno dovuto delocalizzare le sedi. C’è stata una lotta per la sopravvivenza, dovuta al fenomeno della globalizzazione non governata. Quando la Cina è stata ammessa alla WTO, l’organizzazione mondiale del commercio, ha iniziato a rubare posti di lavoro all’Occidente.

giovanni cariolato
Un macchinario alla GDS

Molte industrie hanno espulso i lavoratori italiani e hanno cominciato a delocalizzare le fabbriche. Anche le famiglie italiane erano in crisi e scappavano all’estero. In questi ultimi anni l’industria ha trovato un nuovo modo di esistere, ad esempio valorizzando prodotti di nicchia. Adesso è arrivato il tempo delle medie aziende di zona che hanno la leadership del loro prodotto. E delle piccole-medie imprese che diventano multinazionali. Certo, c’è un gran bisogno di tecnici sempre più specializzati, ovvero “super tecnici”, e di attirare talenti giovani“.

sede GDS
La sede della GDS a Cornedo Vicentino

Come avete affrontato la crisi del 2013?

La crisi è arrivata perchè una nostra azienda cliente dagli Usa decise di produrre in proprio quanto importava dalla GDS, interrompendo i rapporti. Il fatturato calò del 50% e non sapevamo se saremmo sopravvissuti. Negli anni successivi abbiamo fatto causa a questa azienda per truffa e abbiamo vinto la causa. E così, non solo siamo sopravvissuti, ma siamo anche tornati più forti di prima!“.

produzione
Un tecnico al lavoro nel reparto produzione della GDS

Quali sono i suoi progetti per il futuro?

Mi piacerebbe che scuola e lavoro fossero più collegati. Perciò, assieme ad altri imprenditori della zona, vorrei portare un ITS o Istituto tecnico che possa formare i futuri tecnici industriali, alternando formazione e lavoro. Magari situandola a Valdagno, che è una città che ha un grande valore storico per la formazione. Già Marzotto aveva inventato la “città sociale”, aveva fatto costruire le scuole perché aveva capito l’importanza di formare i futuri lavoratori. Ora servirebbe più preparazione nell’ambito della meccatronica, dell’informatica e dell’elettronica. Abbiamo già una collaborazione in corso con l’ITIS Rossi di Vicenza. Gli studenti iniziano già a ideare e a presentarci i loro progetti. E parlo sia di maschi che di femmine perché non sempre la parità negli studi tecnici o scientifici è scontata. Ma le nostre ragazze sono una grande risorsa per il futuro. Se potessi lasciare un’eredità sociale, punterei a migliorare la collaborazione tra scuola e industria con una scuola ad hoc“.

produzione GDS
Alcuni tecnici al lavoro nel reparto produzione

Qualche dato aziendale

La GDS ha circa un migliaio di dipendenti in tutto il mondo, di cui 110 a Cornedo. Oltre alla sede di Cornedo, ci sono altre 2 aziende a Treviso e a Torino. Poi all’estero ce ne sono in Taiwan, Cina e Australia, a Chicago, negli USA, a Londra, in Inghilterra, in Romania e in Tunisia“.

Ci dice qualcosa della sua vita privata?

Ho conosciuto mia moglie a una festa di paese. Eravamo entrambi molto giovani, lei 15 anni e io 17. Ci siamo sposati nel 1982. Nel 1984 è nato il nostro primo figlio, nel 1992 il secondo. Dal 2012 mio figlio maggiore lavora nel reparto lighting. Poi è venuto a lavorare qui in azienda anche il mio secondo figlio. Avere la presenza dei figli in azienda mi dà una sensazione positiva di continuità. Penso sia una fortuna avere i figli impegnati nell’azienda che ho fondato“.

giovanni cariolato
L’interno dell’area produzione nella sede in Romania.

Come ha conosciuto il nostro direttore Coviello?

Ho conosciuto Giovanni Coviello negli anni a cavallo del 1990. Arrivava da una delle migliori aziende informatiche italiane di assemblaggio e vendita di pc, anche in Europa. Noi eravamo suoi fornitori. Poi lui si è spostato per lavoro proprio qui nella nostra azienda e ha collaborato per un certo periodo con noi. Da allora ci lega anche una bella amicizia“.

L’altro Penacio: una storia di tradizione e innovazione con Enzo Giannello ispirato da Vissani

Antica Osteria Penacio” è il nome di una storica trattoria in quel di Arcugnano, incastonata sui Colli Berici, tra le preferite mete dei buongustai vicentini. Negli Anni ’80 nascevano i primi assaggi, le prime degustazioni, scardinando così i canoni del classico menu composto dalle tradizionali portate antipasto/primo/secondo/dessert.

Stiamo parlando di un periodo storico e un contesto, i Colli Berici, dove la tradizione portava i clienti a chiedere la tipica “grigliata mista”, mentre in Italia e nel mondo esplodevano i concetti della nuova cucina italiana con Gianfranco Vissani e Gualtiero Marchesi.

Da una costola dell’Antica Osteria Penacio nasce quindi “L’Altro Penacio”, governato da Enzo Giannello detto “Penacio” che ha messo in atto una cucina d’alto profilo, aggiungendo ai piatti della tradizione vicentina quelle proposte di pesce che gli hanno meritato le incoraggianti quotazioni della critica gastronomica.

Una cucina in bilico tra carne e pesce

Il raffinato locale è articolato in spazi che danno un senso di intimità: l’arredo ha toni caldi, elegante nel suo design moderno. Da una vetrata si scorge il camino per lo spiedo e la griglia.

Ampio spazio è stata ritagliato per una nutrita carta dei vini, un paio di centinaia di etichette italiane con predilezione per Triveneto, Piemonte e Toscana, oltre a una bella selezione di vini esteri.

Griglia e spiedo fanno da calamita per gli amanti delle carni, qui trattate con competenza e rispetto della materia prima. Nel tempo però si è fatto largo nel menu il pesce che arriva tutti i giorni da Venezia e dai porti dell’Adriatico in meraviglioso varietà: crostacei, molluschi e le specie più pregiate anche per gli appassionati del crudo.

Il punto di vista di Dario Loison

Conosco “Penacio” da qualche decennio. La nostra amicizia si è rafforzata negli anni ‘90, quando abbiamo cominciato a frequentare e conoscere la cucina di Gianfranco Vissani. Lì abbiamo capito il valore di uno stile che stava rivoluzionando la cucina italiana ed Enzo in questo senso è stato precursore, operando oggi con picchi di creatività non comuni”.

I Love Loison

L’incontro con Dario è nato proprio dalla necessità di conoscere persone che avevano voglia di cambiare, voglia di cose nuove: ci siamo trovati al posto giusto al momento giusto – racconta “Penacio”. “Di Dario ho stima immensa: lui è riuscito a cambiare il core business della sua azienda durante gli anni Novanta, in tempi molto difficili, trasformando un prodotto senza identità a quello che oggi è un prodotto eccellente per qualità e bellezza”.

L’Altro Penacio è segnalato dalle guide: Guida Michelin, Le Guide de l’Espresso, Venezie a Tavola, Il Cucchiaio d’Argento, Insolito Panettone

L’Altro Penacio

presso Best Western Hotel Tre Torri

Via Tavernelle, 3
Altavilla Vicentina (VI)

Tel 0444371391 – 3486702324

Email [email protected]

Web http://www.hoteltretorri.it/it/mangia-e-bevi/ristorante-hotel.aspx

“Arte culi ‘n aria”, la settima ricetta vicentina da “ricettario biografia” di Umberto Riva: gatto, una incredibile storia da “magnagati”

“Arte culi ‘n aria“ è il titolo di una serie di.. articuli così come li ha scritti (l’ultima pubblicazione di quello che ripubblichiamo oggi è del 2 novembre 2019, ndr) Umberto Riva per te che nel piacere della tavola, vedi qualcosa di più: gli articoli sono raccolti insieme alla “biografia” tutta particolare del “maestro” vicentino Umberto Riva nel libro “Arte culi ‘n aria”, le cui ultime copie sono acquistabili anche comodamente nel nostro shop di e-commerce o su Amazon.

Prima di “gustarti” la nuova ricetta fuori dal normale di Umberto Riva rileggi la Prefazione e il glossario di “arte culi ‘n aria“, una nuova serie di.. articuli così come li ha scritti il “nostro” Umberto per te che nel piacere della tavola, vedi qualcosa di più.


“I ge ciamava el singano. ‘l conoseva l’arte de cusinar ‘l gato”.
Sul perché i vicentini siano chiamati “magnagati” si é sprecato inchiostro e si é molto parlato e, per fortuna, se ne parlerà molto. Sembrerebbe, tra varie versioni, la più attendibile, rifarsi a quel viaggio che alcuni vicentini, incaricati dal governo di questa città, hanno intrapreso presso la Serenissima Repubblica, sotto lo spettro di quel popolo di topi che prolificava nella berica città.

Notoriamente Venezia era ricca, e tutt’ora lo é, di quel felino che si definisce domestico. I veneziani, sempre ospitali, anche se a modo loro, imbandirono un banchetto serale a base di carni bianche, che, poi si rivelarono gatti. Grande sganasciata dei veneti lagunari, grande apprezzamento dei veneti berici che in quelle carni trovarono grande sapore. Ben si sa che il gatto é onnivoro, e da una simile nutrizione la carne non può che trarne grande vantaggio.

A buon esito dell’operazione grazie ai gatti ricevuti dai veneziani, Vicenza fu liberata, per quanto necessario, dai topi, non tutti, non si sa mai. Si diceva, che, ad operazione compiuta, di gatti ne rimasero assai, gatti che si sarebbero dovuti mantenere con relativo dispendio economico, ed, é notorio, che i vicentini in fatto di soldi non siano il massimo della munificenza. Memori di quella spedizione a Venezia e di quel famoso banchetto, pensarono che il gatto potesse essere una soluzione doppiamente vantaggiosa, tanto più che i veneziani, i gatti, non li avevano regalati.

Ben si sa che una vivanda trova nell’uso continuo una evoluzione nella preparazione, così successe anche per il gatto. Fu così che ricetta importante, quasi storica, divenne quella del “singano”. Non é fondamentale la ricetta per il sistema ed i tempi di cottura o gli ingredienti, ma la preparazione dell’animale per poter essere cotto. Il tempo, il momento migliore, anzi, necessario, per gustare il gatto, era quello delle nevicate. Sì perché il gatto, una volta privato dell’ultima delle sue sette vite, doveva essere, con pelliccia e tutto, posto a frollare sotto la neve per almeno una decina di giorni, “mejo se quindese”.

Una volta tolto dalla bianca coltre veniva privato della pelle, pulito e preparato per la cottura, preferibilmente, in umido con tanta cipolla e prezzemolo. Le interiora davano consistenza al “pocio” che innaffiava una crema di mais (polenta) di pregevole cottura, ed inequivocabilmente di farina “maranea”.
Diceva “’l singano”: il “gato xe magnar da re” perché il gatto é senza padroni, quindi é un re. Solo che il re, lui, estemporaneo giacobino, se lo mangiava. Forse proprio per questo regale legame, i vicentini mai si offendono se gli stranieri, i barbari, ” i foresti” li apostrofano “magnagati”.

Marcello Mantovani: il ricordo di un uomo che ha dedicato tutta la sua vita all’impegno civile e sociale

Marcello Mantovani nasce a Vicenza il 24 giugno 1920. Diplomatosi in Ragioneria, si scrive  alla  facoltà  di Economia e Commercio presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia.

Il Secondo Conflitto mondiale vede Mantovani a 19 anni sul Col di Tenda, al confine italo-francese. Nel 1941 è sul fronte croato di Otočac e di Korenica. Nel primo dopoguerra, con la ricostruzione, Mantovani intuisce che occorreva rianimare lo spirito associativo.

Marcello Mantovani Con Sandro Pertini
Marcello Mantovani Con Sandro Pertini

Nominato nel settembre 1945 membro della Commissione consultiva della Federazione Combattenti, ricostituisce nel novembre dello stesso anno la Sezione del Fante di Vicenza.

Nel 1949 fonda la Federazione Provinciale del Fante di Vicenza di cui assumerà la reggenza che manterrà per quasi dodici lustri. Il 18 marzo 1951, fa murare nel Piazzale della Vittoria a Vicenza, una lapide ai Caduti; L’8 luglio 1951 va a Trieste al Castello di San Giusto per consegnare al sindaco Gianni Bartoli il Tricolore.

Nel 1952  è eletto Consigliere Nazionale dell’Associazione del Fante. Promuove la sistemazione del Cimitero Monumentale di Arsiero. Nel 1971, viene nominato vicepresidente dell’ Associazione Nazionale del Fante assumendone tre anni dopo la carica di Presidente. Il 5 giugno 1987 il Presidente della Repubblica Francesco Cossiga gli conferisce “motu proprio” il riconoscimento di Cavaliere di Gran Croce. Con i fanti recupera il “cimitero degli abeti mozzi” in Val Magnaboschi, tra i monti Zovetto e Lemerle che, nella primavera del 1916, i fanti avevano conteso al nemico. L’impegno sociale di Mantovani abbraccia diversi settori: egli presiede la Commissione per il Collocamento al lavoro degli ex Internati e Reduci di guerra, L’Istituto Santa Chiara, dirigente dell’ENAL, nello sport: è presidente del Vicenza Rugby, ma la sua passione, è per il Lanerossi Vicenza. Il 24 giugno 2002, per il suo 82° compleanno il Sindaco di Vicenza Enrico Hullwech consegna la medaglia d’oro della Città.

Il 19 febbraio 2009, a 88 anni, Marcello Mantovani si spegne nella sua Vicenza. Sulla bara volle il Tricolore vegliato dai Fanti d’Italia.

Di Luciano Parolin da Storie Vicentine n. 4 Settembre-Ottobre 2021


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