martedì, Aprile 1, 2025
Home Blog Pagina 303

Palazzo Franceschini Folco a Vicenza

Palazzo Franceschini Folco sorge all’inizio dell’allora Contrada Pusterla, un’area che tradizionalmente era sede di attività “industriali”, grazie anche alla vicinanza con il torrente “Astego”.

Nella seconda metà del Settecento, i fratelli Giovanni e Girolamo Franceschini -famosi setaioli dell’epoca- incaricarono l’architetto Ottavio Bertotti Scamozzi della realizzazione di un edificio che doveva essere più imponente e importante delle costruzioni già presenti, ma che doveva comunque comprendere la filanda e i locali per le attività mercantili preesistenti.

È nato così il primo esempio di casa-fabbrica in città, un’abitazione grandiosa che era anche fondaco e sede di attività commerciali nonché collegata con il retrostante opificio che sfruttava, per il funzionamento delle sue macchine, le acque dell’Astichello.

Nell’Ottocento il Palazzo viene venduto alla famiglia Folco di Schio, che completa l’edificio nelle parti incompiute. Ottocentesche sono anche le decorazioni che abbelliscono l’edificio: di Sebastiano Santi gli affreschi nel soffitto e nelle pareti del salone, e di Giovanni Demin le allegorie nel soffitto dello scalone e nelle tre stanze del primo piano.

Tali decorazioni evocano le virtù sociali dei committenti, negli spazi che rappresentano le caratteristiche “pubbliche” del palazzo. Nel 1927 il Palazzo viene alienato dalla “Società Anonima di macinazione Vercellese”, all’Amministrazione Provinciale di Vicenza.

È dapprima sede del Direttorio Federale del Partito Nazionale Fascista, che lascia il posto, dopo la guerra, alla Questura cittadina. Tra il 1995 e il 2002 la Provincia di Vicenza è intervenuta per restaurarlo; i lavori effettuati hanno permesso di riportare alla luce le decorazioni presenti nel corpo laterale fino a quel momento non conosciute: sono tempere miste ad affresco della seconda metà del Settecento attribuite al decoratore Paolo Guidolini. Nel 2002, inoltre, viene riportato al suo splendore il prospetto principale che possiede riferimenti storici e architettonici degni dei monumenti più importanti del nord Italia.

I restauri hanno permesso – infine – di restituire alla città un edificio che, per le sue caratteristiche architettoniche, storiche e figurative, racconta una parte della storia di Vicenza, che si è voluta conservare attraverso un intervento che ne preserva l’autenticità.

Da Storie Vicentine n. 1 2020


In uscita il prossimo numero di Marzo 2023
distribuito nelle edicole del centro e prima periferia e agli Abbonati
Prezzo di copertina euro 5
Abbonamento 5 numeri euro 20
Over 65 euro 20 (due abbonamenti)

Giovanni Angiolello alla corte Ottomana: Pigafetta non fu l’unico vicentino a spingersi oltre i confini dell’Europa

La storia di Antonio Pigafetta, cronachista vicentino del viaggio di Ferdinando Magellano e uno dei pochi a sopravvivere all’impresa, ha dell’incredibile. Pigafetta però non è stato l’unico vicentino a spingersi ben oltre i confini dell’Europa. Un altro viaggiatore dalla vita avventurosa, Giovanni Maria Angiolello, è il nostro nuovo protagonista.

La vita

Maometto II medaglia
Medaglia raffigurante Maometto II (foto: Wikimedia Commons)

Giovanni Maria Angiolello nacque nel 1451 da una famiglia nobile vicentina. Combatté come volontario per l’allora Repubblica di Venezia, prendendo parte a importanti battaglie come l’assedio di Negroponte da parte delle truppe del Sultano Maometto II.

Data la giovane età, quando Negroponte capitolò, non fu ucciso, ma catturato e ridotto in schiavitù. Passò alcuni anni al servizio di Mustafà, secondogenito del Sultano, seguendolo nelle sue campagne contro il sovrano Uzun Hasan.

Alla morte di Mustafà fu trasferito a Costantinopoli, presso la corte. L’incarico che ricevette dimostra la fiducia che era riuscito a guadagnarsi presso il Sultano, che lo nominò suo tesoriere.  Non si sa molto sul resto della sua vita: dopo la morte del Sultano tornò a Vicenza, e forse si recò nuovamente in Oriente come mercante, ma quasi sicuramente morì in patria attorno al 1525.

Negroponte_by_Giacomo_Franco
Negroponte (foto: Wikimedia Commons)

Giovanni Maria Angiolello e la Historia turchesca

Angiolello è conosciuto per le relazioni, scritte durante la sua permanenza nell’Impero e per l’opera Historia turchesca, di cui però non si è certi sia l’autore. L’opera racconta la storia dell’Impero dal 1300 ai suoi giorni.

La sua narrazione degli eventi costituisce un documento di fondamentale importanza per gli studiosi occidentali, poiché descrive dettagliatamente le campagne di Maometto II e del suo esercito contro Uzun Hasan, allora alleato di Venezia. Non va dimenticato, inoltre, che in qualità di tesoriere Angiolello ebbe l’occasione di osservare da vicinissimo quel mondo, grazie anche alla conoscenza della lingua turca (che apprese perfettamente), che aggiunge valore all’opera in quanto l’autore ne è fonte di prima mano.

Fu un’avventura, quella di Giovanni Angiolello, che iniziò nella sconfitta e nel dolore per la perdita del fratello in battaglia. Una disgrazia che il nostro vicentino trasformò in opportunità grazie alle sue capacità, vivendo così una vita straordinaria e impensabile per i suoi contemporanei.

Luigi da Porto, scrittore, storiografo e “guerriero” vicentino: il dramma di “Giulietta e Romeo” suo e di William Shakespeare

In bilico tra storia e letteratura Luigi da Porto, scrittore e storiografo vicentino, è un esempio di fusione tra realtà diametralmente opposte. Analizzandola sin dal principio viene spontaneo notare che la vita non gli fu sorridente sin da subito ma, ciononostante, riuscì a lasciare un segno indelebile.

Sebbene discendesse di una nobile famiglia vicentina, infatti non ebbe un’infanzia semplice. Nato a Vicenza nel 1485 rimase presto orfano di entrambi i genitori e venne così affidato al nonno paterno. Nonostante la sua sfortuna in ambito familiare però, trovandosi ad Urbino per studio, poté frequentare letterati del calibro di Pietro Bembo, iniziando così ad introdursi nel mondo letterario.

La vita da letterato però non “si impossessò” subito di lui perché fu messo al comando di operazioni militari e di frontiera, per cui tornò nel nord Italia. Qui, la sorte avversa che l’aveva apparentemente abbandonato, tornò però alla carica, ponendo fine anche a questo percorso. Venne, infatti, gravemente ferito, tanto da finire col ritirarsi dapprima a Venezia e poi a Vicenza, dove concluse la sua vita nel 1529.
Sebbene abbia condotto un’esistenza tra cultura e vita militare, questi due lati della sua esperienza personale continuarono sempre ad influenzarsi l’uno con l’altro anche nei suoi scritti. Infatti tra le sue opere ricordiamo delle “Rime” pubblicate nel 1539, dove si distingue dalla tradizione per la tendenza alla schiettezza e alla malinconia.

Al contrario le “Lettere storiche” pubblicate nel 1857, riflettono l’esperienza bellica con un valore storico. L’opera che, però, lo portò maggiormente all’attenzione delle scene letterarie è “L’Historia novellamente ritrovata di due nobili amanti”, scritta tra il 1512 e il 1524 nella villa Da Porto a Montorso Vicentino.

Luigi da Porto: L’Historia novellamente ritrovata di due nobili amanti
Luigi da Porto: L’Historia novellamente ritrovata di due nobili amanti

La novella venne poi stampata anonima a Venezia e revisionata da Pietro Bembo, che aveva incontrato durante il suo soggiorno ad Urbino. Quest’opera ebbe un’esistenza travagliata e di continuo sviluppo, in quanto fu poi rielaborata da vari autori, tra cui Matteo Bandello, tradotta e resa un dramma teatrale da William Shakespeare.
In questo suo scritto emerge il connubio caratterizzante di Luigi Da Porto: l’incontro/scontro tra guerra, storia e letteratura. Da Porto, infatti, all’inizio della novella racconta che, in una pausa durante le campagne militari in Friuli, gli venne raccontata la vicenda di due giovani amanti, ambientata nella città di Verona, al tempo di Bartolomeo I della Scala.
Una nota molto interessante è che lo stesso Da Porto aveva contatti con la famiglia Montecchi, stabilitasi a Udine dopo essere stata cacciata dal luogo d’origine.
Ecco che ritorna ancora una volta la convergenza tra la guerra, senza la quale l’autore magari non si sarebbe recato in Friuli, e la letteratura, dove ha poi saputo riversare la sua esperienza. Per non parlare dell’influenza sull’opera della villa di Da Porto, sulle colline di Montorso, che gli dava la possibilità di godere una vista mozzafiato: le rocche scaligere di Montecchio che ispirarono ispirarono sicuramente lo scrittore.

Castelli di Montecchio Maggiore
Castelli di Montecchio Maggiore

Ciononostante alcune teorie sostengono che quella raccontata nella novella sia una vicenda autobiografica, a causa di un fitto scambio epistolare ritrovato, dove appare però la città di Udine come contesto e non Verona.
Luigi da Porto può, quindi, essere definito un uomo dalle mille sfaccettature, un autore in cui ambiti contrastanti hanno potuto coesistere e convivere in armonia, sfociando poi nelle sue opere.

La sfera letteraria vicentina è molto ampia ma si potrebbe attribuire a Da Porto il merito di aver dato il via ad una narrazione poi ripresa ed elaborata, come quella dei due amanti “nati sotto maligna stella”, come dirà poi Shakespeare nella sua tragedia.

È estremamente emozionante pensare come un tale capolavoro affondi le sue radici proprio qui tra i nostri colli, che hanno fatto probabilmente da cornice e ambientazione alla vicenda. Ma ancor più straordinario è constatare come poi questa storia tormentata abbia attraversato epoche e confini e ancora oggi sia vicenda senza tempo.

Villa Zileri Motterle a Monteviale, magnifica tra storia, arte e natura

Circondata da un immenso giardino, Villa Zileri Motterle di Monteviale si distingue per i suoi tesori artistici e storici. L’opera è stata progettata dall’architetto Francesco Muttoni. mentre all’interno si trovano alcuni affreschi di Giambattista Tiepolo. La villa è infatti uno dei siti vicentini del Tiepolo, oltre a Palazzo Chiericati, Palladio Museum, Villa Valmarana ai Nani e Villa Cordellina Lombardi.

La storia

Nel 1436 i Loschi, una delle più antiche e potenti famiglie nobili presenti a Vicenza sin dal XII secolo, conti dal 1426 per volontà dell’Imperatore Sigismondo, entrarono in possesso di un’ampia porzione di campagna ad ovest di Vicenza prima di proprietà dei monaci di San Felice. Buona parte del territorio era ancora incolto, paludoso o ricoperto di boschi.

Lunghi anni di pace garantirono ai Loschi tranquillità e stabilità, interrotti solamente dalla guerra della Lega di Cambrai, che interessò direttamente proprio anche le proprietà di Biron dei Loschi. Tra il 6 e 7 ottobre del 1513 infatti, le campagne della tenuta Loschi furono teatro degli avvenimenti che videro gli eserciti dell’imperatore Massimiliano I e della Repubblica Serenissima dapprima accamparsi e schierarsi e poi muoversi a sorpresa, per spostarsi in un inseguimento culminato nel finale con la battaglia della Motta, disastrosa per i veneziani.

villa zileri
Il sentiero da cui si accede alla barchessa e alla villa. Foto: Marta Cardini

La bonifica

Nell’arco di due secoli le terre dei Loschi vennero rese fertili e furono così ben coltivate da diventare fonte di eccezionale ricchezza per la famiglia. Di pari passo con la crescita dell’attività imprenditoriale, crebbe e si ampliò quasi senza sosta anche il complesso residenziale.

Nel 1729 il casato entrò a far parte del patriziato della Serenissima Repubblica, con l’iscrizione nel Libro d’Oro della nobiltà veneziana concessa ai cugini Alfonso e Nicolò. Nel corso dei secoli effettivamente vari membri della famiglia avevano portato lustro al casato, sia per meriti letterari, sia per le imprese militari.

Da uomo colto e impegnato nella vita civile della città di Vicenza qual era, il conte Nicolò Loschi fece riprogettare all’architetto Muttoni l’assetto sia degli edifici sia della corte del complesso.

barchessa
La barchessa di Villa Zileri. Foto: Marta Cardini

Gli affreschi del Tiepolo

Una volta entrati nella villa, si possono ammirare i meravigliosi affreschi di Giambattista Tiepolo, presenti in abbondanza nel Salone d’Onore, la stanza in cui venivano accolti gli ospiti e dove si tenevano feste e importanti ricevimenti. Fu proprio il conte Nicolò dei Loschi a volere i suoi affreschi, quando il Tiepolo era ancora soltanto un pittore emergente.

affresco tipeolo
Uno degli affreschi del Tiepolo presenti nel Salone Nobile. Foto: Marta Cardini

Gli affreschi sono giunti sino a noi in uno stato di conservazione complessivamente buono.  Il salone, come tutta la villa nel suo insieme, ha attraversato indenne e senza traumi le diverse vicende storiche, anche quelle più rischiose come le due guerre mondiali. Per questa particolare concomitanza di circostanze, gli affreschi di villa Zileri sono considerati uno dei testi migliori su cui poter studiare la tecnica pittorica di Tiepolo.

soffitto
Un affresco del Tiepolo presente sul soffitto. Foto: Marta Cardini

Le virtù

Tiepolo elaborò un percorso iconografico incentrato sulle virtù che lui e la sua casata vantavano di possedere e che venivano presentate come esempio da seguire. Così rappresentò le astratte virtù attraverso le loro personificazioni allegoriche in dialogo tra loro. Salita la prima rampa dello scalone, sostando nel pianerottolo, a destra e sinistra due finte statue dipinte a monocromo, Merito e Nobiltà, accolgono il visitatore e indicano già la chiave di lettura dell’intero ciclo. Alle pareti della scala e del salone ogni affresco è dedicato a maestose figure dalle pose solenni ed enfatiche.

Affresco
Un altro affresco del Tiepolo nel Salone Nobile. Foto: m.c.

Ecco allora che possiamo ammirare per esempio nello scalone, l’Innocenza e la Vigilanza, contrapposte rispettivamente all’Inganno e al Sonno, o ancora nel salone la Liberalità dispensatrice di doni e la Fedeltà coniugale, sino ad arrivare nel soffitto della sala nobile, al Trionfo della Gloria annunciato dalla Fama tra le quattro Virtù Cardinali dove Tiepolo mostra di padroneggiare la complessità compositiva di visioni aree dove numerose figure ritratte in posizioni dallo scorcio ardito si muovono in ariosi spazi inondati di luce. Un affresco è dedicato alla Modestia, che con umile atteggiamento si preoccupa di allontanare una altezzosa e provocante Superbia.

interno villa zileri
Uno scorcio dell’interno del Salone Nobile. Foto: m.c.

Il parco e altri tesori

Il parco di villa Zileri ha un alto valore ambientale naturalistico. Diversi sono gli esemplari classificati come piante monumentali nazionali o per età o per circonferenza del fusto o per altezza e dimensione della chioma. Tra questi alcuni sono particolarmente degni di nota: un tassodio con un fusto di più di 7 metri alla base e una chioma che raggiunge i 30 metri, un platano con una base di 5,5 metri e una chioma che supera i 40 metri e un viale di carpini bianchi il cui esemplare più significativo ha un fusto di 5 metri alla base.

albero
Gli alberi del parco di Villa Zileri sono secolari. Foto: Marta Cardini

Fuori dalla villa si trovano altri due tesori nascosti: la Grotta delle Conchiglie e la Cappella di San Francesco. La prima è uno spazio decorato da conchiglie che disegnano fantasiosi motivi geometrici e floreali, impreziositi da gusci di tartaruga, sfere di cristallo colorate e coralli fossili. Mentre la Cappella è nata come completamento della villa ed è collocata alle pendici del Colle San Giorgio.

parco
I sentieri del parco rigenerano l’animo. Foto: m.c.

 

 

 

Giacomo Zanella: poeta, sacerdote, educatore, patriota

Giacomo Zanella, poeta, sacerdote, educatore, patriota fu una delle figure più rappresentative della cultura italiana a Vicenza, che non confuse mai come esibizione intellettualistica, ma con umiltà propose a quanti lo avvicinavano e a coloro che conobbero la sua opera. Nasce a Chiampo il 9 settembre 1820, proprio nella via che oggi porta il suo nome. Dopo le scuole elementari, il padre, intuite le doti del figlio, inscrive Giacomo nel Ginnasio Comunale di Vicenza. Ma successivamente, Giacomo sente il bisogno di coltivare il presentimento di una vocazione e di saggiarne l’autenticità. Entra così nel Seminario vescovile. In questi anni inizia i suoi approcci con la poesia, che ha come tema avvenimenti limitati all’ambiente in cui il poeta vive, soprattutto di natura politica. Viene poi ordinato sacerdote il 6 agosto 1843. Ai dieci anni trascorsi come alunno nel Seminario, se ne aggiungono altri dieci come insegnante di lettere e filosofia. Nel frattempo segue gli studi universitari presso Padova, conseguendo con lode nel 1847 la laurea in filosofia.

D’estate torna a Chiampo, dove incontra don Paolo Mistrorigo, anche lui di Chiampo, professore nel Liceo di Vicenza. I due si dilettano in disquisizioni letterarie, poetiche e politiche. Condividono il comune convincimento che la soluzione al problema dell’occupazione austriaca coincida con quella di una guerra combattuta sotto la monarchia sabauda. Nel 1850 la polizia austriaca inizia la sua azione inquisitrice, e cerca i testi delle prediche tenute da Zanella nella chiesa di S. Caterina, senza riuscire a trovarli. Ma ricorre comunque a qualsiasi mezzo per disturbare la sua attività di insegnante. Alla fine, Giacomo abbandona il Seminario per non coinvolgere nella persecuzione politica altri insegnanti. Nel 1864 compone due delle più famose poesie, mostrando il suo talento artistico: La conchiglia e La veglia. Nel 1866 il Veneto è annesso al Regno d’Italia, e il 1° ottobre anche a Chiampo si celebra l’avvenimento. Non può certo mancare Giacomo,

«il più illustre cittadino, il patriota impavido». Viva è però l’assenza di un personaggio che tanto ha operato per vedere la riunificazione italiana: don Paolo Mistrorigo, mancato quindici anni prima. Zanella diviene poi professore ordinario di lettere italiane alla facoltà di Lettere di Padova, dove viene innalzato più tardi alla dignità di rettore magnifico. Nel 1870 vende la casa natale per comprare un palazzo di fine 1700 a Vicenza. Il 9 gennaio 1878 si spegne Vittorio Emanuele II. A lui vanno i versi In morte del Re d’Italia, pubblicati nella Nuova Antologia. Il 17 febbraio 1878 viene a mancare anche Pio IX, per il quale compone In morte di Pio IX, esprimendo i suoi sentimenti di devoto cristiano e sacerdote, nel momento in cui muore un pontefice esemplare per aver difeso e custodito gli interessi della Chiesa. Oscilla fra l’ammirazione dei nuovi mezzi, visti come dimostrazione dell’ingegno che Dio dà all’uomo, e perciò motivo di elevazione dell’uomo a Dio, e il timore che il progresso non divenga fonte di orgoglio e causa di ateismo. Questi sentimenti contrastanti emergono nella sua prima raccolta di Versi (1868). Nel 1880 incontra a Roma Giosuè Carducci, che in passato lo ha elogiato. Trascorre gli ultimi dieci anni della sua vita tra la villetta di Cavazzale e la casa in città a Vicenza, componendo nuove poesie e assolvendo ai suoi incarichi pastorali, tra il compiacimento dei fedeli per poter ascoltare un predicatore d’eccezione. All’inizio del 1888, Giacomo è assalito da una congestione cerebrale. Il suo corpo ormai stanco si spegne la sera del 17 maggio 1888. Sulla tomba si leggono i seguento versi tratti dalla poesia La Veglia, nel 1868, certo che la morte non fosse la fine, bensì l’inizio di tutto.

Cadrò; ma con le chiavi

D’un avvenire meraviglioso. Il nulla A più veggenti savi.

Io nella tomba troverò la culla

Nel 1920 è inaugurata a Chiampo una lapide dello scultore Spazzi dedicata a Giacomo Zanella, ora esposta su quella che fu la sua casa a Vicenza, in Contrà Zanella.

Da Storie Vicentine n. 1 2020


In uscita il prossimo numero di Marzo 2023
distribuito nelle edicole del centro e prima periferia e agli Abbonati
Prezzo di copertina euro 5
Abbonamento 5 numeri euro 20
Over 65 euro 20 (due abbonamenti)

I luoghi di incontro a Vicenza al tempo degli austriaci

Nel corso del XIX secolo Vicenza pullulava di luoghi di incontro, bar, pasticcerie dove la gente intellettuale, gli artisti e i patrioti si incontravano e conversavano.

Questi luoghi di incontro di ritrovo a quei tempi a Vicenza erano: “Ai Nobili” per il ceto frequentatore che potevi incontrare; all’ “Azzardo” per i giocatori; alla “Fenice” dove sorgeva il circolo politico dei liberali e che diventerà poi sede del Comitato Segreto contro l’austriaco, qui potevi incontrare il vicentino Francesco Molon (1821-1885) il quale assieme a molti altri ferventi patrioti, come lo stesso Ferdinando Coletti, organizzava la patriottica azione dei Comitati segreti del Veneto; alla “Borsa” o caffè Angelini; al “Genio” in Contrà delle Vetture (attuale contrà Daniele Manin nome datole sin dal 1867) dove si incontravano gli architetti; alle “Tre Velade” a Santa Corona, chiamato così per una vecchia pittura con tre devoti vestiti a tre colori; agli “Scrigni” in piazza Duomo; ai “Commercianti” in piazza Biade; Il “Caffè dei Signori detto anche “ Bolognin”, nella piazza omonima; ritrovo preferito delle giovani coppie di fidanzati e dei reverendi era invece il “Cioccolataro” presso il Duomo gestito da degli svizzeri già a partire dall’anno 1780; ritrovo degli studenti vicentini invece era il Caffè gestito da Anna Fantoni “al Commercio delle Biade” dove gli stessi studenti si comunicavano notizie, aspirazioni, motivi di studio e di musica.

All’antica offelleria “La Meneghina” nell’attuale contrà Cavour si incontravano, nella cantina della stessa, i patrioti che prepararono la rivoluzione di Vicenza della primavera del 1848, qui uno avrebbe potuto incontrare l’imperturbabile colonnello Giacomo Zanellato (1786-1879) intento a “sniffare” il suo tabacco da fiuto e a gustare le specialità della “Meneghina” come le focacce e i giallettini, quest’ultimi “strillati giorno e notte”, oppure in questo luogo si poteva incontrare il giovane patriota vicentino Camillo Franco (1824-1848) e altre personalità di spicco; i dominatori austriaci (dobbiamo rammentare che la città di Vicenza fu sotto dominazione degli austriaci essendo uno dei centri del Lombardo-Veneto dal 1813 al 1866) frequentavano invece la prima “Birraria” che si insediò a Vicenza quella gestita dal tedesco Pietro Brugger, quest’ultimo aprì inizialmente il suo chiosco “Birraria” in Campo Marzio per poi trasferirsi successivamente nel palazzo Pencati a S. Michele dove i barili di birra, le cantine dei vini e le salumerie vennero devastate nel marzo 1848. I vicentini si lamentavano degli austriaci che uscivano di notte da questo locale completamente ubriachi e che disturbavano la quiete notturna “con i rumori ingrati delle spade strascicate e battute sui selciati, insieme all’ aspro stridore delle voci croate e tedesche incontrastate e incomprese”.

Di Loris Liotto da Storie Vicentine n. 1 2020


In uscita il prossimo numero di Marzo 2023
distribuito nelle edicole del centro e prima periferia e agli Abbonati
Prezzo di copertina euro 5
Abbonamento 5 numeri euro 20
Over 65 euro 20 (due abbonamenti)

“Giselle” del Balletto dell’Opera Nazionale di Bucarest al Teatro Comunale di Vicenza

Ancora una presenza internazionale a “Moving Souls”, la sesta edizione di Danza in Rete Festival | Vicenza – Schio: a rappresentare il classico della tradizione con l’eterea e sempiterna “Giselle” ci sarà il Balletto dell’Opera Nazionale di Bucarest, venerdì 31 marzo alle 20.45, nella Sala Maggiore del Teatro Comunale di Vicenza. Il balletto in due atti su musica di Adolphe Adam, libretto di Théophile Gautier e Jules‑Henri Vernoy de Saint-Georges, coreografia di Jean Coralli, Jules Perrot e Marius Petipa, è presentato nell’adattamento di Mihai Babuşka, le scenografie di Adriana Urmuzescu; la direzione del balletto è affidata Laura Blica Toader. Per la data di Vicenza di “Giselle” i biglietti sono esauriti da tempo.

Come di consuetudine per gli spettacoli di danza in Sala Maggiore, prima dello spettacolo, venerdì 31 marzo alle 20.00 al Ridotto, si terrà l’incontro di presentazione al pubblico del balletto “Giselle”. A condurlo sarà la giornalista, critica e storica della danza Valentina Bonelli, esperta di balletto russo, contributor per Vogue Italia, Music Paper e testate specializzate internazionali. Valentina Bonelli ripercorrerà le peripezie artistiche di “Giselle”, balletto epitome del romanticismo francese, che dopo un ventennio di trionfi sparì dalle scene parigine per approdare ai Teatri Imperiali russi e affermarsi nella revisione di Petipa. Tornato in Occidente agli inizi del Novecento con i Ballets Russes, il balletto è oggi tra i classici più rappresentati, declinato nello stile delle diverse scuole e nutrito dell’anima dei suoi grandi interpreti.    

Il libretto di “Giselle” si deve a Théophile Gautier, autorevole scrittore e critico d’arte dell’epoca romantica, che lo scrisse per omaggiare la ballerina Carlotta Grisi, di cui era fervente ammiratore. Leggendo il romanzo di Heinrich Heine “De l’Allemagne”, lo scrittore francese fu affascinato dalla leggenda delle Villi, gli spiriti delle fidanzate morte alla vigilia delle nozze. Il libretto vide la luce e fu poi musicato, in brevissimo tempo (in soli otto giorni) da Adolphe-Charles Adam, celebre compositore di musiche di opere liriche e balletto, mentre la coreografia fu affidata a Jean Coralli; i passi della prima ballerina furono curati da Jules Perrot. “Giselle” fu rappresentato per la prima volta all’Opéra di Parigi il 28 giugno 1841, protagonisti Carlotta Grisi e Lucien Petipa nel ruolo di Albert. Il balletto riscosse subiti un successo strepitoso, tanto che ancora oggi viene considerato come uno dei più grandi balletti classici. “Giselle” rappresenta l’apoteosi del balletto romantico in quanto riassume in sé tutti gli elementi stilistici, tecnici ed espressivi del repertorio classico.

La storia è quella dell’affascinante Giselle, giovane contadina della Renania, che si innamora del principe Albert conosciuto sotto mentite spoglie (lo crede un contadino come lei); quando viene a scoprire che il suo amato è promesso ad un’altra donna non regge al dolore e muore fra le braccia dell’amato. Ma, mentre il principe di Slesia si dispera per la sua scomparsa, ecco che Giselle torna in vita tra le Villi, spiriti vendicativi il cui scopo è far ballare gli uomini infedeli fino alla morte. Giselle supplica inutilmente Myrtha, la regina delle Villi, di risparmiarlo; lo protegge, sorreggendolo e danzando con lui per tutta la notte. Alle prime luci dell’alba le Villi svaniscono mentre Albert è salvo grazie all’amore di Giselle che dopo averlo fatto danzare, può tornare al riposo eterno nella sua tomba. E lì rimane solo il giovane principe, inconsolabile e affranto per il dolore del suo amore perduto per sempre.

A differenza di altri balletti romantici, nel corso del tempo “Giselle” non ha subìto significative modifiche per quanto riguarda la coreografia; a livello interpretativo le grandi ballerine di tutti i tempi hanno danzato in questo ruolo, così come i più grandi ballerini si sono cimentati nel ruolo del principe Albert.

“Giselle” continua a confermare il suo fascino indiscusso, intriso di sogno e romanticismo: scene luminose e terrestri, visioni notturne e spettrali, rendono la danza un linguaggio senza tempo e Giselle, con la sua presenza eterea, un simbolo dell’amore che travalica la morte.

A portare in scena questo capolavoro romantico al Teatro Comunale di Vicenza ci sarà il Balletto dell’Opera Nazionale di Bucarest, con la sua lunga storia e tradizione, iniziata nel 1924, tre anni dopo l’istituzionalizzazione dell’Opera Rumena, quando Anton Romanowski si stabilì in Romania, gettando le basi del primo dipartimento di balletto dell’Opera Nazionale Rumena. Con l’attuale direzione artistica di Alin Gheorghiu, già primo ballerino della compagnia e la recente direzione del balletto di Laura Blica Toader, già solista della stessa, l’Opera Nazionale di Bucarest vanta un ensemble di quasi cento artisti di talento tra solisti e corpo di ballo. L’originale versione di Jean Coralli e Jules Perrot viene qui adattata dal danzatore, direttore, maestro e coreografo Mihai Babuşka, diplomato 

alla Scuola Accademica del Gran Teatro di Mosca, famoso per la sua fedeltà  alla formazione tecnica della scuola russa, a cui apporta una visione meno conservatrice e più aperta alle nuove tendenze. Attualmente infatti, il Balletto Nazionale dell’Opera di Bucarest ha in repertorio, oltre ai balletti classici, titoli neoclassici e contemporanei.

Danza in Rete Festival | Vicenza – Schio, giunto alla sesta edizione, si avvale della direzione artistica di Pier Giacomo Cirella in collaborazione con Loredana Bernardi e Alessandro Bevilacqua; è riconosciuto e sostenuto dal Ministero della Cultura ed è realizzato con il supporto della Camera di Commercio di Vicenza, che interviene con uno speciale contributo alle attività culturali realizzate in rete; è sostenuto inoltre da società a capitale pubblico come Viacqua e dalle sponsorizzazioni di aziende private: Webuild, Mecc Alte, D-Air Lab.

www.festivaldanzainrete.it

Camilla Monga al Danza in Rete festival a Vicenza con “Sull’attimo”

Una nuova proposta di Camilla Monga è in programma giovedì 30 marzo 2023 al Ridotto del Teatro Comunale di Vicenza, nell’ambito di “Moving Souls”, la sesta edizione di Danza in Rete Festival | Vicenza – Schio.

Il Festival Danza in Rete, promosso dalla Fondazione Teatro Comunale di Vicenza e dalla Fondazione Teatro Civico di Schio, dedicato all’arte coreutica in tutte le sue forme, si conferma ancora una volta una realtà consolidata grazie all’originalità del suo format, una contaminazione tra generi di danza, in movimento tra tradizione e innovazione, con sviluppi che convivono e consentono la disseminazione, in diversi luoghi, un incontro di tendenze e linguaggi del contemporaneo, in grado di coinvolgere in modo attivo gli spettatori e di generare nuovi sguardi e una rinnovata attenzione al “fenomeno danza”.

Camilla Monga si presenterà al pubblico con il musicista Emanuele Maniscalco, che si esibirà dal vivo (al pianoforte e alla batteria), accompagnata in scena dai danzatori Stefano Roveda e Francesco Saverio Cavaliere, con la nuova creazione “Sull’attimo”, vincitrice del bando “Abitante 2021/2022” (promosso dal Centro nazionale di produzione della danza Virgilio Sieni e dalla Fondazione CR Firenze), selezionata per Aerowaves 2023. Per la performance di giovedì 30 marzo restano ancora dei biglietti.

“Sull’attimo”, atto unico di 40 minuti, è frutto del progetto “Conversazioni sull’attimo” che ha saputo mettere in dialogo video, danza e musica ponendosi due obiettivi principali. Il primo, esplorare la temporalità puntando a raggiungere il “tempo senza tempo”, cioè lo stato di completa immersione nella natura o nell’ambiente che ci circonda, senza più i minuti e i secondi a scandire le nostre azioni; il secondo, sperimentare le potenzialità dell’improvvisazione, partendo dalla musica per coinvolgere la danza.

Per questo, il materiale coreografico e sonoro creato da Camilla Monga e Emanuele Maniscalco è in parte scritto e in parte improvvisato, prendendo spunti dal jazz e dalla musica ambient, dalle produzioni popolari brasiliane e dalle partiture colte del Novecento, passando da Bach all’art pop. Le idee musicali sono sviluppate sul versante coreutico dalle azioni di Camilla Monga, partendo da alcuni elementi semplici che diventano via via più complessi, privilegiando le ripetizioni per dare forma ad un dialogo e a una interrelazione tra suoni e gesti.

Per spiegare il processo creativo, la danzautrice racconta che quando pensa al lavoro che sta prendendo forma, lo concepisce come un liquido che, pur mantenendo un’identica formula chimica, si modella continuamente, lasciando intatte le sue proprietà. E sul rapporto tra coreografia e musica si è detta convinta che l’immagine abbia una propria musicalità intrinseca, un ritmo, una vibrazione.

Lo dimostrano la storia dell’arte e i primordi del cinema muto con le sequenze in movimento, che pure senza il sonoro si facevano “sentire”. Sulla presenza di parti lasciate all’improvvisazione, dietro le quali potrebbe essere sempre in agguato l’errore, Maniscalco precisa che il rapporto di fiducia tra i due autori, coreografa e musicista, fa sì che le imprecisioni non siano un elemento negativo, ma possono diventare autentici “spazi di opportunità”, nei quali l’elemento inatteso offre l’occasione per rilanciare il processo creativo con serenità e leggerezza.

In questo divenire, i singoli danzatori, saranno alle prese con l’esecuzione, ma anche con le variazioni continue che Maniscalco proporrà sui diversi temi musicali. “Sull’attimo” è una creazione originale, che permette di far riflettere sulla struttura compositiva di un’opera coreografica e sul suo continuo reinventarsi, grazie anche agli effetti che la musica produce sulla sfera emotiva, effetti che possono essere percepiti solo prestando attenzione all’attimo.

Al termine della performance si svolgerà l’Incontro con l’Artista condotto da Giulia Galvan, audience developer, a cui parteciperanno i due autori, Camilla Monga e Emanuele Maniscalco.

Cantina Piovene Porto Godi: è il lato… nobile dei vini Berici

La Cantina Piovene Porto Godi affonda le proprie radici nel proprio territorio, a Toara, uno dei territori più vocati dei Colli Berici, la cui famiglia indigena di viticoltori è un patrimonio di sapienza generata in decenni di lavoro in vigna e non solo.

Cantina Piovene Porto Godi
Cantina Piovene Porto Godi

La famiglia Piovene si descrive come una famiglia indigena. Cosa vuol dire?

La nostra storia inizia nel profondo del tempo ed è segnata con una pianta del 1584 che testimonia,  allora come oggi, la solida impronta di una villa veneta circondata da un’ampia corte, campi viti e brolo.

Possiamo immaginare la nostra famiglia come le radici un vitigno che con il passare delle stagioni vanno sempre più in profondità alla ricerca dell’acqua. Per noi rappresentano il senso di appartenenza al nostro territorio.

Qual è il vino che più vi rappresenta e a cui vi sentite più legati?

Diversi sono i nostri vini apprezzati e premiati dalle riviste/guide di settore come il Pozzare (Cabernet), il Frà i broli (Merlot), il Campigie (Sauvignon) . Questo ci fa molto piacere perché forse non tutti sanno che i tagli bordolesi sono giunti in Italia per prima sui colli berici ed euganei e poi nelle altre regioni.

Noi comunque ci sentiamo particolarmente legati al nostro Tai rosso, un vino prodotto da varietà autoctona per eccellenza dei Colli Berici, su cui abbiamo scommesso per creare un vino-emblema di questo territorio e con cui amiamo sperimentare: il Tai Rosso, dai  profumi floreali e marcato sentore di ciliegia, fragola e nota di pepe, di pronta beva ma corredato di buona struttura e concentrazione; il Lola, rosato ottenuto dalla macerazione di poche ore delle bucce, e affinato in acciaio; infine il Thovara Tai Rosso Riserva, ottenuto dai vitigni più alti esposti a sud, vendemmiato un mese dopo il Tai Rosso per ottenere una maggiore concentrazione di zuccheri e tannini e maggior corpo, e maturato in tonneau francesi per un anno.

Dal 2018 avete avviato la conversione da convenzionale a biologico. Moda o necessità?

Siamo sempre stati rispettosi della natura e la conversione totale al biologico dei nostri vigneti e uliveti, è una strada che abbiamo intrapreso in maniera spontanea per convinzioni interne non per moda o necessità.

La conversione certificata biologica è estesa non solo ai vigneti ma anche ai boschi, uliveti, tanto in cantina quanto nei campi. Come azienda agricola coltiviamo infatti soia, frumento e girasoli biologici. Anche il nostro olio Dop è Biologico, prodotto da cultivar Rasara, Leccino, Frantoio, il cui sapore è tipico di questo territorio: delicato e fruttato, leggermente amarognolo.

Pensi che nel nostro uliveto abbiamo alcuni ulivi secolari di cui non si riesce a identificare la cultivar, neanche dopo attenti esami alle foglie e olivi da parte dell’Università di Padova

La nostra essenza è l’ospitalità. Può spiegare meglio?

Le porte della cantina sono sempre aperte e ci piace far vivere tutta la nostra essenza con degustazioni non limitate al prodotto, ma a far vivere l’identità del nostro territorio e della nostra famiglia.  La gente del luogo è sempre passata di qui non solo per acquistare il nostro vino ma anche per fare due chiacchiere con noi, qui dove vite e storia raccontano la stessa trama.

La nostra è una classica villa veneta dove convivono vita di rappresentanza e vita agricola che trova il suo cuore pulsante nella grande cucina, proprio come quelli di una volta: è il nostro centro di gravità, dove viviamo, ci scaldiamo e cuciniamo ancora con un’antica cucina a legna.

La chiave dei vostri vini è dunque il tempo?

Tutti i nostri vini invecchiano molto bene. Anche se li vendiamo giovani per esigenze di mercato esprimono al meglio dopo qualche anno. Ci è capitato che qualche ristoratore ci ha fatto assaggiare nostre bottiglie dimenticate per motivarci a immetterle sul mercato non immediatamente, ma noi preferiamo lasciare l’opzione al consumatore se gustarle subito o dimenticare la bottiglia in cantina finale. In fondo la vera libertà sta nella possibilità di scegliere.

Il punto di vista di Dario Loison

Le qualità della famiglia Piovene Porto Godi che da sempre ammiro sono l’onestà, la semplicità, la trasparenza di persone per bene che non sanno mentire, valori che si rispecchiano pienamente nei loro vini: semplici ed eleganti con un grandissimo rapporto qualità prezzo e che rappresentano in pieno la forza, la dedizione e la franchezza del “vignaiolo” berico.

Queste caratteristiche si affiancano ad una intensa cultura di una famiglia nobile rappresentata anche loro marchio “Porto Godi”, etichetta di una storica famiglia del Vicentino che da generazioni testimonia la fedeltà al proprio territorio.

 

Info

Cantina Piovene Porto Godi

Via Villa, 14,

36021 Villaga VI

Telefono: 0444 885142

http://www.piovene.com/

L’articolo Cantina Piovene Porto Godi: il lato nobile di un vino berico proviene da L’altra Vicenza.

Arte culi ‘n aria, l’undicesima ricetta vicentina di Umberto Riva: “i sparasi de Bassan co i ovi”, le punte della vita

“Arte culi ‘n aria“ è il titolo di una serie di.. articuli così come li ha scritti (l’ultima pubblicazione di quello che ripubblichiamo oggi è del 25 dicembre 2019, ndr) Umberto Riva per te che nel piacere della tavola, vedi qualcosa di più: gli articoli sono raccolti insieme alla “biografia” tutta particolare del “maestro” vicentino Umberto Riva nel libro “Arte culi ‘n aria”, le cui ultime copie sono acquistabili anche comodamente nel nostro shop di e-commerce o su Amazon.

Prima di “gustarti” la nuova ricetta fuori dal normale di Umberto Riva rileggi la Prefazione e il glossario di “arte culi ‘n aria“, una nuova serie di.. articuli così come li ha scritti il “nostro” Umberto per te che nel piacere della tavola, vedi qualcosa di più.


Un uomo può vivere con un uovo al giorno. Lo diceva lo zio Ivo detto Cerina perché aveva una privativa, sali tabacchi e valori bollati, compresi i cerini. O forse la ragione era un’altra!Prima di “gustarti” la nuova ricetta fuori dal normale di Umberto Riva (i sparasi dde Bassan) rileggi la Prefazione e il glossario di arte culi ‘n ariauna nuova serie di.. articuli così come li ha scritti il “nostro” Umberto per te che nel piacere della tavola vedi qualcosa di più

Un uovo con gli asparagi di Bassano è meglio. No! È supremo.

Bisognava scottarsi le dita. Sì. Perché l’uovo “sudà”, deve essere pelato bollente così come bollente deve essere messo sul piatto. Una volta tagliato a metà, deve rilasciare il tuorlo leggermente denso, liquoroso, “co ‘a giosa”. Il tuorlo si mischierà con olio, con l’aceto, con il sale ed il pepe. Tutto pronto per intingere “i sparasi” rigorosamente bollenti.

Per essere pronti a degustare “i sparasi co i ovi” non dimenticare.

Primo: mettere sotto al piatto da una parte un boccone di pane, ciò permetterà al condimento di concentrarsi dalla parte opposta ed occupare solo uno spazio ridotto, creando un guazzetto dove intingere gli asparagi.

Secondo: gli asparagi, previa scottoni, dovranno essere presi per la base, tra il pollice l’indice ed il medio della mano sinistra (diversamente per i mancini).

Terzo: la punta dell’asparago verrà immersa nell’olio, aceto, pepe e sale, torlo d’uovo e schiacciata con i denti della forchetta in modo da spiaccicarla. Così operando, quella squisitezza composta da uovo, olio, aceto e pepe ed il torlo d’uovo, potrà inzuppare, penetrare, impregnare, insaporire le fibre dell’asparago. Non è regola, ma si può lasciare le punte disfatte nella bagna, mangiare il resto dell’asparago, ed alla fine gustare, senza più doverci mettere mani e dita, la deliziosa crema. Quella crema che li ti guarda dal piatto e sembra dire “magname”.

Quattro: l’asparago, privato dell’apice secondo quanto descritto al punto tre, deve essere infilato in bocca quindi tirato per la base che tieni tra le tre dita della mano destra (sinistra per i mancini) e riestratto facendolo scivolare premuto tra i denti semichiusi e le labbra, resterà così tra le famose tre dita solo la parte filamentosa che è tanto più piccola quanto di maggiore qualità e freschezza sono gli asparagi. Il massimo? “I xera cosi boni che se ga magna tuto, anca ‘l manego”.

Quinto: quale atto finale ed irrinunciabile; il piatto dovrà essere pulito, anzi, lucidato, col pane, usufruendo anche di quel boccone che dall’inizio si trovava sotto il piatto.

Sesto: non fa parte delle regole, ma del “goloseso”, la “poenta freda”. Non va servita sul piatto degli asparagi, ma su uno a parte; usare delle fette di polenta fredda da mangiare, a bocconi durante la degustazione dei “sparasi co i ovi”, ed alla fine, prima di ricorrere al pane, intingerne in quella sublime crema, meglio usando le mani “pociando la feta intiera”; ciò sarà attuabile solo se si è ricorsi alla ‘non regola del punto tre.

Alla fine? In cucina, dove si è cotto e dove si è mangiato, rimarrà un profumo diverso, un profumo da buono, da sano. Nessun odore di unto. Solo  una traccia, flebile e piacevole, “da freschin”. Un odore gustoso, proprio un “odore da bon”.

Viva i sparasi. Viva Bassan.

L’articolo Arte culi ‘n aria, la ricetta n. 11 di Umberto Riva: “i sparasi co i ovi”, le punte della vita proviene da L’altra Vicenza.