domenica, Aprile 6, 2025
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Montecchio Maggiore, alla scoperta del Castello di Romeo e della chiesetta degli alpini

Vi avevamo parlato dei noti castelli di Giulietta e Romeo di Montecchio Maggiore, collegati ai manoscritti di Luigi Da Porto. Li avevamo visti da fuori e solo al castello di Giulietta avevamo potuto entrare e salire a vedere il panorama. Ora siamo stati in quello di Romeo e abbiamo risalito la torretta. Non solo: lì vicino si trova anche la suggestiva chiesetta degli alpini, bellissima da visitare come altre chiese del vicentino.

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La torre all’interno del castello di Romeo. Foto: m.c.

L’interno del castello di Romeo

Non meno affascinante del castello di Giulietta, è quello di Romeo, situato un po’ più in basso nella stessa collina. All’entrata si possono notare numerose sedie allestite per spettacoli teatrali o manifestazioni medioevali. Poi c’è la torre interna, accessibile al pubblico. Si entra e si risale una scala di legno molto stretta e ripida, che porta ai vari piani della torre.

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La scala da cui si risale la torre di Romeo. Foto: m. c.

Ed ecco che si rimane sorpresi da piccole mostre installate nei vari piani. Qui si trova molto materiale storico e fotografico che narra la leggenda dei due innamorati, la faida tra montecchi e capuleti e la storia di Luigi Da Porto. Molte foto riguardano le precedenti edizioni delle manifestazioni medioevali che ricordano la “faida”. Fra uno foto e l’altra ci sono anche dei romantici dipinti.

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Alcune foto che riguardano le precedenti edizioni delle manifestazioni medioevali. Foto: m.c.

Poi si continua a salire, fino ad arrivare in cima alla torre. Qui si viene sorpresi da un panorama mozzafiato. La terrazza è piccola e dà un lieve senso di vertigine. Ma arrivati in cima, il primo pensiero è “valeva la pena di fare tutte quelle scale”. Qui il punto di vista è diverso e opposto al castello di Giulietta: Si vede appunto l’altro castello e il panorama a 360 gradi su Montecchio e tutti i paesi limitrofi.

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Dalla cima della torre di Romeo di vede il castello di Giulietta e il panorama su Montecchio.

La chiesetta degli Alpini

Nei pressi del castello di Romeo, oltrepassato il parcheggio si trova anche la suggestiva chiesetta degli alpini. Dedicata alla Madonna dei Castelli e situata proprio tra i due antichi manieri in cima al colle, fu benedetta il 4 ottobre del 1945. Non tutti sanno però che venne edificata a seguito di un voto fatto da un alpino di ritorno dalla Campagna di Russia nel 1942.

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L’esterno della chiesetta degli alpini. Foto: Marta Cardini

Il valoroso soldato promise che, se fosse tornato a casa sano e salvo dalla guerra, avrebbe dedicato una piccola chiesa alla Vergine. La costruzione dell’edificio ebbe inizio nell’ottobre dello stesso anno e fu resa possibile grazie al sostegno del Comando del Battaglione Monte Berico del 10° Reggimento Alpini nonché dell’Ente Provinciale per il Turismo.

Il progetto della Chiesetta fu predisposto dall’architetto Ferdinando Forlati, che si era occupato, pochi anni prima, dell’ intervento di restauro e consolidamento dei due vicini Castelli, avvenuto intorno al 1939. Venne così ideato un bellissimo edificio, in piena armonia con il territorio circostante, dominato dal profilo dei Monti Lessini, dei Colli Berici e delle Piccole Dolomiti.

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L’interno della chiesetta degli alpini. Foto: m.c.

Il risultato fu quello di una Chiesetta semplice, caratterizzata da linee severe e da un’impronta medievale, costruita utilizzando la pietra del territorio. La facciata è caratterizzata da un breve porticato e da un piccolo campanile a vela sul frontone.

I gradini in pietra tenera di Vicenza che conducono il visitatore, da Via Castelli 4 Martiri, all’entrata della Chiesetta, furono probabilmente gli ultimi blocchi di pietra estratti presso le nostre Priare, prima che cessasse l’attività estrattiva e fossero utilizzate come fungaia.

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Il castello di Romeo visto dalla chiesetta degli alpini. Foto: m.c.
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La riproduzione di quadro di Hayez che raffigura Giulietta e Romeo all’interno del castello di Romeo. Foto: m.c.

 

 

 

 

 

Antonio di Lorenzo presenta il 4° volume di “Uniche! Le grandi donne vicentine della storia”

Venerdì 5 maggio alle 20.30, la sala grande della biblioteca comunale di Montebello Vicentino ospiterà la presentazione del quarto volume di “Uniche! Le grandi donne vicentine della storia”, opera di Antonio Di Lorenzo, giornalista da 37 anni, che ha lavorato al Gazzettino di Venezia e al Giornale di Vicenza, del quale è stato a lungo caporedattore.

Nel libro di Antonio Di Lorenzo sono tracciate le figure di 18 donne vicentine, dagli antichi romani a oggi, che sono davvero straordinarie per le loro storie e per il segno che hanno lasciato. Di Lorenzo ha voluto privilegiare, le donne sconosciute, dimenticate e comunque sorprendenti. Per molte di loro è la prima volta che viene raccontata la loro vita. E anche per le donne più conosciute, vengono offerti al lettore nuovi aspetti e approfondimenti.

Si potrà ad esempio scoprire la vita dell’antenato vicentino di Jane Fonda, la celebre attrice di Hollywood, che discende dal conte Giovanni John Gualdo, vicentino appunto, partito da Vicenza e approdato a Philadelphia nella seconda metà del Settecento. Fu il primo musicista degli Stati Uniti, tanto che i suoi spartiti sono conservati alla biblioteca del Congresso americano.

L’evento è proposto dall’Assessorato alla Cultura e della biblioteca. Per info: 0444 649378 – biblioteca@comune.montebello.vi.it.

“Car/men” dei Chicos Mambo in prima nazionale per chiudere Danza in rete festival Vicenza – Schio

Giovedì 4 maggio 2023 alle 20 e 45, nella Sala Maggiore del Teatro Comunale, torna con “Car/men” la compagnia franco-catalana dei Chicos Mambo guidata dal coreografo e direttore artistico Philippe Lafeuille. Il tutto per una conclusione festosa, ironica e dissacrante per Moving Souls”, la sesta edizione di Danza in Rete Festival | Vicenza – Schio.

“Car/men” è uno degli spettacoli cult del loro repertorio e a Vicenza sarà una prima nazionale. Ancora una compagnia internazionale, in scena al Festival promosso dalla Fondazione Teatro Comunale di Vicenza e dalla Fondazione Teatro Civico di Schio, dedicato all’arte coreutica in tutte le sue forme, per presentare sulla scena di danza nazionale un’originalissima rivisitazione del personaggio creato da Georges Bizet, una “Carmen 2.0” proposta dagli eclettici danzatori, tutti uomini, avvolti in scena nei coloratissimi costumi creati da Corinne Petitpierre. Si tratta di un ritorno molto atteso dal pubblico, quello dei Chicos Mambo, la compagnia francese fondata a Barcellona nel 1994 da Philippe Lafeuille, una compagnia che nei suoi quasi trent’anni di attività ha avuto un grande successo in tutto il mondo e arriva in Italia dopo mesi di repliche sold out a Parigi e in tutta la Francia; indimenticabile è stata la loro esibizione nel 2018 al Teatro Comunale di Vicenza, con Philippe Lafeuille a condurre le danze coinvolgendo tutti gli spettatori, al termine dello spettacolo “Tutu”.

Come di consuetudine prima degli spettacoli in sala Maggiore, giovedì 4 maggio alle 20.00 al Ridotto si svolgerà l’Incontro con la Danza; a condurlo in occasione di “CAR/MEN” sarà Carmelo A. Zapparrata, giornalista e critico di danza per testate specializzate come Danza&Danza, Hystrio, Classic Voice e per l’edizione di Bologna del quotidiano La Repubblica. Zapparrata racconterà al pubblico la molteplicità di generi che la compagnia utilizza nell’originale spettacolo, il rigore tecnico e interpretativo che caratterizza le performances dei danzatori e la vicenda del creatore e anima del gruppo, il coreografo francese Philippe Lafeuille.

“CAR/MEN” è uno spettacolo ideato per far divertire il pubblico, una messa in scena ricca ed esuberante che accoglie e trasforma generi artistici diversi come la danza, il teatro, il canto, la clownerie, oltre ad avvalersi di un ambiente digitale di straordinaria potenza per la scenografia e le luci, curate da Dominique Mabileau. Lo spettacolo, che ha debuttato in Francia nel 2019, una fantasia coreografica originalissima, ironica e trasgressiva, con richiami inevitabili alla Spagna e ai suoi stereotipi, all’opera, ai personaggi diventati miti in chiave contemporanea, riafferma la camaleontica bravura di Philippe Lafeuille e dei suoi danzatori: il coreografo crea un gioco di maschere per approcciare Carmen, icona di riferimento dell’opera e non solo, rivisitata migliaia di volte, proponendola in tutte le sue infinite sfumature. “Libera è nata, libera morirà” – il grido finale della sigaraia – si traduce in libertà di movimento, senza codificazioni o etichette, in una creazione artistica che va oltre i generi, mixando sapientemente opera e balletto, danza contemporanea e flamenco, il comico e il tragico, corpi danzanti, voce, parole e musica. 

Anche l’”inevitabile” musica di Bizet viene coperta nelle sue tracce per scoprire chi sia veramente Carmen. Squarci digitali creano incontri tra un cantante e i danzatori che a loro volta, con la loro presenza maschile molto caratterizzata, vivono e interpretano l’eterno femminile. Gli scenografici costumi a balze aggiungono fronzoli alla vita, mentre la luce degli abiti penetra nell’arena dei ricordi e dei sentimenti. Un’ode alla libertà che si traduce in una dedica sfolgorante a questo quadro di vita “iberica” che accende il buonumore del pubblico, tra l’immagine di un Minotauro volante e un torero sulle punte. “Quasi una dedica sfolgorante a questi momenti di vita spagnola, forse un modo per dire: non ho dimenticato….. e quindi olé Carmen, in tutte le sue sfumature , perché ‘l’amour est enfant de bohème, qui n’a jamais connu de loi’” come spiega Philippe Lafeuille nelle sue note di regia sullo spettacolo.

I danzatori in scena a Vicenza sono: Antoine Audras, Antonin «Tonbee» Cattaruzza, Phanuel Erdmann, Jordan Kindell, Samir M’Kirech, Jean-Baptiste Plumeau, Lucas Radziejewski, Stéphane Vitrano.  

CREDITI

ideazione e coreografia Philippe Lafeuille 

assistente Corinne Barbara

canto Antonio Macipe 

concezione video Do Brunet  

luci Dominique Mabileau, assistita da d’Armand Coutant

ideazione costumi Corinne Petitpierre, assistita da Anne Tesson 

colonna sonora assemblata da Antisten

produzione Compagnie La Feuille d’Automne: Xavier Morelle,Matthieu Salas

coproduttori Victor Bosch – Lling music, Quartier Libre Productions, Le Théâtre de la Coupole de Saint Louis / Alsace, Le Quai des Arts – Relais Culturel Régional / Argentan, KLAP Maison pour la danse à Marseille (residenza finale 2019)

con il sostegno di L’Orange Bleue – espace culturel d’Eaubonne, L’Espace Michel Simon de Noisy-le-Grand – Micadanses / residenza creativa specifica

distribuzione Quartier Libre

Chicos Mambo

La compagnia incarna il sogno del coreografo che l’ha fondata, Philippe Lafeuille, ovvero “fare della danza una commedia”. L’artista scopre la danza grazie ad uno spettacolo di Maurice Béjart e nella sua carriera ha ballato sia con Madonna che con Rudolf Nureyev; nel 1994 a Barcellona, fonda i Chicos Mambo insieme a due danzatori la cui esperienza e senso dell’umorismo sono l’essenza dello spirito dissacrante, ma sempre con sublime ironia, che anima i loro spettacoli. Già con le prime creazioni i Chicos Mambo trionfano sia in Spagna che Francia, ma il vero successo internazionale giunge con lo spettacolo del 1998, “Méli-Mélo”, mentre Philippe Lafeuille si afferma come artista eclettico e multidisciplinare. Le sue creazioni sono sempre originalissime, un mix sapiente di generi, dalla danza al teatro, dalle clownerie alle arti plastiche e alle acrobazie, spettacoli di grande ironia e divertimento per il pubblico sostenuti dalle indiscusse abilità tecniche dei performer, indistintamente danzatori, acrobati, attori e cantanti.

Prima di “CAR/MEN” dei Chicos Mambo in Sala Maggiore si svolgerà una performance nell’ambito del Progetto Supporter, la sezione del Festival che mette in luce giovani promesse della danza contemporanea che hanno in questo contesto la possibilità di esibirsi prima di alcuni importanti spettacoli del Festival: pochi minuti di grande intensità, per offrire agli spettatori una visione delle tendenze coreografiche più innovative e per dare ai nuovi interpreti la possibilità di farsi conoscere a un vasto pubblico. Giovedì 4 maggio sarà in scena “Ordinary People”, un lavoro creato e interpretato da Marco di Nardo e Juan Tirado su musica di Andrea Buttafuoco, una produzione Frantics Dance Company sulla possibilità degli esseri umani di amare ed essere amati, discutere e comunicare gli uni con gli altri, una ricerca antropologica in danza su come le persone siano messe alla prova dall’ambiente che le circonda, e su come siano in grado di trovare soluzioni per affrontare i problemi. La creazione è stata selezionata per la Vetrina della giovane danza d’autore – Anticorpi XL 2022.

Frantics è una compagnia di teatrodanza con sede in Germania, con un’esperienza decennale nelle arti performative. I componenti, italiani e spagnoli soprattutto, condividono la loro visione a partire dalla creatività e versatilità per la creazione, che è una delle loro qualità più sviluppate. La compagnia è stata premiata in numerose occasioni, in contesti internazionali prestigiosi. Lo stile attinge e mixa diverse discipline di danza e movimento, sia urbane che contemporanee, teatro testuale e fisico, con influenze che vanno dalla letteratura ai saggi filosofici.

Danza in Rete Festival | Vicenza – Schio, giunto alla sesta edizione, si avvale della direzione artistica di Pier Giacomo Cirella in collaborazione con Loredana Bernardi e Alessandro Bevilacqua; è riconosciuto e sostenuto dal Ministero della Cultura ed è realizzato con il supporto della Camera di Commercio di Vicenza; è sostenuto inoltre da società a capitale pubblico come Viacqua e dalle sponsorizzazioni di aziende private: Webuild, Mecc Alte, D-Air Lab.

www.festivaldanzainrete.it

Abu Simbel e Philae sul Nilo, a Vicenza il racconto della “faraonica” impresa di salvaguardia

Ci furono anche maestranze e imprese venete tra i protagonisti dell’imponente opera di salvaguardia dei templi egizi di Abu Simbel e Philae tra gli anni ’60 e ‘70 del secolo scorso. A raccontare l’impresa epocale del trasferimento dei templi sul Nilo sarà Silvana Anna Bianchi, storica, venerdì 5 maggio alle 17 nella sala Dalla Pozza di Palazzo Cordellina (contra’ Riale 12) di Vicenza.

Attraverso immagini e documenti, la conferenza del ciclo primaverile 2023 della sezione di Vicenza di Italia Nostra, organizzata in collaborazione con la Biblioteca civica Bertoliana, darà conto del lavoro portato avanti da un vasto gruppo di archeologi e tecnici per scongiurare il rischio di inondazione dei templi egizi in seguito alla costruzione della diga di Assuan, voluta nel 1955 dal governo del generale Nasser.
Su questo sfondo, Bianchi presenterà il significativo ruolo avuto dalle maestranze e dalle imprese venete, in special modo vicentine e veronesi, nel faraonico trasloco dei monumenti e nel salvataggio di beni dichiarati dall’Unesco patrimonio dell’umanità.
Introdurrà l’incontro Giamberto Bochese, che coordina la raccolta e la pubblicazione dei nuovi documenti vicentini e veronesi.

In occasione dell’appuntamento di Italia Nostra, la Bertoliana allestirà nelle sede storica di Palazzo San Giacomo una vetrina tematica dedicata ai libri sull’Egitto donati alla civica di Vicenza da Christian Greco, direttore del Museo Egizio e tra i curatori della mostra “I creatori dell’Egitto eterno. Scribi, artigiani e operai al servizio del faraone”, visitabile in Basilica Palladiana fino al 28 maggio.
Informazioni: www.mostreinbasilica.it

L’incontro è ad ingresso libero fino ad esaurimento dei posti disponibili.
Per ulteriori informazioni: consulenza.bertoliana@comune.vicenza.it

Silvana Anna Bianchi, storica è laureata in Lettere con tesi in Storia medievale, specializzazione in Archivistica e ha un dottorato di ricerca in Beni culturali. Già docente nella scuola superiore e all’università, collabora con enti, istituzioni e case editrici in attività di ricerca, divulgazione e aggiornamento. È autrice di libri e articoli con attenzione prevalente ai temi delle fonti storiche, della storia di genere e della salvaguardia del patrimonio culturale. Sui temi Unesco ha pubblicato, oltre a vari saggi, il volume “L’importanza di voler chiamarsi Unesco. La città di Verona tra mito di Giulietta e Patrimonio dell’umanità” (Le Monnier, 2017).

 

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Fonte: Abu Simbel e Philae sul Nilo, venerdì 5 maggio la faraonica impresa di salvaguardia , Comune di Vicenza

Generazione Teatro, le scuole fanno teatro a Lonigo

Questa mattina, martedì 2 maggio 2023, in conferenza stampa, è stata presentata la V edizione di “Generazione Teatro”, alla presenza del Sindaco di Lonigo, Pieluigi Giacomello, dell’Assessore al Teatro Alberto Bellieni, del CDA del Teatro nel suo vice presidente Francesco Rezzadore, del direttore artistico Alessandro Anderloni e, per gli Istituti scolastici, il Dirigente dell’ITA Trentin, Michele Ceron, per l’Ist.Comprensivo Ridolfi di Lonigo prof.ssa Zelda Ferrarese e a nome degli esperti per i corsi di teatro, prof.ssa Raffaella Benetti.  

Dopo il successo della Stagione di Cartellone, conclusa con il sold out di “Oblivion Rhapsody”, il Teatro Comunale “G. Verdi” di Lonigo è pronto a riaprire con la rassegna più emozionante dell’anno: Generazione Teatro – Le Scuole fanno Teatro, dal 15 al 20 maggio, con inizio alle ore 20.30

Generazione Teatro è la sfida che compiono i giovani attori e i loro insegnanti, in un percorso annuale di laboratori nelle scuole, condotti dagli esperti del Teatro Comunale di Lonigo, in coordinamento  con il direttore artistico Alessandro Anderloni, che ha voluto  questo progetto fin dal suo arrivo a Lonigo, con il pieno appoggio del Cda del Teatro, guidato da Manuela Bedeschi. Il progetto è finanziato dall’Amministrazione Comunale di Lonigo con l’Assessorato al Teatro, guidato da Alberto Bellieni, e dalla Fondazione Farmacia Miotti, oltre al sostegno di FIS-Fabbrica Italiana Sintetici per uno degli spettacoli in programma avente tema l’acqua e la sua salvaguardia. Supportano l’iniziativa anche gli altri amici del Teatro, già impegnati nella stagione principale: Autovega, Rino Mastrotto Group e UniCo.Ge. Il Teatro Comunale diventa così il luogo del domani, con centinaia di bambini, adolescenti e giovani che si cimenteranno sul palcoscenico nel ruolo di attori, e altri migliaia di coetanei che applaudiranno dalla sala e le gallerie, costruendo così la generazione teatrale di domani.

Generazione teatro
Giacomello, Bellieni e Anderloni

Il Sindaco di Lonigo, Pierluigi Giacomello, ha voluto partecipare alla presentazione per sostenere “la priorità”, data dalla sua Amministrazione, “al tema della scuola, che è bellezza, che è crescita culturale personale e della comunità di Lonigo, ringraziando inoltre la sensibilità della Fondazione Farmacia Miotti per l’attenzione riservata ai giovani e alle scuole”.

Alberto Bellieni, Assessore con delega al Teatro esprime la“felicità” di tutta l’Amministrazione comunale di Lonigo “per la partecipazione ampia e condivisa dei progetti con gli Istituti scolastici, i loro Dirigenti, gli Insegnanti e, naturalmente, gli studenti. Investire sui giovani significa promuovere un incubatore di interesse per il teatro che poi si trasforma in una scuola di vita per i ragazzi. L’obiettivo, è chiaro, è invitare gli studenti ad affrontare il teatro per la prima volta”. Riguardo al tema dell’inclusività, Bellieni esprime la “volontà entro l’anno di adeguare l’accesso al palcoscenico per permettere anche ai ragazzi con disabilità di far parte degli spettacoli, escludendo ogni barriera possibile”.

Manuela Bedeschi Presidente del Consiglio di Amministrazione del Teatro, esprime “sempre più soddisfazione di tutto il CDA e dell’Amministrazione Comunale nel vedere e assistere alla continua crescita di questo programma scolastico che coinvolge, oltre ad i ragazzi, anche le loro famiglie e la cittadinanza, in un crescendo di entusiasmo”.

Otto spettacoli che il Direttore Artistico Alessandro Anderloni definisce come: «La festa del teatro del futuro. Quei bambini e ragazzi ritorneranno a teatro, perché quel luogo lo conserveranno nel cuore. Concludere ogni anno la stagione a Lonigo con la loro energia, il loro entusiasmo, i loro occhi riconoscenti è il miglior incoraggiamento per dare tutto ciò che possiamo per fare ancora più bella la prossima stagione e la prossima edizione del progetto: lo dobbiamo a loro. A loro lasceremo in consegna il Teatro Comunale di Lonigo, che ci sopravviverà». Anderloni ricorda che gli spettacoli in scena “sono un programma che si inventa insieme, a partire da novembre e che poi, a teatro, scatena l’energia incontenibile dei ragazzi”.

Il prof. Michele Ceron, Dirigente dell’Ist.Trentin, è “lieto di proseguire la collaborazione con il Teatro Comunale”, osservando, inoltre, come “siano proprio gli studenti timidi a partecipare con maggior motivazione alla sfida del palcoscenico”. 

La prof.ssa Zelda Ferrarese, impegnata con gli studenti dell’Istituto Comprensivo Ridolfi, vuole far sentire la voce degli insegnanti che “credono all’espressione potente del teatro che poi si riproporrà tutta la vita”.

Raffaella Benetti, in rappresentanza degli esperti che collaborano con le scuole, testimonia della sua esperienza, anche di studiosa, ricordando che “il teatro funziona quando è teatro di comunità, dove partecipano anche i genitori”. 

Per quanto riguarda gli spettacoli, a contendersi il “ruggito leoniceno” dei più volonterosi, ci saranno gli allievi di tre Scuole Primarie: la “A.Giusti” di Almisano, la “F.O.Scortegagna” di Lonigo e la “S.G.Bosco” di Madonna di Lonigo. 

Per i più grandicelli, saranno tre le Scuole Secondarie di I Grado “C.Ridolfi” di Lonigo, Istituto Tecnico Agrario Statale “A.Trentin” di Lonigo, con due spettacoli, e l’Istituto di Istruzione Superiore “Rosselli-Sartori” di Lonigo.

Due, invece, i progetti di laboratorio portati avanti: il primo è il Laboratorio Creativo “Quelli che…in viaggio verso il futuro”, interno all’Istituto Tecnico Agrario Statale “A.Trentin” di Lonigo e il secondo, è frutto del Laboratorio del Teatro Comunale di Lonigo per adulti guidato da Andreapietro Anselmi.

La coloratissima combriccola di attori dell’area di Lonigo, inizierà lunedì 15 maggio, con “L’Amore delle tre Melarance”, ispirato all’opera di C.Gozzi e S.Prokofiev, con testo e musiche originali di Raffaella Venetti e scene e costumi di Tiziana Storato. 34 tra attrici e attori e 53 voci del coro provenienti dalla Scuola Primaria “A.Giusti” di Almisano. 

Martedì 16 maggio è il debutto della Scuola Primaria “F.O. Scortegagna” di Lonigo, con “Nessuno Siamo Perfetti”, per la regia di Marco Pasquale e Leonardo Zaupa. 111 attori con il sogno di un mondo di pace. 

Mercoledì 17 maggio è all’insegna di un doppio spettacolo: si inizia con “Piccole storie di miracoli” dall’omonimo libro di Nicoletta Nicolin, adattamento di Stefano Rossi. I 26 studenti attori della Scuola Primaria “S.G.Bosco” di Madonna di Lonigo danno voce alla straordinaria raccolta di tavolette votive del santuario della Madonna dei Miracoli. A seguire, 14 attrici e attori della Scuola Secondaria di I Grado “C.Ridolfi” andranno in scena con “Le Metamorfosi”, adattamento e regia di Stefano Rossi, aprendoci l’universo fantastico e mitico del poeta Ovidio. 

La doppia serata di giovedì 18 maggio, inizia con “Il peso delle cose”, coordinata da Giulia Castellani e Stefano Mazzardo per il Laboratorio Creativo “Quelli che…in viaggio verso il futuro”, interno all’Istituto Tecnico Agrario Statale “A.Trentin” di Lonigo. 15 musicisti, interpreti, tecnici e attrezzisti risponderanno alla domanda “Se il mondo corre, come faccio a non correre anch’io?”. In seconda serata, l’Istituto Tecnico Agrario Statale “A.Trentin”presenta “Niente è come sembra”, testo e regia di Stefano Rossi per 11 attori e attrici in scena sul tema della maschera sociale e della autenticità. 

Venerdì 19 maggio l’Istituto di Istruzione Superiore “Rosselli-Sartori” di Lonigo alzerà il sipario sui 14 attori di “Spara!”, affidato alla regia di Alessandro Sanmartin, con la drammaturgia elaborata dagli stessi studenti. Il tema del conflitto, delle guerre e del teatro, ci porta ad essere dei combattenti nella vita che siamo chiamati a vivere. 

Il gran finale di sabato 20 maggio è in chiave adulta, grazie al saggio di fine corso del Laboratorio del Teatro Comunale di Lonigo, con “In scena con Shakespeare”, per la regia di Andreapietro Anselmi, coordinatore e insegnante. 20 attrici e attori traggono insegnamento dalla recitazione, partendo dall’Amleto del Bardo, divenuto autore universale.

Fiorenza Vendramin Sale, storia di una donna

Nella Vicenza dell’800 fece scandalo tra i benpensanti il comportamento di Fiorenza Vendramin, che non solo non celava le sue idee rivoluzionarie, ma all’arrivo dei francesi, lasciò l’autoritario e retrivo ambiente familiare. Sposa forzata del marchese vicentino Filippo Luigi Sale Manfredi Repeta, “pastorella” d’Arcadia con il nome di Andosine Erigenia, socia dell’Accademia dei Riposti di Cologna Veneta, divenne amante di un ufficiale delle truppe in servizio nella città, abbandonando il marito e andando a vivere con lui.

Fiorenza Vendramin Sale
UN ritratto di Fiorenza Vendramin Sale

Il contesto storico-sociale

Lo sfondo nel quale dobbiamo collocare le vicende di Fiorenza Vendramin Sale è quello di una società nella quale le donne avevano conquistato una posizione importante in campo culturale, tanto da far attribuire al Settecento l’appellativo di “secolo delle donne”. In ogni campo della produzione culturale erano presenti significative figure femminili: nel giornalismo, nella poesia, nel teatro, nella musica, nella pittura, perfino nelle scienze e nella matematica, dalla giornalista Elisabetta Caminer Turra, direttrice del “Giornale Enciclopedico”, alla pittrice Rosalba Carriera, alla scrittrice Gioseffa Cornoldi Caminer, redattrice de “La donna galante ed erudita”, a Luisa Bergalli, moglie di Gasparo Gozzi, autrice de “L’almanacco in difesa delle donne”, alle poetesse Silvia Curtoni Verza e Isabella Teotochi Albrizzi – la “bella Temira” apprezzata anche da Giacomo Leopardi – a Giustina Renier Michiel, che si dilettava di scienza e filosofia.

Si trattava di donne poliglotte, impegnate spesso in attività di traduzione di opere letterarie europee, come la Michiel, che traduce Shakespeare, o Elisabetta Caminer, che fa conoscere Madame De Genlis. Il loro ruolo è importante soprattutto sul piano della mediazione culturale, in virtù della funzione esercitata dai salotti, luoghi precipui della socialità settecentesca gestiti appunto dalle salonnierès, particolarmente importanti nel contesto europeo anche per la moda dei viaggi letterari, per il fascino che continua ad esercitare l’Italia, per il ruolo internazionale giocato da Venezia, per le caratteristiche sovranazionali delle élites culturali.

L’incalzare degli eventi politici, le rapide trasformazioni messe in moto da Napoleone le coinvolgono in modo diretto, sollecitandole ad una partecipazione intensa, condivisa con gli amici, i parenti, gli sposi. Il sostegno al nuovo corso democratico è espresso in modi e forme diverse: dalla partecipazione alle feste e alle manifestazioni rivoluzionarie, all’adozione di una nuova moda e di un nuovo stile di vita; dalla rottura di legami familiari, alla scrittura di testi e appelli rivoluzionari, segnali tutti di quella aspirazione alla libertà personale che si era manifestata già negli ultimi decenni del secolo, con l’insofferenza verso il potere patriarcale, con aspirazioni di libertà nelle scelte matrimoniali, con un aumento delle richieste di divorzio.

Un velo di oblìo ricopre la storia di questa donna, le sue egloghe, le sue memorie, i suoi drammi. Il ricordo di lei si è in parte perso, sia per il naturale passare del tempo, sia per la intenzionale volontà dell’uomo di disperdere ciò che si ritiene contaminato dal peccato. Ma non era facile, però, che la polvere cancellasse del tutto il nome di Fiorenza Vendramin. La sua breve esistenza fu caratterizzata da un’ansia di ribellione che determinò tutta la sua vita burrascosa. Proveniente da una illustre, ma decadente casata veneziana, era andata in sposa per opportunità familiari al ricco marchese vicentino Luigi Sale, grazie ad una mediazione di Carlo Cordellina, vecchio amico di famiglia e famoso avvocato del foro veneziano.

Fiorenza si adattò alla nuova situazione che all’inizio probabilmente l’attrasse: brillante per la bellezza, lo spirito e la cultura, diventando la marchesa Sale, divenne anche regina di Palazzo Repeta, la sua principesca dimora, della città, della moda. La nipote Luigia, ne fa una descrizione da una piccola miniatura conservata in famiglia: “i capelli neri della marchesa Fiorenza, in magnifica copia di innumerevoli anella venian su in natura, sostenuti mollemente da una zona o benda celeste, secondo costumavano alla Tito. Un piccolo sciallo o fazzoletto da spalle, ingroppato per di dietro, dissimulava, senza alterarne la grazia, il corpicciolo svelto ed eretto, quale arbusto che si dilata in corimbo”.

Nel 1794 Fiorenza partorì una femmina e questo fu un evento che segnò probabilmente i rapporti con il marito ed i suoceri che pretendevano un maschio. La vecchia marchesa non volle vedere la creatura per cinquanta giorni e il vecchio marchese vietò ai familiari di pronunciare in sua presenza il nome della neonata e quindi di ricordare “l’avvenimento ch’era succeduto pochi giorni prima a funestare la sua nobilissima casa”.

Perfino i servitori di casa accolsero malamente la notizia della nascita della bambina: infatti per l’arrivo di un maschio ognuno di loro avrebbe ricevuto, come da usanza, uno zecchino d’oro, mentre per quello di una femmina un ducato veneto d’argento. Fiorenza comprese ben presto “tutta l’enormità del sacrificio che avevano voluto da lei”, cioè di sposare un uomo che non amava e che voleva da lei soprattutto la garanzia di dare un seguito al nobile casato, ma non si abbandonò né all’avvilimento né alla disperazione. Dopo alcuni mesi trascorsi studiando ritirata nel suo appartamento e accontentandosi della compagnia di alcuni “vegliardi” ben visti alla famiglia, accettò per un paio d’anni il cavalier servente, secondo i desideri del marito e dei suoceri, un giovane nobile della mediocre famiglia degli Arrigoni.

Cominciò a studiare pittura, riprese l’attività della poesia e della traduzione dal francese di autori come Voltaire e Montesquieu. Colti personaggi vicentini divennero frequentatori del suo salotto e delle sue conversazioni: Giambattista Velo, Lodovico Carcano Volpe, Alessandro Trissino, Francesco Testa. Le fu attribuita una serie infinita di amanti, l’ultimo dei quali, con l’arrivo dei francesi, fu appunto il capitano Lasalle.

Tutta Vicenza ne parlava, ma Fiorenza, “avida” di celebrità cercava le occasioni per far parlar di sé in una città che non chiedeva altro. “Dirò che sempre inquieta, porto le mie idee al di là dei confini che la ragione, la morale, l’onestà, la riflessione le pongono d’ordinario” spiegherà Fiorenza nelle sue memorie “A volte la sola idea di fare una cosa che tutto il mondo condannerebbe, mi dà una forza e un indirizzo particolare per pervenire allo scopo.

È a causa dei divieti che il mio animo prende slancio”. La nobiltà vicentina, molto conservatrice, non poteva sopportare, per esempio, che gli appartenenti ai suoi ranghi sedessero sulle panche delle osterie. Ma con l’arrivo dell’armata francese tutti i giovani aristocratici, sapendo quanto questo potesse dispiacere ai vecchi, si riversarono nel- le taverne, nelle “casanze” che erano stanze riservate all’interno delle taverne stesse. Una sera volle andarvi pure Fiorenza, nonostante gli amici tentassero di dissuaderla, anzi per dispetto e perché la cosa avesse ancor più pubblicità, con il carbone scrisse sul muro dell’osteria: “La marchesa, e quattro amici furono a cena qui in Casanza ben sarebbero felici se a dispetto dell’usanza non andasser per la bocca di qualche lingua sciocca”.

“Caro lettore” commenta la nipote Luigia “tu li vedi i buoni borghesi di Vicenza incontrarsi agli angoli delle vie, arrestarsi, ghermirsi l’un l’altro il polso, mormorando con un misto di sorpresa e di convinzione: – A gavìo sentìo? …la marchesa è sta in Casanza … – E, fatto un moto pauroso, scantonare rapidi a testa bassa come a dire: – che tempi!”. Nel novembre del 1797 l’armata francese partì, cessarono le istituzioni democratiche “e tutto lo splendore di quella vita affascinante, guerriera, potentissima e creatrice”.

La famiglia Sale “umiliata” dalle eccentricità di Fiorenza, con l’arrivo degli austriaci che avrebbero riportato “l’ordine civile e religioso”, pensava già a por fine a quel comportamento e anche a vendicarsi “perché il marchese non era poi così dolce di sale da tollerare gli scandali” e la suocera era conosciuta come “vendicativa”.

Fiorenza chiese ad un suo amico, il conte Niccolò Loschi, il volume dell’enciclopedia che conteneva la voce “oppio”. Lettone il contenuto, si procurò la dose indicata e la prese la sera del 27 dicembre 1797, mentre la sua famiglia “era intenta alla conversazione ordinaria”.

I cronisti del tempo, compreso lo zio acquisito Tornieri Arnaldi Arnaldo, dedicarono all’accaduto appena un cenno, senza alcun riferimento al fatto che in questo modo Fiorenza si era data la morte da sé. Per capire tale scelta dei cronisti va tenuto presente che secondo il diritto canonico il suicidio comportava la privazione della sepoltura ecclesiastica, che però poteva essere concessa nel caso in cui il fatto fosse noto solo ai membri della famiglia i quali, ovviamente dovevano evitare la notorietà della notizia. Mentre in Francia il colpevole era privato della sepoltura e il cadavere era trascinato su una grata, appeso per i piedi e in seguito condotto alla discarica, il diritto veneto non puniva il suicidio quale reato, restando soltanto l’infamia unita alla memoria. Il disonore del suo gesto doveva comportare una duplice morte: quella fisica e quella sociale. Il ricordo di lei avrebbe dovuto, quindi, scomparire. (tratto dal “Biblionauta” della Biblioteca Bertoliana del 4 Marzo 2014)

Da Storie Vicentine n. 6 gennaio-febbraio 2022


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I Carrara, “Il teatro vive solo se brucia” al cinema Odeon di Vicenza

L’epopea dei teatri viaggianti attraverso i ricordi di una delle ultime famiglie d’arte, i Carrara. Una storia ininterrotta che si tramanda da 10 generazioni e un racconto unico in Italia nel documentario diretto da Marco Zuin e prodotto da Ginko Film.

Il teatro vive solo se brucia, prodotto da Ginko Film per la regia di Marco Zuin, arriva in sala con un’anteprima al Cinema Odeon di Vicenza lunedì 8 maggio alle 20.45.

Il documentario riscopre l’epopea dei teatri viaggianti in Italia dal primo dopoguerra fino all’avvento della televisione, con una incursione nel presente, attraverso le vicende di una delle ultime famiglie d’arte, da più di 10 generazioni: i Carrara. In un viaggio picaresco dal sud al nord, partendo dalla Sicilia e arrivando in Veneto, nell’ultimo secolo i Carrara hanno attraversato lo stivale portando il teatro laddove il teatro mai sarebbe stato.

Finanziato dalla Regione del Veneto e dalla Veneto Film Commission, il film è stato realizzato anche grazie al sostegno di Fondazione Sardegna Film Commission, la collaborazione dell’Associazione Pipa e Pece, il contributo di La piccionaia-Centro di Produzione Teatrale e del Caseificio Tonon.

Dopo l’evento a Vicenza il film continuerà nella settimana il suo tour nei cinema del Veneto: il 9 maggio al Cinema Italia Eden di Montebelluna (TV), il 10 maggio al Cinema Esperia di Padova, l’11 maggio al Cinema Edera di Treviso, con la collaborazione anche del Teatro Stabile del Veneto-Teatro Nazionale e di Arteven Circuito multidisciplinare Regionale del Veneto, nell’ambito del progetto Teatro Viaggiante.

Con la voce narrante di Andrea Pennacchi, tramite i ricordi dei fratelli Titino, Annalisa, Armando Carrara e della madre Argia Laurini, il film vuole ricostruire non solo l’ultima stagione di un teatro popolare che non c’è più, ma anche usi e costumi di un’Italia prima contadina e poi sempre più società dei consumi. «Attraverso una materia cinematografica viva e inedita abbiamo indagato come eravamo, una memoria del passato per trovare una base essenziale per capire il presente – spiega il regista Marco Zuin – un confronto, mai nostalgico, tra un tempo trascorso e il contemporaneo. I Carrara sono figli del mondo e cambiano con lui».

Le riprese hanno coinvolto anche il Museo internazionale della maschera Amleto e Donato Sartori di Abano Terme (Padova), dove sono state realizzate le più importanti maschere per Strehler, De Bosio, Dario Fo, Ferruccio Soleri e anche per il “nostro” Titino, e la Biblioteca Civica Bertoliana di Vicenza dove è conservato l’archivio della compagnia dal 1975, anno in cui è stata fondata con il nome di La Piccionaia.

Il rapporto col mondo esterno passava attraverso gli spettacoli

I Carrara sono una dinastia teatrale che discende direttamente dalle antiche compagnie itineranti del Cinquecento. La loro epopea viaggiante inizia già nei primi anni del Novecento, quando il nonno paterno di Titino, Salvatore Carrara, detto Totò, decide di lasciare la Sicilia, dove la famiglia era rimasta per 8 generazioni, e di emigrare. Ha solo 20 anni e durante il viaggio fa tappa in piazze e teatrini fissi e con la famiglia si esibisce per la gente dei tanti luoghi attraversati.

Si arriva così, ben presto, alla nona generazione e a questo punto compare Tommaso, detto Masi, padre di Titino, Annalisa e Armando. Quando Totò comincia a perdere l’entusiasmo per il teatro, Masi ne fonda un altro, sempre viaggiante, con la moglie Argia e i suoceri Armando e Anna Laurini: costruisce un nuovo padiglione, inchiodando personalmente le assi.

Tra passato e presente, i Carrara sono figli del mondo e cambiano con lui

Ma l’Italia sta cambiando, e così gli interessi della gente, arriva la televisione e tutto il resto inizia a sembrare meno attraente. Il teatro da 500 posti fatto di assi di legno, chiodi raddrizzati e riutilizzati e fondali di carta dipinti viene schiodato, tagliato, fatto a pezzi da ciascuno dei membri della compagnia e infine bruciato. «Il teatro non si vende – dice Masi – non si lascia marcire in un magazzino. Non possiamo buttarlo via, questo mai. Meglio bruciarlo».

Sembra tutto finito, ma i Carrara non mollano: si reinventano diventando interpreti della grande tradizione della Commedia dell’Arte con tournée in tutto il mondo, da Istanbul a Londra, da Tokyo a Parigi, da Buenos Aires a Montreal.

La loro storia viene raccontata in questo film con la madre Argia, classe 1930, la prima donna a vestire i panni di Pantalone, e i fratelli Armando, attore e regista, Annalisa, organizzatrice teatrale, e Titino, attore, che fa da filo conduttore al documentario: un pezzo di storia del teatro popolare d’arte italiano.

IL TEATRO VIVE SOLO SE BRUCIA

Documentario, Italia 2022, 60’

Produzione Ginko Film, regia di Marco Zuin

Per maggiori informazioni e aggiornamenti ginkofilm.it

La cantina ghiacciaia del brolo di Altavilla

Sulla cantina ghiacciaia del Brolo si è favoleggiato per secoli ingarbugliando storia e leggenda. Un tempo, il luogo era inavvicinabile e tutti lo guardavano curiosi sbirciando oltre un alto muro. Si credeva fosse un segreto passaggio collegato al castello della Rocca dei Vescovi sulla collina e alla Villa Valmarana al piano.

Nel primo Medioevo la famiglia Aleardi acquistò dal vescovo di Vicenza un appezzamento di terreno alla Rocca a ridosso del primo circuito delle mura castellane. Nei primi anni del 1600, Prospero Valmarana acquistava, dalla famiglia Aleardi, una casa padronale in contrada Cantarane nel borgo di Altavilla con un ampio brolo di circa tre campi cintato da muro. Nell’atto di legge: “ … un brollo detto il Cavallo tutto chiuso da muro”.

Di quest’alto muro di sasso a varia lavorazione esiste ancora un lungo tratto. Sicuramente la casa, ampliata e modificata da Prospero, è da riconoscere nella Ca’ Granda o Domus Magna ben disegnata nelle mappe del 1672 e del 1678 di Matteo Alberti. L’ampio terreno si identifica oggi nel Parco Comunale del Brolo. Chi vi accede dall’ingresso principale di viale dei Morosini nota subito, sulla sinistra, una strana costruzione inglobata nella collina.

È  la cantina ghiacciaia dell’antica casa padronale Ca’ Granda poi trasformata nella Villa Valmarana dall’architetto Francesco Muttoni incaricato del progetto nel 1697. A quei tempi, lì davanti dove oggi si apre la piazza, verdeggiava un ampio stagno, regno delle rane. Per questo il toponimo riportato negli antichi atti, peraltro non ancora del tutto abbandonato, è Cantarane. Molti conoscono l’esterno della cantina ghiacciaia, ma pochissimi vi sono entrati. Nessuno mai, a quanto so, aveva eseguito il rilievo dei luoghi. Entreremo in questi spazi cercando di farci raccontare da rocce e muri la storia e le improbabili leggende. Occorre conoscere che la famiglia Valmarana, non ancora in possesso del titolo nobiliare, possedeva in Altavilla ben 889 campi vicentini, pari a 356 ettari, con case dominicali, stalle e greggi. I locali, oggi desolatamente vuoti e abbandonati, erano indispensabili per una breve conservazione di prodotti alimentari.

Agli inizi del 1900 il Comune costruirà, in centro paese, una vera ghiacciaia ancora esistente e visitabile. Un breve vialetto tagliato nella collina inquadra una porta e due finestre a lato, protette da inferriate, che paiono scavate nella roccia. Pare vogliano inghiottire il visitatore in una misteriosa oscurità. All’inizio, sulla destra, ormai imbrigliata alle radici di un albero si osserva quello che resta di un’antica macina da mulino in pietra, memoria dei tanti mulini che nel medioevo operavano sul territorio al Salgareto, in contrada del Pisolo, a Caldimolino presso la Fons Lapis, alle Ca’ Perse, in via della Febbre sul Retrone a Sant’Agostino.

Chissà cosa si conservava nel primo grande locale costruito in sasso e voltato a botte. Senz’altro prodotti che abbisognavano di luce schermata e di aria che, entrando dalle aperture, circolasse stimolata dallo sfiatatoio a settentrione ancora visibile tra i cespugli sul pendio della collina. Terra e vegetazione sopra la volta del soffitto mantenevano una temperatura costante e una regolata umidità.

Da qui, in continuità, una bassa apertura conduce alla “grotta superiore” scavata nella roccia calcarea. Misura circa sette metri per quattro, alto due metri. Non c’è niente di particolare se non una piccola nicchia e il fascino e le fantasie che il tempo ha costruito. Una stretta e ripida scala si tuffa nel buio di un percorso verso una cavità più in basso. Impossibile non ascoltare i passi mentre si scendono i gradini di pietra nel silenzio che circonda. Paiono scandire il ritmo dell’antico del tempo. Così la scala si popola di passato e di persone che l’hanno consumata. Dentro di me “suona” questa scala deserta che porta nel buio profondo di sotto.

Ai lati si aprono nicchie, ripiani, affreschi di muffe. Tutto sembra non appartenere più a noi, appartiene al tempo e vivrà ancora. Qui la realtà quotidiana si sposta di lato e lascia liberi, si entra nel tempo mitico dove le cose si rigenerano, gli atomi corrosi si mettono in movimento. Tutto appare dormiente, ma con dentro il lievito di recuperare memorie e costruire futuro. Si scende in quello che io chiamo naòs, la parte più interna e nascosta. E’ il luogo della leggenda popolare che lo collegava al medioevale castello in alto e con la villa antica al piano.

Il soffitto è molto basso, se alzi una mano puoi toccare l’umida frescura. Qualche gancio di ferro rimanda a carni o insaccati appesi per una naturale maturazione. Una grande nicchia forse accoglieva bottiglie di vino posto a invecchiare. Durante l’ultima guerra, i soldati tedeschi, suggestionati dalla leggenda popolare e temendo fughe o incursioni incontrollabili, esplosero delle mine per verificare occultati passaggi. Le macerie si vedono ancora. Non trovarono nulla, tutto finiva lì, addosso alla roccia, dove tutto potrebbe cominciare nell’esplosione di un futuro programmato. Intanto si potrebbe operare almeno con un lavoro di pulizia e sgombero. Nel percorso di ritorno dalle buie profondità verso la luce e il respiro verde del brolo, confido ardentemente in “illuminazioni” che aprano questo luogo a un qualche utilizzo. Spero che gli spazi di queste antichissime cantine siano in qualche modo recuperati per un impiego da scegliere con cura. O almeno, siano resi agibili per visite guidate.

Di Giorgio Rigotto Da Storie Vicentine n. 6 gennaio-febbraio 2022


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Turista biellese Marco: un inno d’amore per Vicenza e i vicentini

Egregio Direttore, le chiedo ospitalità per poter rivolgere il mio ringraziamento a Vicenza e soprattutto ai vicentini. Ho trascorso in città alcuni giorni e ho avuto modo di rivedere alcune delle tante bellezze artistiche e architettoniche della città, alcune delle quali mi ero innamorato una trentina di anni fa, quando in gita con la scuola avevo visto il Teatro Olimpico, la Basilica Palladiana (piace anche a me chiamarla così) e La Rotonda.

Questa volta ho potuto anche ammirare altri gioielli, come alcune delle chiese del centro, il Santuario della Madonna di Monte Berico, Villa Valmarana ai Nani e le Gallerie d’Italia. Lo splendore di queste realtà colpisce, ma ciò che mi ha veramente reso felice del soggiorno è l’ospitalità.

In albergo, l’Hotel de La Ville, ho trovato personale disponibile e molto attento. In particolare, la ristorazione, gestita da un abile direttore di sala, vede protagonisti giovani ragazzi della scuola alberghiera, che mostrano interesse e passione, facendo sentire l’ospite a proprio agio in ogni momento.

Ho cenato un paio di volte all’Osteria I Monelli e mi sono sentito a casa. La cucina è ricercata, eccezionale e un’ottima combinazione tra tradizione e innovazione. La seconda volta sono stato accolto come se fossi un parente e, oltre ad aver nutrito il corpo, ho alimentato l’anima grazie alla cordialità.

La gentilezza non è mai mancata nei bar e nei negozi in cui sono entrato. Durante la mia permanenza ho incontrato, nei ristoranti e in altri contesti, abitanti di Vicenza che si sono mostrati disponibili alla battuta e a scambiare due parole. Questo è stato il vero valore aggiunto della mia visita.

Forse da biellese sono abituato a una maggiore chiusura, ma riscontrare apertura al dialogo e cortesia non è così scontato e facile, soprattutto dopo il lungo periodo che abbiamo vissuto con la pandemia. Vicenza è una bella città, ben tenuta, ma è anche un luogo piacevole per le persone che la abitano. Sono loro ad aver contribuito a farmi tornare a casa felice e con tanta voglia di ritornare. A Vicenza si sta veramente bene ed è proprio per questo che desidero ringraziare i vicentini!

Marco Vigliocco

Grazie Marco, da un vicentino di adozione che arriva qui nel 1992 da un paese del basso Lazio (18 anni di vita) via Roma (24 anni). In questa città e in questo territorio ho fatto tante belle cose, anche nel mondo dello sport di alto livello (pallavolo femminile); altre ne ho subite di poco belle e qui ho lottato da giornalista per questa gente e contro alcuni che l’hanno impoverita.

Leggere le sue lodi alle bellezze di Vicenza e all’accoglienza della sua gente migliore mi conforta e mi rafforza nella volontà di fare quanto in mio potere, come anche solo pubblicare la sua lettera, per far sì che altri non la “strizzino” solo per interesse e che gli italiani, tanti come lei, e gli stranieri, sempre di più, vengano a scoprire, riscoprire e vedere come è bella Vicenza aiutando i vicentini, nati qui o arrivati non importa da dove, a mantenere al meglio questa piccola grande bellezza.

Piccola, come la città, ma grande come la sua storia, i suoi monumenti e palazzi e i suoi, spesso dimenticati, produttori di cultura, donne e uomini.

Tutto questo stiamo provando a raccontarlo non solo su ViPiu.it ma su un’altra testata che abbiamo dedicato al bello e al buono di Vicenza e dintorni: laltravicenza.it.

Chiesa di San Lorenzo (Vicenza), foto di Marco Vigliocco
Chiesa di San Lorenzo (Vicenza), foto di Marco Vigliocco

Grazie per gli scatti che ha voluto condividere con chi, magari, ogni giorno passa davanti a questi scorci di Vicenza che l’hanno colpita e non si accorge, per la miopia indotta dall’abitudine, del privilegio che ha nel poterli guardare sempre, di giorno e di notte, col sole e sotto l’acqua.

Grazie, infine, per avermi dato un motivo in più per rimanere qui.

Giovanni Coviello

Toponomastica, mille anni di storie vicentine

La toponomastica è una scienza, parte della linguistica, che studia i nomi dei luoghi e del territorio. Ha profondi collegamenti con la Storia e la Geografia. A Vicenza, cominciò la sua attività di classificazione per strade, piazze, cortili ecc. grazie a degli studiosi come Giovanni Da Schio, Tito Buy, Emanuele Potente, Giovanni Ronzani, il conte Da Porto.

Il consigliere comunale Potente, il 26 maggio 1911 presentò come Commissione Toponomastica, un progetto per la Giunta Municipale “onde provvedere ai nomi da darsi alle strade di nuova costruzione e dei principi per studiare una nomenclatura con richiami storico linguistici anche dialettali che fosse compresa dalla popolazione”.

Furono così diligenti da stabilire persino il materiale e le dimensioni delle lapidi (marmo di Chiampo) su cui si doveva incidere il toponimo scelto. Spesso i nomi non erano graditi al popolo o alla chiesa vedi Contra’ Cesare Battisti (già contra’ del Duomo) intitolata nel 1916 all’irredento Trentino arruolatosi nel Battaglione Alpino Vicenza. Spesso entrava in gioco la Politica del Consiglio Comunale che si divideva sui nomi da conservare o cancellare a seconda dell’appartenenza.

Comunque grazie all’ufficio Ecografico Comunale c’è una toponomastica del centro Storico che è unica e si richiama fortemente alla storia della città in particolare al Risorgimento Vicentino: marzo, aprile, maggio del X giugno 1848. Una delle contra’ più antiche è quella dedicata ai Fratelli Pasini e deliberata il 31 maggio 1881.

È del 7 aprile 1906 l’intitolazione a Fedele Lampertico della Strada in centro già denominata della Calonega (canonica, abitazione dei preti). Un’altra lapide ben scritta ma poco conosciuta è Via Giampaolo Bonollo (già prà delle oche) patriota Vicentino, l’intitolazione venne deliberata il 13 luglio 1914. Spesso intervenivano anche i cittadini con appelli e petizioni al Sindaco come avvenne nel 1895 quando 400 cittadini presentarono all’Amministrazione comunale per la piazza del Ponte degli Angeli affinché fosse denominata Piazza XX settembre (1870) e così fu fatto.

Il 18 ottobre 1898, il Consiglio Comunale, deliberava di intitolare a ricordo della grande giornata del Dieci Giugno 1848, la strada più lunga del Comune (metri 3.700) parte infatti dal Ponte di Santa Libera e termina al confine con il Comune di Arcugnano, i luoghi furono teatro delle battaglie del ‘48.

Nel tempo tuttavia, la memoria storica della città si è affievolita, e per una par- te politica, la storia di Vicenza comincia dopo il 25 aprile 1945 che per la nostra città dovrebbe essere 28 aprile 1945. Ma Vicenza ha un patrimonio di cittadini benemeriti e benefattori, poeti, letterati, santi, musicisti e altro datato X° secolo, più di 1000 anni di Storie Vicentine che bisognerebbe rispolverare, approfondire, verificare e non limitarsi alle commemorazioni di Piazza.

Della Toponomastica si è interessato il Fascismo che cancellò tutti i nomi di Casa Savoia, poi dopo il 1945 l’Amministrazione Comunale del Sindaco Faccio, cancellò il resto come, la Medaglia d’oro Ernesto Monico cui era intitolata la Piazzetta del Mutilato. In tempi moderni il Ministero dei Trasporti con il Codice della Strada paragona la cartellonistica stradale e indicazioni viarie come toponomastica ma senza nessun altra indicazione, il tutto mediante una palificazione tubolare del territorio invasiva, avvitata con bulloni, facilmente deperibile. Il risultato è quello di una Vicenza, disordinata, spendacciona, con una cartellonistica di lamiere contorte, che deturpano ogni angolo della città.

Il fenomeno è rilevante anche in centro storico. Infine ci sono tabelle che riportano la stessa dicitura ma stampata in modo diverso.

Di Luciano Parolin Da Storie Vicentine n. 6 gennaio-febbraio 2022


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