Appena fuori Vicenza si trova un capolavoro mozzafiato dell’architetto Andrea Palladio: è Villa Almerico Capra detta “La Rotonda”. Appena si entra dal cancello si viene colti da un brivido. Tanta è la meraviglia che questa villa trasmette. Avvolta in un fresco giardino, la villa è patrimonio dell’Unesco dal 1994 ed è probabilmente l’edificio palladiano più celebre. Attualmente la villa è di proprietà della famiglia Valmarana, originaria di Venezia, fin dal 1912. Non si tratta però della stessa famiglia Valmarana proprietaria di Villa Valmarana ai Nani.
L’esterno della villa
Visitata da poeti ed artisti, regnanti e uomini di stato, studiosi e amanti dell’arte, viaggiatori e turisti da tutto il mondo, dopo 500 anni, la Rotonda progettata da Andrea Palladio per Paolo Almerico, rimane un luogo di pura bellezza che trasmette ispirazione, cultura, gioia ai visitatori.
All’entrata la villa appare così. Foto: Marta Cardini
La Rotonda è un edificio a pianta centrale, un volume cubico che ruota attorno a una sala circolare con cupola. Le quattro facciate sono identiche: ognuna è dotata di pronao, con timpano sorretto da sei colonne ioniche e imponente gradinata che conduce direttamente al piano nobile.
La villa è priva di fondamenta. Si autosostiene grazie al sistema di archi e di volte a crociera in mattoni del pianterreno, che costituiscono la griglia strutturale di assi tra loro perpendicolari su cui si appoggiano i piani superiori. Se si guarda attentamente il prospetto della villa, infatti, si noterà che il piano nobile e l’attico rientrano ognuno di pochi centimetri rispetto al livello sottostante, come una sorta di “piramide a gradoni” su tre livelli che rende solida l’intera struttura. Le quattro logge molto sporgenti, oltre ad avere una funzione scenografica, servono anche da enormi contrafforti per contenere saldamente la spinta delle facciate.
Parte della sala centrale circolare. Foto: Marta Cardini
L’interno
Appena si giunge all’interno, viene quasi da raggiungere subito la sala centrale circolare, che dà il nome alla Rotonda: comprende in altezza il piano nobile e l’attico, fino alla volta a cupola conclusa da una lanterna. La cupola altissima, vista dall’interno, è mozzafiato. Lì vi sono raffigurate le virtù.
La cupola vista dall’interno. Foto: m.c.
La cupola esterna, completata da Vincenzo Scamozzi, si presenta molto diversa da quella disegnata da Palladio nei Quattro Libri: lì si tratta di una cupola perfettamente emisferica, che avrebbe slanciato molto l’edificio, mentre oggi si presenta come una calotta ribassata su un tamburo simile alla copertura del Pantheon di Roma. Come questo, alla sommità vi è un oculo che, anziché essere lasciato aperto, è stato coronato da una lanterna da cui filtra una luce diffusa.
Mentre sul pavimento del salone compare un volto grottesco a bassorilievo, che simboleggia i vizi. I fori che lo attraversano permettono all’aria fresca del piano sottostante di salire al piano nobile, rinfrescando così la villa durante i mesi più caldi.
Il volto grottesco sul pavimento. Foto: m.c.
Il significato della geometria della villa
Vista dall’alto la villa è un quadrato con un cerchio al centro. Il cerchio e il quadrato sono infatti forme geometriche perfette, simboleggianti il cielo e la terra e sono definite dal Palladio “le più belle, e più regolate”. La Rotonda diventa così un microcosmo regolato da leggi universali, specchio dell’armonia celeste al cui centro, secondo la concezione antropocentrica del Rinascimento, c’è l’Uomo.
Il modellino della villa che si trova sotto alla Rotonda, per entrare nel giardino. Foto: m.c.
Il giardino
Il giardino trasmette pace e serenità. Se visitato di maggio, si trovano molte rose fiorite. Nel giardino sono presenti anche un piccolo pozzo, con sopra un arco di rose rosse e un plastico-modellino della villa. C’è poi un grande parco, dove si può passeggiare e ammirare piante e fiori.
Il piccolo pozzo presente nel giardino. Foto: m.c.
La storia della villa
La Rotonda nacque dell’incontro tra il genio di Andrea Palladio, architetto all’apice della carriera, e il nobile vicentino Paolo Almerico (1514-1589), uomo colto, ambizioso e altero. Questi era un ecclesiastico che, dopo l’incarico a Roma come referendario apostolico dei papi Pio IV e Pio V, si ritirò a vita privata nella sua città natale. Nel 1565 affidò a Palladio il progetto per la sua nuova dimora sopra un colle alle porte di Vicenza, un rifugio bucolico dove trascorrere gli ultimi anni della propria vita lontano dall’ostilità dell’aristocrazia cittadina, ma allo stesso tempo un luogo di rappresentanza in posizione ben visibile.
Un soffitto all’interno della villa. Foto: m.c.
Gli spazi interni furono organizzati in funzione di una persona sola. Né Palladio né Almerico videro però la Rotonda completata. Alla morte dell’architetto nel 1580 subentrò nella direzione del cantiere Vincenzo Scamozzi (1548-1616), suo discepolo e progettista raffinato. Sua è l’aggiunta della lunga barchessa lungo il viale di accesso alla villa e il completamento della cupola, non più semisferica come nel progetto palladiano, bensì con una volta ribassata con oculo centrale ispirata al Pantheon di Roma.
Alla morte di Paolo Almerico nel 1589 la villa passò al figlio naturale Virginio, che la tenne solo per due anni prima di cederla ai fratelli Odorico e Mario Capra. Nel 1605 si conclusero i lavori di costruzione. La famiglia Capra fu proprietaria della villa per due secoli. Poi, dal 1818 Villa Almerico Capra subì diversi cambi di proprietà, venne danneggiata durante gli assalti austriaci del 1848 a Vicenza e più volte restaurata, fino all’acquisto da parte della famiglia Valmarana nel 1912.
Dal 16 al 18 maggio, Enoforum torna per la quarta volta alVicenza Convention Centredi Italian Exhibition Group. Organizzato da Vinidea, in collaborazione con SIVE (Società Italiana di Viticoltura ed Enologia), Assoenologi e Unione Italiana Vini, Enoforum negli anni è diventato il maggior congresso tecnico-scientifico a livello europeo dedicato all’innovazione in campo viticolo ed enologico, nel cui ambito vengono presentate tutte le novità provenienti dalla ricerca pubblica e privata a livello mondiale.
Peculiarità della manifestazione è riunire in un unico contesto i tre pilastri della filiera vitivinicola: i produttori di vino, il mondo della ricerca e le aziende fornitrici. L’evento è rivolto ai professionisti del settore (enologi, agronomi, produttori di vino, fornitori, ricercatori, studenti, stampa specializzata). Nel corso dei tre giorni del convegno opereranno contemporaneamente due sale convegni (una dedicata alla ricerca internazionale, con traduzione simultanea, l’altra a quella italiana), una sala degustazioni, una sala “demo”, uno spazio poster e uno spazio espositivo dove incontrare le principali aziende del settore.
Enoforum 2023 è stato presentato in Sala Stucchi a Palazzo Trissino dall’amministrazione comunale, da Giuliano Boni per Vinidea, società organizzatrice dell’evento e da Federica Lucini Event & Conference Marketing Manager di Italian Exhibition Group. Sarà una edizione senza precedenti in termini di quantità e qualità delle informazioni presentate.
110 relazioni sulle più recenti innovazioni per il vigneto e per la cantina saranno presentate da 60 relatori indipendenti, da Università o Centri di Ricerca pubblici; 30 relatori stranieri, da 10 paesi vitivinicoli del mondo, grazie alla modalità videoconferenza; 40 relatori dal Premio Enoforum (i ricercatori che hanno concorso al Premio Enoforum sono stati selezionati da un Comitato Scientifico Internazionale tra oltre 100 candidati; i lavori giudicati di maggiore impatto pratico potenziale, secondo i partecipanti a Enoforum Web 2023, sono oggetto di presentazione orale).
Saranno presentati, inoltre, 7 progetti di ricerca regionali, nazionali ed europei; 40 poster su nuove tecnologie e conoscenze, in aggiunta a quelli esposti oralmente. 70 aziende che proporranno le innovazioni risultanti dalla loro attività di Ricerca & Sviluppo. Verranno organizzate 10 sessioni di degustazione, per comprendere gli effetti sensoriali delle innovazioni con 10 demo per sapere come si usano in pratica le innovazioni. Saranno presenti 25 stand dove approfondire le informazioni con gli esperti delle aziende. Inoltre saranno innumerevoli le occasioni di networking per confrontarsi con centinaia di colleghi da tutta Italia.
Nato nel 2000 a Montesilvano (PE) su iniziativa di Vinidea e SIVE, Enoforum negli anni è cresciuto di importanza e si è arricchito di edizioni internazionali in Portogallo (Infowine Forum), Spagna, Stati Uniti e prossimamente in Cile e Francia (Sparkling Wine Forum). È stato anche il primo congresso interamente on line a causa del Covid-19 nella primavera 2020, sostituendo l’edizione spagnola prevista a Saragozza. L’ultima edizione italiana in presenza, tenutasi sempre a Vicenza nel maggio 2019, ha visto la partecipazione di circa 1.200 congressisti.
Sul sito della manifestazione www.enoforum.eu è possibile trovare tutti gli aggiornamenti sull’evento.
È possibile accreditarsi a Enoforum 2023 a questo link: https://forms.gle/HVM4SprkmrByxom69
(inserire nel campo “Entity of affiliation” la testata e in quello “Invited by/notes” la dicitura “Ufficio Stampa Vinidea”).
Enoforum è il primo evento interessato dall’iniziativa prevista all’interno del Protocollo d’intesa tra il Comune di Vicenza e Italian Exhibition Group per lo sviluppo del congressuale sul territorio. I partecipanti a Enoforum – semplicemente esibendo il loro badge alle biglietterie – potranno beneficiare della tariffa agevolata riservata ai residenti di Vicenza e provincia per l’accesso nei Musei civici di Vicenza. Il biglietto unico consente l’accesso a: Teatro Olimpico, Basilica Palladiana, Museo civico di Palazzo Chiericati, Gallerie di Palazzo Thiene, Chiesa di Santa Corona, Museo Naturalistico Archeologico, Museo del Risorgimento e della Resistenza.
Organizzatori dell’evento
Vinidea è una società di servizi con sede a Ponte dell’Olio, Italia, che si occupa di sviluppo d’innovazioni tecnologiche e divulgazione d’informazione tecnica al settore vitivinicolo mondiale. Fondata nel 1998 dall’attuale Presidente Dott. Gianni Trioli, ha sviluppato negli anni svariati canali di comunicazione tra ricerca e produzione e tra regioni vinicole del mondo. Ha organizzato oltre 500 seminari e corsi, più di 100 congressi, 90 viaggi studio in tutti i paesi vitivinicoli. Dal 2011 propone webinar al settore vitivinicolo (www.vinidea.it). Vinidea ha partecipato a 12 progetti europei, principalmente nel programma Horizon 2020, ed è coinvolta in 11 progetti regionali EARDF (gruppi operativi del PSR). Nel 2000 ha inaugurato la formula congressuale Enoforum, che ha celebrato 12 edizioni in Italia, 8 in Portogallo, 3 in Spagna, 1 in California, divenendo il circuito congressuale più importante d’Europa (www.enoforum.eu). Dal 2002 edita in 6 lingue la Rivista Internet di Viticoltura ed Enologia Infowine, letta da oltre 350.000 utenti in tutto il mondo (www.infowine.com).
La SIVE (Società Italiana di Viticoltura ed Enologia) è un’associazione senza fini di lucro a cui aderiscono tecnici vitivinicoli e aziende di tutta Italia. Dal 1996 è attiva nel campo della formazione e dell’aggiornamento tecnico; ha al suo attivo l’organizzazione di oltre 100 tra convegni, seminari, incontri tecnici e viaggi studio in Italia e all’estero. Svolge funzioni di segreteria operativa la società VINIDEA, assieme alla quale SIVE organizza ogni due anni il convegno Enoforum con sede itinerante.
Dal 2005 la SIVE si è data l’obiettivo di “Sostenere una maggiore collaborazione tra le aziende produttive e il mondo della ricerca enologica e viticola”, aiutando il mondo della produzione nella formulazione della domanda ed il mondo della ricerca nella definizione della propria offerta di conoscenze utili alla produzione; con questo obiettivo sono stati istituiti i premi SIVE “Ricerca per lo Sviluppo”, a cui dal 2007 al 2019 si sono candidati ben 293 lavori di ricerca italiani e stranieri, che rappresentano una rassegna molto ampia della produzione scientifica vitivinicola dell’ultimo decennio così portata a conoscenza del mondo della produzione. Tali premi sono poi confluiti nel premio Enoforum.
Corinna Rossi, curatrice della mostra “I creatori dell’Egitto eterno. Scribi, artigiani e operai al servizio del faraone” sarà a disposizione per rispondere alle domande e curiosità del pubblico nel corso di un evento in programma sabato 13 maggio 2023, dalle 15 e 30 alle 17 e 30, a Palazzo Chiericati di Vicenza.
Si tratta di un nuovo appuntamento collaterale all’esposizione che si può visitare in Basilica Palladiana fino al 28 maggio. Nei mesi di apertura sono stati programmati appuntamenti tematici che hanno visto coinvolti i quattro curatori della mostra: oltre a Rossi, il direttore del Museo Egizio Christian Greco, Cédric Gobeil e Paolo Marini, egittologi e curatori del Museo Egizio.
Corinna Rossi, professoressa di Egittologia del Politecnico di Milano, Unità EIDOLONLab, Sistema Laboratori ABCLab, Dipartimento ABC, darà risposte in merito a curiosità relative all’antico Egitto emerse a seguito della visita alla mostra, osservando gli oggetti esposti. Sarà disponibile anche per approfondimenti su altri temi come per esempio sulla costruzione delle piramidi o su come scrivevano e contavano gli antichi egizi.
L’evento è pensato anche per un pubblico giovane, per bambini e ragazzini che rimangono solitamente affascinati da questa lontana civiltà.
Ingresso libero fino ad esaurimento dei posti disponibili.
La mostra “I creatori dell’Egitto eterno. Scribi, artigiani e operai al servizio del Faraone” si può visitare da martedì a giovedì dalle 10 alle 18, venerdì sabato e domenica dalle 10 alle 19. Sabato 13 maggio la mostra chiuderà alle 18.
Capita spesso che più o meno anonime facciate nascondano capolavori inaspettati. È il caso di quello che era il convento delle Benedettine, che si sviluppava a sud della chiesa di San Pietro e che ora ospita la Residenza Ottavio Trento, una struttura per anziani gestita dall’Ipab.
Vediamone, anzitutto, la storia. A prestar fede alla lapide fatta affiggere nel 1337 dalla badessa Fiore Porcastri nella controfacciata della chiesa di San Pietro, l’insediamento religioso sarebbe stato fondato nell’anno 827 da Elica di nazione alemanna, cioè tedesca.
In realtà, a dispetto dell’appena ricordata iscrizione, molte ombre aleggiano sull’origine e sull’anno di fondazione di questa comunità. Si ritiene, infatti, che qui si sarebbe inizialmente insediato, tra l’VIII e il IX sec., un monastero benedettino maschile, pressoché distrutto dagli Ungari, calati a Vicenza nell’899.
È stata poi una comunità di benedettine, con a capo la ricordata badessa Elica, a prendere nel 1061 il posto dei confratelli, e a (ri)fondare, il monastero, recuperandolo da grave decadenza: non dunque nell’anno 827, bensì all’inizio del secondo millennio (A. Morsoletto, Chiesa di San Pietro in Vicenza, 1997). Le religiose seppero, infatti, ben presto mettere a frutto il vasto latifondo – assegnato al monastero fin dal 1004 da un privilegio del vescovo Liudigerio I° ed esteso ai territori di Grumolo, Camisano, Lerino e Sarmego – grazie a importanti interventi fondiari, quali bonifiche, disboscamenti e opere idrauliche. In particolare, va ricordata la costruzione, a partire dal 1618, di un lungo canale di irrigazione, la cosiddetta roza Moneghina, utilizzata anche per il trasporto di materiali e derrate.
Celebre la coltivazione del riso, iniziata nel XVI secolo nel territorio di Grumolo e fiorente anche ai nostri giorni. L’omonimo Comune, non a caso, ha aggiunto l’appellativo “delle Abbadesse” a ricordo della presenza benedettina, riportando anche, nello stemma, le chiavi di san Pietro, sormontate dal Triregno: emblema del papato, ma anche delle nostre monache. Le quali costituiscono un esempio di imprenditoria femminile avanti lettera, che aveva naturalmente il suo riferimento nel monastero di san Pietro.
La possessione si trasformò ben presto in un centro di potere assoluto, un vero e proprio feudo, una contea, sulla quale la badessa esercitava, con pugno di ferro, il potere non solamente religioso, ma anche civile, amministrando addirittura la giustizia, forte della protezione imperiale e papale, non senza scontri con gli stessi vescovi, con gli altri feudatari e vassalli locali e con qualche recalcitrante sotto- posto, come riportano le cronache del tempo. Nel 1499, dopo un periodo di malgoverno, il monastero confluì nella Congregazione benedettina di santa Giustina di Padova (A. Morsoletto, cit.). Ma esso rimase comunque un saldo punto di riferimento per la città. Tanto che a san Pietro si monacarono le figlie della più alta nobiltà locale.
Lo testimoniano gli stemmi delle casate di ventiquattro badesse, circondati da una fascia con il nome di ciascuna e l’anno del suo insediamento. Furono affrescati nel 1887, secondo il gusto neogotico, nell’andito che introduce alla chiesa annessa al monastero, detto Coro delle monache. Questa sorta di blasonario inizia, naturalmente, dalla più volte memorata Elica, affiancata dalla sua sponsor Fiore Porcastri (1329).Sono poi ricordate Maria Verde Repeta (1419), Eufrosina Verlato (1522), Serafina Thiene (1619), Isabella Gualdo (1676), Maria Isabella Godi (1702) ed altre ancora. L’ultima badessa risulta eletta nel 1806. Proprio il 28 luglio di quell’anno un decreto napoleonico ordinò alle benedettine di lasciare il convento e di ritirarsi in quello di san Tommaso, nel quartiere di Berga. La disposizione fu eseguita solamente il 25 aprile 1810, giorno di soppressione del monastero.
E così calò il sipario su secoli di storia. Sotto l’aspetto architettonico merita particolare attenzione l’ampio chiostro. All’originaria struttura quattrocentesca si aggiunse, nel Settecento, il loggiato superiore, che interpreta disinvoltamente il motivo della serliana, chiuso nel secolo successivo da vetrate. Il radicale restauro del 1895 ha, forse, maldestramente collegato la parte inferiore dei pilastri, inglobandoli nella muratura, ancor più così sacrificando lo slancio verticale della struttura, già compromesso dalla ricordata superfetazione settecentesca.
Questi pilastri in cotto, quadrati e ad angolo smussato, reggono sottili abachi in pietra, dai quali si diparte la sequenza di archi a tutto sesto, i cui profili sono sottolineati da formelle, pure in cotto, a motivi vegetali, racchiuse entro cornici tardo- gotiche a scacchiera. Quasi tangente la sommità degli archi, corre una fascia a torciglioni, anch’essa racchiudente formelle a motivi vegetali.
Ancor più sopra, si dispongono altre formelle, a intervalli regolari. Sul fronte nord campeggiano due stemmi: a sinistra, quello dell’abbazia delle bene- dettine proprietarie e, a destra, quello di Maria Verde Repeta, badessa dal 1418 al 1444-1445, promotrice della realizzazione del chiostro, che si ritiene compiuto tra il 1450 e il 1460. Si stacca completamente dal resto della iconografia degli archi la decorazione di quello che si sviluppa nel fronte orientale.
I già ricordati motivi vegetali delle formelle lasciano qui il campo, a sinistra, a sei leoni alati e, a destra, a sette personaggi a cavallo, dei quali, purtroppo, è appena visibile il primo a destra. Non si tratta delle badesse-amazzoni di san Pietro, come folcloristicamente già creduto, quanto, piuttosto, di agghindati falconieri reggenti con la destra il falcone.
Questo ragguardevole apparato di formelle fittili, unico a Vicenza e tra i più rilevanti in ambito veneto, è, all’evidenza, apparentato con la ghiera, anch’essa a formelle in terracotta, che adorna la porta del vicino Oratorio dei Boccalotti, uscita nel 1414 dalla fornace di Zanino dei Boccali, che aveva bottega proprio in contrà San Pietro. Ma, essendo Zanino defunto già nel 1419, sarà intervenuto nell’impresa il nipote Gerardo, erede dello zio e continuatore della sua attività. C’è, però, una sorta di enigma. Sul fronte settentrionale, a formelle che recano indefiniti motivi vegetali stilizzati, si alternano formelle che sembrerebbero, invece, riprodurre pannocchie di granoturco (Barioli, Il chiostro di San Pietro, preziosa testimonianza del ‘400 vicentino, Vicenza 1968).
Si tratta, verosimilmente, di errata interpretazione, poiché la coltivazione del granoturco o mais si diffonde nella Repubblica di Venezia solamente a partire dai decenni centrali del Cinquecento: è, infatti, tra il 1550 e il 1560 che G.B. Zelotti affresca, tra i primi, pannocchie in villa Emo a Fanzolo. Non pannocchie, dunque, ma, piuttosto, piante di acànto, i cui fiori, raggruppandosi in lunghe inflorescenze, assumono la forma di pannocchia. Se così non fosse, i tempi di esecuzione delle formelle si dilaterebbero – e di molto – e, per di più, esse sarebbero state realizzate in tempi nei quali sarebbero state del tutto “fuori moda”.
Salvo si tratti di improbabile, e comunque non documentato, intervento posteriore rispetto alla primitiva decorazione del chiostro. Il quale ospita nell’ala nord anche altre pregevoli testimonianze storiche e artistiche. A sinistra è collocato un sarcofago altomedievale in pietra, forse del VII secolo, da altri (Arslan, Vicenza. Le chiese, Roma 1956) ritenuto, invece, longobardo, che mostra, nella faccia anteriore, una targa anepigrafe ovvero senza scritte, fiancheggiata da una croce sotto un’arcata. Proprio attaccata al fronte est del chiostro è sistemata la tomba della già ricordata Fiore Porcastri. Sul lato corto della sepoltura è ben visibile l’altorilievo raffigurante un maialino stilizzato, simbolo nello stemma della famiglia.
Sopra quest’arca si stende un affresco, databile tra la fine del Trecento e l’inizio del Quattrocento, che riproduce una Crocifissione con la Madonna e san Giovanni Battista. Forse è l’ultima scena di una Via crucis, che si snodava lungo la parete. L’opera, ritrovata sotto uno strato di intonaco ridipinto e offuscato, è stata attribuita a un ignoto epigono giottesco. Il sito avrebbe urgente necessità di un generale intervento di accurato, per salvaguardare, in particolare, le decorazioni fittili, che corrono il rischio di corrompersi irrimediabilmente.
Di Giorgio Ceraso da Storie Vicentine n. 7 marzo-aprile 2022
La Chiesa delle Dimesse di Thiene è un prezioso scrigno storico, una splendida facciata barocca incastonata nel Collegio delle suore Dimesse. La Compagnia delle Dimesse si occupava della visita periodica agli ammalati, della catechesi e soprattutto dell’accoglienza di giovani donne.
La chiesa della Concezione di Maria Vergine nota come chiesa delle Dimesse della Conca, fu edificata nel 1720 sulle strutture della primitiva cappella del 1673. La chiesa è incorporata nel settecentesco palazzo, fondato dalle figlie del Conte Antonio Porto, che fu in origine sede del Collegio delle suore Dimesse e che, dopo la soppressione della corporazione religiosa nel 1810 divenne di proprietà della congregazione di Carità, ospitando in seguito l’Istituto Medico Pedagogico Nordera e la sede dell’ULSS.
La facciata in stile barocco si compone si quattro lesene su alti basamenti che sorreggono la trabeazione sormontata, nella parte centrale, da un piccolo timpano adorno di statue lapidee.
La rotazione delle lesene laterali crea il movimento della facciata e completa il raccordo con le costruzioni adiacenti. Ampi finestroni muniti di inferiate in ferro battuto e un bel portone in legno completano la facciata. Da tempo ormai la preziosa chiesetta mostrava segni di degrado, dove le sculture in pietra tenera di Vicenza erano prossime al collasso.
Questo storico edificio ora si rivela in tutta la sua bellezza a conclusione di alcuni lavori di restauro che hanno interessato le statue sommitali, le lavorate grate in ferro battuto, il ripristino degli intonaci a marmorino ed infine il bellissimo portale ligneo. L’intervento è stato realizzato dalla Ditta Athena srl di Thiene su progetto e Direzione Lavori dell’Architetto Franco Toniolo con la supervisione della Soprintendenza Archeologica, Belle Arti e Paesaggio di Verona e la collaborazione dell’Ufficio Tecnico del Comune di Thiene.
Di Elena Zironda da Storie Vicentine n. 7 marzo-aprile 2022
Si apre un mese ricco di novità e iniziative al Museo del Gioiello di Vicenza: a maggio le sale del piano nobile della Basilica Palladiana si animano di progetti e attività per avvicinare grandi e piccini alla tradizione orafa e alla bellezza dei preziosi.
LA FESTA DELLA MAMMA AL MUSEO
Domenica 14 maggio il Museo del Gioiello celebra la Festa della Mamma. Tutte le mamme accompagnate dai propri figli e figlie avranno l’opportunità di una visita guidata gratuita alla mostrapermanente “Gioielli Italiani”. Incluso nel costo del solo biglietto di ingresso, dunque, un percorso accompagnato per apprezzare al meglio le migliori storie orafe della penisola, assieme ai manufatti della mostra temporanea “Gioielli e amuleti. La bellezza nell’antico Egitto”, prorogata fino a domenica 28 maggio. Nata dalla collaborazione tra il Museo del Gioiello e il Museo Egizio come collaterale alla mostra in Basilica Palladiana “I creatori dell’Egitto eterno. Scribi, artigiani e operai al servizio del faraone”, conduce i visitatori alla scoperta di una settantina di antichi manufatti, in gran parte esposti per la prima volta al grande pubblico.
COME SI CREA UN GIOIELLO? AL VIA I WORKSHOP CON BARBARA UDERZO
Novità della primavera 2023 al Museo del Gioiello saranno due workshop pensati per un pubblico adulto, a cura dell’orafa e designer di gioielli Barbara Uderzo, le cui opere sono state esposte in numerose gallerie e musei internazionali, quali La Triennale di Milano, il Museo delle Arti Decorative di Berlino e il Victoria and Albert Museum di Londra. Domenica 21 maggio il primo appuntamento che, partendo dall’osservazione di un ornamento preistorico in esposizione nelle teche del Museo, insegnerà ai partecipanti a lavorare il filo di alluminio per creare un anello personalizzato. Il secondo laboratorio si terrà domenica 11 giugno e avrà come protagonista l’acciaio, per creare una spilla ispirata alle antiche fibule esposte al Museo.
I workshop hanno un costo di 20 euro in aggiunta al prezzo del biglietto di ingresso.
LE ATTIVITÀ PER I PIÙ PICCOLI
Si chiude a fine mese il ciclo di laboratori dedicato ai bambini: domenica 28 maggiol’ultimo appuntamento, “Disegni preziosi” che permette ai più piccoli di sviluppare la creatività e divertirsi esplorando il tema del gioiello. I bambini dai 5 ai 12 anni potranno entrare gratuitamente, mentre per partecipare ai laboratori la tariffa sarà di 4,50 euro. Il costo per l’ingresso degli adulti è di 10 euro (5 euro se residenti a Vicenza e provincia), 4,50 euro per il laboratorio.
Le attività per i più piccoli proseguiranno a giugno con i centri estivi al Museo, nell’ambito dell’iniziativa “Vivi Museo” promossa dai Musei Civici di Vicenza (Museo del Gioiello, Museo del Gioiello, Museo di Palazzo Chiericati, Museo Naturalistico Archeologico, Palladio Museum, Museo Diocesano) con il coordinamento della Cooperativa sociale Scatola Cultura. Dal 19 giugno al 28 luglio, tutte le mattine saranno dedicate alla scoperta delle opere d’arte custodite nei musei cittadini con attività e laboratori (info e prenotazioni al numero 348 383 2395 o via mail a [email protected]).
Il Museo del Gioiello è un progetto di Italian Exhibition Group gestito con il Comune di Vicenza.
Per informazioni e prenotazioni sulle attività in programma: +39 0444 320799, [email protected].
Orari di visita: dal martedì al venerdì dalle 10:00 alle 13:00 e dalle 15:00 alle 18:00, sabato e domenica dalle 10:00 alle 18:00. Informazioni utili: il biglietto per la mostra “Gioielli e amuleti. La bellezza nell’antico Egitto” è compreso nel biglietto di ingresso del Museo del Gioiello (intero €10, ridotto €8). Ingresso ridotto se in possesso di biglietto della mostra in Basilica “I creatori dell’Egitto eterno” o del Museo Egizio e viceversa. Per conoscere i vantaggi della “Vicenza Card” e tutte le convenzioni: www.museodelgioiello.it.
La Chiesa di Santa Caterina al porto è una delle chiese meno conosciute di Vicenza ed era situata già dal XVI sec. nei pressi del principale porto cittadino da cui deriva il nome. Oggi, se si devono spostare persone e cose, si utilizzano le strade. Un tempo, invece, ci si serviva dei fiumi. E così, ogni città che ne era attraversata aveva il suo porto.
Vicenza ne aveva due. Un approdo minore si trovava nell’attuale contrà Burci, che si estendeva fino alla riva destra del Retrone, dove attraccavano i burci del pesce, ossia le imbarcazioni che portavano in città i prodotti ittici della laguna di Venezia. Il porto principale, detto dell’Isola, era invece situato nei pressi dell’attuale piazza Matteotti, alla confluenza del Retrone con il Bacchiglione, prima della diversione dei corsi d’acqua, eseguita nel 1876 su progetto dell’ing.
Carlo Beroaldi, che diede vita a viale Giuriolo. Nel 1802 la Dogana dispose il trasferimento di questo porto, per maggior controllo, in Borgo Berga, di fronte alla chiesa oggetto di queste note, che prese così il nome di Santa Caterina al porto, anche per distinguerla dall’altra omonima, sempre in Borgo Berga.
La Dogana, a sua volta, stabilì la sede nel fabbricato – eretto nelle attuali forme nel 1841 su probabile progetto di Bartolomeo Malacarne e oggi sede del Corpo Forestale dello Stato – che si incontra sulla sinistra, giungendo da piazzale Fraccon, dopo l’ex Cotonificio Rossi. Molto antica la chiesa di Santa Caterina al porto.
Chiesa di Santa Caterina al Porto
Sin dalla metà del XIV sec. si ha notizia di un piccolo oratorio annesso all’ospedale di Campedelo che nel 1423 fu ampliato dai rettori del sito, Giovanni Cerchiari e Giovanni del fu Antonio, come attestava una perduta iscrizione sopra la porta, fortunatamente trascritta dallo storico del Seicento Francesco Barbarano nella sua Historia ecclesiastica della città, territorio e diocese (!) di Vicenza.
Con il trascorrere del tempo l’edificio andò sempre più in rovina, sia per mancanza di manutenzione e sia per le frequenti esondazioni del Bacchiglione. A risollevare la situazione intervenne Giovanni Maria Bertolo, uno dei più grandi avvocati della sua epoca, nato a Vicenza il 31 agosto 1631, figlio di un tornitore con bottega nei pressi del duomo, e morto il 7 novembre 1707 a Venezia, che divenne il centro dei suoi affari e interessi.
Egli, tuttavia, rimase sempre legato alla città natale, tanto che nel 1694 assunse la carica di deputato ad utilia, stabilendo la propria residenza vicentina in quella che oggi è conosciuta come villa Valmarana ai Nani. Nel 1677 Bertolo, con l’intento di rendere la chiesa una sorta di oratorio a servizio della sua dimora di Monte Berico, dispose la ricostruzione dell’edificio, con l’ampliamento dell’area del coro e il rifacimento della facciata, demolendo l’originaria gotica.
Lo attestano due lapidi ivi affisse: TEMPLUM D. CATERINAE SACRUM / VETUSTATE COLLAPSUM/ REFECIT / IN AMPLIOREM FORMAM REDEGIT/ TOTUMQ. ORNAMENTUM ABSOLVIT / IOANNES MARIA BERTOLIUS / IN VENETO FORUM CAUSARUM PATRONUS / ANNO MCD / LXX. VII. [Questo tempio sacro a Santa Caterina, in rovina per la sua vetustà, rifece e ingrandì, adornandolo di ogni ornamento, Giovanni Maria Bertolo, avvocato del Foro veneto, nell’anno del Signore 1677].
Nel 1806 un decreto napoleonico soppresse la confraternita che gestiva il sacro edificio, l’Ordine di Santa Caterina al Porto. Seguirono, di conseguenza, l’abbandono e il progressivo deterioramento di tutto il complesso. Nel 1845 la chiesa passò in proprietà della famiglia Valmarana, che poi la cedette alla parrocchia di Santa Caterina. Tra il 2000 e il 2005 si diede avvio ad una campagna di radicale recupero e restauro, che riportò la chiesa ai seicenteschi splendori.
La facciata, a causa dell’innalzamento di oltre due metri del piano stradale, appare alterata nelle sue proporzioni, poco slanciata e appesantita dal grande frontone, con la porta di accesso palesemente sproporzionata. Per di più, l’edificio risulta soffocato dalle abitazioni che nel tempo gli si sono affiancate. Una situazione ben diversa da quella originaria, abilmente ricostruita in occasione del ricordato restauro dall’arch. Renata Fochesato dello Studio Aeditecne. Il fronte è scandito da quattro lesene di ordine dorico. Fra le due laterali sono collocate, nella parte inferiore, due lunghe finestre incorniciate, mentre nella rimanente superficie campeggiano le due già memorate lapidi, a cornice bombata, che ricordano l’intervento del Bertolo.
Il settore centrale ospita la porta di ingresso, al di sopra della quale si adagia un piccolo frontone, nel cui timpano è collocato uno scudo non decifrabile, proveniente, forse, dalla primitiva chiesa quattrocentesca. Sul prolungamento degli stipiti del portale si innalzano due sottili lesene, che reggono un architrave, sul quale poggia una lunetta, la cui chiave di volta incontra il capitello centrale. Conclude la facciata un robusto frontone, che ospita nel timpano lo stemma del più volte ricordato Giovanni Maria Bertolo, costituito da un leone rampante con due code, allusive ai due rami del diritto – civile e canonico – praticati dal famoso giurista.
Coronano il prospetto tre statue in pietra tenera: al centro, quella raffigurante S. Caterina d’Alessandria, titolare della chiesa, che regge la ruota del martirio, a sinistra – omaggio al Bertolo – quella di san Giovanni Evangelista con l’aquila, suo simbolo, e, a destra, quella di san Giovanni Battista, qui ripreso non in veste di battezzatore, ma di predicatore nel deserto, essendo affiancato da un cane. Quello che caratterizza la facciata è il sottolineato verticalismo, impresso dall’asse che parte dalla statua di santa Caterina, interseca lo stemma del Bertolo, scende fino al capitello della trabeazione, continua nella chiave di volta, incontra il vertice del frontone soprastante la porta – che è ancora quella originale – e si conclude fra i suoi due battenti. Quanto all’architetto, non è stato finora trovato alcun documento che indichi il nome.
Scartata l’attribuzione ad un non meglio precisato Antonio Muttoni per il semplice fatto che questa famiglia di architetti si trasferì a Vicenza da Cima di Porlezza nel 1696 e, quindi, diciannove anni dopo l’esecuzione della facciata (1677), non rimane che ricorrere al criterio della comparazione. Ovvero, non rimane che confrontare edifici simili di paternità certa con questo edificio di paternità ignota, al fine di individuare elementi comuni. Assonanze si riscontrano con le facciate dell’oratorio di San Nicola, attribuito a Carlo Buttiron (1676) e della chiesa di Santa Caterina, progetto di Antonio Pizzocaro (1672). Vi sono, però, dei particolari che non si ritrovano nelle due chiese prese a riferimento e non rientrano nemmeno nella usuale sintassi locale: le colonne di ordine dorico in luogo di quello corinzio – che connota (retaggio palladiano) gli edifici sacri vicentini tra Cinque e Seicento – e l’arco che sovrasta la porta di ingresso, elemento non tipico negli edifici della specie eretti in quell’epoca nel vicentino. L’edificio è quindi da assegnarsi – verosimilmente – al progetto di architetto foresto, da ricercarsi in ambito veneziano, frequentato dal Bertolo.
Due fatti avallano questa ipotesi. Quando Bertolo, nel 1665, decide di ampliare la villa che possedeva a Monte, si affida ad un architetto veneziano, Giuseppe Sardi, così come si rivolge ad uno scultore pure veneziano, operante nell’orbita di Baldassarre Longhena, allorché fece erigere, tra il 1679 e il 1682, il magnifico altare maggiore nell’altra chiesa di Santa Caterina in Borgo Berga. Se poi si accetta l’attribuzione alla cerchia dei Bonazza delle tre statue in facciata, il cerchio si chiude. Giovanni Bonazza (1654-1736), infatti, capostipite di una famiglia di scultori, operò a Venezia fino agli ultimi anni del Seicento, per trasferirsi poi a Padova.
Quanto all’interno, l’unico vano conserva l’impronta originaria del Quattrocento, con copertura a tipiche capriate lignee, rifatte in occasione del restauro del 2000, e tradizionali tavelle sotto coppo. Scomparsi i due altari laterali dedicati alla Beata Vergine e a santa Maria Maddalena, rimane solamente quello maggiore, fiancheggiato da due porte. Si frappone tra l’aula, dove si raccolgono i fedeli, e un piccolo retrostante spazio, che funge da coro e da deposito dei paramenti e degli oggetti liturgici. Una iscrizione sibillina, di difficile interpretazione, riporta l’anno 1680, che è probabilmente quello di esecuzione. In effetti, si tratta di un lavoro di impronta tipicamente barocca, consistente in una struttura lignea dipinta a simulare il marmo e la pietra. È caratterizzato da quattro colonne corinzie scanalate, poggianti su solidi plinti. I capitelli reggono un robusto architrave con dentelli a grana fine e a grana grossa, che accentuano l’imponenza del manufatto. Sopra l’arco centrale sono collocati due angeli in preghiera. Sopra il frontoncino se ne stagliano altri due, con le mani al petto in segno di adorazione, addossati ad una sorta di parete, sormontata da un elemento a volute che si conclude con una croce. Ai lati, due angeli sono adagiati su di una struttura dentellata curvilinea, parte di un arco spezzato. Si tratta di un complesso che richiama schemi ripresi in quegli anni da scultori che si rifanno ai modelli degli Albanese, attivi a Vicenza fino alla metà del Seicento e che avevano lasciato non pochi imitatori e seguaci. Interessante anche il paliotto, che mostra tre figure dall’incerta iconografia. Impreziosito da marmi intarsiati, risale all’epoca dell’intervento del Bertolo e, quindi, agli ultimi decenni del Seicento. È opera di valente ignoto specialista nei cosiddetti commessi in pietre dure. Il lavoro non sfigura – fatte naturalmente le debite proporzioni – al confronto con il magnificente altare che troneggia nella chiesa di Santa Corona, opera dei fiorentini Antonio, Benedetto, Francesco e Domenico Corberelli, che vi lavorarono dal 1669 al 1686: un intervallo di tempo che comprende anche l’intervento di Bertolo del 1677. Proveniente dal precedente oratorio è il gruppo scultoreo che orna l’altare, databile intorno al 1420-1430, lavoro in pietra tenera policroma dei Berici attribuito a Nicolò da Cornedo (Rigoni 1999; contra Menato 1976).
Più precisamente, ai lati, sopra le porte che conducono al coro, si ergono due statue, che rappresentano i santi Silvestro e Caterina d’Alessandria. La presenza di queste figure si riconducono al fatto che anticamente Borgo Berga era sotto la giurisdizione della chiesa di San Silvestro, mentre Santa Caterina è la titolare della chiesa. Il vescovo Silvestro, raffigurato stante, con la mitria e un bastone (mancante) stretto nella sinistra, è ritratto nell’atto di benedire. Santa Caterina, incoronata, indica con la mano destra un libro (il Vangelo?), tenuto nella sinistra. Al centro dell’altare domina la statua raffigurante la Madonna in trono col Bambino, seduto sulla sua gamba destra. È avvolta da una veste rosa e da un manto verde, con un velo bianco sul capo. Nella mano destra stringe una mela, simbolo del peccato originale, riscattato dal figlio di Dio, benedicente e vestito di una tunichetta rossa che prefigura la sua passione.
Di Giorgio Ceraso da Storie Vicentine n. 7 marzo-aprile 2022
Luigi Meneghello. Nato a Malo (Vicenza) il 16 febbraio 1922. Nel 1939 si iscrive alla Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Padova e nel 1940, a Bologna, partecipa come rappresentante dei GUF di Padova ai Littoriali nel campo degli studi di dottrina fascista vincendo il concorso; fra il 1940 e il 1942, collabora al quotidiano padovano «Il Veneto» con la funzione di «prosatore anonimo di prima e di terza» oltre che di redattore.
L’incontro con il professore Antonio Giuriolo, intorno al quale si riuniscono giovani intellettuali vicentini avversi al regime, segna il passaggio di Meneghello all’antifascismo e la sua partecipazione attiva alla Resistenza.
Nel 1945 si laurea con una tesi sul «Problema della filosofia e della cultura moderna in “La critica”» e comincia a dedicarsi ad attività di propaganda politica e culturale collaborando con il Partito d’Azione e scrivendo sui giornali «Il Lunedí» e «Il Giornale di Vicenza». Nel 1947, vinto un concorso del British Council, lascia l’Italia per trasferirsi in Inghilterra dove frequenterà l’Università di Reading: «L’incontro con la cultura degli inglesi, afferma l’autore, e lo shock della loro lingua, hanno avuto per me un’importanza determinante». Comincia un «periodo di ripensamento sull’Italia, l’Inghilterra, la guerra, la pace, gli studi, la società moderna, la civiltà di massa e altro ancora».
Nel 1948 sposa Katia Bleier. Negli anni Cinquanta collabora alla rivista di Adriano Olivetti «Comunità » e traduce testi di filosofia e storia per l’editore Neri Pozza e per le Edizioni di Comunità, con lo pseudonimo Ugo Varnai. Nel 1961 fonda nell’Università di Reading il Dipartimento di Studi Italiani da lui diretto, e dal 1964 gli viene offerta la cattedra d’italiano.
All’attività accademica affianca una costante produzione narrativa, di impianto fortemente autobiografico: Libera nos a Malo (1963 e in una nuova edizione nel 1975) definita da Giorgio Bassani «un’opera di grandissima bellezza»; l’anno successivo esce I piccoli maestri (riedito nel 1976). Contestualmente alle riedizioni delle due prime opere, negli anni Settanta Meneghello scrive in modo «impetuoso» Pomo pero.
Paralipomeni d’un libro di famiglia (1974) e Fiori italiani (1976), l’opera che rievoca l’esperienza scolastica negli anni del fascismo. Attento indagatore della realtà italiana osservata da lontano, Meneghello analizza le trasformazioni sociali e linguistiche e, nella sua scrittura, dà vita ad una singolare sperimentazione che, per rendere la pluridiscorsività sociale e per dare un senso di coralità al narrato, prevede la compresenza di dialetto, italiano e lingua inglese.
Collabora sporadicamente a testate italiane (Corriere della Sera, La Stampa, Il Mondo, Epoca, L’Europeo, Il Gazzettino, Il Giornale di Vicenza) e inglesi (The Guardian).
Nel 1980 lascia Reading e l’università per trasferirsi a Londra e trascorrere lunghi periodi a Thiene, nel vicentino. Pubblica i saggi atipici: Jura. Ricerche sulla natura delle forme scritte (1987, premio Sirmione); Bau-sète (1988, Pre- mio Bagutta), una rievocazione di «ventinove mesi, una decina di stagioni» del dopoguerra, dal 1945 al 1947; Maredè, maredè… Sondaggi nel campo della volgare eloquenza vicentina (1991), «un’immersione nel mare profondo» del dialetto vicentino; Il dispatrio (1993, Premio Mondello), dedicato al trasferimento in Inghilterra e all’esperienza accademica a Reading; Trapianti (2002), una scelta di traduzioni dall’inglese al vicentino; Quaggiú nella biosfera (2004) che raccoglie due lezioni magistrali e un intervento su Fenoglio.
A questa intensa attività letteraria e saggistica si affianca la stesura, fra il 1963 e il 1989, di un complesso diario intimo che registra «di giorno in giorno su fogli e foglietti […] aforismi, appunti, note di diario, abbozzi di cose incompiute, progetti o barlumi di progetti […] esperimenti, fantasie e sgorbi». Questo vasto materiale è stato raccolto nei tre volumi Le Carte. Materiali manoscritti inediti 1963-1989 trascritti e ripuliti nei tardi anni Novanta usciti rispettivamente nel 1999 (sugli anni Sessanta), nel 2000 (sugli anni Settanta) e nel 2001 (sugli anni Ottanta). Fra il 2004 e il 2006 collabora con Il Sole-24 Ore pubblicando articoli con il titolo di Nuove Carte.
Luigi Meneghello muore a Thiene il 26 giugno 2007.
Secondo gli storici palazzo Vecchia era “forse il più raffinato del secolo”. All’interno esistevano affreschi del Tiepolo, varie stanze con stucchi, caminetti, splendido pavimento. Il tutto fu alterato dal nuovo proprietario il conte Ercole Thiene che lo acquistò nel 1840.
Lunedì 28 maggio 1838, morì Francesco Vecchia di anni 66 che abitava nel Palazzo di famiglia alle Cantarane senza lasciare testamento causando la fine del casato e la dispersione del patrimonio: quadreria, opere d’arte, mobili. Alcuni mesi dopo il 1° e 13 novembre 1838, il patrimonio della famiglia Vecchia andò all’asta, alienando quindi tutti i beni. Due anni dopo, il bellissimo palazzo di Contrà Cantarane, fu acquisito da Ercole Thiene, che aveva sposato Teresa Vecchia di Pietro, nipote di Francesco, cambiando proprietà il Palazzo cambiò nome diventando Palazzo Thiene.
Ercole Thiene era nato a Vicenza, il 20 marzo 1803 da Giangiacomo e Lucia Porto. Il 13 febbraio 1825, sposò a Bergamo, la contessa Elena Vailetti da cui, il 4 luglio 1826, ebbe un figlio Giangiacomo morto il 26 luglio 1851. Il 26 agosto del 1830 la moglie Elena a soli 23 anni, morì. Il conte Thiene passò a seconde nozze con Teresa Vecchia, donna virtuosa e caritatevole, nata il 14 gennaio 1811 morta il 17 maggio 1889. Teresa, aveva una sorella Claudia sposata al nobile Luigi Porto eroe del 10 giugno 1848, morta il 15 dicembre 1895 e con lei si esaurì la famiglia Vecchia.
Le cronache di Giovanni Da Schio e altri raccontano degli amori del nobile, innamorato della sorella della prima moglie maritata a Bergamo, suscitando scene di gelosia e dolori nella moglie Elena che fu persino picchiata, “tanto da far venire la febbre” e morire.
Il rapporto con la cognata suscitò scandalo e dubbi sulla morte della contessa. Infatti con la morte dei parenti di Elena Vailetti, il Thiene entrò in possesso di un cospicuo patrimonio. Gonzati racconta che Ercole Thiene fu arrestato ad Orgiano e tradotto sotto scorta a Vicenza in Contrà Santi Apostoli con l’accusa di omicidio, ma poi fu rilasciato per assenza di prove.
Palazzo Vecchia Thiene Romanelli (Foto di Emanuele Calegaro)
Le vicende storiche
Famiglia vicentina, che non appartenne a quel ceto nobile pur avendo avuto il titolo di nobile bavarese concesso dal duca di Baviera Giovanni Guglielmo con diploma 8 marzo 1693 a Stefano, di Benedetto, e a tutti i suoi discendenti legittimi d’ambo i sessi, titolo che non fu confermato dalla Repubblica Veneta. Re Vittorio Emanuele II con RR.LL.PP 28 agosto1900 riconobbe e confermò ad Achille Silvio e a tutti i suoi discendenti maschi il titolo di barone.
In data 15 maggio 1750 un fratello di Angelo Vecchia, aveva presentato domanda per “ottenere otto piedi di terreno della pubblica strada (Contrada Motton San Lorenzo) per costruire una scalinata del palazzo” . Sul deposito in £ire ci sono cifre contrastanti, secondo le quali i fratelli Angelo, Marcantonio, Gioacchino avrebbero versato 8258 ducati a testa. La scalinata è di otto gradini, balaustra e parapetto ancora visibili. L’avvocato Angelo probabilmente a Venezia avrebbe conosciuto il famoso architetto Giorgio Massari cui si rivolse grazie anche ai consigli di Carlo Cordellina per il palazzo di città alle Cantarane per uso Villa o Palazzo di famiglia. La costruzione della residenza famigliare è datata 1748.
Di Luciano Parolin da Storie Vicentine n. 6 gennaio-febbraio 2022
In piazza dei Signori, nello spazio davanti alla Loggia del Capitaniato, si è svolta, dalle 15 alle 16.30, la finale di VIva chi legge!, gara di lettura tra gli istituti superiori ispirata alla trasmissione televisiva “Per un pugno di libri”. La dodicesima edizione è tornata quest’anno nel cuore cittadino dopo il periodo della pandemia, quando l’iniziativa è stata svolta online.
VIva chi legge! è stata promossa dalla Rete territoriale dei servizi e dal Coordinamento insegnanti delle scuole superiori di Vicenza per la promozione della lettura.
A sfidarsi in piazza, sul livello di conoscenza e approfondimento del libro di Italo Calvino “Il sentiero dei nidi di ragno”, sono state13 classi per altrettantiistituti della provincia di Vicenza più uno padovano, ospite speciale della manifestazione,in rappresentanza delle106 classi totali che hanno partecipato. La gara è stata vinta dalla 2AA dell’istituto tecnico commerciale statale Einaudi Gramsci di Padova, che ottenuto in premio 300 euro in buoni libri. Seconda classificata la 2AS del liceo scientifico Jacopo da Ponte di Bassanoe terza la 2BC del liceo Pigafetta di Vicenza.
Nel corso della finale si sono svolti cinque giochi: “Se lo sai rispondi”, “Autori resistenti”, “Lessico”, “Chi è? Chi l’ha detto?” e “Vero o falso?”.