venerdì, Luglio 25, 2025
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Monteviale, la Chiesa di Santa Maria Assunta sorge nei pressi di un antico castello

Appena si arriva a Monteviale, non si può fare a meno di notare la bellissima chiesa parrocchiale di Santa Maria Assunta (Chiesa dell’Assunta) in stile romanico. Sorta nei pressi di un antico castello eretto nel X secolo a difesa degli Ungari, la chiesa fu distrutta nel 1246 dalle truppe di Ezzelino da Romano. Fu poi ricostruita nel 1303 e ancora oggi si può ammirare la sua antica bellezza. Sempre nei pressi di Monteviale si trova anche la chiesa di Santa Maria delle Grazie.

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La facciata della chiesa dell’Assunta. Foto: Marta Cardini

La storia della chiesetta

La storia della chiesa è legata infatti all’antico castello. Citato per la prima volta in un diploma imperiale di Ottone IV datato 1210, sembra che la sua fondazione risalga a molti anni prima, essendo esistente già al tempo delle invasioni ungariche (dei primi del 1200). Centro importante nella lotta tra la Lega dei Comuni e l’imperatore Federico II, la fortificazione è stata completamente rasa al suolo da Tebaldo Francigena nel 1240, e non venne più edificata. Sulle sue fondamenta verrà innalzata la chiesa di Santa Maria Assunta.

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L’altare della Madonna. Foto: Marta Cardini

Nel 1513 venne colpita dallo scontro tra le truppe imperiali e l’esercito di Venezia, subendo gravi perdite. La storia successiva non evidenzia avvenimenti di rilievo, seguendo quella del resto della regione. Il suo patrimonio storico-architettonico non si mostra particolarmente ricco. La chiesa di Santa Maria è ricordata nei testi sin dal XII secolo. Ricostruita nel secolo seguente, viene consacrata nel 1562 dal vescovo Matteo Priuli.

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L’interno della chiesa. Foto: Marta Cardini

La costruzione odierna è frutto di un ulteriore rifacimento avvenuto nel 1927. La chiesa attuale fu consacrata il 27 gennaio 1928. L’interno della chiesa, luminoso e a tre navate, lascia molto spazio alla spiritualità. Dal retro della chiesa è possibile ammirare il panorama vedendo quasi tutta la città di Vicenza.

 

“L’Oreste. Quando i morti uccidono i vivi” per la prosa al Ridotto del Tcvi

Con “L’Oreste. Quando i morti uccidono i vivi”, in programma giovedì 16 febbraio 2023 alle 20.45, riprende la Prosa al Ridotto del Teatro Comunale di Vicenza.

Un nuovo originale appuntamento in cui teatro e fumetto animato interagiscono in modo sorprendente, per dare vita ad un lavoro di rara intensità. Protagonista Claudio Casadio che proprio per questa interpretazione ha vinto il Premio Nazionale Enriquez come Migliore Attore di Prosa Classica e Contemporanea; la notizia del Premio è giunta qualche settimana fa, mentre la cerimonia di premiazione avverrà in estate.

L’Oreste. Quando i morti uccidono i vivi” – testo di Francesco Niccolini, regia di Giuseppe Marini, costumi di Helga Williams, musiche originali di Paolo Coletta, light design di Michele Lavanga – racconta una storia di emarginazione in una dimensione immersiva da visual art, una sorta di graphic novel da palcoscenico, grazie alle illustrazioni animate; è uno spettacolo molto emozionante per i temi trattati e per il modo poetico e inaspettato in cui riesce a trasmetterli allo spettatore; il protagonista, l’Oreste, vive internato in un manicomio, ma nonostante tutto e tutti è sempre allegro, canta, disegna, non dorme mai, le prove durissime della vita non hanno scalfito la sua ironia.

Lo spettacolo, co-prodotto da Accademia Perduta/Romagna Teatri e Società per Attori in collaborazione con Lucca Comics&Games, arriva a Vicenza dopo una prima stagione nei teatri italiani di grandi successo; in scena c‘è un solo attore, ma non si tratta di un monologo. Grazie alla mano di Andrea Bruno, uno dei migliori illustratori italiani, ciò che attende lo spettatore è ben altro: l’interazione continua tra teatro e fumetto, animato da Imaginarium Creative Studio, con le musiche originali firmate da Paolo Coletta.

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L’Oreste (foto: Tommaso Le Pera)

“L’Oreste. Quando i morti uccidono i vivi” è una riflessione sull’abbandono e sull’amore negato. Su come la vita spesso non faccia sconti e sia impietosa. E su come, a volte, sia più difficile andare da Imola a Lucca che da Imola sulla Luna. Uno spettacolo originalissimo, di struggente poesia e forza, in cui fluiscono momenti drammatici e altri teneramente comici. Con un’animazione grafica di straordinaria potenza, visiva e drammaturgica, Claudio Casadio dà vita e voce a un personaggio indimenticabile, affrontando con grande sensibilità attoriale il tema importante e delicato della malattia mentale. Dallo spettacolo è stato realizzato un libro che ne raccoglie testi e illustrazioni, pubblicato da Poliniani Editore.

Oreste vive internato nel manicomio dell’Osservanza a Imola. È stato abbandonato quando era bambino, e da un orfanotrofio a un riformatorio, da un lavoretto a un oltraggio a un pubblico ufficiale, è finito lì dentro perché, semplicemente, in Italia, un tempo andava così. Dopo trent’anni non è ancora uscito: si è specializzato a trovarsi sempre nel posto sbagliato nel momento peggiore. Eppure, l’Oreste è sempre contento, scrive alla sua fidanzata, parla sempre. Parla con i dottori, con gli infermieri, con un’altra sorella che di tanto in tanto viene a trovarlo, ma soprattutto parla con l’Ermes, il suo compagno di stanza, che però non esiste. Nella sua stanza, Oreste riceve costantemente visita dai suoi fantasmi, dalle visioni dei mondi disperati che coltiva dentro di sé, oltre che da medici e infermieri. I sogni dell’Oreste, i suoi incubi, i suoi desideri e gli errori di una vita tutta sbagliata trasformano la scenografia e il teatro drammatico classico in un caleidoscopio di presenze che solo le tecniche del graphic novel theater rendono realizzabile: un impossibile viaggio tra Imola e la Luna attraverso la tenerezza disperata di un uomo abbandonato da bambino e che non si è più ritrovato.

Nel lavoro “un esempio di teatro civile che tocca il dramma della malattia mentale, vince la parola come liberazione, il segno grafico come strumento cognitivo che interagisce con il personaggio interpretato da uno stupefacente Casadio. Straordinario attore, ironico, struggente, malinconico, poetico, commovente” per citare le motivazioni del Premio Enriquez al suo protagonista.

Claudio Casadio

nato a Ravenna, è attore teatrale e cinematografico. Fondatore con Ruggero Sintoni, nel 1982, e direttore del Centro di Produzione Accademia Perduta/Romagna Teatri. 

40 anni di teatro con una media di 100 spettacoli l’anno, dedicati principalmente al teatro per ragazzi, poche significative esperienze nel cinema con registi importanti come Giorgio Diritti (L’uomo che verrà – 2009) e MarcoTullio Giordana (Romanzo di una strage – 2012) ed un’azzeccata produzione di spettacoli di prosa con l’Accademia Perduta Romagna Teatri, può essere, in estrema sintesi, la sua carriera. 

“L’Oreste” è stato scritto appositamente per lui da Francesco Niccolini, così come Massimo Carlotto ha fatto con “Oscura immensità” e “Il mondo non mi deve nulla”, pièces che esaltano le qualità attoriali di Casadio e che egli affronta con forti richiami alla sua terra d’origine: “mi piace l’idea di un teatro contemporaneo con accenti romagnoli in chiave poetica”.

Gianluca Di Marzio presenta “Grand Hotel Calciomercato” a Palazzo Chiericati di Vicenza

Gianluca Di Marzio, esperto giornalista di calciomercato presenta “Grand Hotel Calciomercato”, giovedì 16 febbraio alle 18 e 30 a Palazzo Chiericati di Vicenza.

La presentazione avviene a cura di BaldiLibri e nell’ambito della rassegna di letteratura sportiva dal titolo “Lo sport si racconta“, realizzata grazie ad Anthea S.p.A.

Un impressionante e sorprendente concentrato di retroscena, segreti, aneddoti e strategie del mercato più pazzo del mondo. Soldi, promesse rispettate e patti non mantenuti, trasferimenti che diventano affari di Stato e coinvolgono banche nazionali e presidenti del Consiglio ma anche calciatori che “no” perché consigliati da… Dio!

Gianluca Di Marzio
Gianluca Di Marzio

Trattative concluse a Ibiza davanti a un cocktail fresco e sopra un dondolo oppure quelle definite proprio all’ultimo secondo, addirittura oltre il gong finale: una su tutte, forse la più importante del nostro calcio, Maradona al Napoli.

Anche Leo Messi a un passo dal Chelsea di Mourinho è un segreto, analizzato nel dettaglio e raccontato fino in fondo, una storia d’amore andata in fumo proprio sul più bello. Il filo che lega tra loro i tantissimi retroscena di questa realtà parallela è leggero e divertente, proprio come le innumerevoli scaramanzie di chi vive il mercato in prima linea, sborsando milioni su milioni pur di prendere un calciatore: i presidenti.

Il calciomercato è amato perché è un mercato di sogni, di speranze e di magie. Ventitré capitoli: tantissimi racconti, storie, retroscena, aneddoti sul calciomercato dagli anni ’80 in avanti, indiscrezioni che vedono protagonisti i giocatori, i presidenti e i procuratori sportivi. I segreti vengono raccontati e resi pubblici nei minimi dettagli, tanto che il lettore rimane incredulo davanti ad alcuni retroscena, chiedendosi come sia possibile che l’autore del libro sappia certe cose.

Antonio Stefani dialoga con l’autore. Prenotazione obbligatoria a: [email protected] oppure sms o whatsapp al numero 3383946998.

Machine de Cirque al Teatro Comunale di Vicenza: torna lo spettacolo del collettivo canadese

Tornano per il secondo anno consecutivo al Teatro Comunale di Vicenza i Machine de Cirque, i funambolici artisti canadesi famosi in tutto il mondo per le loro raffinate creazioni di circo contemporaneo, con il nuovo show dedicato al mondo dell’arte, pittura e fotografia in particolare, intitolato “La Galerie”, in programma mercoledì 15 febbraio alle 20.45 in Sala Maggiore.

Il Teatro Comunale di Vicenza propone anche nella nuova stagione la sezione circo contemporaneo con 4 spettacoli in abbonamento che ben rappresentano le diverse ispirazioni e matrici culturali di un genere artistico che il Comunale ha sempre coltivato con passione e attenzione, inserendolo stabilmente nella sua programmazione già da 5 anni.

Si va dall’elegante eclettismo della compagnia canadese riconosciuta per l’originalità dei suoi lavori, con lo spettacolo del 15 febbraio, ad esperienze circensi più intime, programmate la domenica pomeriggio e particolarmente adatte ad un pubblico familiare: il varietà surreale dei Madame Rebinè (5 marzo), la vena poetica e intimista del Circo Zoè (2 aprile), il fascino senza tempo delle piccole cose del “mago delle bolle” Michele Cafaggi (16 aprile), Premio Nazionale Franco Enriquez proprio per questo spettacolo. Per gli appassionati gli abbonamenti sono ancora in vendita fino alla data del primo spettacolo.

Machine de Cirque
Machine de Cirque

“La Galerie” è uno spettacolo di grande freschezza – regista e autore è Olivier Lépine, musica di Marie-Hélène Blay, scene di Julie Lévesque, luci di Bruno Matte, costumi di Émilie Potvinche si interroga sulla dicotomia tra arte e non arte, attraverso l’esibizione di sette artisti circensi di fama internazionale ed una polistrumentista. L’ambientazione iniziale e raffinata da vernissage, cede il posto ad una mise en scène colorata e irriverente, in cui gli abiti scuri si tingono di sfumature di colore e i flûte di champagne vengono sostituiti da pennelli per dipingere. Lo spettatore assiste così ad una vera trasfigurazione sulla scena, in cui una pennellata di bascula, un acquerello alla barra russa, un collage di giocoleria coreografica sono solo alcuni dei momenti spettacolari della creazione. Il confine tra ciò che è arte e ciò che non lo è, svanisce gradualmente, lasciando lo spettatore interdetto ma soprattutto stordito dalla fantasmagoria della proposta in cui si fondono umorismo e poesia.

La Compagnia Machine de Cirque ha la sua sede nel Québec, in quel fertile laboratorio artistico che ha visto nascere realtà come il Cirque du Soleil e altre formazioni di nouveau cirque, grazie alla politica di sostegno che il governo canadese ha posto in essere nei confronti di questo genere artistico. Il Canada da tempo rappresenta l’eccellenza del circo contemporaneo ed ospita una delle più importanti scuole di circo a livello mondiale, l’École Nationale de Cirque (ENC).

I Machine de Cirque si contraddistinguono per l’alto tasso d’ingegno, la musica dal vivo e le performances teatrali; la “mission” del gruppo è quella di riunire varie tipologie di artisti e, utilizzando anche le nuove tecnologie, presentare spettacoli di circo contemporaneo vocati all’eccellenza, sviluppando potenzialità creative e artistiche di ogni singolo componente.

Gli artisti dei Machine de Cirque in scena al Teatro Comunale di Vicenza, saranno: Adam Strom, Antoine Morin, Connor Houlihan, Gaël Della-Valle,  Lyne Goulet, Pauline Bonanni, David Trappes & Marie-Michèle Pharand.

Machine de Cirque è stata fondata nel 2013 a Québec City, in Canada, da Vincent Dubé – artista con una laurea ingegnere civile – direttore artistico della compagnia, con gli artisti circensi Raphael Dubé, Yohann Trepanier, Ugo Dario e Maxim Laurin e con il polistrumentista Frédéric Lebrasseur. 

“Machine de Cirque Show”, passato l’anno scorso al Teatro Comunale di Vicenza, è il primo spettacolo del gruppo (2015), che riscuote da subito un enorme successo di pubblico e di critica. “Truck Stop: The Great Journey” (2018), “La Galerie” (2019) e “Ghost Light: Between Fall and Flight” (2020) sono i titoli degli altri; l’ultimo ha debuttato al prestigioso Festival du Cirque Actuel CIRCA ad Auch (France). 

Viaggio tra i sapori e i colori della Sicilia con Franco… restando a Vicenza

E’ possibile fare un bel viaggio tra i sapori e i colori della Sicilia andando a trovare Franco a Monteviale, nel suo negozio di ortofrutta in via dei Tiepolo. Appena si giunge a destinazione si sente già il profumo e si intravvedono i colori della Sicilia, con i suoi agrumi. Si tratta di una piccola esperienza multisensoriale.

agrumi
Gli agrumi sono profumati e coloratissimi. Foto: Marta Cardini

Franco, il titolare del negozio, è originario dalla provincia di Agrigento e si trova a Vicenza da 24 anni. “Molti anni fa un amico – racconta-, mio conterraneo che viveva ad Arzignano, mi ha chiesto di venire a trovarlo. Così sono salito col mio furgone carico di frutta e verdura dalla Sicilia e ho iniziato a fare l’ambulante a Montecchio Maggiore. Poi sono stato anche a Valdagno, a Castelfranco Veneto, a Rovereto e infine a Vicenza. Qui mi sono trovato bene e ho aperto il negozio“. Franco ha tanti fornitori dal Sud Italia che gli portano agrumi, olio, frutta secca, prodotto ittici confezionati, caciotte e altri tipi di formaggi, verdura e anche le famose cipolle di Tropea. Mentre i cannoli siciliani vengono prodotti dalla moglie di Franco freschi di giornata.

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Franco porta l’ortofrutta anche a domicilio.

A far da sfondo a tutti i prodotti c’è un bel quadro fotografico che ritrae la spiaggia di Taormina e il vulcano Etna innevato. Il blu intenso del mare è magnetico e dà l’impressione di trovarsi proprio lì… Anche all’esterno c’è un quadro con dipinti degli agrumi coloratissimi.

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Il quadro con gli agrumi. Foto: Marta Cardini

La ricetta dei cannoli siciliani

I deliziosi cannoli, che Franco specifica essere prodotti da sua moglie con amore, mettono l’acquolina in bocca. Non conosciamo la ricetta esatta della moglie di Franco, ma abbiamo trovato qualcosa su internet. Dal sito di Giallo Zafferano troviamo: “Come tutte le ricette regionali, anche per i cannoli siciliani esistono segreti e versioni che cambiano da città a città o da famiglia a famiglia: c’è chi sceglie di aggiungere cacao e Marsala all’impasto, proprio come abbiamo fatto noi. Altri invece usano aromatizzare la base anche con caffè o cannella! La crema di ricotta, invece, viene quasi sempre arricchita con pezzi di cioccolato e i cannoli finiti sono spesso guarniti con granella di pistacchi, scaglie di cioccolato o frutta candita… insomma c’è solo l’imbarazzo della scelta su come deciderete di gustarli! Ma la regola fondamentale è una: i cannoli vanno riempiti all’ultimo per godere di tutta la loro croccantezza“.

cannoli
I cannoli siciliani fatti dalla moglie di Franco

 

Cantina Ongaresca a Costabissara: un nome, un destino

cantina ongarescaNomen omen, una cantina che sorge ai piedi della boscosa collina Ongaresca, un nome che ha intrecciato un destino tra cavalli, vini e l’amore per le cose buone. Nel 1995 Sergio Traverso, già imprenditore tessile, e Lorenzo Sinico acquistano un fondo a via San Zeno a Costabissara dove iniziò l’avventura dapprima con l’allevamento di cavalli Quarter Horse, per poi allargarla con maneggio, e nel 2010 includere la produzione di vino perché “chi ha sensibilità per gli animali non può non averla anche per il vino”.

“La passione ci ha portati ad esplorare questo mondo e a cimentarci nel creare questi prodotti oggi riconosciuti come prodotti di qualità e raffinatezza – racconta Sergio Traverso -. Le vigne le abbiamo trovate ma è stato un duro lavoro di ripristino e ricondizionamento dei vigneti che ha permesso di arrivare dove siamo oggi”.

Etichette studiate per vini

Le etichette portano la firma di Sandro Scevaroli, artista che ha ideato e realizzato tante piccole opere d’arte, una per ogni tipologia di vino. “Ogni vino regala sensazioni uniche e diverse, ecco che anche l’etichetta deve esprimere e trasportare l’unicità dei vini che rappresenta – spiega Sergio Traverso -. Create con colori che rappresentano la metamorfosi della natura, virano dalle tonalità del rosso e del giallo delle nostre uve, al verde delle foglie dei vigneti con qualche filo d’oro come il sole”.

La gamma dei vini Ongaresca oggi spazia dalle Doc e Igt, come ad esempio il Pinot Nero Igt, il 2015 è stato inserito proprio quest’anno fra i top 100 d’Italia della guida Il Golosario di Paolo Massobrio, alle più nobili bollicine come il Pas Dosè Ongaresca Metodo Classico (70% Chardonnay 30% Pinot Nero, metodo classico 36 mesi) e il Brut Menà Ongaresca Metodo Classico (80% Pinot Nero 20% Chardonnay, affinato in bottiglia su su lieviti per circa 24 mesi).

Il punto di vista di Dario

“Io e Sergio ci conosciamo da molto tempo: c’è sempre stata empatia tra di noi e abbiamo da subito trovato intesa e sinergie per le nostre attività professionali. Siamo poi legati anche dall’amore per il nostro territorio, Costabissara, di cui abbiamo un grande senso di appartenenza.

La storia di Ongaresca è quella di una cantina partita in sordina tanti anni fa e da allora di strada ne ha fatta, ma sempre con l’obiettivo di fare del “buon vino”, rinunciando a grandi produzioni in favore di vini di qualità e personalità. Personalmente ho un debole per il Pas Dosè, ben strutturato, di particolare finezza, con un accenno di crosta di pane e una bella componente minerale”.

Info

Cantina Ongaresca

Via Monte Cimone, 10

36030 Costabissara VI

Tel 366 283 7155

http://www.cantinaongaresca.it/

L’articolo Cantina Ongaresca a Costabissara: un nome, un destino proviene da L’altra Vicenza.

“Arte culi ‘n aria”, la prima delle ricette di Umberto Riva raccolte nel suo libro: ’e verse in tecia ‘e spusa, ma ’e xe tanto bone

Arte culi 'n aria
Arte culi ‘n aria

“Arte culi ‘n aria“ è il titolo di una serie di.. articuli così come li ha scritti (la prima pubblicazione di quello che ripubblichiamo oggi è del 30 giugno 2019, ndr) Umberto Riva per te che nel piacere della tavola, vedi qualcosa di più: gli articoli sono raccolti insieme alla “biografia” tutta particolare del “maestro” vicentino Umberto Riva nel libro “Arte culi ‘n aria”, le cui ultime copie sono acquistabili anche comodamente nel nostro shop di e-commerce o su Amazon)

Prima di “gustarti” la prima ricetta fuori dal normale di Umberto Riva rileggi la Prefazione e il glossario di “arte culi ‘n aria“, una nuova serie di.. articuli così come li ha scritti il “nostro” Umberto per te che nel piacere della tavola, vedi qualcosa di più.

Arte culi ‘n aria: n. 1

Verze, profumo in paradiso.

“’e verse in tecia ‘e spusa”, ma “’e xe tanto bone”.

Che piatto: “verse sofega’ co ‘l coesin”.

Le verze migliori? quelle che “ga ciapa’ ‘a brosema”.

Il tempo delle brinate e’ anche il tempo del maiale, il tempo “de far su ‘l mascio”.

Il menu: Osi de mascio col cren

Costesioe ai feri

Verse sofega’ co ‘l coesin

Poenta fresca e brustola’

Vin fato co ‘a mescola

Cafe fato co ‘l bacheto

Graspa de contrabando

voendo, un toco de putana ge staria ben

Un attentato al fegato.

Ma di qualcosa si deve pur morire, e quanto sarebbe bello morire con le gambe sotto la tavola! (c’e’ un altro tipo di morte auspicato, ma quello e’ scritto in un altro libro).

Quando si “fa su el mascio” a lavoro ultimato si fa festa.

Umberto Riva
Umberto Riva

“’a sena del mascio”. Si consumano gli avanzi della lavorazione e qualcosa in piu’. Le ossa per il primo piatto, e poi le costole con qualche fetta di carne ed un po’ di fegato, il cotechino. Solo un po’ di fegato che buona parte, tagliato a grossi pezzi, viene avvolto nel “radeseo” per completare lo spiedo di uccelli di qualche giorno dopo.

La siora Vittoria gestiva le operazioni. “’a sparagagna” tagliata a meta’ per il lungo, veniva messa sulla griglia, dove, un po’ piu’ tardi, trovavano posto le fette di carne e di fegato.

Profumi paradisiaci.

Si diceva che la siora Vittoria, dalla goduria e dall’estasi, si facesse la pipi’ addosso. Le mutande di certo non se le bagnava e quando si spostava, spesso, il pavimento era bagnato da una “poceta”. Lei diceva fosse sudore.

Le ossa della carcassa e degli arti venivano bollite.

Cren sottaceto, ma, piu’ spesso, grattato al momento in maniera grossolana.

Sale grosso.

C’erano stati tentativi anche con la salsa verde ed addirittura con la “peara’”, ma, da noi, non avevano trovato spazi.

Le ossa venivano servite bollenti ed i nervetti, con dei residui di carne, dovevano essere morbidi e nello stesso tempo consistenti, ma, fondamentalmente, “tacaisi”. Gli ossicini dei piedi dovevano appiccicarsi alle dita, e quella pattina appiccicosa, seccandosi, ti dovevano incrostare le dita. Chi mangiava, meglio ciucciava, le ossa della testa si trovava il boccone della delizia “‘l ocio”.

La festa dell’uva ad Altavilla: un ricordo di 70 anni fa

La festa dell’uva ad Altavilla: un avvenimento di oltre sett’anni fa, non più ripetuto ma ripetibile ancora. Fu ideato dalla maestra Anna Galeotti che riuscì a coinvolgere i ragazzi e le ragazze di allora con un entusiasmo contaminante non dimenticato.

L’uva nei vigneti è fiorita in questi giorni. Nostalgie e ricordi fioriranno qui ancora. Di quelli allora presenti se si fa l’appello adesso, molti sono per sempre assenti, ma nel registro del cuore ci sono ancora tutti.

La maestra convocò un gruppo di ragazzi e ragazze a casa sua, da una compagnia teatrale si era fatto prestare un baule di costumi popolari settecenteschi che furono provati in un’atmosfera di allegria e spensieratezza.

La maestra imbastì una specie di copione, un semplice canovaccio per il giorno dopo. I ragazzi tornarono a casa con il loro fagotto di vestiti: pareva loro di possedere un tesoro di tessuto colorato.

Il giorno dopo, partirono da casa Pranovi e attraversarono lentamente il paese su un carro addobbato con tralci di vite. Era come se un’ultima estate cercasse l’autunno imminente in una giornata di sole amico.

La gente guardava stupita e sorrideva nel pomeriggio domenicale. Qualcuno applaudiva. Altri seguivano il carro in bicicletta. Dalle profondità del tempo si sentiva un canto: “Coronaimus rosibus juvenes dum sumus …” .

I petali di quelle rose, nelle navigazioni del cuore, sono ancora freschi e profumati. Il carro si fermò nel piazzale sterrato della chiesa parrocchiale. I giovani scesero, non sapevano cosa fare. Finirono di mangiare l’uva, poi si frammischiarono alla gente. Vestiti com’erano, parevano dei fiori di “non ti scordar di me” in un prato: macchiavano di giovinezza il sagrato.

Ancora non ci si è scordati di loro. Già pensavano all’anno dopo, alle cose da migliorare, alle cose da aggiungere, a coreografie. Non ci sarebbe stato “anno dopo”. Finì tutto lì. Ma chissà che prima o poi…

In fondo sono passati solo poco più di settanta anni. La nostalgia profuma l’aria. Nessuno dei partecipanti a quella Festa dell’Uva è ancora sceso da quel carro addobbato con tralci. Tutti stanno ancora schiacciando tra i denti acini d’uva dolce.

Dicono che la bellezza salverà il mondo. Non credo, sarà la ritualità a farlo. Modelli di vita e religioni sono incentrati sul rito. L’incanto di quel giorno ritorna alla memoria in questo sabato di giugno. Si possono ancora organizzare giorni d’incanto, si possono ancora fare progetti di allegria. Quella strada c’è ancora. Non come nella foto, ma c’è. Anche tanti di quei ragazzi. Non così, ma ci sono.

Di Giorgio Costantino Rigotto da Storie Vicentine n. 3 Luglio-Agosto 2021


In uscita il prossimo numero di Marzo 2023
distribuito nelle edicole del centro e prima periferia e agli Abbonati
Prezzo di copertina euro 5
Abbonamento 5 numeri euro 20
Over 65  euro 20  (due abbonamenti)

Caino e la morte, che non conosceva prima di colpire Abele

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Quando Caino bastonò Abele, sapeva Caino che Abele sarebbe morto? Conosceva Caino, primo prodotto dell’umana esistenza, cosa fosse la morte non avendo mai visto un morto? Morire era un fattore da Caino ignorato, lasciare il mondo ed iniziare la non esistenza non poteva essere cosa nota in quanto la vita del mondo degli umani, era appena iniziata.
Caro sommo Padre Dante hai creato una parte dell’inferno, la peggior parte dell’inferno sul nome di Caino, quando, sì, il primo antenato uccise il fratello, ma senza aver cognizione del suo agire non conoscendo quale, nel genere umano, fosse l’inevitabile conclusione, fosse questa per legge di natura o per violenza. Massimo Poeta a che allora creare la Caina? Ovviamente è provocazione od ilarità la mia, ma a ben pensarci punto di partenza per una elucubrazione sul tema “moriamo solo perchè siamo nati?“. A che, allora, nasciamo!
Ripeto una provocazione di cui uso, e spesso abuso, rivolgendomi a chicchessia “Tu hai mai chiesto di nascere?” Nessuno può o potrebbe dire di “si” per cui alla risposta si sostituisce una perifrasi secondo la quale si dovrebbe stabilire se si sta bene o male o se si è felici di vivere. Traggo d’imbarazzo, a questo punto, l’interpellato dicendo “sei il risultato dell’altrui divertimento“.

Tra le storie ilari o serie o fatte passare per opera divina di cui siamo a conoscenza, si trova sempre un inizio che, però, non comincia dall’inizio, ma da un certo punto di quella storia che non si scrisse. Allora anche Caino sapeva cosa fosse la morte e che picchiando il fratello l’avrebbe ucciso.

Ma io vorrei diversamente. Vorrei si cominciasse da quando l’umano appena tolto dall’humus si rese conto di vivere, chiedendomi quando quel primo essere si rese conto di vivere, cosa pensò di essere e cosa scelse di fare.

Mi si dirà e mi si chiederà cosa ciò abbia importanza. Il fu è immerso nella notte dei tempi, sepolto e disperso quale sabbia nel deserto col vento del Ghibli. Giusta perplessità, ma io non lascio. Non è che se fossero allora le cose andate diversamente, diverso sarebbe il nostro attuale essere? E’ che allora nacque il bene perchè era nato il male? E’ che senza la morte si sarebbe spenta la fiaccola della vita e che passeggiando potrei incontrare Caino od Abele o qualche altro fratello di allora o fratello di adesso.

Frugandomi nelle tasche trovai dei grani di frumento. Se li pianto, pensai, ne cresceranno delle spighe che mi daranno ancora grani di frumento che potrei piantare ancora e raccogliere spighe, sempre perchè sempre vivono. Questo, a ben guardare non è per l’essere umano, come a dire che una spiga di frumento può essere considerata eterna e l’uomo no.

Amici miei! Lucrezianamente parlando, non credo alla ricomposizione degli atomi, in quanto, in ogni caso, formerebbero qualcosa che niente ha a che fare con l’aggregato precedente. Sto discutendo, meglio mi sto sbrodolando sull’esistenza e sue conseguenze per il gusto di farlo lasciando che le parole trascinino i miei pensieri. Inutilmente pensieri e parole al vento? perchè no! Ogni volta che mi guardo allo specchio vedo la stessa persona dicendomi “quello sono io” ma non posso smettere l’uso dello specchio chè la barba me la devo pur fare. Tra parentesi “vivo, ma mai mi è piaciuto, e mi dò del vigliacco”.

Meno male che ci fu Caino ed anche Abele.

I parenti dall’America: una storia vicenda dagli Anni ’60

I parenti dall’America e “La nona in brodo”. Un racconto tratto da una vicenda famigliare accaduta a Chiuppano negli Anni ’60, tratto dal libro “Ciupàn: the ‘60s & ‘70s”.

MMMM….mama, mama, me vien da vomitare, a go el stomego rabaltà” Giovanin appena ebbe finito di leggere la lettera divenne bianco come una “pessa da lissia”, con i oci sburii si mise una mano sulla bocca e corse in te l’orto a vomitare su par na visela. Nell’orto Giovanin buttò fora anche l’anima, sua mamma arrivò con un sugamano bagnato e una bossa de acqua de milissia, era preoccupata, pensava che la minestra di dado americano avesse fatto male a quel toso malatisso. Per lui le aveva tentate tutte, oio de risino, oio de merlusso, papete de semense de lin, brodeto de galina, parfin aveva comprato un bussolotto de ovomaltina che il fermacista le aveva consigliato. Tutto aveva sortito poco effetto, Giovanin era sempre un stison che non veniva da gnente. Già da toseto Giovanin aveva dato da pensare, aveva pisato in leto fin a tardi e in casa non sapevano più cosa fare. Tentarono con un vecchio rimedio che aveva suggerito una donna quasi centenaria che si ricordava che quand’era giovane per questo problema de visiga debole, le donne cucinavano una morejeta come un uselo in farsora, con salvia, oio e lardo e la davano da mangiare al malcapitato.

Il risultato fu solo che Giovanin al vede
re quella schifezza si era stencà come na sardèla e non c’era stato verso di fargli ingoiare il sorde. Così erano passati gli anni tra carovane, febbri, vermi, mal de molton, tutto quello che c’era da prendere Giovanin lo prendeva, pareva un calamita che attraeva tutte le malattie, tanto che avevano pensato di far voto alla Madonna perché potesse intercedere per la sua salute ed avevano già preparato il vestitin da frate per farlo indossare al giovinetto come si faceva in quegli anni. La famiglia aveva dei parenti in America nello stato di Los Angeles emigrata da qualche decennio all’inizio del novecento  e in quella terra si era fatta con sacrifici e fatiche una tranquilla posizione di una normale famiglia americana. Nel tempo erano tornati anche a trovare i parenti rimasti in patria, portando con l’occasione dei doni che un’Italia mal messa del secondo dopoguerra poco conosceva. Allora arrivavano con dei bolli di cioccolata bella grossa, gomme da masticare al sapore di menta, sigarette con il filtro per gli uomini e specialità rara e preziosa, i dadi da brodo, cubetti di concentrato di carne che insaporivano tranquillamente una pignatta di acqua senza tanto trafficare con carne di pollo, manzo e ossa.

Come per miracolo Giovanin mangiava volentieri quel brodo, un po’ di pastina e di formaggio era diventato una miscela che prendeva volentieri senza tanto farsi supplicare. Questi parenti la prima volta che vennero in Italia vedendo Giovanin che pareva un cadavere presero paura, poi, vedendo che il loro dado aveva sortito un piccolo miracolo nella salute di quel nipote malatisso ne furono contenti ripromettendosi di fornire di tanto in tanto quei cubetti una volta rientrati negli Stati Uniti. Quando arrivava quel pacco postale pieno di francobolli e di timbri era una festa per la famiglia, si sentivano privilegiati per quella roba mericana, aprivano l’involucro con at- tenzione, piano, con una liturgia che richiamava tutta la famiglia. Poi comparivano quei contenitori di latta a scritte colorate che nessuno comprendeva, poi piano aprivano e nella stanza si spandeva quel profumo di spezie e di cioccolato ben distante dall’odore da romatico e di fumo a cui erano abituati. Ormai il dado era diventata la medisina de Giovanin, da centellinare come fosse oro, na puntina de guciaro, un fià de buro e acqua e la minestra era fatta. Chissà cosa che ghe sarà dentro si chiedeva la buona famiglia che in qualche modo si sentiva toccata dalla fortuna.

Ne parlavano quasi a bassa voce come per confidare un segreto. “Xé rivà el paco dala merica, cicolata e dadi” confidava la Lusietta, cioè la mamma de Giovanin, all’amica Mabile mentre andavano in chiesa per la prima messa. “Un giorno a tin faso sercare”, prometteva, ma il tempo passava e la Mabile non ebbe mai la grassia di sajare quela specialità. Questa storia andò avanti per qualche anno, arrivavano pacchi e qualche lettera una miscela di italiano, dialetto e merican in cui non era facile districarsi, fortuna che Giovanin che faceva la quinta elementare era abbastanza bravo a lesare e la cavra non gli aveva magnà i libri come era successo per i suoi fratelli. Sicuramente avrebbe preferito anche lui andare a lavorare i campi piuttosto di stare a scuola, o laorare pico e baile, ma oramai era alla fine dell’anno e bastava tenere un po’ duro. L’ultima volta però era arrivato un pacco un po’ strano, senza scritte ed un po’ più grande del solito, sempre di latta per quello, ma diverso dai soliti, forse i buoni parenti mericani avevano cambiato casolìn disse la Lusietta che non aveva bene in testa cosa poteva essere stato quel cambiamento. La polvere all’interno era un po’ diversa di colore, ma sempre polvere era, e sempre misurate dovevano essere le dosi. Si accorsero in casa che anche il sapore era un po’ diverso che quel brodo sapeva di poco, così aumentarono la dose della polvere che mettevano nell’acqua ed aggiunsero un po’ di sale e una gambetta de selino, così la menestra era accettabile. Scrivere che questa volta il dado non era tanto buono non se la sentivano, sembrava di fare un torto a quei buoni parenti, non si tegnevano in bon, gli pareva di offenderli. Comunque de rife o de rafe la polvere nella scatola calava e Giovanin continuava a mangiare quel brodo anche se ultimamente sapeva da lissiasso.

Un giorno la postina arrivò con una lettera, la solita lettera che ogni tanto arrivava dalla merica, color azzurro con dei bei francobolli con il volto del presidente che in quel tempo era H. S. Truman. La Lusietta che aveva qualche difficoltà con la vista dietro cui si nascondeva una incertezza scolastica mai sanata nel leggere, a maggior ragione con quei termini mezzi mericani, non si fidava certo di avventurarsi tra quelle righe e la mise in un angolo dietro il vetro della vetrina in bella vista ed attese mezzogiorno che tutti fossero a casa, ma soprattutto Giovanin, l’addetto alla lettura. Quando tornò da scuola, e tutti erano già intorno al tavolo per il pranzo, Lusietta aspettò che avessero finito di mangiare poi consegnò con curiosità e quasi trepidazione la lettera al figlio affinché la leggesse a tutti ad alta voce. Si schiarì la voce e cominciò: Cari zermani: Morta la nona, la senare drento la scattola, parché lei brusata con il fogo (cremata). Ela sempre vusudo essàre sepelia nel cemeterio del so paese dove géra nata. Preghemo valtri de provedare col prete a sepulirla. Saluti dala merica dai vostri zermani. Grassie. Giovanin che qualche difficoltà a leggere l’aveva, figuriamoci con quel miscuglio di dialetto, italiano e merican, affrontare quelle righe era difficile come sapare un canpo de sorgo e cominciò ad avere i sudori. Alla difficoltà letteraria si aggiunse la tensione di avere tutta la famiglia intorno che pendeva dalle sue labbra, non voleva far brutta figura, tra incertezze e imbalbamenti, capì benissimo il senso di quelle frasi, mentre gli altri avevano solo capito che era morta la nonna. Si irostò come il musso de Biasieto quando non voleva andare avanti ed esclamò: A ghemo magnà la nona in brodo!! Le facce degli astanti si fecero di sale e Giovanin, impietrito, cominciò a sudare, gocce di sudore grosse come medaglie gli imperlarono il viso come quando andava ad aiutare nei campi. Divenne bianco come una pessa da lissia, si alzò di scatto che sembrava una susta e andò a gomitàre nell’orto su par na visela. Sua mamma gli corse dietro con la bottiglia dell’acqua de milissia continuando a ripetere: “E desso, cossa ghe contemo al prete mariasanta”?

Di Maurizio Boschiero (discendente del celebre architetto vicentino) da Storie Vicentine n. 3 Luglio-Agosto 2021


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