venerdì, Dicembre 13, 2024

La Chiesa di San Pietro e le monache benedettine a Vicenza

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Capita spesso che più o meno anonime facciate nascondano capolavori inaspettati. È il caso di quello che era il convento delle Benedettine, che si sviluppava a sud della chiesa di San Pietro e che ora ospita la Residenza Ottavio Trento, una struttura per anziani gestita dall’Ipab.

Vediamone, anzitutto, la storia. A prestar fede alla lapide fatta affiggere nel 1337 dalla badessa Fiore Porcastri nella controfacciata della chiesa di San Pietro, l’insediamento religioso sarebbe stato fondato nell’anno 827 da Elica di nazione alemanna, cioè tedesca.

In realtà, a dispetto dell’appena ricordata iscrizione, molte ombre aleggiano sull’origine e sull’anno di fondazione di questa comunità. Si ritiene, infatti, che qui si sarebbe inizialmente insediato, tra l’VIII e il IX sec., un monastero benedettino maschile, pressoché distrutto dagli Ungari, calati a Vicenza nell’899.

È stata poi una comunità di benedettine, con a capo la ricordata badessa Elica, a prendere nel 1061 il posto dei confratelli, e a (ri)fondare, il monastero, recuperandolo da grave decadenza: non dunque nell’anno 827, bensì all’inizio del secondo millennio (A. Morsoletto, Chiesa di San Pietro in Vicenza, 1997). Le religiose seppero, infatti, ben presto mettere a frutto il vasto latifondo – assegnato al monastero fin dal 1004 da un privilegio del vescovo Liudigerio I° ed esteso ai territori di Grumolo, Camisano, Lerino e Sarmego – grazie a importanti interventi fondiari, quali bonifiche, disboscamenti e opere idrauliche. In particolare, va ricordata la costruzione, a partire dal 1618, di un lungo canale di irrigazione, la cosiddetta roza Moneghina, utilizzata anche per il trasporto di materiali e derrate.

Celebre la coltivazione del riso, iniziata nel XVI secolo nel territorio di Grumolo e fiorente anche ai nostri giorni. L’omonimo Comune, non a caso, ha aggiunto l’appellativo “delle Abbadesse” a ricordo della presenza benedettina, riportando anche, nello stemma, le chiavi di san Pietro, sormontate dal Triregno: emblema del papato, ma anche delle nostre monache. Le quali costituiscono un esempio di imprenditoria femminile avanti lettera, che aveva naturalmente il suo riferimento nel monastero di san Pietro.

La possessione si trasformò ben presto in un centro di potere assoluto, un vero e proprio feudo, una contea, sulla quale la badessa esercitava, con pugno di ferro, il potere non solamente religioso, ma anche civile, amministrando addirittura la giustizia, forte della protezione imperiale e papale, non senza scontri con gli stessi vescovi, con gli altri feudatari e vassalli locali e con qualche recalcitrante sotto- posto, come riportano le cronache del tempo. Nel 1499, dopo un periodo di malgoverno, il monastero confluì nella Congregazione benedettina di santa Giustina di Padova (A. Morsoletto, cit.). Ma esso rimase comunque un saldo punto di riferimento per la città. Tanto che a san Pietro si monacarono le figlie della più alta nobiltà locale.

Lo testimoniano gli stemmi delle casate di ventiquattro badesse, circondati da una fascia con il nome di ciascuna e l’anno del suo insediamento. Furono affrescati nel 1887, secondo il gusto neogotico, nell’andito che introduce alla chiesa annessa al monastero, detto Coro delle monache. Questa sorta di blasonario inizia, naturalmente, dalla più volte memorata Elica, affiancata dalla sua sponsor Fiore Porcastri (1329).Sono poi ricordate Maria Verde Repeta (1419), Eufrosina Verlato (1522), Serafina Thiene (1619), Isabella Gualdo (1676), Maria Isabella Godi (1702) ed altre ancora. L’ultima badessa risulta eletta nel 1806. Proprio il 28 luglio di quell’anno un decreto napoleonico ordinò alle benedettine di lasciare il convento e di ritirarsi in quello di san Tommaso, nel quartiere di Berga. La disposizione fu eseguita solamente il 25 aprile 1810, giorno di soppressione del monastero.

E così calò il sipario su secoli di storia. Sotto l’aspetto architettonico merita particolare attenzione l’ampio chiostro. All’originaria struttura quattrocentesca si aggiunse, nel Settecento, il loggiato superiore, che interpreta disinvoltamente il motivo della serliana, chiuso nel secolo successivo da vetrate. Il radicale restauro del 1895 ha, forse, maldestramente collegato la parte inferiore dei pilastri, inglobandoli nella muratura, ancor più così sacrificando lo slancio verticale della struttura, già compromesso dalla ricordata superfetazione settecentesca.

Questi pilastri in cotto, quadrati e ad angolo smussato, reggono sottili abachi in pietra, dai quali si diparte la sequenza di archi a tutto sesto, i cui profili sono sottolineati da formelle, pure in cotto, a motivi vegetali, racchiuse entro cornici tardo- gotiche a scacchiera. Quasi tangente la sommità degli archi, corre una fascia a torciglioni, anch’essa racchiudente formelle a motivi vegetali.

Ancor più sopra, si dispongono altre formelle, a intervalli regolari. Sul fronte nord campeggiano due stemmi: a sinistra, quello dell’abbazia delle bene- dettine proprietarie e, a destra, quello di Maria Verde Repeta, badessa dal 1418 al 1444-1445, promotrice della realizzazione del chiostro, che si ritiene compiuto tra il 1450 e il 1460. Si stacca completamente dal resto della iconografia degli archi la decorazione di quello che si sviluppa nel fronte orientale.

I già ricordati motivi vegetali delle formelle lasciano qui il campo, a sinistra, a sei leoni alati e, a destra, a sette personaggi a cavallo, dei quali, purtroppo, è appena visibile il primo a destra. Non si tratta delle badesse-amazzoni di san Pietro, come folcloristicamente già creduto, quanto, piuttosto, di agghindati falconieri reggenti con la destra il falcone.

Questo ragguardevole apparato di formelle fittili, unico a Vicenza e tra i più rilevanti in ambito veneto, è, all’evidenza, apparentato con la ghiera, anch’essa a formelle in terracotta, che adorna la porta del vicino Oratorio dei Boccalotti, uscita nel 1414 dalla fornace di Zanino dei Boccali, che aveva bottega proprio in contrà San Pietro. Ma, essendo Zanino defunto già nel 1419, sarà intervenuto nell’impresa il nipote Gerardo, erede dello zio e continuatore della sua attività. C’è, però, una sorta di enigma. Sul fronte settentrionale, a formelle che recano indefiniti motivi vegetali stilizzati, si alternano formelle che sembrerebbero, invece, riprodurre pannocchie di granoturco (Barioli, Il chiostro di San Pietro, preziosa testimonianza del ‘400 vicentino, Vicenza 1968).

Si tratta, verosimilmente, di errata interpretazione, poiché la coltivazione del granoturco o mais si diffonde nella Repubblica di Venezia solamente a partire dai decenni centrali del Cinquecento: è, infatti, tra il 1550 e il 1560 che G.B. Zelotti affresca, tra i primi, pannocchie in villa Emo a Fanzolo. Non pannocchie, dunque, ma, piuttosto, piante di acànto, i cui fiori, raggruppandosi in lunghe inflorescenze, assumono la forma di pannocchia. Se così non fosse, i tempi di esecuzione delle formelle si dilaterebbero – e di molto – e, per di più, esse sarebbero state realizzate in tempi nei quali sarebbero state del tutto “fuori moda”.

Salvo si tratti di improbabile, e comunque non documentato, intervento posteriore rispetto alla primitiva decorazione del chiostro. Il quale ospita nell’ala nord anche altre pregevoli testimonianze storiche e artistiche. A sinistra è collocato un sarcofago altomedievale in pietra, forse del VII secolo, da altri (Arslan, Vicenza. Le chiese, Roma 1956) ritenuto, invece, longobardo, che mostra, nella faccia anteriore, una targa anepigrafe ovvero senza scritte, fiancheggiata da una croce sotto un’arcata. Proprio attaccata al fronte est del chiostro è sistemata la tomba della già ricordata Fiore Porcastri. Sul lato corto della sepoltura è ben visibile l’altorilievo raffigurante un maialino stilizzato, simbolo nello stemma della famiglia.

Sopra quest’arca si stende un affresco, databile tra la fine del Trecento e l’inizio del Quattrocento, che riproduce una Crocifissione con la Madonna e san Giovanni Battista. Forse è l’ultima scena di una Via crucis, che si snodava lungo la parete. L’opera, ritrovata sotto uno strato di intonaco ridipinto e offuscato, è stata attribuita a un ignoto epigono giottesco. Il sito avrebbe urgente necessità di un generale intervento di accurato, per salvaguardare, in particolare, le decorazioni fittili, che corrono il rischio di corrompersi irrimediabilmente.

Di Giorgio Ceraso da Storie Vicentine n. 7 marzo-aprile 2022


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