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I Nobili Thiene: breve storia di una illustre famiglia vicentina

I Nobili Thiene. Contrà San Gaetano Thiene. Laterale corso Palladio. Un certo Vincenzo, proveniente da Arsiero che svolgeva l’attività di usuraio fu il primo membro della famiglia che a fine duecento è presente in Thiene.

I figli incrementano il patrimonio di famiglia e nei primi anni del trecento arrivano a Vicenza alleandosi con gli Scaligeri.

Alcuni membri della famiglia ricoprirono cariche importanti come Simone giudice, Uguccione ecclesiastico, Giovanni nominato cavaliere e vice Re d’Abruzzo. Giangaleazzo Visconti favorì i nobili Thiene confermando il loro feudo.

Nel 1387, Iacopo figlio di Clemente nel passaggio dalla signoria Scaligera alla Viscontea ebbe un ruolo importante, nel 1404 con lo zio Giampietro de’ Proti fu protagonista della dedizione della città alla Repubblica Serenissima.

Nel 1439 il Doge Foscari manda a Rovereto 200 soldati vicentini comandati da Clemente di Thiene e poi Giacomo di Thiene capitano della città entra a Rovereto issando sul castello il vessillo della Serenissima.

Nel 1469, l’imperatore Federico III° concesse alla famiglia Thiene il titolo di conti palatini cioè potevano amministrare la giustizia. I Thiene estesero le loro proprietà in tutto il vicentino, sino a Camisano, dove nella frazione di Rampazzo, San Gaetano Thiene fece costruire una cappella.

Ottavio I° Thiene sposa la figlia di Giulio Boiardo, Laura di Scandiano. Nel 1566, il Duca Alfonso d’Este, designa Ottavio Thiene marchese di Scandiano con titolo trasmissibile di primogenitura maschile, il governo di Ottavio II° dura sino al 1623 quando, non essendoci eredi maschi, il feudo ritorna agli Estensi.

I più noti:

Nel 1542 I fratelli Marcantonio e Adriano Thiene affidano ad Andrea Palladio la progettazione di due residenze: Palazzo Thiene in Corso Palladio e la Villa Thiene a Quinto e godendo di molte amicizie riescono ad introdurre Palladio tra i nobili veneziani. San Gaetano Thiene è l’esponente più famoso della famiglia. A lui è dedicato la Chiesa di San Gaetano in Corso Palladio.

Castelli, ville e palazzi

Nella provincia, ma soprattutto a Vicenza, sono diversi i palazzi che a vario titolo i conti si fecero costruire, i più famosi tra i quali sono certamente gli edifici progettati da Andrea Palladio.

Castello Porto Colleoni Thiene (Thiene)

Villa Thiene (Quinto Vicentino) diAndrea Palladio

Barchessa di Villa Thiene (Cicogna di Villafranca Padovana), unica parte realizzata di una villa per Francesco Thiene e i suoi figli Odo- ardo e Teodoro, progettata da Andrea Palladio (circa 1556).

Palazzi di Vicenza

Palazzo Thiene, in contrà Porti 12, per Marcantonio e Adriano Thiene, ristrutturato da Andrea Palladio

Palazzo Thiene (Ludovico), in contrà Porti 8, edificio in stile gotico fiorito del Quattrocento.

Palazzo Thiene Bonin Longare, in piazza Castello, per Francesco Thiene, progettato da Andrea Palladio (1572) ed edificato da Vincenzo Scamozzi

Palazzo Thiene in corso Palladio, edificio tardo gotico di metà Quattrocento.

Di Luciano Parolin da Storie Vicentine n. 5 Novembre-Dicembre 2021


In uscita il prossimo numero di Marzo 2023
distribuito nelle edicole del centro e prima periferia e agli Abbonati
Prezzo di copertina euro 5
Abbonamento 5 numeri euro 20
Over 65 euro 20 (due abbonamenti)

Blank Generation, a Vicenza una mostra fotografica sul Punk di New York

Si potrà visitare a partire dal 31 marzo, alle Gallerie di Palazzo Thiene, la mostra fotografica “Blank Generation – il Punk di New York all’ombra del Palladio”.

La mostra esporrà le fotografie originali di Roberta Bayley e David Godlis, fotografi professionisti newyorkesi, che hanno immortalato molte delle scene underground della New York degli anni ‘70 e ‘80.

Molte di quelle foto furono scattate al CBGB’s, famoso locale sulla Bowery, fondato nel 1973,  e che è considerato senza alcun dubbio il luogo di nascita del punk rock. Ci sono voluti quattro anni, a causa anche delle difficoltà dovute al Covid, per realizzare questa rassegna fotografica di aura internazionale, che fuoriesce dal mero ambito cittadino e provinciale.

La mostra è stata curata e ideata da Andrea Compagnin, vicentino di Montegalda, e fotografo freelance che ha tre passioni: la fotografia, la musica e New York.

La sua nascita in una terra di provincia che, oltre alla noia offriva poco, gli ha permesso di sviluppare idee e sogni, che lo hanno portato fino a New York.

Una sincera amicizia lo lega a Roberta Bayley e a David Godlis. I due fotografi del Punk, molto quotati, si sono anche resi disponibili gratuitamente per vari appuntamenti in città; la Bayley e Godlis saranno infatti presenti in mostra durante il primo fine settimana di apertura, dal 31 marzo al 2 aprile, per dialogare col pubblico, illustrare le fotografie e narrare le esperienze vissute in quegli anni.

Racconteranno sicuramente storie e aneddoti curiosi e interessanti, dal momento che erano amici di molti degli artisti colti dall’obiettivo della loro fotocamera. 

Il titolo della mostra, “Blank Generation”, cioè generazione vuota, è il titolo di una canzone del bad boy Richard Hell ed è un vero e proprio inno generazionale.

Blank Generation non è nichilismo, ma è da intendersi in un’accezione positiva e costruttiva, e se, come afferma la fisica, ogni vuoto sarà riempito, questo vuoto allora rappresenta la vera libertà perché si può riempire con ciò che più ci aggrada. Ecco che allora si può parlare, senza timore, di una vera e propria “Art Punk”.

Si tratta sicuramente di un’esposizione da visitare, non solo per il valore intrinseco delle fotografie, che ricordiamo, sono originali tanto da aver avuto difficoltà alla dogana, ma anche per vedere il rigore rinascimentale di Palazzo Thiene, accostato al disordine artistico della subcultura giovanile, rappresentata dal Punk

Sono opere che sono apparse nelle riviste più importanti e nelle copertine dei dischi dell’epoca e che sono state esposte in città famose come New York, Parigi, Sydney, Tokyo, Londra..

Matteo Bussi ha curato l’allestimento della mostra prevedendo un monolito centrale e una base neutra per creare il movimento e la dinamicità.

In questo modo si potranno apprezzare ancora meglio le foto della Bayley, che ha ritratto artisti del calibro di Iggy Pop, i Ramones, Debbie Harry e Blondie, Richard Hell, Elvis Costello, i Sex Pistols, Brian Eno, The Clash e molti altri, e le foto di Godlis, che si contraddistinguono per la sua particolare tecnica, Godlis infatti tende a scattare prevalentemente di notte, in bianco e nero, sfruttando esclusivamente la luce naturale; armato della sua fotocamera cattura il mondo così come gli appare in realtà ed era famoso per camminare per New York e fotografare tutto ciò che captava il suo occhio.

Il successo delle foto di Roberta Bayley si deve soprattutto al fatto che c’era molta spontaneità tra gli artisti che ritraeva, nessuno si metteva in posa, perché la conoscevano e non facevano caso a lei, cosicché  poteva scattare indisturbata, a differenza di oggi dove invece gli artisti vogliono avere un controllo quasi maniacale sulla propria immagine.

Creare e costruire questo progetto artistico è molto rilevante perché quando si decide a cosa dare visibilità in una  mostra si contribuisce un po’a plasmare l’immaginario collettivo. La grafica è stata curata da Osvaldo Casanova. La mostra, patrocinata dal Comune di Vicenza, rimarrà aperta fino al 14 maggio dal giovedì alla domenica, dalle 9 alle 17, con ingresso gratuito.

Estasi di San Gaetano, un capolavoro della pittura napoletana a Vicenza

La figura di San Gaetano, santo titolare della chiesa vicentina nonché fondatore dell’Ordine dei Teatini, campeggia all’interno della Chiesa di San Gaetano Thiene di Vicenza. Lo splendido dipinto, opera di Francesco Solimena, straordinario esponente della pittura tardo-barocca napoletana tra la fine del 600’ e il primo quarto del secolo successivo, si scorge guardando in direzione della parete sinistra dell’unica navata e corrispondente al secondo altare.

La figura di San Gaetano è caratterizzata da un moto ascensionale che lo fa librare in cielo inginocchiato sopra una nube dalle tonalità grigio-azzurrognole che mostra una consistenza materica ed un peso tale da apparire palpabile e tangibile.

san gestano thiene
Fotografia di Paolo Martini

Il santo veste l’abito talare nero sul quale è indossata una cotta bianca con la stola color oro. Il grande dipinto, un olio su tela centinata, è racchiuso da una complessa struttura architettonica di impianto barocco con due coppie di colonne di marmo rosso di Francia sormontate da capitelli corinzi.

Di forma concava ed impreziosito da elementi decorativi quali angioletti e vasi in marmo bianco,il bellissimo altare che racchiude la pala del Solimena venne commissionato dalla nobile famiglia Thiene presumibilmente nel 1725. Il dipinto mostra una straordinaria sintesi pittorica di luci ed ombre ben calibrate e distribuite partendo dal basso dove prevale uno spazio vuoto dominato da una tonalità cupa; la grande nuvola sulla quale è inginocchiato il santo si stacca da terra e sospinge quest’ultimo verso il trascendente ed il divino. Bisogna essere in presenza davanti al dipinto per cogliere questo effetto d’ innaturale sospensione verso il cielo che solamente Francesco Solimena poteva esprimere con un effetto illusionistico che lo colloca a pieno nell’alveo della pittura barocca napoletana.

San Gaetano distende le braccia formando una diagonale che non soltanto accresce la tridimensionalità della composizione ma opera una netta separazione tra il mondo terreno e quello ultraterreno, accentuando maggiormente il carattere mistico ed ascetico della raffigurazione sacra. Accompagnano la salita verso la dimensione ultraterrena tre angioletti alati che sembrano compiere delle ardite acrobazie con il loro gesto di librarsi in cielo come se volteggiassero in maniera disinvolta e diafana attorno alla figura monumentale del santo il cui sguardo è rivolto all’insù. L’angelo in basso a destra funge da leggio sostenendo un libro aperto che segue la stessa diagonale delle braccia del santo, enfatizzando maggiormente l’effetto ascensionale impresso alla composizione.

Un vibrante fascio di luce penetra da sinistra verso destra lasciando in ombra la porzione del dipinto corrispondente al braccio destro del santo mentre in alto a destra appaiono, completamente avvolti dalle nuvolette, dei cori angelici che concludono il moto ascendente di tutta la composizione. La diagonale delle braccia del santo è ben equilibrata dalle linee sinuose e curvilinee disegnate dalle nuvole che sfumano delicatamente con dei toni trasparenti e nitidi mentre l’unico tocco di colore vivace è dato dallo svolazzo del mantello del santo di un rosso vibrante e tendente all’arancio. Questo celebre dipinto del Solimena sopravvisse al bombardamento avvenuto nel 1944 poiché venne trasferito in un luogo sicuro dalle Belle Arti. La pala si data al 1730 circa.

Di Francesco Caracciolo da Storie Vicentine n. 5 Novembre-Dicembre 2021


In uscita il prossimo numero di Marzo 2023
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Ultrabericus, a Vicenza tutto pronto per la corsa sui sentieri dei Colli Berici

Meno di una settimana a Ultrabericus e Vicenza è già pronta ad accogliere gli atleti che, sabato prossimo, partiranno dalla centralissima Piazza dei Signori per correre sui sentieri dei Colli Berici.

L’edizione 2023 sarà la più partecipata di sempre: gli iscritti sono 1.750 in totale, di cui 730 sulla distanza più lunga, 420 sulla nuovissima Marathon e 480 sulla Urban, 40 coppie sulla Twin Lui&Lei e 40 sulla neo-nata Nordic. Tanti concorrenti di sesso maschile, di età compresa tra i 20 anni del più giovane e i 78 anni del più anziano, ma anche tantissime donne, che hanno superato il 21% degli iscritti. Confermata anche la valenza nazionale dell’evento con il 31% degli iscritti provenienti dalla provincia di Vicenza, il 35% dalle altre provincie del Veneto, 32% dalle altre regioni d’Italia e 2% dall’estero.

Nel fine settimana appena trascorso il team organizzatore di Ultrabericus, coadiuvato da un gruppo di ragazzi e ragazze della base americana di Vicenza, si sono dati da fare per rifinire la pulizia dei sentieri e soprattutto balisare l’intero tracciato, per un totale di quasi 80 km di sentieri. Ricordiamo che l’organizzazione dell’intero evento coinvolge ogni anno più di 450 volontari e professionisti che garantiscono la sicurezza degli atleti in gara. Tra questi vogliamo citare i gruppi di volontari dell’A.N.A. e delle varie associazioni territoriali che presidieranno gli oltre settanta check point lungo tutto il tracciato, Croce Rossa, Soccorso Alpino e la squadra Trasmissioni della protezione civile A.N.A. .

La conferenza stampa di presentazione dell’evento è stata indetta giovedì 16 marzo alle ore 12.00, presso la prestigiosa Sala Stucchi di Palazzo Trissino a Vicenza. Presenti il direttore di gara Enrico Pollini, il presidente di Ultrabericus Team A.S.D. Matteo Meggiolaro e l’atleta vicentina Alessandra Boifava, grande amica di Ultrabericus, nazionale azzurra ai mondiali di Trail nel 2019 e nel 2022, vincitrice della gara celebrativa di 100k dello scorso anno. In conferenza saranno presentati i top atleti dell’edizione 2023 e dati gli ultimi dettagli organizzativi.

I Comuni coinvolti, oltre alla città di Vicenza sono Arcugnano, Brendola, Zovencedo, Val Liona, Barbarano Mossano, Villaga, Nanto, Castegnero. Sponsor 2023:
Craft, Compressport, iRun, Oliviero, Masters, Why Sport, birra Menabrea, Sambo Servizi, Manaly Standeventi, Elleerre, AGSM AIM, Da Schio azienda agricola e pasticceria Loison.

Paolo Lioy e le Valli di Fimon nel Vicentino

Paolo Lioy, pur avendo effettuato studi in legge a Padova senza peraltro conseguire la laurea, fu sempre attratto dalle scienze naturali pubblicando svariate opere sull’argomento, oltre ad essere autore di svariate conferenze scientifiche.

Nel 1853, a seguito di lavori eseguiti per un abbassamento di acque a Meilen sul lago di Zurigo fu per la prima volta annunciata al mondo scientifico da Ferdinand Keller, archeologo svizzero e direttore dell Antiquarischen Gesellschaft, la notizia di un importante ritrovamento: durante gli scavi erano venuti alla luce i resti di villaggi palafitticoli risalenti alla tarda età della pietra e del bronzo; tale fortuita scoperta ebbe una larghissima risonanza nel mondo accademico dell’epoca e diede il via a ulteriori esplorazioni nei bassi fondali di altri laghi elvetici.

Da allora e per tutto l’Ottocento rimase altissimo l’interesse di studiosi ed archeologi per gli insediamenti palafitticoli preistorici, interesse alimentato da continue e importanti scoperte sia sui laghi italiani che esteri, tanto da essere definita un’autentica “febbre da palafitte”; la ricerca era favorita anche dalla massiccia attività di estrazione della torba allora in atto nei giacimenti lacustri.

Paolo Lioy ebbe fin da subito la certezza che tale notizia rappresentasse un importante strumento di indagine e ricerca per il mondo scientifico tanto da affermare con entusiasmo: “Avevo davanti a me un campo quasi vergine e inesplorato”.

Sull’onda dei ritrovamenti elvetici, e successivamente anche nei laghi lombardi, egli ebbe subito la lungimiranza di intuire che tra i siti con potenziale analogia ambientale, in ambito lacustre poteva figurare una particolare area nostrana: il bacino naturale tre le valli di Fimon dove un lago di antichissima formazione, un tempo dotato di esteso bacino, era stato nei secoli progressivamente ridimensionato ed era oggetto di importanti opere di bonifica protrattasi fino ai primi decenni del novecento (Un decreto Reale del 16 dicembre 1926 firmato da Vittorio Emanuele III classificava di prima categoria le opere di bonifica del bacino di Fimon assicurando quindi assoluta priorità nella loro esecuzione).

Il merito di Lioy è proprio quello di essere stato un pioniere nella ricerca e un divulgatore scientifico; si dedicò in maniera approfondita alla Paleontologia, conducendo ricerche sistematiche in Italia e in Europa e diede inizio a vere e proprie campagne di scavo sia nei siti lacustri di Fimon sia nelle grotte di Lumignano.

Da allora, oltre all’amicizia con il Keller, intrattenne copiosi e continui rapporti con altri studiosi dell’epoca, in Italia e all’estero, per continui confronti e dibattiti in materia. Nei territori di Fimon il Lioy iniziò le sue esplorazioni nel 1864 e fu un vero precursore. Accompagnato dal medico del paese (tale Ludovico De Favari) si recò di casa in casa presso i contadini del luogo per chiedere se coltivando le terre limitrofe al lago si fossero mai imbattuti in pali sotterrati, in cumuli di stoviglie o di ossa o in armi antiche, ma da loro ricevette solo risposte sconsolanti e meravigliate “come se parlasse di favole”.

I piccoli proprietari del posto non avevano alcun interesse che venissero deturpate le loro povere colture per imprese di cui non comprendevano l’utilità, se non forse dietro il compenso economico che egli era disposto a elargire.

Senza alcun indizio che ne incoraggiamo le indagini, senza alcuna indicazione da parte di contadini e pescatori del luogo, il Lioy intraprese alcuni scavi nelle aree che riteneva le antiche rive del lago vincendo la resistenza dei proprietari e con l’aiuto della guida alpina Giovanni Meneguzzo.

Dopo aver speso inutilmente tempo e denaro stava rinunciando alla sua impresa quando nel prato chiamato Pascolone dissotterrò finalmente i resti di una palafitta che si estendeva per parecchi metri quadrati con pali di quercia del diametro dai 20 ai 30 centimetri. L’area si presentava stratificata, con torba e limo lacustre che coprivano il livello archeologico vero e proprio dello spessore di circa trenta centimetri contenente grandi quantità di ossa, cocci di vasellame, selci e attrezzi che giacevano su quello che un tempo era stato il fondo del lago.

L’entusiasmo della scoperta gli fece scrivere: “Non credevo ai miei occhi quando, dopo avere per alcuni giorni fatto scavare nelle antiche rive del lago di Fimon presso Vicenza, cominciarono ad apparire palafitte, e intonaci di casolari, e punte di lance di selce, e fionde, noccioli, ossa, carboni.”

E procedendo con l’attività di scavo riuscì a individuare e descrivere quelle “abitazioni” che formavano un piccolo, antichissimo villaggio lacustre: “La disposizione dei pali, che per quanto irregolare accenna a raggruppamenti circolari, le curve interne con argille che servivano di intonaco alle pareti, mostrano che codesti piccoli tuguri erano ovali, oblunghi o rotondi, stipati insieme. Avevano probabilmente conico il tetto e tessuto di canne e di frasche. Certo il pavimento doveva essere cosparso di fori o di botole, per i quali cadevano nell’acqua i rimasugli dei pasti, i cocci, gli utensili.

Gli utensili e le armi erano rozzi: di legno, di pietra calcare, di selce o di osso. L’aspetto delle stoviglie è singolare, hanno una certa rozzezza elegante, una semplicità misera ma superba. Le ossa formano un così vasto ossario che se ne potrebbe raccogliere a carri … Non si potè scorgere traccia di ponti per i quali il villaggio si collegasse alle rive; pare che sorgesse isolato sul lago; presso alle rovine trovai sepolto nel fango un frammento di una piccola piroga scavata in un tronco con l’aiuto del fuoco di cui serba ancora le vestigia”.Travi incendiati, mucchi di carbone e di cenere che ingombrano il fondo gli fecero ipotizzare che il villaggio fosse stato distrutto dal fuoco.

Le zone archeologiche erano caratterizzate da strati riferiti ad epoche più e meno arcaiche e Lioy nelle sue pubblicazioni evidenzia la diversità dei ritrovamenti di uno strato rispetto ad un altro, inoltre descrive minutamente gli utensili e i cocci di vasellame nelle loro varie forme ed ornamenti (molto interessante la presenza di vasi “a bocca quadrata”); poi le ossa e le corna ritrovate attribuendole alle specie animali a cui erano appartenute.

Lioy confrontò le varie specie di flora e di fauna presenti in loco al suo tempo con quelle rinvenute negli scavi (segnala un enorme abbondanza di gusci di tartaruga); riferiva di avere trovato un dente di carnivoro e una mandibola che era in dubbio se appartenesse a una volpe o a un cane, studi successivi hanno dimostrato che apparteneva a un tasso.

Tra i mammiferi domestici il primo la cui assenza appariva notevole era quella del cane, amico dell’uomo da remota data, la cui immagine compare nei monumenti egizi più antichi o coevi alle palafitte, ma questa lacuna non è sufficiente a dimostrare la mancanza di cani nelle palafitte tuttalpiù, afferma Lioy, essendo presenti nello strato archeologico solo le ossa dei resti alimentari si potrebbe affermare che “gli abitatori delle palafitte non erano cinofili come gli antichi Danesi”.

La campagna di scavi proseguì anche nel 1865 ed i risultati di queste indagini vennero pubblicati in una prima relazione che risale allo stesso anno. Notevoli le osservazioni del Lioy sui resti della fauna. “Molti denti di maiali di Fimon sono piatti e smussati; gli individui a cui appartenevano devono essere stati uccisi vecchissimi, e questa longevità potrebbe parere improbabile in animali domestici.

Nei crani di maiali trovati nelle palafitte svizzere più recenti si riscontrano alcune differenze derivanti dalla domesticità.” Rileva la mancanza di ossa di lontre, di ricci e di volpi. “Mancano a Fimon non solo le ossa ma anche le impronte di rosicchiamenti di topi.”

Cervi e cinghiali sono i mammiferi i cui resti sono più abbondanti, cervi a Fimon appartenuti per lo più a giovani esemplari, forse perché i più vecchi erano astuti nell’evitare gli agguati. Erano abbondantissimi i cervi comuni, seguiti dai cinghiali (la cui statura “superava senza paragone quelli di Sardegna e di Calabria”), meno frequenti i resti di buoi con piccolissime corna, caprioli, montoni e tassi, con il predominio quindi di razze selvatiche. L’esame dei resti di cibi vegetali, negli strati archeologici più remoti, indusse il Lioy a ritenere che gli abitanti del villaggio non praticassero l’agricoltura.

In pochissime ossa trovò traccia di fuoco, come se fosse consuetudine cibarsi di carni crude. E l’osservazione dei ritrovamenti animali e vegetali gli dette elementi per ipotizzare una sommaria descrizione del territorio vicentino in quell’epoca: era selvoso e incolto, circondato da una grande foresta dalla quale erano stati prelevati i tronchi delle piante infissi nel fondo del lago. In “Escursione sotterra”, pubblicato nel 1868, Paolo Lioy tra altri saggi naturalistici e di paleontologia fa il punto sulla sua attività di archeologo ed in particolare illustra ancora una volta i ritrovamenti di Fimon, corredando il testo con un bel disegno di una ricostruzione ideale del villaggio palafitticolo.

Paolo Lioy

Nel 1871 il Lioy condusse un’ulteriore fruttuosa campagna di scavo a nord del Ponte della Debba, detto anche Ponte di Legno, sempre nelle Valli di Fimon. Negli anni ottanta dell’Ottocento le successive indagini si allargarono alle valli limitrofe: la Valdemarca e la Fontega, quest’ultima si presentava come un laghetto situato nella conca più settentrionale delle Valli, congiunto in epoche remote con il lago di Fimon. Nella zona della Fontega i ritrovamenti più importanti erano costituiti da parecchie piroghe, ovvero barche scavate con l’aiuto del fuoco in grossi tronchi di quercia, tutte d’un pezzo; purtroppo – afferma il Lioy – esse andarono distrutte per imperizia e negligenza dei recuperanti in quanto il legno, antico e delicatissimo, si sgretolò all’aria aperta.

Ma la torbiera della Fontega doveva riservare altre sorprese ancora più importanti: alcuni “ordigni” (così li definì Lioy) in legno di quercia lunghi circa 70 centimetri e larghi circa 20, che a prima vista avevano l’aspetto di barchette pigmee o di modellini di barche; vennero infatti chiamate “le barchette della Fontega”. Erano costruite per formare “complicati congegni, con fori laterali, con una grande apertura centrale chiusa da due ribaltelle mobili che si aprivano dal basso all’alto, imperniate alle sponde, e con altri perni e assicelle a ruota e vermene ricurve, evidentemente destinate con la elasticità a dare scatto ai battenti”. Questi misteriosi attrezzi furono studiati anche da Luigi Meschinelli, dottore in scienze naturali vicentino, che partecipò agli scavi della Fontega negli anni 1884-1885. Gli studiosi stimarono che di questi strani strumenti ve ne fossero in tutta Europa solo diciassette esemplari. E sul loro utilizzo si aprirono dotte disquisizioni, anche se l’utilizzo più probabile pareva quello di essere trappole per la caccia; ma per quali animali? e perché nella loro rarità erano state rinvenute a distanze così lontane? Il Lioy espose la descrizione di questo enigmatico ritrovamento (l’ultimo esemplare lo rinvenne sempre alla Fontega nel 1895 a una profondità di metri 2,60) e gli interrogativi che comportava in una relazione pubblicata tra gli atti del Regio Istituto di Scienze negli ultimi anni dell’Ottocento.

Mentre la prima pubblicazione sugli scavi di Fimon del 1865 è un saggio succinto di una cinquantina di pagine, con l’edizione del 1876 il Lioy fornisce un resoconto dettagliato della sua attività di archeologo; il libro è corredato da numerose tavole (i cui disegni particolareggiati furono commissionati a tre professori) che illustrano le aree oggetto di scavo, la sezione dei terreni e una ricca casistica dei reperti rinvenuti nelle Valli nonché particolari esemplari rinvenuti in altre zone europee ed extra europee. I ritrovamenti di Fimon dettero al Lioy una vasta notorietà tra gli studiosi anche fuori Italia, tale da fargli affermare: “Questi ritrovamenti ebbero una rinomanza superiore a ogni mia aspettativa, non vi è opera di paleoetnologia italiana ove non si citino per confronti e spesso come fondamento di deduzioni etnografiche, e sono moltissimi i dotti di altre nazioni che vi posero la loro attenzione”. Le sue relazioni venivano presentate ai congressi di antropologia e pubblicate tra gli atti del Regio Istituto di Scienze Lettere e Arti, venivano tradotte e pubblicate anche all’estero. Proseguì le campagne di scavo nella zona di Fimon a più riprese con buoni risultati e successivamente lo seguirono altri ricercatori tra i quali: Luigi Meschinelli che concentrò la sua attività nelle torbiere della Valdemarca e della Fontega negli anni ottanta dell’Ottocento, Gastone Trevisiol che scavò nelle torbiere delle valli di Fimon dal 1942 al 1944; il prof. Broglio dell’Università di Ferrara e il prof. Barfieid dell’Università di Birmingham che negli anni 1969-1972 ripresero le ricerche nell’area individuata da Trevisiol; una campagna di scavo è stata effettuata anche nel 2011.

Il Lioy eseguì scavi archeologici anche nelle grotte di Lumignano, alcune delle quali erano fino allora del tutto insondate. In particolare cita il Colle di Guerra, una tra le più belle e maestose, dove rinvenne una stratificazione archeologica nell’area di ingresso e ne descrisse i ritrovamenti, i cui più interessanti sono stati riprodotti in disegno, nella pubblicazione del 1876. Nel 1884 il Lioy dette alle stampe “Sui laghi”, altro libro che ha come tema l’archeologia lacustre. Quest’opera ha però un taglio insolito, tra il romanzo e il saggio scientifico, e racconta di un viaggio dell’autore presso un borgo montano sulle rive di un lago non meglio precisato, a cui egli perviene con lo scopo di cercare “nuove rivelazioni sui misteri dei villaggi lacustri scomparsi da tanti secoli e dei quali più non restano che rovine accumulate tra i pali nel fondo dei laghi”.

Nel mezzo delle sue escursioni su questo lago montano, circondato da una seducente natura, Lioy riporta spezzoni di discorsi e di conferenze con i quali intrattiene un pubblico eterogeneo di autorità, di studiosi, di accademici e di curiosi che interviene con vivo interesse attirato da tali scoperte e con i quali non manca un vivace contradditorio. Il Lioy, nel definire queste zone archeologiche le “Pompei sott’acqua”, è in grado di sviluppare un resoconto con estesi confronti supportati delle sue conoscenze in materia di archeologia palafitticola frutto di circa un trentennio di studi, facendo ripetuti cenni ai rinvenimenti in analoghi siti sia in Italia che all’estero.

Anche in questo libro dedica largo spazio alla disamina naturalistica, sul catalogare i resti di vegetali e di ossa animali rinvenuti nei fondali e fu in grado di stabilire quali specie fossero allora presenti in natura dai resti dei pasti, in un sito rispetto ad un altro. Un motivo di interesse del Lioy è l’indagine sulle cronologie degli animali che dopo essere vissuti contemporanei all’uomo in alcune regioni vi si estinsero o emigrarono altrove. Tutto ciò perché l’uomo “con la sua azione è più veloce delle cause lente che hanno modificato la flora e la fauna nelle epoche passate”. Riflessione valida, attualissima ai giorni nostri in cui la velocità delle modifiche all’ambiente ha assunto ormai eccessi catastrofici.

E porta un esempio: “Cinque pecore e tre montoni condotti in Australia dal capitano Mac Arthur nel 1779, furono antenati dei cento milioni di pecore le cui lane sono trasportate ora in Europa da centinaia di navi.” Ma il libro è anche intessuto di un racconto misterioso, appena accennato: l’incontro e la conoscenza “di una piccola bruna con gli occhi lampeggianti di fata…” che su di una piccola barca si accosta alla riva al chiarore delle stelle; con lei intesse una relazione amorosa che deve rimanere segreta perché la donna è sorvegliata tenacemente da qualcuno nel gruppo degli ascoltatori.

Non è forse da riconoscere un grado di veridicità a questa storia che diventa un contorno sfumato alla materia scientifica e ne fa quasi da contrappunto e da intreccio romanzato. Potrebbe essere un pretesto, una fantasia per ingentilire una materia di per sé troppo specifica e funerea e romanzarla, così come scrisse Matilde Serao circa lo stile del Lioy, la quale gli riconobbe l’arte di scrivere “tutta questa storia naturale, che pare un romanzo”… Come ha osservato qualche critico Lioy tende a conciliare il lavoro scientifico con le fantasie e le suggestioni del letterato. Fin da piccolo Lioy si era dedicato allo scrivere (e proprio in questo libro egli rammenta gli episodi di quand’era bambino ed esponeva i suoi scritti all’audizione dei famigliari); con gli anni ha incrociato la sua innata passione letteraria con un’altrettanto viva passione per la storia naturale e gli studi scientifici.

Con le sue campagne di scavo Lioy aveva messo insieme una importante collezione di reperti, di cui una parte, fin dal 1876, era stata donata al Museo Naturalistico e Archeologico di Vicenza, a cui si aggiunsero successivamente i lasciti del Trevisiol e di altri. Giova ricordare che alcuni interessanti e rari reperti rinvenuti proprio nelle valli di Fimon, quali piroghe monossili e le trappole a battenti della Fontega, andarono purtroppo completamente distrutti con il bombardamento e il disastroso incendio del Museo nel 1945, all’epoca allestito all’interno del palazzo Chiericati. Lioy portò avanti i suoi studi e le sue ricerche sempre con la consapevolezza che il campo della ricerca sia un terreno oltremodo sconfinato da sondare e lo afferma con una immagine suggestiva: “Scrutando l’antichità dell’uomo sulla terra si prova il sentimento di vertigine, come abbassando lo sguardo verso il fondo di un pozzo del quale non di conosce la fine.”

 

Fonti di riferimento:

Le abitazioni lacustri della età della età della pietra nel lago di Fimon nel Vicentino di Paolo Lioy – Tipografia Giuseppe Antonelli – Venezia, 1865

Escursione sotterra di Paolo Lioy Treves & C. Editori Milano 1868

Le abitazioni lacustri di Fimon di Paolo Lioy –

Tipografia Giuseppe Antonelli Venezia 1876

Le abitazioni lacustri in “Conferenze scientifiche” di Paolo Lioy UTET Torino 1877

Sui laghi di Paolo Lioy Zanichelli Bologna 1888

Di Luciano Cestonaro da Storie Vicentine n. 5 Novembre-Dicembre 2021


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Chiesa dei Carmini, inconfondibile con i suoi mattoncini bianchi e rossi all’esterno e il soffitto blu all’interno

La chiesa dei Carmini di Corso Fogazzaro si chiamerebbe in realtà chiesa di Santa Croce in San Giacomo Maggiore perchè situata vicino a Porta Santa Croce. Non lontana dalla chiesa di San Lorenzo, è suggestiva per i suoi colori esterni: i mattoncini rossi e bianchi sono inconfondibili. Un tempo vi era annesso il convento dei frati carmelitani, da cui il soprannome con cui è ancora conosciuta. Ristrutturata negli anni sessanta dell’Ottocento in stile neogotico, è ora sede parrocchiale.

porta santa croce
Porta Santa Croce. Foto: Marta Cardini

L’esterno

La parte esterna è in mattoni rossi con disegni geometrici in pietra bianca. Sui fianchi laterali emergono alte sporgenze semicircolari, che corrispondono alle cappelle laterali. Il portale laterale su corso Fogazzaro, di calcare bianco, rosso e grigio, risale al XV secolo e proviene dalla chiesa di San Bartolomeo. Sopra la porta c’è una nicchia con un gruppo marmoreo che rappresenta la Vergine col Bambino tra Sant’Alberto e San Paolo, attribuibile a Giambattista Krone. Quest’ultimo è uno scultore seicentesco di cui non si conoscono ulteriori opere, se non la Trinità dell’altare Nievo della chiesa di Santa Corona.

chiesa carmini
Il fianco sinistro della chiesa dei Carmini. Foto: Instagram museivicenza

L’interno

All’interno c’è una sola navata con cappelle laterali. Sulla controfacciata è presente un’arcata in pietra tenera, con tre pilastri. La volta ottocentesca è affrescata con scene di santi ed evangelisti. Tutto lo sfondo è dipinto come una volta stellata di un acceso color blu zaffiro.

La pala del primo altare a destra, La Madonna con il Bambino tra i santi Sebastiano e Antonio, è di Benedetto Montagna. Quella del secondo altare raffigura Il Padre Eterno e il Cristo morto ed è attribuita a Paolo Veronese (1573). Nella parete di destra si apre la cappella della Vergine del Carmine, con un bell’altare barocco del Settecento. Mentre nella parte inferiore tre putti di marmo bianco sorreggono un tendaggio.

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L’interno della chiesa. Foto: Instagram museivicenza

Sulla destra si apre uno scorcio di paesaggio collinare, sotto un cielo percorso da nubi. Sempre sul lato sinistro il secondo altare contiene Il trasporto di Cristo al sepolcro di Jacopo e Francesco Bassano, del 1580. Nell’abside di sinistra, vicina al presbiterio, una tela di Giulio Carpioni del 1670 rappresenta il Martirio dei santi Giacomo e Cristoforo con angeli in gloria.

La storia

Nel 1372, mentre gli Scaligeri stavano racchiudendo entro la nuova cinta di mura occidentali il borgo di Porta Nova che a quel tempo si stava sviluppando, il vescovo di Vicenza Giovanni de Surdis, appartenente a nobile famiglia piacentina, volle far costruire una nuova chiesa al centro del borgo, a circa metà strada tra la Porta Nova e la costruenda Porta Santa Croce. Forse fu per dare agli abitanti del posto un luogo di culto prossimo al nuovo insediamento, probabilmente fu anche per adempiere ad un voto con il quale egli era impegnato al pellegrinaggio di Santiago di Compostela. Per questo secondo motivo la chiesa fu intitolata a san Giacomo Apostolo, un santo che, a quei tempi di devastanti pestilenze, attirava una grande devozione. Poi arrivarono i frati carmelitani e la chiesa con la parrocchia venne chiamata di Santa Maria dei Carmini, con riferimento alla patrona dell’Ordine, la Madonna del Carmelo.

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L’inconfondibile volta con soffitto blu all’interno della chiesa. Foto: Instagram museivicenza

I Carmelitani rimasero fino al 1806, quando in base a un decreto napoleonico vennero allontanati da Vicenza e poi nel 1810 il loro ordine venne soppresso. La parrocchia venne unificata con quella vicina di Santa Croce, assumendo il nome di San Giacomo Maggiore in Santa Croce, rimanendo tuttavia più conosciuta con il vecchio nome di parrocchia “dei Carmini”.

A metà dell’Ottocento, tra il 1862 e il 1867, la chiesa fu portata alla forma attuale, in stile neogotico con paramento esterno in cotto e pietra bianca, su disegno dell’architetto Friedrich Schmidt dell’Accademia Imperiale di Vienna.

Durante il rifacimento, alla chiesa fu trasferita una parte del patrimonio artistico di quella di San Bartolomeo che era stata demolita, in particolare l’apparato scultoreo: i portali e una bella serie di bassorilievi di scuola lombarda.

 

Continua “La bella stagione” al Ridotto del Teatro Politeama di Marostica con Leopold, Zio Vanja e Dogville

Continua “La bella stagione” al Teatro Politeama di Marostica con le opere di produzione firmate da ATS Teatro di Comunità (Associazione Teatris, Argot Produzioni, La Piccionaia Centro di Produzione).

Sono tre infatti i lavori originali che verranno presentati nelle prossime settimane sul palcoscenico del Ridotto, che caratterizzano la direzione artistica di Maurizio Panici, in scena in prima persona anche come attore in uno straordinario “Leopold – La giornata di un uomo qualunque”, liberamente ispirato all’Ulisse di Joyce (venerdì 17 e sabato 18 marzo, ore 21, –  in replica anche a Roma dal 23 al 26 marzo, al Teatro Argo Studio di Trastevere); e poi, con la compagnia Teatris, come regia di “Zio Vanja” di Anton Cechov  (1 aprile, ore 21)  e dell’atteso “Dogville”, di Lars Von Trier (12 e 13 maggio alle ore 21 e 14 maggio alle ore 17).

Leopold Bloom è il protagonista di Ulysses di James Joyce e ha una funzione parallela a quella di Ulisse nell’Odissea omerica. Il personaggio di Bloom è basato per alcuni tratti su Italo Svevo, che fu allievo di Joyce.  Tutti noi siamo Leopold, noi che attraversiamo le nostre vite in modo più o meno consapevole, in preda ai nostri istinti e alle nostre pulsioni primarie, consumandoci in un tempo che è la nostra stessa vita. Il testo è corroborato da alcune riflessioni di Fernando Pessoa, tratte dal suo magnifico “Libro dell’inquietudine” e racconta la semplice giornata di Leopold Bloom che, come un novello eroe novecentesco, affronta la sua giornata e se stesso in un libero flusso di pensieri.

L’allestimento colloca il protagonista in uno spazio mentale e metafisico costruito con l’aiuto di una realtà virtuale, che rende spiazzante e onirico il mondo che lo circonda. Non sapremo mai quanto sia vera questa realtà abitata dall’eroe, o semplicemente una proiezione di questa nostra realtà, dove non si distinguono più i contorni del reale e dove nella libertà di esprimere tutto quello che pensiamo, i confini tra le due dimensioni sono estremamente labili. Leopold è anche l’espressione di una fragilità che non ha più punti di riferimento né maestri e si trova come un guscio di noce a galleggiare nella tempesta. Una amara e ironica rappresentazione, non priva di comicità, di quello che siamo diventati in questo tempo liquido e sfuggente.

Zio Vanja è uno dei testi più importanti e rappresentati del grande autore russo che ha segnato in maniera indelebile la drammaturgia del novecento e la nascita del teatro moderno.  Si tratta di una grande rappresentazione del mondo attraverso l’affresco di una piccola società di persone legate da relazioni parentali dirette o acquisite: costellazioni familiari che muovono i desideri, le mancate realizzazioni e le aspettative di una comunità, confinata all’interno di una proprietà , collocata ai margini della società e dei cambiamenti di un tempo che segnerà la fine delle loro relazioni.

Vanja è l’eroe di un quotidiano sbiadito e privo di ambizioni, che provoca insoddisfazioni e rabbia per una condizione alla quale non sa reagire attivando un processo autodistruttivo che non riesce ad evolvere e a cambiare. Gli echi di questo spettacolo sono purtroppo a noi suoni conosciuti: giovani privati del futuro, uomini incapaci di vivere in un presente sempre più difficile da decodificare, donne che si impegnano nel disegnare un mondo nuovo ma al contempo sono oggetto di pressioni e desideri di maschi che non conoscono l’amore. Tutto troppo reale in un tempo come quello che stiamo attraversando.

Infine, testo attualissimo per la sua crudeltà e durezza del vivere, Dogville, nato dalla penna e dal genio di Lars Von Trier, racconta l’arrivo in una tranquilla cittadina di provincia di una donna misteriosa, ricercata per ragioni oscure dalla polizia.  Il suo arrivo sconvolge i superficiali fragili equilibri di una comunità chiusa, arroccata in un ordine apparentemente felice. L’arrivo del diverso mette in moto dinamiche violente di assoggettamento e sfruttamento di chi, più fragile, si espone al più turpe ricatto pur di essere accettato.  Un testo esemplare che all’interno di una cupezza che non ci lascia respirare sa trovare momenti di grande lirismo e muove alla “pietas”, come solo la grande tradizione dei tragici greci ci ha insegnato. Ed è proprio una grande tragedia contemporanea che Dogville ci racconta, la tragedia di una umanità che per paura e vigliaccheria ci mostra il suo lato peggiore, difendendosi dagli stranieri e dai diversi, da qualsiasi latitudine essi giungano.

Nel programma anche gli ultimi appuntamenti del cartellone con ospiti nazionali: in “Andromaca”, da Euripide, Massimiliano Civica e I Sacchi di Sabbia tornano insieme su un classico dell’antichità, esplorando i confini tra comico e tragico (25 marzo, ore 21); e  “U scrusciu du mari”, un viaggio alla scoperta della Sicilia,  in compagnia dei racconti di Andrea Camilleri, di antichi canti, pupi siciliani, aneddoti e vecchie storie, interpretati da Antonino Varvarà (15 aprile, ore 21).

La rassegna teatrale “La bella stagione” è promossa da ATS Teatro di Comunità (Associazione Teatris, Argot Produzioni, La Piccionaia Centro di Produzione) in collaborazione con la Città di Marostica e il supporto di Fondazione Banca Popolare di Marostica – Volksbank.

Palazzo del Monte di Pietà di Vicenza: gli affreschi cinquecenteschi perduti di Zelotti

Il Palazzo del Monte di Pietà sorge nel cuore di Vicenza e risulta essere il complesso monumentale più antico oggi visibile nella piazza dei Signori; comprende l’isolato tra contrà del Monte e la piazza, fino ad inglobare gli edifici medioevali preesistenti come la Chiesa di San Vincenzo, patrono di Vicenza. Dal XV secolo ad oggi sono state aggiunte, modifiche e restauri.

La facciata della chiesa di San Vincenzo venne progettata da Paolo Bonin con le sculture di G.Battista Al- banese, mentre quelle della facciata trecentesca vennero poste all’interno sulla parete occidentale; Giambattista Zelotti affresca le due ali del palazzo a metà del 1500. Dato che l’entrata dalla piazza divenne insufficiente mentre cresceva l’attività del Monte vennero commissionate all’architetto del Comune Francesco Muttoni, nel 1703, sia la facciata su contrà del Monte, allora del Capitanio, sia la ristrutturazione dell’ala destinata ad ospitare i libri del conte Giovanni Maria Bertoldo, con le necessarie scaffalature. La prestigiosa entrata è rimasta inalterata, nonostante i bombardamenti del 1944, che distrusse l’archivio storico del Monte, e del 1945.

Trionfale è l’arco d’ingresso a lesene doriche e d’effetto ottico il chiaroscuro del bugnato rustico al piano terra; all’interno nell’atrio classiche colonne ioniche sorreggono possenti volte a crociera. Da qui a destra si sale al Monte dei Pegni, a sinistra si accedeva alla Biblioteca Civica, inaugurata nel 1708, per ospitare la prima donazione libraria alla cittadinanza, quella di Giovanni Maria Bertolo (1631-1707), che studiò legge e si dedicò all’avvocatura, figlio di un falegname “tornidor”, che regalava il suo patrimonio”purché fosse pubblico ed accolto in una sede degna”. 

affreschi palazzo del Monte della Pietà Vicenza
Una recente proiezione delle immagini degli affreschi sulla facciata del palazzo

Gli affreschi cinquecenteschi dello Zelotti ammirati da Vasari sulle due facciate gemelle si degradarono rapidamente. Quasi scomparsi tra il Settecento e l’Ottocento, furono sostituiti nel 1909 da quelli del perugino Domenico Bruschi. Nelle fotografie dei primi decenni del Novecento si possono vedere le ricche decorazioni che oggi risultano completamente sbiadite e irriconoscibili.

Di Luciano Parolin da Storie Vicentine n. 5 Novembre-Dicembre 2021


In uscita il prossimo numero di Marzo 2023
distribuito nelle edicole del centro e prima periferia e agli Abbonati
Prezzo di copertina euro 5
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Musicisti vicentini, un viaggio nella Vicenza underground alla ricerca del talento: Luca Cescotti

Sono molti i musicisti vicentini di successo, in questo periodo. Sul palco dell’ultimo Festival di Sanremo c’erano Madame, Gianmaria e Sangiovanni. Cosa sta succedendo? Vicenza è diventata il nuovo centro della musica? Per capire se c’è veramente un fecondo fermento musicale in città, abbiamo iniziato un viaggio nella Vicenza underground alla ricerca di musicisti talentuosi.

Il primo che incontriamo è Luca Cescotti, con una formazione di tutto rispetto. Luca, infatti, dopo il liceo classico e il conservatorio ha studiato al DAMS di Padova e oggi è un violista da gamba e un cantautore pop.

musicisti vicentini
Luca Cescotti

Luca, quando è nata la tua passione per la musica?

“Quando ero ragazzino, nel salotto di casa, (suo padre Lorenzo Cescotti è cantante  al teatro alla Scala di Milano, ndr): da un lato ascoltavo la Bohème e dall’altro i Police. La chiave di volta è stata comunque quando i miei genitori mi hanno regalato delle casse da studio, con cui ho iniziato a passare le serate in una piccola veranda, che i miei chiamavano il ‘gabbiotto’, fino a scrivere il testo della mia prima canzone. Fin da piccolo volevo diventare un cantante rock ed ero la chitarra e la voce del gruppo musicale Imonana”.

Quale tipo di musica preferisci?

“Anche se provengo dalla musica classica, la mia vera passione è per la musica pop”.

Dove trovi la tua ispirazione?

“Nelle emozioni positive e negative quotidiane, dall’amore all’inquietudine”.

Come nascono le tue canzoni?

“Dipende dal brano. In alcuni casi sono nate da un giro di accordi a cui mi ero affezionato, in altri da un errore mentre suonavo, a cui ho dato un valore. Dagli errori di frequente nascono sonorità che a tavolino non emergono”.

Cosa pensi stia accadendo musicalmente a Vicenza?

“A Vicenza c’è una scena musicale, dove si sperimentano e mescolano ispirazioni e si contaminano sonorità. I musicisti vicentini, infatti, si conoscono, si frequentano e si ascoltano tra di loro. Ciò permette per esempio di domandare quale effetto è stato usato per un certo suono che è piaciuto e quindi di riproporlo. A Milano invece non c’è scena musicale, ma si suonano tante musiche diverse, che alla fine creano distrazione”.

Che progetti hai?

“Sto preparando il secondo disco nello studio Sotto il mare di Verona, con il prezioso apporto al suono di Luca Tacconi, ma si tratta sempre di autoproduzione, gli arrangiamenti, i mixaggi sono fatti da me, perché io, come la maggior parte dei giovani musicisti vicentini, nasco dal basso e grazie a mezzi come Spotify, SoundCluod, You Tube, la mia musica può essere condivisa anche se non viene passata in radio o in tv. Comunque, anche se c’è stata una rivoluzione nella fruizione della musica, la stessa non si è ancora svincolata dalle etichette discografiche. La figura del produttore e del discografico sono ancora determinanti per un percorso duraturo. Sicuramente c’è stata una semplificazione nel fare musica grazie alla tecnologia non poi così costosa. In fondo anche il punk è nato dal basso. Il 1º aprile 2023 uscirà al Pordenone Docs Fest, Reznica (ovvero radici) del vicentino Davor Marinkovic, che parla dell’emozione del ritorno a casa dopo la guerra, di cui ho curato la colonna sonora”.

Cos’altro stai facendo in questo momento?

“Sto approfondendo l’ambito della produzione e della creazione musicale per giovani cantautori e in particolare sto producendo l’EP di una giovane cantautrice vicentina nella quale ho molta fiducia”.

Cosa suggerisci di fare per la musica a Vicenza?

“Di organizzare più eventi musicali, ma ricordiamoci che Vicenza è stata una delle prime città che ha permesso ai musicisti di suonare per strada”.

Il Monte di Pietà: l’origine del sistema bancario

Da un punto di vista storico, il Monte di Pietà può essere inquadrato nella tradizione delle fondazioni religiose cristiane nel Medioevo che, attraverso gli ordini militari (in primo luogo i Templari), non soltanto avevano sperimentato una inedita combinazione di vita religiosa e azioni civili e militari, ma avevano avviato la prima attività bancaria dell’Occidente.

I Templari, i Cavalieri Teutonici, e diversi altri ordini, infatti, non avevano soltanto combattuto tenacemente contro i musulmani, ma anche fornito servizi finanziari efficienti e capillari, inizialmente rivolti ai pellegrini in viaggio verso la Terrasanta e poi estesi a tutta l’Europa, erogando crediti ed impiegando il plusvalore delle loro attività economiche per finanziare gli avamposti combattenti e per il soccorso agli indigenti.

Sotto l’aspetto economico-finanziario, i Templari costituirono una estesa rete finanziaria e, grazie anche ai privilegi concessi dal papa, arrivarono a rivestire un ruolo di tale importanza da prestare agli Stati europei ingenti somme di denaro e gestire perfino le finanze di Stati come la Francia.

Nonostante fossero animati da intenti nobili e facessero un uso oculato delle ingenti ricchezze accumulate, senza perseguire scopi personali, questi ordini monastico-cavallereschi erano comunque divenuti assai potenti ed erano malvisti da alcuni settori della popolazione, anche per il problema morale posto dalla richiesta di pagamento dei servizi. Forse anche per questo quasi nessun operatore cristiano li aveva sostituiti, lasciando campo aperto ai banchieri ebrei e a veri e propri usurai.

A differenza degli ordini monastici e cavallereschi, tra il XII e il XIII secolo nacquero e si diffusero nella cristianità latina gli Ordini mendicanti, il cui voto di povertà non era solo individuale (come per i Templari), ma valeva anche per i conventi e l’Ordine stesso: quanto necessario per la sussistenza doveva essere frutto o del lavoro dei frati, o di elemosine.

Questi nuovi Ordini ben presto si posero il problema dei servizi di credito, sia per ampliare le possibilità di soccorso dei poveri, sia come alternativa ai prestiti ad interesse dei banchieri ebrei. Per rispondere a queste istanze, i Francescani Osservanti, prendendo spunto dagli stessi banchi ebraici e con l’intento di soppiantarli, avviarono attività creditizie operanti con fini solidaristici e soprattutto senza scopo di lucro: i Monti di Pietà. Fino al Medioevo centrale ogni forma di arricchimento basata sul far circolare denaro a interesse era stata bollata come usura; la lezione del grande intellettuale Pietro di Giovanni Olivi aveva però avviato una nuova riflessione sul denaro (testi Sull’usura, Sulle vendite): le riflessioni del francescano occitano sul denaro erano assai spregiudicate, soprattutto se si pensa che l’Olivi era uno strenuo sostenitore della povertà (ma, si noti, soltanto della povertà “volontaria” nella Chiesa).

monte di pietà
Veduta della facciata da Contrà del Monte da una fotografia del 1908.

Agli inizi del Trecento veniva così delineato in un modo nuovo il discrimine tra usura e giusto interesse nel prestare denaro. Fu a questo punto che cominciò a nascere una nuova razionalità economica. Nel Quattrocento si ritrova così, nei predicatori osservanti, una valorizzazione del mercante-banchiere e insieme una feroce condanna dell’usuraio (che nelle prediche si identificava con l’ebreo): un punto di forza degli osservanti fu proprio questa loro alleanza con il nuovo ceto emergente della borghesia.

Esattamente in questo periodo, tra la fine del Trecento e l’inizio del Quattrocento, cambiò il rapporto con gli Ebrei e incominciò una nuova ondata, forte e violenta, di antigiudaismo: episodi di violenza scoppiavano in occasione del Natale, della festa di Santo Stefano, della Pasqua, e soprattutto in connessione con campagne di predicazione dei frati minori o dei domenicani. Gli osservanti (per esempio il domenicano Vincenzo Ferrer), all’arrivo in una città o in una regione, insistevano perché negli statuti fossero inserite norme per limitare l’attività degli Ebrei (in Savoia nel 1403, a Cuneo poco dopo, etc.): imposizione del segno distintivo, limitazione della libertà di insediamento e di movimento nella città.

È così che, giunti alla seconda metà del XV secolo, le campagne di predicazione degli osservanti contro la ricchezza degli Ebrei si tradussero in un’azione concreta: l’istituzione dei Monti di pietà. Il principio del Monte di Pietà era l’asta. Fino ad un certo punto, il Monte di Pietà funzionava come un banco ebraico: concedeva piccolo credito su pegno; ma se il debitore non riusciva a saldare il debito, il pegno doveva essere messo all’asta in città, non venire rivenduto altrove. In questo modo il bene restava all’interno della comunità, che così – nel suo complesso – non si impoveriva.

Quando i Monti di Pietà furono istituiti, molto acceso fu il dibattito sulla liceità dell’imposizione di un tasso di interesse. Alcuni (sulla scorta, per esempio, di Tommaso d’Aquino) consideravano infatti inammissibile l’interesse, in quanto vietato dalla morale cristiana (Cfr. Lc 6,34-35); fu proprio per questo motivo che gli Ebrei, ai quali erano state vietate tutte le attività professionali che facevano capo alle corporazioni, avevano sviluppato l’attività finanziaria prima dei cristiani, i quali, pur sfruttando questo loro servizio, continuavano a considerarli avidi e strozzini.

Alla fine, comunque, nei Monti di Pietà furono ammessi tassi oscillanti tra il 6 ed il 10%, considerati una forma di protezione contro le insolvenze, così da consentire la sopravvivenza del Monte stesso ed un autofinanziamento utile per ampliarne le possibilità di soccorso (in sostanza, l’interesse non era un “costo del denaro” prestato, ma un “costo del servizio” operato dal Monte, con una giustificazione etica molto simile a quella che ispira anche la finanza islamica.

Di Davide Lovat da Storie Vicentine n. 5 Novembre-Dicembre 2021


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