Lunedì 13 marzo la Società del Quartetto propone al Teatro Comunale di Vicenza un insolito duo. Lei, Viktoria Mullova, è una delle più acclamate violiniste del nostro tempo. Suo figlio Misha Mullov-Abbado è un apprezzato contrabbassista cresciuto nel jazz britannico. In programma brani classici, pop, jazz e sonorità brasiliane. Prima del concerto, in foyer, una riflessione dell’archeologa Elena Marzola sulle libertà della donna nella Roma imperiale. Biglietti promozionali per la Giornata della Donna.
In prossimità della Giornata Internazionale della Donna la Società del Quartetto ha unito sotto il titolo “Questione di Donne” due concerti che hanno per protagoniste altrettante star della classica – la violinista Viktoria Mullova lunedì 13 marzo e la violoncellista Sol Gabetta domenica 19 – che sono nel contempo due donne con alle spalle storie personali fatte di passione e grande determinazione. I concerti saranno preceduti – alle ore 20 nel foyer del Teatro Comunale – da due momenti di riflessione sull’universo femminile, dell’antichità e dei giorni nostri, curati rispettivamente dall’archeologa Elena Marzola (il 13 marzo) e dalla psichiatra e psicoterapeuta Luisa Consolaro (domenica 19).
Lunedì 13 marzo Viktoria Mullova torna al Teatro Comunale, a 8 anni dalla sua ultima apparizione sulla scena vicentina, questa volta nella doppia veste di violinista e di… mamma. Al suo fianco infatti, a formare un insolito duo, ci sarà suo figlio Misha, avuto da Claudio Abbado nel 1991 e oggi affermato contrabbassista jazz, arrangiatore e compositore. «Per 18 anni con mia madre abbiamo vissuto sotto lo stesso tetto – ha confessato Misha in un’intervista – e sono stato letteralmente circondato da un’enorme quantità di musica. Ho iniziato pianoforte a 5 anni e corno a 7. Poi, verso i 15, mi sono appassionato al contrabbasso e al jazz, genere che ho approfondito alla Royal Academy of Music e all’Università di Cambridge».
«Grazie a lui ho affinato il senso del ritmo e il piacere di lasciarmi andare, di improvvisare – gli fa eco la violinista di origine russa – abbiamo anche scoperto di avere gusti musicali molto simili e di poterci completare a vicenda». Dalla curiosità di esplorare nuovi orizzonti e soprattutto dalla gioia di fare musica insieme nasce, poco prima del lockdown pandemico, l’album Music we Love, una raccolta di 12 brani che mette insieme pezzi originali di Misha, di Bach e Schumann, del chitarrista John McLaughlin e della rockstar israeliana Shalom Hanoch, più un omaggio alle sonorità brasiliane: dalla tradizione popolare alla bossa nova di Tom Jobim, dalla MPB allo choro.
È il programma, con qualche aggiunta, che Viktoria & Misha propongono lunedì sera al pubblico del Teatro Comunale di Vicenza. Del contrabbassista e prolifico compositore figlio d’arte ascolteremo quattro brani tratti dagli album Dream Circus del 2020 e Cross-Platform Interchange del 2017. Tre i pezzi “classici” in scaletta: i primi due movimenti dalla Partita in Si minore di Bach, il Moderato dalla Sonata in Re maggiore di Prokof’ev e il Träumerei dalla raccolta dei 13 Kinderszenen di Schumann. Il viaggio intorno ai più disparati stili musicali prosegue con il brano Shir Lelo Shem di Shalom Hanoch, classe 1946, cantautore israeliano di origine lettone considerato il padre del rock e della musica moderna israeliana. E ancora con Celestial Terrestrial Commuters di John McLaughlin, ottantenne chitarrista britannico che nel corso della sua lunga carriera si è distinto per le tante incursioni nella musica orientale, nel jazz, nel genere fusion e in quello classico.
Poi l’omaggio alla musica brasiliana, alla quale Viktoria Mullova nel 2014 aveva già dedicato un album in formazione di quartetto. Si parte dal languido motivo tradizionale Caicó, si passa attraverso la bossa nova Tom Jobim, la poetica di Laércio de Freitas, la Música Popular Brasileira del duo pernambucano Lenine & Dudu Falcão per arrivare al gran finale con il celeberrimo motivetto Tico-tico no Fubá che Zequinha de Abreu compose nel lontano 1917 e che da allora ha fatto il giro del mondo.
Ospite delle più rinomate orchestre, sale da concerto e festival internazionali, Viktoria Mullova è famosa per la straordinaria versatilità e curiosità che l’hanno portata ad esplorare tutto il repertorio per violino: dal barocco al contemporaneo, dalla fusion alla musica sperimentale. Grazie al suo interesse per la prassi esecutiva ha collaborato con i più importanti complessi su strumenti originali. Bach, compositore per il quale ha una grande affinità, è parte cospicua de suo storico repertorio, anche discografico. A partire dal 2000 Mullova ha intensificato le sue incursioni nella musica “altra” con gli album Through the Looking Glass, The Peasant Girl – dove suona brani classici, gipsy e jazz – Stradivarius in Rio e il recente Music we Love, tutti presentati con successo dal vivo in numerose città europee. Viktoria suona due straordinari strumenti di scuola italiana: un Guadagnini e lo Stradivari Julius Fak del 1723.
Per i due concerti “Questione di Donne” del 13 e 19 marzo la Società del Quartetto ha attivato una speciale promozione a 10 Euro per il singolo concerto e a 15 per entrambi. I biglietti si possono acquistare sul circuito online del Teatro Comunale (www.tcvi.it), presso la sede della Società del Quartetto in Vicolo Cieco Retrone (0444 543729) e alla biglietteria del Comunale (0444 324442).
Il passo dello Zovo è un valico alpino delle Prealpi vicentine posto a quota 631 m s.l.m. che mette in comunicazione le città di Schio e di Valdagno ed è il confine tra i territori dei due Comuni. Da qui si dipartono vari sentieri, tra cui uno che va al Monte Civillina. Non lontano dal passo c’è anche la suggestiva chiesetta del Mucciòn, con il vicino ristorante. Il territorio si presta a visite ed escursioni interessanti.
Il Passo Zovo e il ciclismo
E’ noto al pubblico per essere stato affrontato dal Giro d’Italia il 29 maggio 1998 dal versante valdagnese. La discesa verso Schio vide la caduta di Alex Zülle e di Marco Pantani che erano al comando, lasciando via libera alla vittoria di Michele Bartoli.
Il parchetto nei pressi del Passo Zovo. Foto: Marta Cardini
Proprio il versante valdagnese, con i suoi 4,5 chilometri e quasi 400 metri di dislivello, è quello più impegnativo da affrontare, con pendenze dure e costanti lungo i quattro tornanti centrali dell’ascesa, per poi farsi più pedalabile nella parte finale dopo contrada Grendene fino al passo stesso.
La chiesetta del Mucciòn
Situata nel territorio valdagnese, la chiesetta è dedicata alla Madonna Assunta ed è in stile alpino. Il tetto è spiovente e la facciata ha un rosone. Sul culmine del tetto vi è una croce in ferro battuto. L’interno è a navata unica e presenta alcune opere pittoriche interessanti. La suggestiva chiesa fu costruita con amore e sacrificio dagli abitanti di quelle zone collinari negli anni ’50 del Novecento.
La chiesetta del Mucciòn. Foto: Marta Cardini
Il ristorante a fianco è noto per la cucina, elaborata con i prodotti del territorio. Pane fatto in casa con lievito madre, mostarde, insaccati, ravioli di tarassaco con burro di malga e Asiago stravecchio, tagliata di petto d’anatra con finferli, sono solo alcuni dei piatti in menu, da accompagnare con una delle etichette presenti nella ricca cantina.
Come raggiungere il Monte Civillina
Il monte Civillina è meta di appassionati e collezionisti per la varietà di minerali presenti. I percorsi naturalistici sono spettacolari. Lungo il tragitto si possono visitare, inoltre, trincee, gallerie e postazioni d’artiglieria.
E’ possibile partire a piedi o in bicicletta dal passo Zovo per raggiungere al vetta del Monte Civillina. Si tratta di un’escursione su questa montagna che ci permette di immergerci nella storia della Grande Guerra, ammirando panorami magnifici sulle Piccole Dolomiti. Il Monte Civillina è raggiungibile anche partendo da Valdagno in direzione Recoaro. Arrivati in località Bonomini, lasciando la strada principale, si scende a destra in direzione Rovegliana. Si prosegue per circa 1 km fino al primo tornante che sale a sinistra. Subito dopo si prende la strada a destra con indicazione Contrada Retassene.
Il percorso naturalistico per andare al Civillina è incantevole. Foto: Marta Cardini
Superata la contrada si trova un primo parcheggio. Volendo iniziare da qui l’escursione calcolate almeno un’ora in più di cammino. Proseguendo, dopo il primo tornate, la strada non è più asfaltata ma percorribile. Si sale ancora per altri 12 tornanti per circa 2 km dove la strada si incrocia con la “Ortogonale 1” (c’è una tabella che indica la posizione) dove noi abbiamo lasciato la macchina per fare un percorso ad anello. E’ possibile proseguire per altri 400 mt fino alla fonte Civillina dove si può trovare posto per parcheggiare.
La Grande Guerra nel Civillina
Il Monte Civillina, già prima della guerra, faceva parte del sistema di difesa della viabilità vicino al confine. Per questo scopo, diventò sede di una batteria da fortezza che avrebbe dovuto proteggere la Valle dell’Agno da eventuali infiltrazioni nemiche provenienti dal Passo di Campogrosso.
Durante la Grande Guerra, sulla cima del monte, protetta da elementi di trincea utili in caso di attacco della fanteria nemica, oltre alle postazioni per cannoni, esistevano riserve per le munizioni, una polveriera, ricoveri per gli artiglieri e per il presidio della posizione, costituito da alcune compagnie del 6° Reggimento Artiglieria da Fortezza. La guarnigione di Civillina usufruiva dell’acqua portata sulla sommità, con un acquedotto per sollevamento, da contrada Retassene. Per cause sconosciute la polveriera di Civillina esplose il 20 novembre 1915.
Uno dei cartelloni che spiega la Grande Guerra nel Civillina. Foto dal blog di Andrea Pizzato https://www.montagnadiviaggi.it/
Soprattutto dopo la Strafexpedition del 1916, il Monte Civillina, divenne sempre più importante, assumendo la funzione di perno della linea di resistenza ad oltranza, nonché rilevante stazione di smistamento per segnalazioni ottiche di artiglieria.
La cima
Il Monte Civillina, oltre a essere stato da scenario di strategie belliche, è ora un luogo adatto a tutti e ricco di interesse non solo per le testimonianze storiche, ma anche per le bellezze naturalistiche. Su questa cima è stato allestito un Osservatorio, dotato di pannelli descrittivi, da dove si può osservare, oggi come allora, tutto il fronte di guerra dell’Alto Vicentino dal Carega al Pasubio, dal Novegno all’Altopiano di Asiago e al Gruppo del Grappa.
L’osservatorio dal Monte Civillina. Foto dal blog di Andrea Pizzato https://www.montagnadiviaggi.it/2020/09/monte-civillina-sentiero-del-sentinello-mtb.html
In occasione della festa della donna, il Comune di Sovizzo propone lo spettacolo teatrale “Chi ha sparato al maggiordomo”?, previsto per venerdì 10 marzo, alle 20 e 45, nell’Auditorium delle Scuole Elementari in Via Alfieri.
La manifestazione, ad ingresso gratuito, vedrà protagonisti diversi artisti, tra i quali Giorgia Antonelli, Annalisa Carrara e Titino Carrara. La produzione sarà curata dalla Compagnia Teatrale “Pipa e Pece” di Vicenza, mentre drammaturgia e regia saranno opera di Titino Carrara.
Lo spettacolo è stato organizzato in occasione della Giornata internazionale dei diritti della donna, o Festa della Donna, ricorrente l’8 marzo di ogni anno per ricordare le conquiste sociali, economiche e politiche, ma anche le discriminazioni e le violenze di cui le donne sono state e sono ancora oggetto in molte parti del mondo.
“Questo evento vuole essere un importante momento di aggregazione per celebrare insieme il ruolo essenziale che le donne esercitano nella nostra società” incalza Paolo Garbin, Sindaco di Sovizzo, e conclude: “Ma è anche un’occasione per apprezzare il cruciale contributo che le donne regalano nella vita di ciascuno di noi”.
Mario Rigoni Stern, l’autore che più di ogni altro ha parlato di valori umani e civili attraverso storie di natura, boschi e montagne, passando per la tragica esperienza della guerra, protagonista di una testimonianza di Gibo Perlotto.
Mario Rigoni Stern e “Gibo” Angelo Gilberto Perlotto
Un libro letto a quattordici anni ancora mi naviga nei circuiti del cuore: “Il sergente nella neve”. Era opera di uno scrittore di Asiago, un certo Mario Rigoni Stern. Alla fine del 1999 avevo terminato il complesso progetto scultorio sulla “Memoria Contadina”. Le trentadue sculture mi avevano impegnato per circa cinque anni. Finito il percorso, prima di organizzare delle mostre, cercavo qualcuno che commentasse l’opera.
Avevo incontrato alcuni critici, ma desideravo qualcuno slegato dal mondo dell’arte, incontaminato, una figura rappresentativa dei valori umani veri e profondi nei quali fermamente credevo e credo. Ne parlo con l’amico Padre Livio Pasqualon, francescano della Pieve di Chiampo. Secondo lui potevo chiedere di scrivere una presentazione a Mario Rigoni Stern.
L’idea era allettante, ma non sapevo come avvicinare lo scrittore, mi sembrava di dover affrontare l’Olimpo. Padre Livio disse: Non ti preoccupare, a Mario ci parlo io. Dopo qualche giorno mi richiama per comunicarmi la bella notizia che lo scrittore avrebbe visionato i miei lavori. Spedisco subito una lettera a Mario Rigoni Stern spiegando chi ero e illustrando il mio progetto. Non ho risposta. Passa circa un mese e richiamo Padre Livio raccontandogli l’accaduto. L’ingenuità mi aveva fatto commettere un grande errore, poiché avevo scritto a Mario senza allegare le foto delle sculture. Incredibile! Rispedisco il tutto, ma non arriva alcun segnale. Poi una sera squilla il telefono: Sono Mario Rigoni Stern.
Rispondo: Buona sera professore. Replica prontamente in dialetto stretto: A no’ so mia professore. Altra figuraccia. Non migliorerò mai! Mario mi comunicava che aveva visto le foto delle sculture e che avrebbe scritto qualcosa. Non ricordo se sono stati due o tre i salti di gioia. Dopo una ventina di giorni, mi ritelefona chiedendomi di andare a trovarlo ad Asiago perché voleva conoscermi di persona e consegnarmi quanto aveva scritto. Mi consiglia di portare un paio di scarponi da montagna. La cosa mi sembra strana, ma questo era l’invito preciso: prendere o lasciare. Arrivo ad Asiago nel primo pomeriggio di un mercoledì di giugno. Il cielo è limpido, nell’aria vaga il profumo dell’erba falciata. Mario, in giardino, sta accatastando della legna. Dopo i primi convenevoli, m’invita a mettere gli scarponi perché saremmo andati a camminare nel bosco dietro casa, verso le colonie.
Lo seguo, adattando il passo alle sue soste. Preso da un’ineffabile agitazione, dovuta forse alla paura del confronto, continuo a parlare, probabilmente ripetendomi. A un certo punto Mario si gira e mi dice: No’ sito mia bon de stare in silensio? Ricordo con estrema precisione quel momento perché mi sentii precipitare nel vuoto. Poi fu silenzio a lungo. Solo il rumore dei passi nel gran tempio tra gli abeti. Seguo Mario come si segue una luce. Cammina nel bosco qualche passo avanti, la luce filtrata dagli alberi, imbianca le cose. Mi pare vedere Mario in ritirata nella steppa verso il Don, carico di munizioni e stanchezza e di giovinezza. Un Sergente nella neve che pensa nel freddo silenzio e poi scriverà: La terra è rotonda e noi siamo tra le stelle. Tutti.
Dopo un poco si rigira e mi dice: Ma dèsso no’ pàrlito pì. Non so cosa dire o fare. Continuiamo a camminare. Ci fermiamo dove finisce il bosco. Da qui si può gustare il regalo della Natura nell’orizzonte spalancato sul panorama stupendo. Con la tranquillità e la saggezza di un padre affettuoso, Mario mi rasserena dicendo: Ti ho ripreso perché, prima di parlare, bisogna saper ascoltare il silenzio, le voci del bosco, il resto è in più. Quanto ho imparato in quei pochi istanti! Stavo vivendo una magia. Come lui, quand’era nella steppa, pensavo: Che giorno è oggi? E dove siamo? Non esistono né date né nomi. Solo noi che si cammina.
Mi piacerebbe averlo conosciuto quand’era ragazzo e mi vien voglia di chiedergli perché è cresciuto. Torniamo verso casa. Ci accoglie la moglie Anna. Beviamo un buon caffè, mi consegna il suo scritto e iniziamo a confrontarci sui miei lavori. In calce al suo meraviglioso testo, con un post scriptum annotava:
Caro Perlotto, ho guardato le foto delle opere ed ecco quello che mi è venuto di scriverne. Spero le siano gradite, se no le bruci. Le auguro salute e una bella primavera.
La modestia è la grandezza di un uomo. Aveva scritto per me:
«Nella bottega del padre ha imparato l’arte di lavorare il ferro che assieme a quella della terracotta, è una delle più antiche. Nella memoria però, conserva ancora le immagini e l’uso di oggetti anche questi antichi di secoli, che oggi la tecnologia ha sostituito con altri molto più pratici ed efficaci ma che non hanno, però, l’impronta delle mani dell’uomo. Solo lo spirito di un poeta poteva pensare; fermiamoli nel tempo e nel ricordo con il ferro forgiato al color bianco e battuto sull’incudine; trasmettiamo per sempre il loro ricordo per quello che sono stati nella vita di tanti e per quello che sanno suggerirci. Così ecco la carèga di paglia consunta, il tabàro, la mònega, il bigòlo, la chitarra con le corde rotte e la cassa armonica scollata, il tajapàn… Ora sono fissati per sempre nella solidità del metallo anche per coloro che hanno memoria labile, o per chi non li aveva visti in uso: sono qui a trasmetterci di un tempo povero, sì, ma ricco forse di altre cose che abbiamo perduto.»
Mario presentò, nel 2001, una mia mostra personale alla Rocca di Castello di Arzignano, patrocinata dal Comune con l’organizzazione dell’amico Bepi De Marzi e la collaborazione di Carlo Geminiani. In quell’occasione Mario mi disse: Vengo con entusiasmo a presentarti, ma ti chiedo in cambio un cestino di ciliegie. Era di maggio. Gli portavo ogni anno due bottiglie di vino Durello Passito provenienti da un vitigno autoctono in San Benedetto di Trissino. Di questo vino potevo averne solo quattro bottiglie l’anno: due rigorosamente erano destinate a Mario. A lui sono sempre piaciute le cose semplici, senza mistificazioni, frutto della fatica dell’uomo e della tradizione.
Ho avuto la fortuna di frequentare un “Gigante” e di salire, per brevi tratti, sulle sue spalle e guardare più lontano. Confidenzialmente, Mario mi parlò del premio titolato La Penna d’Oro, ricevuto nel 1992, come massima onorificenza dalla Presidenza della Repubblica. Alla premiazione gli consegnano una pergamena e una busta.
Al momento del rinfresco chiede timidamente a un Ministro presente quando gli avrebbero consegnato la penna. La risposta del Ministro è che il premio è nella busta. Mario tocca la busta ma non avverte nessuna penna. In effetti, il riconoscimento era un premio in denaro.
Mi dice che a lui sarebbe bastata una semplice penna, magari con una dedica del Presidente della Repubblica. L’episodio mi colpì molto e di getto realizzai un’opera di ferro che donai allo scrittore. La scultura rappresenta una piccola tavola con sopra una boccetta d’inchiostro col tappo di sughero, una cannuccia munita di pennino Perry, la sua marca preferita, e un’ape d’oro. La piccola tavola è il mondo. L’inchiostro che, tracimando dalla boccetta si sparge, rappresenta la rigogliosità della scrittura, l’ape è simbolo della musa ispiratrice. Questa è la mia “Penna d’Oro” donata a Mario in segno d’amicizia.
Lui la conservava gelosamente sullo scrittoio. Me la prestò per esporla in alcune mostre. Ho sempre amato i poeti veneti e ho avuto la fortuna di conoscerne personalmente qualcuno tra cui Luigi Meneghello e Andrea Zanzotto.
Con Mario il triumvirato era perfetto per una mia ricerca artistica e una possibile realizzazione scultoria che potesse esprimere la devozione per loro. Nel 2007, dopo la morte di Luigi Meneghello, sentivo l’esigenza di dare vita a questo debito morale e artistico. Iniziai a gettare le basi, con schizzi e disegni preparatori, per realizzare una scultura per ognuno di loro. Dopo aver individuato il tema per Meneghello e Zanzotto, trovai la soluzione anche per Mario. Da un suo racconto scelsi un episodio che gli era accaduto nella campagna di Russia.
Aveva trasformato il contenitore della maschera antigas in un tascapane, dove conservava una copia dell’Iliade, una foto della morosa veneziana, un pettine e pochi generi di sussistenza. Nel racconto, Mario scrive che, perso il tascapane dopo uno scontro, era sicuro che, se qualche russo l’avesse ritrovato, si sarebbe reso conto che tutti erano coinvolti nello stesso dramma. La mia intenzione era di tradurre il tascapane in scultura ferrea, perché fosse riconsegnato a Mario e alla storia.
Ma dovevo parlare con lui per conoscere più dettagli: come fosse fatto, le dimensioni, e tutto il resto. Un tardo pomeriggio di fine ottobre del 2007, fisso un incontro. Mi accompagna in quell’occasione mia moglie Ines. Mario e Anna ci accolgono amorevolmente e ci ritroviamo in cucina a gustare una scodella di zuppa. Espongo l’idea, che Mario accoglie con grande entusiasmo. Le mie domande ottengono risposte che trascrivo, facendo qualche schizzo annotando delle misure.
A un certo punto Mario si alza dicendo di attenderlo. Ritorna dopo qualche minuto tenendo sottobraccio uno zaino e un’edizione dell’Iliade del 1940 per i tipi dell’editore Attilio Barion. Nella stanzetta regna un silenzio mistico saturo di curiosità e stupore. Mario con un sorriso afferma che il tascapane era del medesimo tessuto dello zaino e l’Iliade ha le stesse dimensioni di quella che stava raccontando.
Dice anche che era lo zaino col quale era tornato dalla Russia e che usava saltuariamente per portare a casa della legna dal bosco. Si lascia andare a tanti ricordi soffermandosi sui particolari dello zaino: nodi, cuciture, strappi. Quando lo usava aveva tutto quello che si può avere di peggio. Guardandomi fisso negli occhi mi dice: Questo zaino e l’Iliade voglio darli a te in ricordo.
Anna fa un cenno non so se di approvazione o altro. Io scoppio in lacrime, Ines mi tiene stretta una mano. Ripeto che non posso assumermi la responsabilità di una cosa tanto importante. Nell’accomiatarci saluto Anna e abbraccio forte Mario con la promessa di ritrovarci presto. Scendiamo da Asiago senza più dire una parola e restiamo in silenzio fino a casa. Non ho mantenuto la promessa di ritornare. Mario subito dopo si ammalò. Non lo rividi più. Ho conservato gelosamente lo zaino per un anno e mezzo in un contenitore senza mostrarlo mai a nessuno.
Nel 2009 Bepi De Marzi mi chiese, in nome della famiglia, di poterlo prestare per una mostra che sarebbe stata allestita a Luserna. Ho consegnato lo zaino a condizione che, terminata l’esposizione, mi fosse subito riconsegnato. Finita la mostra, con un’ennesima telefonata Bepi De Marzi mi suggeriva che sarebbe stato d’importanza storica e culturale, che lo zaino fosse ritornato alla famiglia per far parte di una futura fondazione-museo intitolata a Mario. Non ho più rivisto lo zaino. Un paio di mesi fa ho incontrato Gianni Stern, figlio di Mario, al quale ho raccontato il fatto.
Anche lui non sapeva che fine avesse fatto lo zaino, mi ha detto che avrebbe condotto delle ricerche. Poi Alberico, primogenito di Mario, ha ritrovato in soffitta quattro zaini, uno è sicuramente quello cercato. Le profonde fibre dell’anima ancora mi raccontano che l’intenzione originale di Mario, in quel pomeriggio di ottobre del 2007, fu di donarmi lo zaino a ricordo di un incontro durante il quale vivemmo un momento di alta intensità spirituale. Allora non si sapeva, ma sarebbe stato l’ultimo incontro. Lo zaino è a disposizione. Se si dedicherà a Mario una sala commemorativa,
è giusto che ne faccia parte perché, almeno io, lo considerò un Bene dell’Umanità per tutto quello che d’invisibile ma di eterno contiene. Uno zaino non è solo tela grezza, spallacci, stringhe. Uno zaino è chi lo porta sulle spalle, l’intriso del sudore, un cuscino nel riposo, Uno zaino è la fiducia del ritorno. Nel cammino verso casa sentirne l’abbraccio del dolore e della speranza consolante. Sono sicuro che Mario gli parlasse e che lo zaino rispondesse con i versi di Omero. Nei momenti di tensione e di paura e di stanchezza Mario allacciava i legacci consunti in nodi raggrumati. I nodi gli sarebbero serviti a ricordare il dovere di non dimenticare.
Di Giorgio Costantino Rigotto da Storie Vicentine n. 4 Settembre-Ottobre 2021
Parco Ragazzi del ’99 di Bassano del Grappa diventa palcoscenico della grande musica per il concerto di Madame, in programma il 26 luglio 2023. Si arricchisce quindi il programma dei grandi eventi dell’estate bassanese.
Madame, cantautrice di origine vicentina, è pronta a ricevere l’abbraccio della sua terra, in vista del nuovo tour estivo e della pubblicazione del suo secondo album “L’amore” (Sugar) in programma venerdì 31 marzo. Un nuovo progetto – quello discografico e live- per l’artista più ascoltata degli ultimi dieci anni (fonte Spotify) e che in soli quattro anni ha collezionato finora 35 certificazioni tra platino e oro.
Il nuovo disco è stato anticipato dal singolo già certificato platino e presentato a Sanremo 2023 “Il bene nel male”, scritto e composto da Madame e composto da Nicolas Biasin (in arte Bias) e Iacopo Sinigaglia (in arte BRAIL), che insieme a Shablo e Luca Faraone hanno prodotto il brano. Accanto ai numeri, Madame ha raccolto prestigiosi riconoscimenti per il valore musicale e letterario: è la più giovane vincitrice della Targa Tenco per il miglior album d’esordio e per la miglior canzone “Voce”, canzone che ha vinto anche il Premio Lunezia e il Premio Bardotti, entrambi per il miglior testo.
Madame ha già conquistato il pubblico anche dal vivo, in un tour sold out nel 2022 che ha confermato quanto sia nata per cantare e stare sul palco. Energica, spontanea, coinvolgente, la cantautrice ha condiviso uno spazio libero in cui essere al sicuro per essere veramente se stessi.
Le prevendite al concerto saranno disponibili a partire dalle ore 18.00 di lunedì 6 marzo nel circuito Ticketone.
Vicenza, si sa, è una città dalle mille bellezze, ricca com’è di chiese, palazzi e storia. A dirlo non sono di certo solo dei vicentini troppo orgogliosi della propria città: il capoluogo ha infatti goduto degli elogi di numerosi forestieri, alcuni dei quali molto illustri. Scopriamo cosa Johann Wolfgang Goethe scrisse della città, che si trovò a visitare nel corso del suo viaggio in Italia.
Il Grand Tour
Ritratto dello scrittore (Goethe in der Campagna, Johann Heinrich Wilhelm Tischbein ca. 1787)
Johann Wolfgang Goethe è considerato il maggior esponente della letteratura tedesca, nonché il più famoso oltre i confini del paese. Conosciuto principalmente per le sue opere Faust, I dolori del giovane Werther e Le affinità elettive, Goethe fu un validissimo romanziere, poeta e drammaturgo.
Come molti giovani di famiglia nobile del tempo, nell’anno 1786 lo scrittore intraprese il Grand Tour. La moda consisteva nel mandare i rampolli delle famiglie più in vista in giro per l’Europa, per vedere da vicino la storia e la cultura dei paesi vicini, formando allo stesso tempo una coscienza politica. L’Italia era la meta preferita dei nobili europei, che desideravano vedere con i propri occhi i fasti dell’antica Roma, ma anche delle città del nord e del sud, in particolare Napoli.
Goethe a Vicenza
Il grande scrittore tedesco si fermò nel capoluogo vicentino per una settimana circa, dal 19 al 25 settembre, prima di incamminarsi per Padova. Se Roma rubò completamente il suo cuore, Vicenza non fu da meno: Goethe rimase affascinato dalla grandiosità delle opere del Palladio, che si precipitò a visitare:
Sono giunto da poche ore, ma ho già fatto una scorsa per la città e ho visto il Teatro Olimpico e gli edifici del Palladio.
La “Rotonda” del Palladio (foto flickr: Hilde Kari)
Goethe è allo stesso tempo critico e ammiratore dello stile del grande architetto, che infine definisce, inequivocabilmente, un genio:
C’è qualcosa di veramente divino nei suoi disegni: perfettamente come è la forma per un grande poeta, che dalla verità e dalla finzione plasma una terza cosa, la cui esistenza fittizia ci rapisce.
Di tutti gli edifici, il poeta rimase colpito in modo particolare dalla splendida Villa Capra, conosciuta come “La Rotonda“, di cui scrive:
Oggi ho visitato una splendida villa detta la Rotonda […]. Forse mai l’arte architettonica ha raggiunto un tal grado di magnificenza.
Così scriveva di Vicenza una pietra miliare della letteratura tedesca, un uomo colto che ben sapeva cosa fosse l’arte, avendola lui stesso rivoluzionata e portata ai massimi splendori. I vicentini hanno il privilegio di avere queste bellezze a poca distanza dalle proprie case, e i turisti la fortuna di poter ammirare gli stessi capolavori che colpirono Goethe e che fanno di Vicenza una delle città più belle del nostro Paese.
*Le citazioni sono tratte dalle memorie di J.W. Goethe Viaggio in Italia, trad. italiana di Eugenio Zaniboni, ed. Sansoni
Non “le campane de Masòn”, com’è nell’originale filastrocca. “Malòn” cantava mia madre per me bambino. Qui ci sono momenti in cui la realtà si sposta di lato e mi lascia libero. Esco dal tempo dei giorni per entrare nel tempo mitico tentando la rigenerazione delle cose. Sento in me una linfa nuova, una vita in esplosione accarezza le antiche presenze consumate. Non succede niente, apparentemente. Però, nel cuore delle cose, gli atomi corrosi si mettono in movimento. Assaporo il respiro dei luoghi che aspettano un incontro, spalancati al sole o nascosti nel verde, accompagnati dal suono delle acque, luoghi che offrono a piene mani una timida ricchezza. Dovrò avere lo sguardo come un raggio che vola verso il bersaglio perché è il modo giusto di guardare mentre sosto in questi luoghi privilegiati. Così posso fissare cose come carri che si mossero, oggetti che servirono, attrezzi che operarono, stie che ospitarono. Tutto ora qui è dormiente, forse lo sarà per sempre, ma rimane il lievito di recuperare memorie e costruire racconti. Non ha campanile la chiesetta del Malòn, non c’è niente che suoni né di giorno né di notte se non la filastrocca antica. Din don, din don. La cantilena mi suona dentro i lontani rifugi del cuore.
Sono salito alla Selva, conosco bene la chiesetta, potevo anche andare a memoria per descriverla. Ma i ricordi a volte ingannano la realtà e così ho scelto il contatto diretto come un pellegrino. Il proprietario del fondo, custode della chiesetta, sta riparando una scala a pioli sul banchetto di legno sotto il portico dell’ex convento. Un saluto, poche parole e mi consegna con fiducia le chiavi. La chiesetta dista pochi passi, il vento stira come un velo di tulle le poche nuvole in cielo. Lungo il basso muro che protegge dal pendio, c’è un rosaio, poi un rosmarino, la rosa del mare, un bordo di giacinti attende il sole caldo per fiorire. Un grande ciliegio fa da guardiano a questo posto carico di misticismo. I passi non fanno rumore sul sagrato d’erba. Verso il paese scende uno scosceso sentiero con quinte di siepi e alberi, sullo sfondo si apre lo scenario di Villa Valmarana, un gregge di case, la collina della Rocca. Sotto il ciliegio è adagiato un antico pilastro di pietra a riquadri che pare una panca con i posti segnati. La chiesetta si proietta sul ripidissimo pendio poggiata su una costruzione a contrafforti che serve da cantina raggiungibile con un breve viottolo tagliato sul monte. La pianta del tempietto è quadrata e si articola, verso mattina, con una minuscola appendice che funge da sagrestia. Due finestre si aprono sull’alba e sul tramonto, verso oriente guarda il piccolo oculo della sagrestia. L’arco di pietra che contorna la porta d’ingresso ha il concio della chiave di volta scolpito con lo stemma del casato dei Morsoletto. Nel cartiglio dello stemma una mano afferra un morso di cavallo. Nella parte inferiore chiude lo stemma un visino d’angelo sorridente. La data, scolpita sull’arco in caratteri romani, riporta al MDCXVI. Lo storico Gaetano Maccà (1740-1824) titola la chiesetta alla Madonna Ausiliatrice annotando che “ avanti era dei Valmarana”.
Sono accesi i soffioni del tarassaco sul prato davanti alla chiesuola, ne ho posti due sulla porta. Ho la tentazione bambina di soffiare. Lo farà il vento disperdendone gli stili delicati.
A primavera, Madre Natura, con la sua generosità estenuante, ingemmerà ancora di botton d’oro il prato. Spalanco i battenti della porta, prima di me entra il sole sbiancando di luce ogni cosa. L’altare è in marmi policromi incastonati dentro profili di pietra e intonaco. Un frontone, come di tempio greco, incornicia un arco che ha al sommo una piccola testa d’angelo ricciuto. Al centro dell’arco, entro una teca, la statua di una Madonna incoronata con Gesù bambino in braccio che stringe un libro nella mano sinistra. Sul lato destro dell’altare, è posato su un capitello di tavole, un Cristo crocefisso ligneo. Senza la croce, solo il corpo allungato con le braccia tese in alto, appena aperte verso il cielo che è la sua casa. Questo Cristo crocefisso conterà più di seicento anni e proviene dall’Agordino. Per molti anni, appeso a un albero, ha protetto l’orto di una casa a Montecchio Maggiore, proprietà di un emigrato bellunese. Lì era rimasto quando il padrone aveva lasciato la casa e lì era stato dimenticato, riverso nel terreno. Il nuovo abitante della casa trova nell’orto quello che sembra solo un ramo caduto da bruciare nel camino. Una specie d’istinto, sollecitato da un altrove misterioso, lo induce a ripulire il pezzo di legno che con meraviglia si rivela un intatto Cristo crocefisso con tutta la sua sofferenza addosso. Niente avviene per caso. Il nuovo abitante è fratello del custode della chiesetta. Il crocefisso, come rinnovando la Via Crucis, è portato dall’orto di Montecchio, fino al nuovo Golgota della collina alla Selva. Adesso, nella piccola chiesa i fedeli si inginocchiano ricordando il sacrificio del ragazzo di Galilea, e soffrono per tutto quel dolore rallegrandosi della resurrezione avvenuta in un lampo di luce e di calore che ancora ci avvolge. Guardo il crocefisso e non mi domando se ha qualità artistiche, però capisco subito che conquista lo spirito. Ed è questa la sua non misurabile qualità soggiacente. Scostando una tenda rossa entro nella minuscola sagrestia. Un cassettone contiene paramenti sacri, tovaglie d’altare ricamate, un messale di cuoio rosso con borchie datato 1877, scritto in latino. Sopra il cassettone ci sono due candelabri, la foto di papa Giovanni, una stampa di San Francesco. Tutto nel silenzio di una luce che continuamente varia. Da una scatola di cartone telato scuro, tolgo la patena dorata e la poso sul piano del cassettone. Poi sfilo il calice d’ottone argentato. L’interno riluce d’oro. Alzo il calice per vederlo meglio senza quasi accorgermi del gesto sacro che sto compiendo. Lo alzo verso la finestrella rotonda che si apre sul timpano della piccola sagrestia. Per un attimo il foro invaso dal sole pare un’ostia di luce appoggiata sul bordo del calice: un’ostia divisa dalla croce dell’inferriata. Una sorta d’improvvisa ierofania. Qui mi sento allineato con il tempo immobile e mi rendo conto di non poterne disporre ma di avere l’avventura di viverlo istante per istante. Ed entro nella pace. L’interno è di una semplicità disarmante, ma anche all’esterno non c’è ricchezza d’architettura, sarebbe inutile. C’è un esaurirsi nobile di linee e di volumi sul sagrato d’erba. Sto bene mentre giro attorno a questi muri che hanno subito gli anni in modo diverso secondo il loro affacciarsi al sole. Richiudo la porta, esce anche il sole, il luogo riprende la sua quiete. Il custode mi ha raggiunto e si tocca con la mano destra il berretto in segno di devozione. Sul tetto la croce di ferro si disegna contro il cielo. La banderuola è bloccata verso sera intanto che il vento soffia da mattina. Tornerò quando fioriranno i narcisi sotto il muro occidentale.
Beata Vergine delle Grazie
Din don Din don Le campane del Malòn che le sòna dì e note e le bate so’ le porte ma le porte xe de fero Volta la carta ghe xe on …
Di Giorgio Costantino Rigotto da Storie Vicentine n. 4 Settembre-Ottobre 2021
Dallo sport alla storia personale, la campionessa di pallavolo Maurizia Cacciatori, racconta la sua vita nel libro autobiografico “Senza rete”, edito da Roi Edizioni nel 2018. Il libro fa parte di una collana a cura dell’ex calciatore Demetrio Albertini ed è stato presentato l’8 febbraio anche a Vicenza., dove, tra i suoi pochi insuccessi, nella stagione 2000-2001 perse una Coppa Cev (l’equivalente, per capirci, della Europa League del Calcio) e nella stagione 2001-2002 una Supercoppa Italiana (riservata alle squadre vincitrici della Champions, della Cev e della Coppa Italia), sempre contro la squadra di Vicenza allora gestita dal nostro direttore.
La carriera
La Cacciatori è un’ex pallavolista, opinionista televisiva per Sky Sport per la pallavolo femminile. Compie 50 anni proprio quest’anno, il 6 aprile. È una campionessa italiana, che in carriera ha conquistato 5 scudetti, 5 Coppe nazionali, 3 Coppe Campioni, 1 Coppa Cev, 3 Supercoppe italiane. Inoltre, è stata capitana della Nazionale dove ha totalizzato 228 presenze, vincendo un oro ai Giochi del Mediterraneo (2001), un bronzo e un argento agli Europei del 1999 e del 2001. Al Campionato mondiale di pallavolo femminile 1998 in Giappone, dove l’Italia raggiunse il quinto posto, venne eletta miglior palleggiatrice della manifestazione. Ora la Cacciatori è speaker aziendale e commentatrice tv.
La copertina del libro di Maurizia Cacciatori
Il libro
“Ora che la guardo, la mia vita è stata di sicuro intensa, complicata, meravigliosa, struggente, caotica, ricca di colpi di scena e di buone lezioni. Una storia che, nel bene e nel male, ho scritto sempre liberamente. Una storia che vale la pena di raccontare” riassume la Cacciatori nel risvolto di copertina. Si tratta di una storia di vita straordinaria, di valore e di sport, in cui vengono raccontate emozioni e strategie per vincere.
“Ho sempre pensato che la vita sia una miscela tra episodi che accadono e decisioni che con coraggio decidi di affrontare”- esordisce. La campionessa è sempre stata spinta da un forte desiderio di libertà e da una forza incrollabile. Uscita di casa a sedici anni per inseguire la passione della pallavolo e liberarsi da regole troppo strette, ha collezionato titoli nazionali e internazionali, fino alla nomina come migliore palleggiatrice al mondo, una serie di avventure con le compagne di squadra e ben ventidue traslochi in giro per il mondo. Con lo stesso spirito ha affrontato i momenti meno felici come, ad esempio, l’esclusione dalla Nazionale.
La sportiva negli anni 2000. Foto: fonte wikipedia
La vita privata
Nel 2004 fuggì dall’altare, a una settimana dal matrimonio, dopo un lungo fidanzamento con l’ex cestista italiano Gianmarco Pozzecco. Nel 2011 è diventata mamma di Carlos Maria, avuto dal compagno Francesco Orsini. Il 31 marzo 2012 ha avuto la figlia Ines. Maurizia ha dedicato il libro ai suoi 2 figli.
La nuova vita
Ora si è costruita una carriera completamente nuova. Fa l’opinionista televisiva per Sky Sport. Senza rete è il racconto emozionante, coinvolgente e a tratti comico di una donna che ha imparato l’arte di reinventarsi per ricominciare. Colpisce quando, a un certo punto del libro afferma che “il palleggiatore è un essere umano solitario. E’ una specie di roccaforte dentro alla quale i compagni cercano rifugio”. Oppure quando racconta le sensazioni che provava ad essere famosa. “Essere popolari è come guidare una Lamborghini a tutta velocità, a finestrini abbassati. Ti godi quegli istanti di ebbrezza […] con le ruote che schizzano sull’asfalto”. La sportiva afferma di aver sempre cercato di fare un uso intelligente della sua fama, con risultati non sempre ottimali.
Maurizia alla Sirio Perugia nel 1992. Foto: wikipedia
Quando lo sport fa rima con solidarietà. È stato sottoscritto nei giorni scorsi (il 24 febbraio) un nuovo accordo di collaborazione tra Fondazione San Bortolo di Vicenza e gli organizzatori de “La Via dei Berici – Ride in Vicenza”, alla presenza di Franco Scanagatta e Sandro Belluscio, rispettivamente presidente e vicepresidente della Fondazione San Bortolo e Andrea Cazzola, Angelo Furlan, Filippo Pozzato in rappresentanza del comitato organizzatore della manifestazione.
Una parte dei proventi delle quote di iscrizione alle gare e agli eventi dell’edizione 2023 de “La Via dei Berici – Ride in Vicenza” sarà devoluta in beneficenza alla Fondazione San Bortolo Onlus di Vicenza.
L’evento, le cui iscrizioni sono aperte al link https://laviadeiberici.com/ si svolgerà dal 29 settembre al 1°ottobre 2023, e ha già il supporto dell’Amministrazione comunale di Vicenza. Ricca di eventi, la manifestazione unirà sport, passione per le due ruote, turismo e mobilità sostenibile, oltre, ovviamente alla solidarietà.
«Siamo onorati di essere tra i sostenitori e di poter continuare la storica collaborazione tra La Via dei Berici e la Fondazione San Bortolo, che attraverso il proprio impegno ed operato svolge funzioni di importanza vitale in maniera continuativa» ha dichiarato Angelo Furlan, project manager “La Via dei Berici”.
«Il ricordo delle edizioni della Via dei Berici mi riporta ai tempi del mio ingresso in Fondazione in affiancamento all’intensa ed entusiasta partecipazione di Giancarlo Ferretto, anche lui protagonista nella ricerca di sostenitori per confezionare il pacco gara. In poco tempo era diventata un riferimento importante di connubio tra sport e solidarietà. – ha affermato Franco Scanagatta, Presidente Fondazione San Bortolo – Ritrovare oggi lo stesso entusiasmo in un gruppo di organizzatori disponibili a mettere a disposizione esperienza e professionalità, e ad annoverare la Fondazione come importante riferimento benefico, ci riempie di orgoglio e ci aiuta a continuare nella missione di supporto agli ospedali del nostro territorio».
A guidare la macchina organizzativa, oltre ad Angelo Furlan ci sono Filippo Pozzato (PP Sport Events) come organizzazione; Andrea Cazzola e Federico Casalini, Moreno Mora (ASD Cortina Experience) come partners tecnici e Nicolò Muraro (Meneghini & Associati Sport Division) per la comunicazione dell’evento.
“Arte culi ‘n aria“ è il titolo di una serie di.. articuli così come li ha scritti (l’ultima pubblicazione di quello che ripubblichiamo oggi è del 2 novembre 2019, ndr) Umberto Riva per te che nel piacere della tavola, vedi qualcosa di più: gli articoli sono raccolti insieme alla “biografia” tutta particolare del “maestro” vicentino Umberto Riva nel libro “Arte culi ‘n aria”, le cui ultime copie sono acquistabili anche comodamente nel nostro shop di e-commerce o su Amazon31
“El nono Toni disea, ‘l formaio xe bon se ‘l camina da solo”.
Quando lavorava al Monte di Pietà, era impiegato, partiva da casa, anche se non era lontana, con la “teceta de fero smaltà col covercio e ‘l magnare par mesogiorno”. Quando capitava il formaggio, il che era quasi normale, era felice soprattutto se “xera formaio verde”. Il gorgonzola era accompagnato, nel contenitore, da fette di polenta, importanti perché sarebbero divenute strumenti di guerra.
Il formaggio verde allo stato di immobilità era per se stesso puzzolente, se poi si pensa che il nonno metteva la “teceta de fero smaltà col covercio” sulla finestra verso la Piazza dei Signori, al sole, l’immobilità del formaggio diveniva frenetico movimento e la puzza rasentava una conclamata insopportabilità.
Con l’apertura “de ‘a teceta de fero smaltà” si apriva la caccia ai “bai”. Ecco l’arma! le fette di polenta.
Le gioie erano due, la caccia ed il sapore.
A voce degli intenditori, il formaggio così é buono anche se ad essere più buoni sono i “bai”. Potrebbe essere un esibizionismo, oppure una cineseria, ma, forse é proprio così come dicono “quei che se ne intende”.
“El formaio coi bai” fece parte di un mondo che ancora é presente e non solo come ricordo. “El sior Bortolo, el mario de ‘a siora Vitoria” la pensava proprio così, ma il signor Bortolo é morto da tempo, ma “Nani strase deto anca verniseta” perché lucida mobili antichi “el mario de la Sandra frutarola”, é qui e dice:
“el formaio xe bon se el camina da solo”
in barba alle normative europee.
C’era poi “’l vezena vecio, queo co ‘a lagrima”.
Non ricordo fosse formaggio “pal nono Toni”, ricordo che ne parlava. “El non Toni xe morto che mi gnanca ‘ndavo a scola”.
Veniva servito assieme alla verdura fresca e irrinunciabilmente, “co ‘a poenta brustoà”.
Non poteva essere una semplice “poenta brustoà”, era una “poenta brustoà” speciale.
Normalmente il piano prescelto per il brustolamento, era quello della “stua” (cucina economica). Doveva essere caldissimo, estremamente caldo. La polenta abbrustoliva senza attaccare. Quando la buttavi sulla piasta di ghisa “de ‘a stua” subito la “sfritegava”, poi si gonfiava come un crostolo. Sulla polenta restavano i segni scuri dei cerchi della cucina economica, ma questo era bello da vedere, non era importante per il sapore, era la cornice di un bel quadro.