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Giorno della memoria e “ricordo” delle leggi razziali proposto da La Russa, Mellana: purché non sia nostalgia, internati anche 4.000 testimoni di Geova

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Non ho il dono della fede. Non per questo però non riesco a non trovare ripugnante che si uccida chi ne professa una perché  si attiene ai suoi precetti. Così, anche se mi hanno rotto le scatole tante volte suonando di domenica alle 8 del mattino il campanello di casa cercando di darmi una copia della loro rivista La Torre di guardia, voglio ricordare, a ridosso del giorno della memoria, la persecuzione dei Testimoni di Geova, che allora si chiamavano Studenti Biblici.

Oltre 4000 vennero mandati nei campi di concentramento e circa 1600 morirono. E questo perché la loro religione imponeva loro di non giurare fedeltà a qualsiasi governo, di non fare, quindi, il saluto nazista e di non combattere per nessuna nazione. Ma soprattutto perché rifiutarono di abiurare alla loro fede.

Adesso che ci penso, passato ma non dimenticato il giorno della memoria, chiedo scusa per qualche salace imprecazione scappatami alle 8 del mattino.


Qui le vignette di Almor e Claudio Mellana

Antonio Pigafetta, il vicentino che circumnavigò il globo

Tra i personaggi più famosi di Vicenza, con un bel salto indietro nel tempo, c’è Antonio Pigafetta, rampollo di una nobile famiglia vicentina che negli anni 1519-1522 seguì Ferdinando Magellano nella sua avventura attorno al globo e la raccontò con cura e passione, da antesignano, quasi, dei giornalisti alla Piero Angela.

Chi era Antonio Pigafetta?

Casa Pigafetta
La casa natale di Antonio Pigafetta a Vicenza (foto FB: Ivano Pianezzola)

Antonio Pigafetta nasce a Vicenza intorno all’anno 1491. Fin dalla tenera età si distingue per il suo interesse verso materie come l’astronomia e la cartografia, che studia con passione fino agli anni universitari. Verso il 1518 si trasferisce in Spagna al seguito del nunzio apostolico Francesco Chiericati, potente monsignore, anche lui vicentino. Uomo profondamente ambizioso e desideroso di gloria, Pigafetta stava per imbarcarsi in un’avventura incredibile per un uomo del tempo.

La circumnavigazione del globo

Corre l’anno 1519 quando l’esploratore portoghese Ferdinando Magellano riceve dal re di Spagna Carlo I il patrocinio per un progetto piuttosto ambizioso: raggiungere le cosiddette Indie Orientali passando da Ovest. Gli europei sanno già da alcuni decenni dell’esistenza del continente americano e gli imperi di Spagna e il Portogallo già si sono “spartiti” le terre al di fuori dell’Europa, dividendo il mondo in est e ovest, come sancito dal Trattato di Tordesillas.

Magellano, tuttavia, è convinto che sia possibile aggirarlo, che ci sia una via d’acqua che unisca l’Oceano Atlantico con le acque al di là delle Americhe. Il viaggio sarà lungo più di due anni, e terminerà con il ritorno in Spagna di sole due delle cinque navi partite per la spedizione. Magellano morirà prima di fare rientro in Spagna.

Il “Racconto del primo viaggio intorno al mondo”

Il racconto del vicentino Pigafetta, uno dei soli 18 superstiti di una spedizione partita con 265 membri, costituisce un’importantissima fonte per la storiografia e l’etnografia di quegli anni. In esso sono narrate nei minimi dettagli non solo le fasi del viaggio, ma anche gli usi e i costumi dei popoli indigeni incontrati.

Statua antonio Pigafetta
La statua di Antonio Pigafetta (foto: Wikimedia Commons)

La sua è una relazione appassionata di un uomo curiosissimo, sempre con la penna pronta ad annotare qualsiasi informazione, dalle storie che ascolta dalle parole delle persone che incontra alla descrizione dettagliata della fauna e della flora di quelle terre. La lingua cebuana, parlata nelle Filippine, ha nella descrizione e nella traduzione che ne fece Pigafetta la sua prima attestazione. A ricordo di ciò e, come recita la motivazione, “come simbolo dell’amicizia tra l’Italia e le Filippine”, sull’isola di Cebu è stata eretta una statua in suo onore.

Non solo Palladio, i giardini di Santa Corona: una pausa verde fra i palazzi di Corso Palladio

C’è un punto di Corso Palladio, a Vicenza, che è assolutamente dissonante dal resto della “strata major” cittadina (qui tutte le puntate di “Non solo Palladio”, ndr). Ma la sua alienità dal contesto non è, una volta tanto, indice di bruttezza, bensì introduce un inatteso e suggestivo spazio verde nella stretta ed elegante duplice cortina di palazzi, che si sviluppa per 708 metri da est a ovest.
Sono i Giardini di Santa Corona che, in leggero declivio, si stendono dalla facciata meridionale della Chiesa al Corso, che corre qualche metro più in basso del muro di contenimento e della recinzione.
L’improvvisa pausa fra gli edifici costringe il passante ad alzare gli occhi e a restare ammaliato dalla visione di quel prato, di quegli alberi e della lunga parete rossiccia della chiesa. È questo il fascino: i colori così diversi da quelli del Corso, uno spazio vuoto invece di un palazzo, una chiesa che ha centinaia di anni in più di tutti gli edifici della via.
Si chiama Contrà del Collo quella parte del centro cittadino “intra moenia” che si perimetra con le attuali contrà Santa Corona e Canove Vecchie e si sviluppa su due livelli, perché lì comincia a degradare l’altura su cui era sorta la prima città e finisce, più in basso, a ridosso delle mura e del Castello Tealdo, la residenza fortificata di Ezzelino III da Romano.

Non solo Palladio: la facciata della Chiesa di Santa Corona
La facciata della Chiesa di Santa Corona

Il “tiranno” – come è definito dai vicentini (e non solo) di metà del XIII secolo – è uno dei due personaggi storici che incontriamo all’origine della Chiesa di Santa Corona. Ezzelino vi è coinvolto indirettamente, nel senso che la costruzione dell’edificio religioso è collegata alla liberazione della città dal suo dominio nel 1259 (anno della sua morte) e alla rinascita del Comune.
A metà del Duecento Ezzelino è il governatore di mezzo Veneto per conto dell’imperatore Federico II e, a Vicenza, toglie ogni potere alle famiglie nobili, che pure sono ghibelline. Il suo dominio è stato tramandato come una tirannia anche se, all’inizio, rispetta gli statuti comunali e la legalità, ottenendo il favore di parte della popolazione. Morto Federico II, trasforma la delega imperiale in potere personale e cambia il sistema di governo imponendo tasse e gabelle ed espropriando i privati delle loro proprietà. Inevitabile che, quando passa a miglior vita, i vicentini esultino.

La statua del vescovo Bartolomeo alla sinistra del Cristo e del re di Francia Luigi XII (foto da Wikipedia)
La statua del vescovo Bartolomeo alla sinistra del Cristo e del re di Francia Luigi XII (foto da Wikipedia)

Qui s’inserisce nella vicenda l’altro personaggio, lui sì davvero determinante per Santa Corona. È un vescovo, Bartolomeo, il cui nome oggi è noto perché… è quello della cantina sociale di Breganze. Intitolazione piuttosto curiosa e arbitraria, visto che lui non è nato lì e nemmeno è certo che appartenesse alla omonima famiglia.
Un grand’uomo questo frate domenicano, che fa carriera a Roma diventando consigliere di alcuni papi e poi nunzio apostolico e diplomatico. Proprio nella veste di ambasciatore del Vaticano, riceve in dono dal re di Francia Luigi IX una reliquia a dir poco unica e preziosa: una spina della corona della crocifissione del Cristo. Ecco il suo legame con la chiesa vicentina.
Il contesto comune ai due personaggi è questo: il papa Alessandro IV lo nomina vescovo di Vicenza per contrastare il potere di Ezzelino e, quando questi muore, Bartolomeo diventa l’uomo forte di una città in cui la nobiltà non è significativamente rappresentata in Consiglio comunale e gli altri ceti produttivi non sono all’altezza di esprimere dei leader.
Il novello vescovo s’insedia regalando a Vicenza la famosa spina e il Comune decide, nel 1260, di costruire una nuova chiesa per custodire la reliquia.
Santa Corona ha nei secoli un crescendo esponenziale. Strutturalmente, all’edificio originale (modificato tra il 1481 e il 1489 da Lorenzo da Bologna) si aggiungono cappelle, una cripta, il portale che dà sui Giardini e ben due chiostri confinanti arrivando così a occupare tutto il fronte strada dal Corso all’ex Tribunale. Religiosamente, il successo della chiesa non è inferiore perché diventa ben presto la più importante di Vicenza e le famiglie patrizie rivaleggiano per avervi una propria cappella e per dotarla di altari monumentali e abbelliti da opere d’arte. Il peso politico di quello che è diventato un complesso religioso è accresciuto quando diventa la sede della Santa Inquisizione vicentina, una istituzione che è un vero contropotere nella laica Repubblica Serenissima.
La chiesa e i Giardini sono ancor’oggi un gioiello di grande bellezza incastonato nel centro di Vicenza. L’esterno dell’edificio è affascinante nella sobria linearità dello stile cistercense e nel cromatismo giocato su due soli colori, il caldo rosso del mattone e il bianco dei profili in pietra. Una macchia di colore nell’uniformità delle sfumature di grigio degli edifici circostanti.

Il Battesimo di Cristo di Giovanni Bellini nella Cappella Garzadori (foto da Wikipedia)
Il Battesimo di Cristo di Giovanni Bellini nella Cappella Garzadori (foto da Wikipedia)

L’interno della chiesa è una sequenza di meraviglie, a cominciare dalla tela di Giovanni Bellini “Il battesimo di Cristo” che esalta la Cappella Garzadori e che è il dipinto più bello della città. Anche se in misura marginale la nostra archistar Andrea Palladio ci mette una firma: la cappella che progetta per i Valmarana. Nella chiesa c’era anche la sua tomba di famiglia e lui stesso vi è sepolto per tre secoli, fin quando il Comune, nel 1845, riesuma una salma anonima dal sepolcro e, attribuendole arbitrariamente l’identità dell’architetto, la trasla nel nuovo cimitero monumentale. Naturalmente, a Santa Corona è sepolto anche il vescovo Bartolomeo, che, post mortem, arricchisce con la beatificazione un già straordinario curriculum.

La tomba del vescovo Bartolomeo da Breganze (foto da Wikipedia)
La tomba del vescovo Bartolomeo da Breganze (foto da Wikipedia)

I Giardini fanno da corollario naturale a tante bellezze create dall’uomo. Per goderne appieno la estemporanea malia è meglio accedervi dalla porta laterale della chiesa, sormontata da un alto protiro. Dalla semioscurità dell’interno si passa in un attimo alla luminosità del piccolo parco, al verde intenso del prato, alla penombra prodotta dagli alberi. È un effetto coinvolgente, mancano solo i domenicani…

“Arte culi ‘n aria”, la ricetta n. 6 di Umberto Riva: “i gnocchi” e la soddisfazione di potersi ciucciare le dita

Oggi parliamo di Gnocchi, ma prima di “gustarti” la nuova ricetta fuori dal normale di Umberto Riva (gli “gnocci”) rileggi la Prefazione e il glossario di “arte culi ‘n aria“, una nuova serie di.. articuli così come li ha scritti il “nostro” Umberto per te che nel piacere della tavola, vedi qualcosa di più.

C’era una tavola, una tavola che si sistemava sul tavolo da cucina. Era la “tola de ‘e tajadee”, la stessa ove si preparavano gli gnocchi o qualche dolce. Era bella quella tavola. Non era perfettamente piana, era di legno dolce e siccome si presentava imbarcata, sotto l’angolo lontano trovava posto il coltello quello grosso con la punta mezza tonda che veniva usato per fare il battuto di lardo. Così stava ferma. Quello stesso coltellaccio, praticamente senza taglio, che si usava, alla fine, per raschiare dalle croste degli impasti, la famosa tavola dopo aver fatto dolci o gnocchi o tagliatelle.

Gnocchi di patate

Patate bollite pelate bollenti, passate bollenti nello schiacciapatate, impastate con un uovo e farina bianca, bollenti. Le patate bollenti contengono più acqua, assorbono più farina bianca, così, con lo stesso numero di patate, venivano più gnocchi.

A proposito di gnocchi. Erano di giovedì, non di tutti i giovedì. Di quel dato o casuale giovedì. La produzione coinvolgeva i bambini quando arrivavano da scuola. Il primo ordine di mamma era “lavarse le man”.

Si trovava la pentola con le patate a termine cottura, la tavola da tagliatelle pronta con farina e l’uovo. Il “skisapatate”, arma primaria, una forchetta e tanto entusiasmo. La gioia era schiacciare le patate, la parte noiosa era allineare lungo la parte superiore della tavola da tagliatelle i gnocchi che una volta creati e passati sul retro della grattugia per renderli rugosi, dovevano essere anche contati. Ad ognuno il suo. Eravamo in quattro, quattro file parallele e paritetiche fin quasi alla fine chè, ad un certo punto una si allungava, era quella del papà. Ogni piatto veniva cotto per conto proprio e la cerimonia iniziava quando arrivava il papà. Il condimento era pomodoro cotto e passato, burro e “formaio gratà”. Quel buon formaggio che allora si stagionava con grande cura nello scantinato della “botega da casolin del sior Scolarin”.

La tecnica “de magnare i gnochi” consisteva nel privare di gnocchi un angolo del piatto e lì “pociare”. Vietato mescolarli, si impasterebbero e perderebbero la loro consistenza. Il profumo di quella leccornia permeava la casa e permaneva a lungo oltre il giorno fortunato.

Era soddisfazione domestica, quando, passando davanti casa, la siora Balbo o la siora Pagiaro esclamavano “gnochi anco, siora Rina”.

La fine era sempre quella. Pane per lucidare il piatto e la soddisfazione di potersi, impunemente, ciucciare le dita.

Concetto Armonico in Ambasciata Italiana ad Oslo: Andrea Castello vi porta Vicenza e i suoi molteplici progetti artistici

Andrea Castello, presidente dell’associazione Concetto Armonico (qui su YouTubeFacebook) e dell’Archivio storico Tullio Serafin e radicato da ormai 15 anni a Vicenza, ha incontrato nella giornata del 27 gennaio l’Ambasciatore Italiano ad Oslo Stefano Nicoletti e la direttrice dell’Istituto Italiano di Cultura Raffaella Giampaola.

Un incontro formale che ha avuto come tema principale la cultura, rivolta in particolare ai giovani cantanti lirici che, proprio grazie a Concetto Armonico, hanno l’occasione di formarsi, di debuttare, ma anche di farsi conoscere in altri paesi.

I progetti discussi da Castello con le Istituzioni italiane ad Oslo sono stati molteplici per la città di Vicenza. Un incontro iniziato con la consegna da parte di Castello di una lettera del Sindaco di Vicenza Francesco Rucco e dell’Assessore alla Cultura Simona Siotto, un libro dedicato a Pigafetta e due litografie della Stamperia d’Arte Busato.

Omaggi graditissimi che hanno aperto un ricco colloquio che ha toccato i temi della cucina con il “baccalà” e naturalmente del Teatro Olimpico con il Festival Vicenza in Lirica. Ancora una volta la città di Vicenza diventa protagonista fuori Italia grazie all’impegno di Andrea Castello che non smette di cercare collaborazioni, sinergie, ma anche di mantenersi lontano da lobby nocive alla cultura che mettono in primo piano i propri interessi.

“E’ stato un incontro ricco di cultura. Abbiamo discusso molti temi sia inerenti la musica che la cucina, ma anche le problematiche che devono affrontare i giovani artisti soprattutto dopo il periodo di pandemia” afferma Castello che continua “Sono soddisfatto di aver portato Vicenza ad Oslo, ho trovato una grande apertura per futuri scambi culturali. Sono soddisfatto che dopo 25 anni di impegno con la direzione artistica e dieci anni di festival a Vicenza, porto a casa dei frutti senza l’aiuto di lobby, ma confidando nell’aiuto di pochi stretti collaboratori e del sostegno di Amministratori che capiscono il mio modo di fare ed agire. Arrivo infondo con il mio impegno senza il bisogno di raccomandazioni e, tutto questo, mi rende forte e sereno anche nel poter collaborare con diverse Ambasciate”.

Una determinazione quella di Castello nata nel 1997 proprio dal piccolo paese di Rottanova grazie ad un concerto da lui stesso organizzato. Dopo il ’97 la direzione artistica presso la Città del Vaticano, le collaborazioni con Vienna, la creazione di “Concetto Armonico” con la direzione artistica del festival “Vicenza in Lirica” (2013) ed il “Cavarzere Opera Festival” (2021) e l’Archivio storico Tullio Serafin (2017).

Un grosso impegno di responsabilità che ha messo in luce la capacità di Andrea Castello di presentarsi solo grazie alle proprie conoscenze, esperienze e, non per ultimo, una professionalità senza eccezioni di sorta. Tutti questi ingredienti sono anche la risposta di un successo vicentino con il Festival “Vicenza in Lirica” riconosciuto a livello internazionale prodotto interamente in città e, successivamente, esportato in altri Paesi anche grazie alle collaborazioni con le Ambasciate.

Non solo Palladio: colle San Bastian, dove s’intrecciano natura, nobili ville, storia e … amori

Sono pochi i vicentini che sanno qual è Colle San Bastian. Perché tutti lo conoscono con il toponimo di Villa Valmarana ai Nani, che ne è giustamente il fulcro ma che non esaurisce il fascino di questa propaggine a sud di Monte Berico. Natura, quiete, storia s’intrecciano qui senza contrasto con le case degli uomini, che sono comunque poche, privilegiate e rispettose del contesto (qui tutte le puntate di “Non solo Palladio”, ndr).

L'arco trionfale del Palladio a Porta Monte e le scalette che portano al Santuario
L’arco trionfale del Palladio a Porta Monte e le scalette che portano al Santuario

Per capire e gustare fin in fondo la malia di Colle San Bastian è consigliabile arrivarci come ci arrivavano gli abitanti di Vicenza fino a tre secoli fa: a piedi e partendo da Porta Monte. Passando sotto l’arco trionfale progettato nel Cinquecento da Andrea Palladio, si salgono i centonovantadue gradini delle Scalette che, fino all’apertura dei Portici disegnati da Francesco Muttoni e completati (dopo ben trent’anni) nel 1780, sono stati l’unica via di accesso al Santuario. Arrivati in quota si prosegue fino all’imbocco della stradella che porta il nome del santo e martire Sebastiano, nella forma dialettale: Bastian. E qui comincia la magia.
S’avvia, infatti, una stradicciola acciottolata, ombrosa, silenziosa e in lenta discesa, racchiusa fra alti muri che nascondono parchi e ville in cui la storia ha fatto tappa. La bellezza di stradella San Bastian sta nella sua riservatezza, nel suo essere fuori del tempo, nelle due cortine che la cingono e costringono a guardarsi in faccia, visto che non c’è panorama. La fama popolare le attribuisce di essere la strada degli innamorati: è innegabile che tutto, qui, esalti i sentimenti.
Al di là dei muri di recinzione e dei bassi edifici, entrambe le pendici del colle sono abbellite da parchi e alberi di alto fusto, qua e là – ahimè – spunta qualche piscina, ma dalla strada non si vedono.
La prima dimora che s’incontra, sul lato destro, è Villa Camerini-Gonzaga, forse la più antica perché costruita nel Seicento. Di foggia medievale, con tanto di torretta e merlatura, ha un aspetto austero e, in questo, si differenzia dalle altre. Durante la Prima Guerra Mondiale, quando Vicenza è retrovia del fronte e gli Austro-Ungarici sono a trenta chilometri in linea d’aria, vi soggiorna per qualche tempo il generale Raffaele Cadorna, comandante supremo dell’Esercito italiano.
Più avanti, sempre sulla destra, c’era un’altra dimora storica: Villa San Bastiano. Era proprietà dei Valmarana e, a cavallo fra Ottocento e Novecento, è la casa di Antonio Fogazzaro, marito di Margherita Valmarana. Il grande scrittore ambienta nella villa alcuni episodi del romanzo “Piccolo mondo moderno”. Fogazzaro ama particolarmente la vista della Valletta del Silenzio, una piccola valle sottostante che s’insinua a ovest fra il Colle e le pendici meridionali di Monte Berico. Grazie ai vincoli che la proteggono, è riuscita a conservare il fascino e l’aspetto di un tempo. Oggi Villa San Bastiano non esiste più. È stata distrutta da un bombardamento aereo e, al suo posto, sorge una costruzione moderna, Villa Ceschi.
Poche decine di metri più avanti, dove termina la discesa, stradella San Bastian cambia nome e diventa via Giambattista Tiepolo. Vi confluisce, infatti, questa strada che sale dalla Riviera Berica. Il Comune, per omaggiare – non senza motivo, certo – il grande pittore veneziano, ha ritenuto di togliere il toponimo San Bastian proprio al tratto conclusivo, che è il più significativo e bello. Qui, infatti, cessano le due cortine che fiancheggiano, più in alto, la via e finalmente si può godere, da un lato, la vista della pianura veneta verso il padovano e gli Euganei e, dall’altro, della perla del Colle: Villa Valmarana ai Nani.

La foresteria di Villa Valmarana ai Nani affrescata da Giambattista Tiepolo
La foresteria di Villa Valmarana ai Nani affrescata da Giambattista Tiepolo

È, questa, una dimora divenuta nobile ma costruita nel 1670 da un plebeo, il figlio di un operaio: Giovanni Maria Bertòlo, che fece fortuna prima come avvocato e poi come giureconsulto della Serenissima tanto da essere inserito, a fine secolo, nel patriziato di Venezia. Uomo di gran buon gusto, evidentemente, se scelse, per costruirvi la propria villa, questo sito, che – in una ideale classifica di bellezza – merita il primato fra quelli attorno alla città.
La Villa è acquistata da Giustino Valmarana nel 1730. Il nuovo proprietario la ingrandisce e le aggiunge una foresteria e, soprattutto, nel 1757 fa affrescare la palazzina e la nuova dépendance da Giambattista Tiepolo e dal figlio Giandomenico (il che spiega il nome dato alla via d’accesso). Giustino muore, per somma sfortuna, mentre il meraviglioso ciclo di affreschi è ancora in corso di realizzazione.

Villa Valmarana ai Nani. Sul muro di recinzione una delle diciassette statue di nani che danno il nome alla dimora
Villa Valmarana ai Nani. Sul muro di recinzione una delle diciassette statue di nani che danno il nome alla dimora

Detta “ai Nani” per le diciassette statue sul culmine del muro di recinzione che ne rappresentano altrettanti e per la leggenda della nana Layana, figlia del proprietario e morta suicida per amore, questa villa concretizza e fonde tutte le componenti del fascino del Colle San Bastian. È facile, passeggiando nei suoi viali e nei suoi giardini, pensare di trovarsi in un altro mondo e in un’altra epoca e dimenticare che, troppo vicino, campeggia quanto mai dissonante e incongruo il nuovo rione detto Borgo Berga.
La via si conclude con un’ultima dimora, Villa Franco, che sorge dirimpetto alla Valmarana sul sito dove stavano la chiesa e il convento di San Sebastiano, a cui si deve il nome del Colle. Costruiti a metà del Quattrocento come voto a protezione dalla peste, prima demanializzati e poi venduti, gli edifici religiosi sono abbattuti all’inizio dell’Ottocento e, al loro posto, sorge una villa di aspetto non propriamente pregevole.
Si rischia di essere sopraffatti dalla bellezza a San Bastian, di esser vittime della sindrome di Stendhal. I sentimenti che induce, le sensazioni che provoca, i languori che suggerisce sono diversi da quelli che nascono davanti alle opere palladiane. Maestose e pregnanti queste quanto tenui, delicate, silenti sono le meraviglie del Colle. Vicenza ha la fortuna di avere entrambe.

Lago di Fimon: nuovo ponte pedonale per godersi 5 km di incanto naturale alle porte di Vicenza

Il nuovo ponte pedonale che permette di percorrere l’intero sentiero che abbraccia il lago di Fimon, una vera perla vicentina, è la sorpresa per chi approfitta dei giorni di sole per una passeggiata al lago. La settimana prossima verrà realizzata la rampa tra il ponte e il sentiero, ma il più è fatto. Un intervento molto atteso che la Provincia di Vicenza ha potuto eseguire grazie alla convenzione con la Regione Veneto che le affida la gestione e la manutenzione.

Queso è il commento del presidente della Provincia Francesco Rucco: “I vicentini sono molto affezionati a questo luogo ed è per questo che, una volta formalizzata la gestione, abbiamo messo in cantiere alcuni lavori nell’area verde del lago di Fimon, un luogo tanto suggestivo quanto fragile, che custodisce habitat naturali e biodiversità uniche in Europa, e che per questo va valorizzato e protetto.”

Ha eseguito i lavori la ditta Società Cooperativa Sociale Arcugnano, che si è aggiudicata la gara indetta dalla Provincia per un importo totale di 92mila euro, in parte a carico della Regione in forza della convenzione e in parte con fondi propri della Provincia.

I tipi di interventi compiuti sono stati tre: il rifacimento del ponte pedonale, che permette di completare l’anello di oltre 5 km di cammino attorno al lago, la demolizione del vecchio imbarcadero che deturpava il lago, e la manutenzione dello steccato lungo strada. Nel pacchetto rientra anche la manutenzione del verde con taglio dell’erba nelle aiuole e negli argini, sfalcio sulla strada perimetrale, potatura dei rami con taglio e sistemazione degli alberi secchi.

Il consigliere provinciale con delega all’ambiente Matteo Macilotti aggiunge: “Sono interventi necessari per rendere maggiormente fruibile l’area verde del lago di Fimon in condizioni di sicurezza. Altrettanta attenzione riserviamo alla tutela dell’ecosistema, in particolare ai temi della carenza di acqua e della proliferazione delle alghe. Li stiamo trattando al Comitato Tecnico con i tecnici di Regione e Genio Civile.”

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Fonte: Lago di Fimon: posato il nuovo ponte pedonale per percorrere un anello di 5 km di incanto naturale , Provincia di Vicenza

“Arte culi ‘n aria”, la racconta Umberto Riva: “dentro e fora per a’ cusina”, glossario e prefazione

Prefazione e glossario di “arte culi ‘n aria“, una nuova serie di.. articuli così come li ha scritti il “nostro” Umberto Riva per te che nel piacere della tavola, vedi qualcosa di più.

Le ricette e la buona cucina. Sedersi a tavola, aprire il menù o prestare attenzione al maestro di tavola, al cameriere, alla “parona” o al “paron” che carta e matita in mano suggeriscono i piatti del giorno. Piatti storici di cucina locale, regionale, piatti della cucina internazionale.
Tutto in nome della gola.

Le ricette esistono, si possono scrivere nero sul bianco. Tre etti di…, una presa di…, una cucchiaiata di…, cinquanta grammi di.., aggiustare con…, ecc…. Ma la cipolla in questa stagione sa più da cipolla, lo stoccafisso in ammollo……, il vialone è a fine annata……….

Ed ecco che le ricette vengono aggiustate. Ecco la sensibilità di chi sui fornelli, compie ogni giorno un miracolo, “’n miracolo par la panza”. E’ bellissimo scrivere ricette, è cultura, una insostituibile cultura per chi ci vuole imitare, per chi nel tempo vuole conoscere.

La storia “del magnar ben”.

Per mangiare raffinato, ci vuole un gran cuoco, grandi prodotti, grandi cucine.
“Par magnare ben, basta voja de far ben, tanta fantasia, tanta fame”.

Se escludiamo per i signori, quelli ricchi (magari solo ricchi), la cucina, quella con la “C” maiuscola, non ha mai occupato in un passato anche sufficientemente recente, un posto importante nella quotidianità.
La gente, quella che con un termine antipatico si definisce comune, era  interessata alla cucina soprattutto per fattori di sopravvivenza.
“O te magni, o te mori”.

Se da questa necessità non è nata una cucina da prima pagina, non è detto che in compenso, non ne siano risultati piatti gustosi, remuneranti oltre che per lo stomaco anche per il palato.
C’era poco a disposizione, ma quel poco e povero, usato con fantasia e dedizione, a volte risultava insaporito da quel modo di cucinare che, ben condito da un sano appetito, faceva, delle cose più semplici, piatti “quasi d’alta cucina”.

Ricordi, episodi, personaggi di quel mondo potrebbero essere piccola cosa se non fosse per il piacere di confrontarsi con il presente ove tutto, perché troppo, viene a noia. È rivivere costumi e costumanze di un altro tempo, di un tempo che se non di ieri era solo dell’altro ieri, ma che al presente, nel mondo di Bengodi, sembra annegato nel più remoto e profondo dei passati.

Storie. La memoria dei disagi e del malessere è la più corta. Di racconti ce ne sarebbero a migliaia. Ma, qui, ne sono stati scritti pochi soprattutto per evitare la noia.

In questo narrare, i personaggi si mescolano al cuocere e al gustare con infinito piacere e profonda sensualità, ed è particolarmente dedicato a coloro che ne hanno vissuto, anche se in giovanissima età.

Il paradigma era: quando la pancia è piena, la vita è in discesa. Allora le piccole cose diventavano grandi e quelle che si stimavano grandi diventavano immense.
Si godeva, si godeva di ciò che si poteva avere e si ringraziava Dio ed il prossimo perché ciò che si otteneva, era felicità.

Una cosa era fondamentale. Servire con l’antipasto, col primo, coi secondi e col “companadego”, col dolce e col caffè, sempre, proprio sempre, “un piato de bona siera”.

Ciò che troverete assieme alle vere ricette, non sono ricette. Usando tanta fantasia e una sterminata buona volontà, si potrebbero definire tentativi di ricette. Invitiamo coloro che oseranno leggere (sappiate che chi non lo farà, sarà a lungo fustigato), a credere alla buona volontà non tanto alle ricette, perché si tratta di ricordi più o meno sbiaditi da tempo, spesso anche imprecisi e filtrati dalla arteriosclerosi.

La cucina é arte. Esiste arte povera ed arte ricca. Importante é che trionfi l’arte.

L’arte é vita.

La cultura è libertà. Il più importante elemento della cultura è il rispetto, rispetto delle persone, delle idee, delle religioni, degli usi, dei costumi, delle tradizioni, di tutto ciò che è proprio dell’umanità.

La cultura è la spina dorsale della civiltà, è la spina dorsale di una nazione sicché una nazione senza cultura è una nazione debosciata.

Chi non ha rispetto non ha cultura e chi non ha cultura potrà avere ricchezza ma non ha e mai avrà civiltà.

Sperando di avervi incuriositi e prima di proporvi la prima ricetta di “Dentro e fora per a’ cusina“, cioè quelle Verze.profumo di paradiso, vi lasciamo al glossario, indispensabile come una… dispensa.

GLOSSARIO – PAROLE ED ESPRESSIONI

La lingua veneta, e vicentina, è onomatopeica. Certe espressioni, anche se a volte letteralmente traducibili, non rendono, né foneticamente né immaginativamente, il contenuto.
Il glossario non é in ordine alfabetico, ma vede l’uso di parole ed espressioni, racconto per racconto, anche se in ordine diverso. Cercate e troverete, altrimenti che ci divertiamo a fare! Alcune espressioni dialettali, trovano la traduzione direttamente nel racconto.
Ci saranno delle ripetizione e delle manchevolezze, non chiediamo scusa, ché a noi sta bene cosi’.

– par pan tenero e biscoto per cuocere pane fresco e biscottato

– ‘n miracolo par la panza un miracolo per il piacere della pancia

– un camin pa ‘e brasoe un camino per cuocere alle brace

– aque acque curative

– caenon de oro catena d’orologio d’oro

– voja de far ben voglia di impegnarsi e lavorare

– o te magni o te mori o mangi o muori

– companadego contorno

– un piato de bona siera un sorriso per augurare buon appetito

– ‘e verse in tecia ‘e spusa le verze cotte in tegame puzzano

– ‘e xe tanto bone sono tanto buone

– verse sofega’ co ‘l coesin verze stracotte con cotechino

– ga ciapa’ ‘a brosema coperte di brina

– de far su el mascio insaccare il maiale

– osi ossa

– cren rafano

– poenta polenta di mais

– brustola’ abbrustolita

– vin fato co ‘l mescola vino casareccio

– cafe fato co ‘l bacheto caffe’ fatto nella cuccuma

– graspa grappa

– ‘a sena del mascio cena di solo maiale

– radeseo rete che contiene gli intestini

– sparagagna parte anteriore della cassa toracica

– poceta piccolissima pozzanghera

– peara’ salsa piccante a base di pane grattugiato midollo d’ossa e pepe (tipica veronese)

– tacaiso appiccicoso

– ‘l ocio l’occhio

– no ‘l se rompese non si rompa

– spusare de suore puzzare di sudore

– culo sedere, per il Ruzzante “preterito”

– sae groso sale grosso da cucina

– fete de mascio e figa’ fette di maiale e fegato

– vin roso da tajare co ‘l corteo vino rosso intenso (clinton o baco’)

– graspa de contrabando grappa fatta in casa

– cote in antian cucinate in tegame

– cosa see? cosa sono?

– lumeghe lumache

– suga’ co ‘l canavaso asciugate col canovaccio

– steco stuzzicadenti o stecco di legno

– ‘a so morte il meglio

– tuto ne ‘l steso antian tutto cotto nello stesso tegame

– pipare bollire lentamente (blup, blup)

– supa de tripe zuppa di trippe

– bon goto de vin buon bicchiere di vino (il “goto”, bicchiere povero di forma particolare)

– vache mucche in generale (con 4 zampe)

– mesogiorno e meso ore dodici e trenta

– sentarse co ‘n pie soto la carega e que ‘altro in vanti sedersi con un piede sotto la sedia e l’altro in avanti

– ‘na canavasa par no sporcarse ‘e braghe un canovaccio per non ungere i pantaloni

– ‘na crose de ojo una croce (un po’) d’olio

– ‘na scianta de peare una presa di pepe

– magnare e pociare mangiare ed intingere pane nella bagna

– pa ‘l bacan co ‘a caena de oro da kilo taca’ al gile’ per il mediatore di bestiame che aveva una catena d’oro pesante un chilo attaccata al gilet (segno di ricchezza)

– carta oleata pergamino (carta impermeabile inventata da Edison)

– pignata pentola

– ‘neta ‘a casa, spasa in tera, lava i veri, fa la lisia, vage drio al mario, tendege ai tusi, fa da magnare e lava i piati, taca i botoni, stira e cusisi, e dopo ge xe i feri de ‘a lana e rogne sempre nove

spolvera, pulisci la casa, spazza i pavimenti, va a far la spesa, spolvera, lava i vetri, fa il bucato,  fa va fare la spesa, accudisci al marito, sta attenta ai figli,  fa da mangiare e rigoverna le stoviglie, attacca i bottoni, stira e cuci, e dopo fa la maglia e problemi sempre nuovi

– solo ‘na sciata pochissimo

– ‘na broca de garofano spezia di garofano secca

– ‘na ciopa de pan un pezzo di pane (“ciopa” e’ un pane bitorzoluto e piuttosto secco)

– se podea far de manco de lavarlo era gia’ pulito, non serviva lavarlo

– ‘a cortea de ‘e tajadee e’ un coltello da cucina ideologicamente e morfologicamente particolare

– moscarola pensile con telaio in legno e rete anti mosche ed insetti in generale

– tola pa ‘e tajadee tavola su cui si impastava e si spianava la pasta

– mescoa mattarello

– no ‘e fasea in tempo a secarse masa non facevano a tempo a seccarsi troppo

– curava    puliva e preparava

– inscartosava avvolgeva in carta

– regaje regalie

– ratateuille interiora dei polli

– va da ‘a siora Catina se par piasere ‘a te da’ mezo bicere de vin bianco

va dalla signora Caterina se per piacere ti da’ mezzo bicchiere di vino bianco

– ‘e tajadee co i figadini tagliatelle coi i fegatelli

– un quartin de gaina, un tocheto de manzo e tanti osi da rosegare

un quanto di gallina, un pezzetto di manzo e tante ossa da rosicchiare

– do sculieri de vin togo due cucchiai di vino rosso buono (Togo famoso ammiraglio giapponese della guerra russo nipponica)

– no le xera robe da siori, ma gnanca da pori cani

non erano cose da ricchi, ma neanche da morti di fame

– ‘na sbranca de grani de ua frambua pasia in granaro

una manciata di chicchi d’uva fragola passita nel granaio

– onta e bisonta unta e due volte unta

– cuketa piccolo contenitore in vetro povero che a volte assume forme fantasiose,

ad esempio quella di uno stivale.

– radeci in tecia radicchio cotto in tegame

– bon goto de nero bicchiere di vino rosso

– sconta nascosta

– da puareti fat pai siori roba da poveri apprezzata dai ricchi

– cosi’ i se cusina gualivi così cuociono uniformemente

– peàre pelare (pèare è pepe)

– spiumoti penne piccole non sviluppate

– ‘e ardee fettine di lardo

– poenta onta polenta fredda ricucinata nell’olio bollente, nello spiedo si fa nella leccarda

– el sfritegase sciansando la cusina

il friggere dell’olio quando cadono gocce d’acqua, che provocano strolli che schizzano le pareti della cucina

– sora i serci

sopra la piastra in ghisa della cucina economica fatta a cerchi

– varda ‘a se gonfia come un grostolo guarda si gonfia come un crostolo

– beki e durei ciucia’  becchi e durelli ben succhiati

– ciuciare i osi succhiare le ossa

– no ‘a xe creansa non è educazione

– tacaiso colloso, appiccicaticcio

– megola midollo delle ossa

– dame i osi pa ‘l can dammi le ossa per il cane

– cosi’ disea me pare cosi diceva mio padre

– minestron minestra di verdure in varie versioni

– pesto de lardo pesto fatto con lardo

– spigeto de ajo spicco d’aglio

– rameto de rosmarin un rametto di rosmarino

– fasoi apena scaola fagioli freschi appena estratti dal baccello

– mesi in moja co ‘na punta de bicarbonato messi in ammollo con un po’ di bicarbonato

– poke patate e ‘n poca de seoa poche patate e poca cipolla

– voendo, anca ‘na gamba de sejno volendo anche un po’ di sedano

– beo, bon e fiso bello, buono e denso

– ‘l cuciaro staga in pie da solo il cucchiaio deve rimanere piantato diritto in piedi

– pignaton pentolone

– ‘l panaro il tagliere

– queo ke non strangoa, ingrassa ciò che non ti va di traverso, nutre

– ben lavà pulitissimo

– co ‘na foieta de salvia, ‘n gioso de ojo e ‘na sculiera’ de aseo

con una foglia di salvia, un goccio d’olio e una cucchiaiata di aceto

– coesa cotenna del maiale prelevata dal lardo

– dagene un toco anca a to sorea da un pezzo anche a tua sorella

– el spunciava, ma el xera bon e po’ dixe, magna ke xe tuto bon, te fa ben e te deventi grando

pungeva, ma era buono e poi, come si dice, mangia che è tutto buono, ti fa bene e crescerai

– quando ‘l xe fiso, ‘l xe coto quando diventa consistente, sarà cotto

– ‘l sa da brusin gusto del bruciato quando si attacca al fondo

– ‘na goduria un godimento

– un paro de aciuge, ‘na sculiera’ de conserva, quatro sinque foiete de salvia e desfrito

un paio di acciughe, una cucchiaiata di conserva, quattro cinque foglioline di salvia e un soffritto di cipolla, tanta cipolla

– i fasoi i scomisiava a desfarse i fagioli cominciavano a sfarinare

– garibaldini pasta secca, piccoli sedanini (come Barilla numero 47)

– va ben anca su ‘l armaro in camara ricordandose de meterge soto ‘na strasa se no se vede ‘l stampo de ‘l culo de ‘e scuee su ‘a vernisa

va bene anche sull’armadio della camera ricordandosi di appoggiarle su uno straccio altrimenti si vedrà lo stampo del fondo delle scodelle sulla vernice

– fare ‘a grosta fare la crosta

– ‘na crose de ojo una croce d’olio

– da lecarsi i mostaci e da ciuciare ‘a scoeaa  da leccarsi i baffi ed anche la scodella

– da mastegare, se te voi ke i sia boni buoni solo se si possono masticare

– tola de ‘e tajadee tavola su cui si preparano le tagliatelle

– skisapatate schiacciapatate

– formaio grata formaggio grattugiato

– botega da casolin negozio di generi alimentari

– de magnare i gnochi degustare gli gnocchi

– pociare intingere il pane

– gnochi anco oggi si mangia gli gnocchi

– i ge ciamava el singano lo chiamavano lo zingaro

– el conoseva l’arte de cusinar el gato sapeva come si cucinava il gatto

– mejo se quindese meglio se quindici

– i foresti i non vicentini

– el nono Toni disea il nonno Antonio diceva

– ‘l formaio xe bon se ‘l camina da solo il formaggio e’ buono solo se cammina

– teceta de fero smalta’ tegamino in ferro smaltato

– col covercio con coperchi

– ’l magnare par mesogiorno il pranzo

– xera formaio verde era gorgonzola

– bai vermetti

– quei che se ne intende gli intenditori

– Nani strase deto anca verniseta soprannomi intraducibili

– frutarola fruttivendola

– ‘l vezena vecio, queo co ‘a lgrima formaggio vezzena vecchio, con il grasso

– gnanca ‘ndavo a scola prima delle elementari

– sfritegava il rumore dell’acqua sulla piastra bollente

– giosa goccia

– la se irusinise diventa preda della ruggine

– ‘a fasa faccia

– speremo che i ‘a frisa speriamo la friggano

– farsora pentola per fritti

– goloseti cose golose (termine veneziano)

– movete che deventa tuto fredo e no xe pi’ bon muoviti che si raffredda e non sarà piu’buono

– scaolare i bisi togliere i piselli dal baccello

– no magnarli crui che te vien ‘l mal panza  non mangiarli crudi che ti provocano male alla pancia

– da ‘a tecia de i bisi in antian dal tegame dei piselli cotti in umido

– meterge metterci

– lecare anca ‘l piato leccare anche il piatto

– toco de storia un pezzo di storia

– suda’ bollito

– co ‘a giosa con la goccia

– i sparasi co i ovi asparagi con uova

– i xera cosi’ boni che se magna’ tuto anca el manego

erano talmente buoni che si e’ mangiato tutto, anche il manico

– pociando la feta intiera intingendo la fetta non tagliata a bocconi

– freschin odore tipico d’acqua ferma

Non solo Palladio: la Badia di Sant’Agostino, uno scenario umbro fra i colli vicentini

Non solo Palladio (qui tutte le puntate, ndr). Vicenza è città bellissima (come la definisce il titolo di un catalogo di mappe e vedute urbane dal ’500 all’800) senz’altro e in primis grazie alle meraviglie che le ha lasciato la sua archistar tanto da farla diventare Patrimonio dell’Umanità. Ma non solo. Questa città è, infatti, anche paesaggi, scorci, fiumi, chiese antiche, palazzi gotici. E anche posti dimenticati o nascosti dalla nuova città, che nei secoli si è aggiunta e sedimentata loro addosso.
È questo il caso della Badia di Sant’Agostino. Una piccola comunità religiosa che ha vissuto e operato per secoli e secoli in una chiesetta e in un monastero a poca distanza dalle mura cittadine e in quello che doveva essere uno dei siti più belli del contado.

il complesso religioso della Abbazia di Sant'Agostino in una veduta da Google Earth
il complesso religioso della Abbazia di Sant’Agostino in una veduta da Google Earth

Il complesso sorge fra il Retrone e le pendici dei Colli Berici, in mezzo alle campagne lungo una strada che, un tempo, uscendo da Porta Lupia, portava ad Altavilla e da lì a Lonigo. Oggi si chiama viale Sant’Agostino perché l’antica abbazia ha dato il nome a tutta la vastissima area.
Per immaginare quelle che dovevano essere la bellezza e la suggestione del posto, rileggiamo un breve racconto di Emanuele Zuccato, scrittore poeta e commediografo vicentino della prima metà del secolo scorso, che così descrive il viaggio verso la abbazia: «Un viandante … si avviò tutto solo per una visita alla vecchia Badia di S. Agostino. Percorse il primo tratto di strada diritta ed assolata, costeggiata prima dalle costruzioni dell’Arsenale ferroviario, poi da campi, orti e piccole case disseminate d’intorno come un gregge disperso. Arrivato al ponte sul Retrone, che scorre lento ed uguale – fluido nastro azzurro – nel mezzo della valletta, sostò reverente dinanzi al sacello della Madonna delle rondini … Mormorando commosso un’Ave, attraversò il ponte sostando ancora ad ammirare la maliosa valletta che gli si schiudeva davanti, bella come un’egloga di Virgilio. Vedeva più lontano i colli di Creazzo, Sovizzo e poi quelli del maggior Montecchio. … Percorso ancora un breve tratto, il viandante arrivò alla trecentesca Badia di S. Agostino, meta del suo viaggio. La vecchia chiesa, di sobria architettura romano-lombarda, con davanti un doppio filare di giovani cipressi, gli apparve come un paesaggio trapiantato miracolosamente da un ubertoso colle umbro e assaporò tutta la francescana poesia da essa emanata» (da “Vicenza di ieri” Consonni 1964).
La descrizione risale agli Anni Venti o Trenta, quindi meno di un secolo fa. Colpisce quanto poteva spaziare l’occhio rispetto ad oggi e quindi la “maliosa“ visione di insieme che la Badia riceveva dal contesto. Doveva essere davvero magica quella valletta nella sua isolata collocazione e, per contrasto, tanto più affascinante il piccolo edificio della chiesa. Non aveva certo bisogno delle invenzioni e delle forzature postconciliari per suscitare sacralità e partecipazione.
Chi non conosce l’abbazia ci vada come il viandante di Zuccato, a piedi, partendo dalla città. Ma non lungo il viale percorso dal viandante, perchè sarebbe costretto a vedere la orrenda Zona Industriale e il viadotto dell’Autostrada.
Segua piuttosto un percorso che si sviluppa nella natura, lungo la strada di Gogna fino all’autostrada. Poi, inevitabilmente, fiancheggi questa verso ponente arrivando a pochi passi dall’abbazia. Subito dopo si troverà, sulla sinistra, il breve viale che porta alla chiesa. E, il viandante, ignori che, subito a sud, incombono i capannoni dell’altra Zona Industriale, quella che il Comune di Arcugnano ha pensato bene di piazzare in continuità con quella del capoluogo, chiudendo così a tenaglia la Badia.
Anche se soffocato da autostrada e fabbricati industriali, il complesso religioso riesce a tener le distanze e a crearsi una bolla attorno che fa dimenticare i rumori dei motori e il cemento armato. Si percepisce un isolamento ideale, un distanziamento invero simile a quello che ispirano analoghi edifici dell’Appennino del Centro Italia (aveva ragione Zuccato!).

L'interno della chiesa a navata unica culminante in tre cappelle verso il presbiterio
L’interno della chiesa a navata unica culminante in tre cappelle verso il presbiterio

La chiesa è tanto semplice e modesta all’esterno quanto poco adorna all’interno dell’unica navata. Sulla facciata a capanna si apre un rosone centrale, sul lato sinistro la torre campanaria, su quello destro il chiostro.

Il polittico del 1404 di Battista da Vicenza sull'altar maggiore
Il polittico del 1404 di Battista da Vicenza sull’altar maggiore

Dentro, ci sono poche cose ma veramente belle: una serie d’affreschi della scuola di Tommaso da Modena, sopra l’altar maggiore un polittico del 1404 di Battista da Vicenza (donato da Ludovico Chiericati in onore della dedizione di Vicenza a Venezia), che raffigura la Madonna in trono col Bambino e Santi. Ci sono un grande San Cristoforo affrescato nel Trecento e un crocefisso in legno del primo Quattrocento. Nel presbiterio si può ammirare un prezioso ciclo di affreschi (pure del XIV secolo) con Storie di Cristo e, nella volta quadripartita, Evangelisti e Dottori della Chiesa. Infine, una curiosità: un orologio a parete con quadrante risalente al 1400.

La storia della Badia di Sant’Agostino è lunga e travagliata, fra decadenze e restauri, ma testimonia un ininterrotto attaccamento dei vicentini a questo piccola, modesta bellezza che riesce a sopravvivere all’aggressione subita nel secolo scorso e a trasmettere miracolosamente l’originale misticismo voluto dai fondatori Francescani settecento anni fa.

Rotzo, il paese delle patate sull’Altopiano di Asiago, fra attrazioni storiche e naturalistiche

Per chi ha voglia di neve, di natura, di montagna, sull’Altopiano di Asiago ci sono ben 7 Comuni che offrono borghi caratteristici, luoghi di interesse storico e prodotti tipici. In particolare Rotzo è conosciuto come il paese delle patate, un po’ come Valli del Pasubio è conosciuto come il paese della sopressa…

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Nell’Altopiano di Asiago i paesaggi sono incantevoli. Foto: Marta Cardini

Le attrazioni

Rotzo è un piccolo Comune a quasi 1.000 metri s.l.m. con bei paesaggi e piste da sci. Qui le attrazioni sono numerose. Ci sono le incantevoli cascate del Pach, che si trovano in un sentiero ripido immerso nel bosco, il Forte Campolongo, una fortezza della Prima Guerra Mondiale a cui si acceda da una galleria scavata nella roccia e l’Ata Kugela, una naturale tettoia nella roccia che ha dato riparo ai soltadi della Grande Guerra. Poi ci sono sentieri naturalistici, l’archeoprecorso del Bostel, un vilaggio preisorico risalente all’Età del Ferro, la chiesetta di Santa Margherita, la chiesa di Santa Gertrude e l’Altar Knotto o “altare di pietra”, un grosso masso che si sporge su un dirupo. Da qui si gode di un panorama mozzafiato.

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L’Altar Kotto. Foto: pag. Instagram piccoledolomitisport

La storia

È probabile che il nome del paese derivi da rozzo, un termine del dialetto vicentino che significa “gruppo di case”. La presenza umana nella zona di Rotzo è molto antica, favorita dalla posizione geografica che domina la sottostante val d’Astico, lungo la quale si muovevano i traffici tra la pianura veneta e l’area trentina. L’insediamento poté giovarsi anche di un’ampia zona pianeggiante derivata da una morena glaciale e dal clima mitigato dalla pianura sottostante e dalla protezione delle Prealpi.

Proprio nei pressi della frazione Castelletto, in località Bostel, si trova un’importante area archeologica, in cui sono stati portati alla luce i resti di un villaggio della seconda età del ferro (V-II secolo a.C.). I resti furono scoperti verso la metà del Settecento dall’abate Agostino Dal Pozzo, che riportò alla luce più di quaranta casette costituite da mura a secco e fornite di una sola grande stanza con ingresso verso ovest. Al centro dell’ambiente, una buca circolare serviva per cuocere i cibi.

rotzo
Il Forte Campolongo innevato. Foto: Instagram di igers_vicenza scatto di @perla.polito

Dopo la fine della Repubblica di Venezia, Rotzo seguì le sorti degli altri comuni dell’Altopiano che videro la dissoluzione della Federazione nel 1807 da parte di Napoleone. Come tutto il Veneto, fu amministrato dall’Impero d’Austria sino al 1866, quando passò al Regno d’Italia. Come tutti gli altri centri dell’Altopiano, Rotzo è stato direttamente interessato dagli eventi della prima guerra mondiale. Le famiglie furono costrette ad abbandonare le proprie abitazioni durante il conflitto e da profughi vennero ospitati soprattutto nei paesi di Barbarano Vicentino e di Stradella (Pavia). Numerose le testimonianze rimaste: tra tutte, spicca il grandioso forte Campolongo.

La Festa della Patata

Ogni anno, intorno ai primi di settembre si tiene la tradizionale festa della patata, prodotto tipico di Rotzo. Nel 2022 la festa è stata anticipata a fine agosto, dopo due edizioni saltate causa emergenza covid. I rimonati tuberi, che hanno già festeggiato per 44 edizioni, vengono celebrati ogni anno con musica, enogastronomia e mercatini cimbri.

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Le patate di Rotzo. Foto: pag. fb Festa della Patata di Rotzo