Marcello Mantovani nasce a Vicenza il 24 giugno 1920. Diplomatosi in Ragioneria, si scrive alla facoltà di Economia e Commercio presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia.
Il Secondo Conflitto mondiale vede Mantovani a 19 anni sul Col di Tenda, al confine italo-francese. Nel 1941 è sul fronte croato di Otočac e di Korenica. Nel primo dopoguerra, con la ricostruzione, Mantovani intuisce che occorreva rianimare lo spirito associativo.
Marcello Mantovani Con Sandro Pertini
Nominato nel settembre 1945 membro della Commissione consultiva della Federazione Combattenti, ricostituisce nel novembre dello stesso anno la Sezione del Fante di Vicenza.
Nel 1949 fonda la Federazione Provinciale del Fante di Vicenza di cui assumerà la reggenza che manterrà per quasi dodici lustri. Il 18 marzo 1951, fa murare nel Piazzale della Vittoria a Vicenza, una lapide ai Caduti; L’8 luglio 1951 va a Trieste al Castello di San Giusto per consegnare al sindaco Gianni Bartoli il Tricolore.
Nel 1952 è eletto Consigliere Nazionale dell’Associazione del Fante. Promuove la sistemazione del Cimitero Monumentale di Arsiero. Nel 1971, viene nominato vicepresidente dell’ Associazione Nazionale del Fante assumendone tre anni dopo la carica di Presidente. Il 5 giugno 1987 il Presidente della Repubblica Francesco Cossiga gli conferisce “motu proprio” il riconoscimento di Cavaliere di Gran Croce. Con i fanti recupera il “cimitero degli abeti mozzi” in Val Magnaboschi, tra i monti Zovetto e Lemerle che, nella primavera del 1916, i fanti avevano conteso al nemico. L’impegno sociale di Mantovani abbraccia diversi settori: egli presiede la Commissione per il Collocamento al lavoro degli ex Internati e Reduci di guerra, L’Istituto Santa Chiara, dirigente dell’ENAL, nello sport: è presidente del Vicenza Rugby, ma la sua passione, è per il Lanerossi Vicenza. Il 24 giugno 2002, per il suo 82° compleanno il Sindaco di Vicenza Enrico Hullwech consegna la medaglia d’oro della Città.
Il 19 febbraio 2009, a 88 anni, Marcello Mantovani si spegne nella sua Vicenza. Sulla bara volle il Tricolore vegliato dai Fanti d’Italia.
Di Luciano Parolin da Storie Vicentine n. 4 Settembre-Ottobre 2021
Saranno 37 gli eventi in programma per l’undicesima edizione del BANFF Mountain Film Festival World Tour Italy, la rassegna cinematografica dedicata a montagna e outdoor che, dal 2013, porta in Italia le migliori produzioni presentate nel corso dell’omonima manifestazione canadese.
Anche quest’anno il BANFF farà tappa a Vicenza lunedì 13 marzo 2023 presso il cinema Patronato Leone XIII alle ore 20. Ospite in sala sarà il vicentino Silvio Reffo, scalatore professionista, ambassador del team La Sportiva. La tappa di Vicenza è un evento in collaborazione con Vi Block Climb Park.
L’esplorazione dei luoghi selvaggi, la gioia della condivisione, la libertà di muoversi nella natura più incontaminata: in ogni serata sarà proiettato lo stesso programma di 9tra corto e medio metraggi provenienti da tutto il mondo che raccontano di piccole e grandi imprese, di storie di amicizia e incredibili traguardi. Uninvito a riscoprire il gusto dell’avventura e dell’ignoto, che ciascuno può risvegliare anche nei confronti dei luoghi più vicini.
L’appuntamento imperdibile del BANFF torna nelle città italiane con storie di climbing e kayak a Baffin Island, Canada, per la promessa di una vita, con discese di sci estremo in luoghi ancora remoti del pianeta, in Karakoram oltre i 6.000m di altitudine, in sella a due ruote nel magnifico paesaggio del Messico, alla ricerca della fonte di ogni creazione in Islanda… e un finale magico sospesi oltre le nuvole.
Con l’edizione 2023 BANFF Italia lancia il suo progetto a sostegno dell’ambiente in collaborazione con zeroCO2, società Benefit che si occupa di riforestazione ad alto impatto sociale: piantare alberi in diverse zone del mondo per contrastare la crisi climatica e supportare lo sviluppo di intere comunità contadine.
L’iniziativa prevede la realizzazione di una “Foresta BANFF Italia” nel territorio della Patagonia, luogo che da anni è protagonista nei diversi documentari finalisti al BANFF Mountain Film Festival: ogni 100 biglietti venduti, BANFF Italia riuscirà ad adottare 1 albero per contribuire alla riforestazione di parte di quel territorio..
“Prevediamo di arrivare a 100 alberi adottati entro il termine del tour 2023, un risultato che renderà tutto il pubblico del BANFF protagonista di questa azione green nei confronti del pianeta. Grazie alla partnership con zeroCO2, i germogli cresceranno nel vivaio e poi verranno donati a una famiglia di contadini… e potremmo seguire online la crescita della foresta BANFF grazie al sistema di monitoraggio Chloe. Siamo entusiasti di questa iniziativa che racconteremo passo dopo passo sui nostri canali social” dichiara Alessandra Raggio, CEO Itaca the Outdoor Community.
Per scoprire tutte i film in programma alla 11a edizione del Banff Centre Mountain Film Festival, clicca qui.
Don Antonio Grotto nacque a Vicenza nella parrocchia di San Michele il 18 settembre 1752. Compì gli studi classici e teologici dai Gesuiti in contrà Riale, mentre per la musica studiò con Antonio Faccioli, un mansionario cantore della cattedrale vicentina. A 23 anni entra come tenore nella cappella musicale del duomo e nel 1782 fu eletto maestro di cappella, incarico che ricoprì per 52 anni.
Il suo carattere gioviale confliggeva con la musica che copiosamente componeva in rigoroso stile ecclesiastico. Non approvava nella musica sacra le innovazioni di Rossini, nelle quali vedeva la contaminazione con la musica teatrale. I rapporti con il suo vescovo Zaguri erano improntati a rigorosa obbedienza e riverenza…, ma il vescovo, forse oppresso dalle turbolenze politiche e scosso dalle requisizioni di chiese, monasteri e conventi, mal sopportava nei pontificali le lungaggini musicali del suo maestro di cappella.
D’altra parte, i fedeli accorrevano numerosi a queste “rappresentazioni liturgiche” in cattedrale come fossero a teatro ed erano “religiosamente” estasiati per le “arie” dei solisti e per la sontuosa orchestrazione. Nel 1804 l’imperatore propose a Zaguri la promozione a patriarca di Venezia ma, rifiutò l’incarico, adducendo gravi motivi di salute. E il 12 settembre 1810, dopo aver nominato suo erede universale il Comune, Zaguri morì e venne sepolto nel duomo.
Come era prassi, ogni maestro di cappella, teneva in cassetto una sua messa di requiem, nell’eventualità che venisse a mancare il vescovo. E Grotto invece, pur avendo composto una decina di Messe da Requiem nel suo lungo magistero, per questa luttuosa occasione volle “omaggiare” il suo vescovo con una nuova e per una volta senza badare alle occhiate che per il passato aveva ricevuto da Zaguri mentre attendeva con impazienza la “cadenza finale” dell’orchestra.
Questa volta Grotto poteva concedersi la libertà di sforare i tempi ragionevoli della liturgia funebre. A p. 12 della partitura, infatti, appuntò: “Introito e Kyrie. Minuti 10” e a p. 60 “tutto il Dies irae dura 3: quarti e 6: minuti circa”. È però nell’intestazione della partitura che il Grotto, dopo anni di francescana sopportazione, si lascia andare a una liberatoria dedica: “Requiem a 4: in die obitu del vescovo Zaguri nemico della musica & C. di Antonio Grotto 1810”. “Almeno da morto…” avrà pensato!
Piazza dei Signori, uno “schizzo”
Don Antonio Grotto scrisse oltre 500 composizioni, tutta musica sacra, tra messe, inni, salmi, mottetti, che sono conservate nell’Archivio diocesano. Nella sua produzione musicale si contaminò con la musica profana per una sola volta. Era il 7 maggio 1797 quando, giunti i Francesi in città, il Maestro con la sua cappella musicale dovette forzosamente partecipare alla Commedia democratica in Piazza dei Signori.
Per questa “liturgia laica” attorno all’Albero della Libertà il “cittadino” Antonio Grotto fu costretto a comporre due inni “patriottici” a 3 voci e orchestra “Or che innalzato è l’albero” e “Del dispotico potere”. Un’altra veniale contaminazione è del 1814 quando il celeberrimo evirato Giovambattista Velluti, dopo il trionfo all’Eretenio con Ginevra di Scozia di Simon Mayr, era atteso in cattedrale per la messa contata della domenica.
Il Maestro confezionò su misura alcuni versetti del Gloria pregni di impegnativi virtuosismi per dar modo ai vicentini di riascoltare il celebre cantante anche sotto le sacre volte del duomo. Con il passare degli anni non mutò il suo carattere gioviale e di questa sua qualità lasciò traccia con numerosi versi scritti sulle partiture. In un Tantum ergo, composto nel 1821 per la chiesa di S. Gaetano, dopo che un critico gli aveva fatto notare l’assenza dei corni fra gli strumenti, il Maestro, in tono leggero, scrisse alla fine della partitura “o storto o drito/siete servito/cantate polito” e nella parte dei due corni, che aggiunse accondiscendendo all’indelicata critica, scrisse la provocatoria risposta “due corni per servirla”.
L’ultima composizione del Grotto è un mottetto scritto il 10 marzo 1828 e dedicato al suo “braccio destro e copista” Domenico Sbabo. Scrive con sottile ironia “D’anni settantacinque e mesi sei/scriver mottetti!/ Ah: miserere mei!/Sbabo m’intende/ e il ver comprende”. Morì il 20 gennaio 1831 e per le esequie fu ripresa la messa da requiem composta per il vescovo Zaguri e ritenuta dalla critica il suo capolavoro. Ci auguriamo che questo nostro grande e dimenticato Maestro venga riscoperto magari con l’esecuzione di quel monumentale Dies irae, 50 minuti circa di musica: quasi la durata di un intero concerto.
Vittorio Bolcato da Vicenza in Centro, n. 2 febbraio e n. 3 marzo anno 12
“Arte culi ‘n aria“ è il titolo di una serie di.. articuli così come li ha scritti (l’ultima pubblicazione di quello che ripubblichiamo oggi è del 30 maggio 2021, ndr) Umberto Riva per te che nel piacere della tavola, vedi qualcosa di più: gli articoli sono raccolti insieme alla “biografia” tutta particolare del “maestro” vicentino Umberto Riva nel libro “Arte culi ‘n aria”, le cui ultime copie sono acquistabili anche comodamente nel nostro shop di e-commerce o su Amazon).
C’era una tavola, una tavola che si sistemava sul tavolo da cucina. Era la “tola de ‘e tajadee”, la stessa ove si preparavano i gnocchi o qualche dolce. Era bella quella tavola. Non era perfettamente piana, era di legno dolce e siccome si presentava imbarcata, sotto l’angolo lontano trovava posto il coltello quello grosso con la punta mezza tonda che veniva usato per fare il battuto di lardo. Così stava ferma. Quello stesso coltellaccio, praticamente senza taglio, che si usava, alla fine, per raschiare dalle croste degli impasti, la famosa tavola dopo aver fatto dolci o gnocchi o tagliatelle.
Gnocchi di patate.
Patate bollite pelate bollenti, passate bollenti nello schiacciapatate, impastate con un uovo e farina bianca, bollenti. Le patate bollenti contengono più acqua, assorbono più farina bianca, così, con lo stesso numero di patate, venivano più gnocchi.
A proposito di gnocchi. Erano di giovedì, non di tutti i giovedì. Di quel dato o casuale giovedì. La produzione coinvolgeva i bambini quando arrivavano da scuola. Il primo ordine di mamma era “lavarse le man”.
Si trovava la pentola con le patate a termine cottura, la tavola da tagliatelle pronta con farina e l’uovo. Il “skisapatate”, arma primaria, una forchetta e tanto entusiasmo. La gioia era schiacciare le patate, la parte noiosa era allineare lungo la parte superiore della tavola da tagliatelle i gnocchi che una volta creati e passati sul retro della grattugia per renderli rugosi, dovevano essere anche contati. Ad ognuno il suo. Eravamo in quattro, quattro file parallele e paritetiche fin quasi alla fine chè, ad un certo punto una si allungava, era quella del papà. Ogni piatto veniva cotto per conto proprio e la cerimonia iniziava quando arrivava il papà. Il condimento era pomodoro cotto e passato, burro e “formaio gratà”. Quel buon formaggio che allora si stagionava con grande cura nello scantinato della “botega da casolin del sior Scolarin”.
La tecnica “de magnare i gnochi” consisteva nel privare di gnocchi un angolo del piatto e lì “pociare”. Vietato mescolarli, si impasterebbero e perderebbero la loro consistenza. Il profumo di quella leccornia permeava la casa e permaneva a lungo oltre il giorno fortunato.
Era soddisfazione domestica, quando, passando davanti casa, la siora Balbo o la siora Pagiaro esclamavano “gnochi anco, siora Rina”.
La fine era sempre quella.
Pane per lucidare il piatto e la soddisfazione di potersi, impunemente, ciucciare le dita.
I Nobili Valmarana: illustre famiglia vicentina antica e ricca. Si attribuì origini favolose dal famoso Mario Romano. Trasse il nome dal Castello in cui dominava. Iscritta al Consiglio Nobile di Vicenza, nel 1510 aveva 15 posti. Carlo
V Imperatore con diploma del 30 aprile 1540, creò i Valmarana Conti Palatini cioè con compiti di amministratori di giustizia. Grazie ai possedimenti di Nogara il territorio dei Valmarana fu eretto in Contea.
La Serenissima Repubblica il 27 febbraio 1729, confermò loro il titolo di Conti di Valmarana in forza della investitura passata, del Castello e Villa di Valmarana.
Il 23 giugno 1658, un ramo della famiglia, offrì 100 mila ducati alla Repubblica per essere iscritta al Patriziato Veneto.
Due rami vissero a Vicenza i San Lorenzo e San Faustino, il tito- lo di Conte di Valmarana compete a Valmarana al primo ramo. Con risoluzione del 18 dicembre 1817, ottennero la riconferma della Nobiltà. Il sepolcro della famiglia si trova a Santa Corona, San Lorenzo, San Michele ai Servi, San Biagio.
E’ proprietà della famiglia Villa Valmarana ai nani con annessa la Foresteria progettata da Muttoni affrescata da Giambattista Tiepolo e figlio nel 1737.
Possedevano case a Santa Corona, San Faustino, Borgo Santa Caterina, Porta Castello, San Lorenzo ora Corso Fogazzaro dove, nel 1566, su disegno di Andrea Palladio, eressero un sontuoso Palazzo, qui nel 1581, Leonardo Valmarana ospitò l’imperatrice Maria d’Austria madre di Carlo V° che era al seguito di San Luigi Gonzaga.
MEMBRI ILLUSTRI TRA I NOBILI VALMARANA
Giovanni Francesco Valmarana, morto nel 1566, no- minato da Carlo V conte palatino, fratello di Giovanni Alvise Valmarana marito di Isabella Nogarola e padre di Leonardo Valmarana marito di Isabetta Da Porto. Commissionò ad Andrea Palladio la villa Valmarana (Lisiera) che fu terminata da suo nipote Leonardo tra il 1579-1591.
Leonardo di Valmarana, cavaliere munifico, amico di principi e splendido mecenate, buon architetto, nel 1592 apriva ai vicentini il giardino di Porta Castello, come ricorda una iscrizione latina. Era figlio di Gianlui- gi, Provveditore per la fabbrica del Palazzo della Ragio- ne (Basilica) il 6 settembre 1548, insieme a Girolamo Chiericati e Gabriele Capra, furono incaricati per la scelta del progetto di Palladio per la Basilica. Morì il 22 dicembre 1612, fu sepolto a Santa Corona.
Giulio Cesare di Valmarana, figlio di Bartolomeo, fu provveditore ai confini per la Repubblica Veneta. In compenso per l’opera prestata con decreto 5 agosto 1606, fu creato Cavaliere dal Senato Veneto, ed ebbe in dono il collare d’oro. Scrisse un libro sul modo di fare la pace. Morì nel 1621 a 80 anni fu sepolto nella chiesa dei Servi ora trasportato a San Bastian.
Cristoforo di Valmarana, figlio di Giulio Cesare, uomo fecondo, perorò più volte la causa di Vicenza innanzi ai Dogi Veneti e nel Consiglio dei Pregadi cioè il Senato della Repubblica di Venezia che, si occupava della po- litica estera. Morì nel 1656 a 78 anni, come il padre fu sepolto nella chiesa dei Servi. A Giulio Cesare e Cristoforo, Eleonoro Conte di Valma- rana, pose un busto marmoreo sulle tomba che ora si trovano a San Sebastiano.
Di Luciano Parolin da Storie Vicentine n. 4 Settembre-Ottobre 2021
Le chiese del Comune di Brogliano sorprendono per il loro fascino. C’è poi la pieve di San Martino, che è la più antica della vallata. Appena si arriva in centro paese si nota subito una bella e nuova fontana. Sopra ci sono due pavoni, che simboleggiano l’immortalità. La scena riprende un bassorilievo presente in una pietra d’angolo della Pieve di San Martino, costruita in epoca carolingia (sec. IX). La pietra fu recuperata da una preesistente chiesetta di epoca longobarda (sec.VII-VIII).
La fontana in centro paese. Foto: Marta Cardini
La chiesa parrocchiale e la chiesetta di S. Antonio
La chiesa parrocchiale-arcipretale di Brogliano, dedicata anch’essa al Vescovo San Martino di Tours, è un bell’esempio di architettura gotica. E’ a navata unica, con soffitto affrescato di blu con stelle dorate, e lateralmente son presenti due altari laterali. Uno è dedicato a Santa Maria Assunta (con statua lignea) e l’altro a Sant’Antonio di Padova. Nel centro del paese, infatti, accanto al campanile di Brogliano vi è la chiesa di Sant’Antonio, oggi sconsacrata ed adibita ad aula per incontri. Quest’ultima risale al secolo XV.
La chiesa parrocchiale di Brogliano. Foto: Marta Cardini
La pieve di San Martino
La pieve è una chiesa all’interno di un cimitero un po’ fuori Brogliano. SI trova alla base di un colle vicino al corso del torrente Agno e rappresenta la matrice di tutte le chiese della Valle e ne è la preziosa custode della presenza longobarda nella zona. E’ dedicata a San Martino di Tours che divenne, assieme ai santi Giorgio martire e Michele arcangelo, uno dei patroni del popolo dei Longobardi convertiti al cattolicesimo.
Sulla datazione dell’attuale chiesa non vi è una certezza assoluta, ma con molta probabilità ve ne era un’altra prima dell’attuale fondata in periodo longobardo attorno al VII secolo, costruita molto vicina all’attuale argine del torrente Agno. Qui venne ritrovato un frammento sicuramente longobardo raffigurante un guerriero armato di lancia, con una veste lunga fino alle ginocchia e i lunghi capelli divisi da una scriminatura centrale.
Insieme con esso, nella chiesa è conservato un altro frammento raffigurante due pavoncelli che si abbeverano ad una coppa d’acqua, forse della stessa epoca. L’esterno della chiesa è costituito da una muratura in sasso nero a faccia vista, mentre le parti di impianto (abside e navata) sono lavorate in modo grezzo e completate da elementi in cotto.
Alcuni studi recenti condotti sulle pareti della chiesa hanno fatto rinvenire alla luce tre affreschi: la Santissima Trinità, una Santa con in mano alcuni ramoscelli e alcune corone e un altro in cui si intravedono quattro figure con copricapi e una mano con le stigmate.
La chiesetta sconsacrata di S. Antonio. Foto: Marta Cardini
La chiesa dei Santi Lorenzo e Lucia a Quargnenta
Nella frazione di Quargnenta è presente la chiesa parrocchiale con un bel panorama sulla valle dell’Agno. Dedicata ai Santi Lorenzo e Lucia, fu consacrata dall’allora vescovo di Vicenza mons. Antonio Feruglio il 18 novembre 1894. Essa è situata in alto sul Colle detto “del Castello” e realizzata sul luogo in cui sorgeva un’antica chiesa dedicata a Santa Lucia e realizzata in stile neo-classico. Da poco restaurata, è caratterizzata da un’unica navata e ha al suo interno 4 altari laterali: uno dedicato alla Beata Vergine Maria del Carmelo, uno al martire san Lorenzo, uno alla martire santa Lucia e uno a sant’Antonio di Padova. All’interno della parrocchiale, inoltre, nel soppalco sopra il portale principale, è possibile ammirare lo splendido organo Zordan del 1861, da poco restaurato.
La chiesa di Quargnenta. Foto: Marta Cardini
Salendo i gradini della chiesa, si può fermarsi a circa metà salita, dove c’è una piccola riproduzione della grotta di Lourdes.
Piccolo particolare della “grotta di Lourdes” a Quargnenta. Foto: Marta Cardini
Villa Trissino non è sicuramente opera di Palladio, ma è uno dei luoghi del suo mito, anzi ne è l’origine. La tradizione vuole infatti che proprio qui, nella seconda metà degli Anni ’30, il nobile vicentino Giangiorgio Trissino (1478-1550) incontri il giovane scalpellino Andrea di Pietro impegnato nel cantiere della villa. Intuendone in qualche modo le potenzialità e il talento, Trissino ne cura la formazione, lo introduce all’aristocrazia vicentina e, nel giro di pochi anni, lo trasforma in un architetto cui impone l’aulico nome di Palladio.
Giangiorgio Trissino era un letterato, autore di opere teatrali e di grammatica. Abile dilettante di architettura e responsabile in prima persona della ristrutturazione della villa di famiglia a Cricoli, appena fuori Vicenza, Trissino guida Palladio alla conoscenza di Vitruvio, il filosofo latino vissuto nel I sec. d.C. che per primo codifica gli ordini dell’architettura greca e detta le regole dell’armonia universale esistente da una singola parte dell’edificio con il tutto, prendendo come modello le proporzioni esistenti nel corpo umano.
Non è semplice comporre in architettura le forme geometriche archetipiche quali il cerchio, il quadrato, la sfera mantenendo il senso della proporzione tra le diverse parti dell’edificio da strutturare sia in pianta che nel prospetto.
Il senso della proporzione è il principio fondativo della bellezza estetica, ed è innegabile che Palladio sia riuscito nell’operazione di recuperare il linguaggio dell’architettura classica, di adattarlo alle nuove esigenze funzionali mantenendo, e forse andando oltre, quell’immagine di perfezione tramandata dalla civiltà greca e romana.
Non è privo di significato il commento che espresse Wolfang Goethe, il massimo esperto della percezione sensoriale-estetica dell’Ottocento, ammirando le opere palladiane a Vicenza: «Sono qua da poche ore e ho già percorso la città, ho visto il teatro Olimpico e gli edifici del Palladio. (…) Se queste opere non si vedono di persona, uno non può farsene un’dea.
Il Palladio è stato un uomo del tutto interiore, che ha saputo esternare la grandezza della propria interiorità. Nell’architettura civile la maggior difficoltà sta sempre nella disposizione degli ordini di colonne..(…). Ma con quale perizia egli ha saputo associare il tutto, com’è riuscito ad imporsi con l’immanenza delle sue opere, facendo dimenticare quanto c’è in loro di spropositato. C’è veramente qualcosa di divino nelle sue strutture, c’è tutta la forza del grande poeta che dalla verità e dalla menzogna ricava un terzo elemento, che ci affascina»
Ai giorni nostri le amorevoli cure dei proprietari hanno recuperato tutta la bellezza di Villa Trissino a Cricoli. Ma quella che poteva vedere Zanella negli ultimi decenni dell’ottocento era una villa caduta in un penoso stato di abbandono.
Sicuramente tante volte, nel tragitto da Vienza a Cavazzale e viceversa, Giacomo Zanella si trovò a percorrere quel tratto di strada che attraversava la campagna a nord della città: una zona di amena bellezza chiamata Cricoli, con lo sfondo dei colli in lontananza, il fiumiciattolo Astichello che scorre placido e solitario fino a confluire nel Bacchiglione, e dall’altra parte un’architettura che si alza superba in mezzo alla pianura la villa-castello dei Trissino.
Era un paesaggio agreste incontaminato quello che ci viene descritto in quegli anni: «L’immensa pianura che si protende uniforme dalla parte del mare, il prospetto della città fiancheggiata dalla sinuosa distesa dei Berici e signoreggiata dalla torre che s’innalza e svetta leggera al di sopra dei più alti edifizi e via via la cerchia dei Colli che seminata di campanili e di villaggi corre, a foggia di anfiteatro, da Creazzo a Sant’Orso, a Breganze, a Bassano, ad Asolo, e più lontane, quasi cavalloni di un mare in tempesta, le creste azzurre e ineguali delle Alpi non potrebbero rendere più incantevole il sito, né porgere più varia e pittoresca la scena».
Con il suo espandersi la città si è estesa con i suoi quartieri fino a lambire quel sito, dove un tempo ristagnavano le acque: «Se, tolto l’occhio da quello stupendo panorama, ti raccogli a guardare le adiacenze del luogo, non duri fatica ad ravvisare come il rialto su cui sorge la villa di Cricoli declini maggiormente della parte dell’Astichello. L’acquitrinoso di quei prati, che si protendono ubertosi sino alla riva del fiume, accenna ancora ad un luogo in cui l’acqua doveva un tempo stagnare. Il naturale abbassamento del terreno e la denominazione di “Laghetto” che si dà tutt’ora a quel sito dove le acque del fiume si raccolgono a volgere le ruote di una sega e di parecchi mulini fanno congetturare che l’Astichello, non contenuto ancora da ar2gini, porgesse ivi e nei dintorni aspetto di lago e del Lago si chiamò anticamente la contrada. Nel secolo decimosettimo ricordava ancora, con la scorta forse di antiche tradizioni, che nelle bassure dell’ Astichello dove era vietata ogni escavazione, aprivasi un lago entro il quale i Vicentini esercitavano in battaglie navali».
Villa Trissino
Ai giorni nostri le amorevoli cure dei proprietari hanno recuperato tutta la bellezza del monumento. Ma quella che poteva vedere Zanella negli ultimi decenni dell’ottocento era una villa caduta in un penoso stato di abbandono: non più abitata da nobili colti e ricchi ma divenuta un ricovero per gli attrezzi dei contadini, con l’erba che avanzava fino ad aggredire gli ingressi, con le pareti un tempo coperte da pregevoli affreschi annerite dal fumo delle rozze lanterne. Nelle splendide sale avevano trovato ricovero i rastrelli, le reti, gli imbuti – dice Zanella – gli attrezzi della campagna .
Bernardo Morsolin nel 1878 lamentava anch’egli lo stato di abbandono in cui si trovava la villa: «La voracità del tempo e l’incuria degli uomini vi hanno esercitato sopra il lavoro lento, ma certo, della distruzione. Lo scrostamento dei pavimenti, l’affumicamento degli intonaci, gli sgorbi molteplici che ne deteriorano i dipinti e le sentenze, ora greche e ora latine, segnate con rara sapienza sugli architravi degli usci e sulle pareti delle stanze, fanno soverchio contrasto con la moderna civiltà perché l’animo del riguardante non ne abbia a uscire con un senso di sdegno disgusto». Una incisione di fine ottocento ci offre l’immagine di come appariva villa Trissino al suo esterno: un cortile rustico adibito ai lavori agresti, con un carro che avanza trainato dai buoi e cumuli di materiali – forse fieno, legna o letame – in disordine ovunque. Mentre un tempo quegli stessi spazi intorno alla villa erano un contesto di splendidi giardini adorni di rose, di statue e fontane. «A tramontana del palazzo, là dove il terreno si abbassa in una ubertosa pianura, frondeggia un boschetto. A maggiore ornamento della villa aveva il Trissino fatto piantare un giardino e un orto di diverse piante e tra le altre un ordine assai bello di bossi; non seppe a chi di meglio rivolgersi che al giardiniere di Porto, luogo delizioso della Marchesana di Mantova».
Eppure quelle mura che nonostante il decadimento “torreggiano” ancora a fine ottocento (cioè dimostrano l’aspetto delle possenti e vetuste torri che erano state un giorno e sembrano rammentare ancora la loro storia di prestigio e potenza) potevano veramente raccontare un passato spettacolare e glorioso. L’antica proprietà dei Valmarana passò ai veneziani Badoer e quindi nella seconda metà del quattrocento ai Trissino.
Era un castello con torri, una dimora dell’epoca gotica che fu rinnovata in forme rinascimentali con grande gusto ed equilibrio secondo Ottavio Bertotti Scamozzi: «Chiunque però ne sia stato l’architetto questa casa merita di essere ammirata per la difficoltà che egli avrà dovuto superare cioè di veder ridurre un’abitazione costruita alla maniera Gotica, come rilevasi da alcune parti interne, ad un nobile gusto Romano antico armandola di un grazioso prospetto di squisitissima eleganza».
I Trissino si adoperarono molto per abbellire la loro dimora di Cricoli, com’era costume delle famiglie principesche nelle corti italiane: chiamarono artisti quali Francesco Albanese ad eseguire gli stucchi per il piano terreno, Girolamo Pisano e Alessandro Maganza per i dipinti della sala e delle altre stanze.
Fu la dimora molto cara a Giovan Giorgio Trissino dal Vello d’Oro, uno dei massimi eruditi italiani del XVI secolo. Secondo i biografi “aveva un’anima avvezza alla vita delle grandi città”, prediligeva “il contatto con gli uomini amanti degli studi e delle Arti, il culto delle Muse e delle Grazie”. Ospitale quanto nessun altro, aveva creato la sua corte, la sua Accademia, dispensando la sua principesca liberalità agli uomini virtuosi.
Antica tradizione vuole che proprio qui, nella seconda metà degli anni ’30 del cinquecento Giangiorgio Trissino abbia conosciuto il giovane scalpellino Andrea di Pietro impegnato nel cantiere della villa e ne abbia intuite le potenzialità e il genio, determinando quella svolta nella sua vita che lo avrebbe portato a diventare uno dei vertici del Rinascimento.
La villa dei Trissino ospitò nel 1576 per qualche tempo il cardinale Giambattista Castagna, arcivescovo di Rossano, legato papale al Concilio di Trento, nunzio dapprima del Papa a Venezia, e successivamente Papa egli stesso col nome di Urbano VII, oltre ad una folta schiera di amici letterati; per questo Zanella nel sonetto definisce la villa “di pontefici asilo e di poeti”.
Oltre al degrado materiale della villa “tacciono gli ingegni”, quelli dei poeti, dei letterati, degli artisti di un tempo. Giacomo Zanella, poeta e letterato, che aveva fabbricato la sua villa sulla sponda opposta a Cricoli a distanza di forse tre chilometri, nel guardare il degrado di villa Trissino avrà di sicuro pensato a Giangiorgio, letterato famoso e celebrato nei secoli addietro e ormai caduto nella polvere dell’oblio.
«Pochi, per non dire nessuno, leggono le opere di Giangiorgio Trissino, eppure qual v’ha storico delle lettere italiane che non ne faccia parola? Chi non sentì discorrere, almeno sui banchi della scuola, delle innovazioni dell’alfabeto, delle questioni intorno alla lingua, dell’Italia liberata o della Sofonisba?».
L’unico segnale di vita che avverte Zanella è lo scorrere placido dell’acqua del fiume Astichello che lambisce i terreni della villa, un moto che si perpetua sempre uguale e che sfida il tempo, quasi un simbolo di eternità, insegnando come in questo mondo tutto passa; quell’ “L’Astico rubesto dove le ripe si coprono di nocciolo e di verdeggianti boschetti”. Sic transit gloria mundi.
Il “povero” Astichello è ciò che sopravvive, il semplice corso d’acqua, mentre la gloria, la grandezza, la ricchezza, la fama, riferite all’uomo sono destinate a scomparire. Questo fiumiciattolo è molto caro a Zanella e dà il titolo a una sua raccolta di splendidi sonetti in cui sono la natura, il paesaggio, gli animali, il lavoro della campagna, che vengono celebrati. Ogni sonetto è un quadro di classica bellezza in cui il poeta osserva e medita, traendo insegnamento e morale, trascendendo la natura stessa.
Rif.:
Giacomo Zanella – Astichello e altre poesie, Ulrico Hoepli 1884 Bernardo Morsolin – Giangiorgio Trissino o monografia di un letterato del XVI secolo, Burato 1878.
Ottavio Bertotti Scamozzi, Il forestiere istruito delle cose più rare di architettura,Vicenza, 1761
Di Luciano Cestonaro da Storie Vicentine n. 4 Settembre-Ottobre 2021
Enrico Dindo dirigerà l’Orchestra del Teatro Olimpico di Vicenza lunedì 6 marzo 2023 al Teatro Comunale per un nuovo appuntamento della stagione sinfonica.
Enrico Dindo, impegnato anche nel ruolo di solista al violoncello, e la OTO esploreranno le suadenti melodie dell’Est con Dvořák e Čajkovskij, per poi immergersi nella vitale energia della seconda Sinfonia di Ludwig van Beethoven.
Assente da qualche tempo dalle scene vicentine, lunedì 6 marzo Enrico Dindo torna al Teatro Comunale di Vicenza con il suo splendido violoncello – un Pietro Giacomo Rogeri del 1717 – per un concerto inserito nella stagione sinfonica della OTO. Nato nel 1965 a Torino in una famiglia di musicisti, Dindo ha seguito gli insegnamenti di Antonio Janigro e nel 1997 si è imposto all’attenzione internazionale vincendo il Concorso Rostropovich di Parigi con la giuria presieduta dal mitico violoncellista russo.
Da allora il suo nome compare nei cartelloni dei più importanti teatri e festival del mondo sia in recital, sia come solista a fianco di prestigiose compagini orchestrali come la Leipziger Gewandhaus Orchester e l’Orchestra dell’Accademia di Santa Cecilia con la quale si è instaurato un rapporto di strettissima collaborazione. Con la fondazione dell’ensemble I Solisti di Pavia, nel 2001, il violoncellista piemontese ha iniziato un percorso di avvicinamento alla direzione d’orchestra che lo ha portato a lavorare con l’Orchestra Giovanile Italiana, l’Orchestra della Svizzera Italiana, la Filarmonica della Scala e con l’Orchestra Sinfonica Nazionale della RAI. Dal 2012 al 2020 ha ricoperto il ruolo di direttore musicale e principale dell’Orchestra Sinfonica della Radio di Zagabria.
Enrico Dindo
Dindo è anche uno stimato docente. Accademico di Santa Cecilia dal 2012, insegna al Conservatorio della Svizzera Italiana di Lugano, alla Pavia Cello Academy e ai corsi dell’Accademia Tibor Varga di Sion.
Per il suo esordio con la OTO nel doppio ruolo di solista e direttore Enrico Dindo ha scelto un impaginato pieno di energia che metterà alla prova le sue riconosciute doti di virtuoso.
Il concerto inizia sulle note del Rondò in Sol minore che Antonín Dvořák compose nella versione originale per violoncello e pianoforte in soli due giorni nel dicembre del 1891, l’anno del suo cinquantesimo genetliaco. Considerato una gloria nazionale nella natia Boemia e forte di una solida fama internazionale, di lì a poco Dvořák accetterà l’invito a dirigere il Conservatorio di New York. Nasce appunto negli Stati Uniti, nel 1893, la trascrizione per violoncello e orchestra del Rondò, splendido esempio di brano d’intrattenimento che strizza l’occhio ai temi della musica popolare boema.
Enrico Dindo sarà di nuovo impegnato come solista nel secondo brano in programma: le Variazioni su un tema rococò che Čajkovskij compose nel 1877 ispirandosi alla poetica del Settecento e avvalendosi della collaborazione di Wilhelm Fitzenhagen, uno dei più osannati violoncellisti e docenti della scena moscovita dell’epoca.
In chiusura, messo da parte il violoncello, Dindo salirà sul podio della OTO per dirigere la seconda Sinfonia di Beethoven, quella in Re maggiore che esordì al Theater an der Wien nella primavera del 1803. Capolavoro imbevuto di vitale energia, nonostante venuto alla luce in uno dei frangenti più drammatici della vita di Beethoven, la cangiante Sinfonia n. 2 si pone al confine fra le opere giovanili – che in qualche modo risentono degli influssi della tradizione di Haydn e Mozart – e quelle della raggiunta maturità nelle quali emergerà l’inconfondibile marchio di fabbrica beethoveniano.
La deglaciazione e le trasformazioni dell’alta montagna al tempo dei cambiamenti climatici saranno al centro dell’incontro promosso dal Cai sezione di Vicenza con Anselmo Cagnati, uno dei massimi esperti italiani della criosfera.
L’appuntamento è per martedì 7 marzo alle 21 nella sala consiliare della circoscrizione 4, in via Turra 69 a Vicenza.
Anselmo Cagnati, per quasi 40 anni in servizio al Centro Valanghe di Arabba dove si è occupato principalmente della prevenzione valanghe e dei cambiamenti climatici nelle aree montane, parlerà dei disequilibri che il processo di deglaciazione provoca nel già delicato sistema dolomitico. L’intervento metterà in evidenza le conseguenze del riscaldamento globale in alta montagna. Saranno descritti gli effetti sui ghiacciai, sul manto nevoso, sul permafrost e sulle valanghe. Si parlerà anche dei cambiamenti nel paesaggio e nella percezione del rischio. Saranno ripercorsi alcuni fenomeni estremi, come l’evento del 3 luglio scorso in Marmolada, e si traccerà, infine, una possibile transizione verso un nuovo equilibrio.
Nato Falcade nel 1956, laureato in scienze forestali, Anselmo Cagnati per quasi 40 anni ha lavorato al Centro Valanghe di Arabba, occupandosi di previsione valanghe, cambiamenti climatici in area alpina e degli aspetti legati all’attività alpinistica e scialpinistica in ambiente innevato. Ha partecipato a numerose spedizioni scientifiche in zone polari e sub-polari nell’ambito del Programma Nazionale di Ricerche in Antartide. E’ stato rappresentante dell’Associazione interregionale neve e valanghe (AINEVA) nell’ EAWS (European Avalanche Warnig Services Group) e direttore responsabile della rivista Neve e Valanghe. Autore di oltre 140 pubblicazioni scientifiche e divulgative sulle tematiche inerenti la neve, le valanghe e la climatologia alpina e coautore di guide sci alpinistiche della Marmolada e delle Pale di San Martino. Ha effettuato oltre 500 salite alpinistiche in Dolomiti, tra cui 20 vie nuove. Ha praticato sci alpinismo e sci ripido, effettuando numerose prime discese alcune delle quali ripetute in snowboard. Ha partecipato a spedizioni esplorative con i cani da slitta nell’Artico Canadese e alle isole Svalbard e a gare di lunga distanza in Scandinavia. Vincitore del premio speciale Dolomiti Unesco nell’ambito del Pelmo d’Oro 2022, dal 2023 fa parte del GISM (Gruppo Italiano Scrittori di Montagna).
La serata, a ingresso libero, è organizzata dalla commissione naturalistica Tam B. Peruffo del Cai sezione di Vicenza in collaborazione con l’assessorato alla partecipazione del Comune di Vicenza.