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Birra Ofelia, una storia fermentata per 5 anni tra Sovizzo e il Belgio

La Birra Ofelia nasce da un’idea che è lentamente fermentata nelle menti di Lisa Freschi e Andrea Signorini, soci e compagni di vita.

birrificio ofeliaL’idea nasce nel 2007, in Belgio, durante la visita ad un birrificio artigianale, al cui ritorno iniziarono a sperimentare piccole produzioni nel garage sotto casa. Galeotto fu quel viaggio, perché per altri 5 anni continuarono le prove delle cotte, affinando le ricette con perizia e studio, e perfezionandosi con altri viaggi in Belgio e negli Usa, confrontandosi con altre realtà, il tutto tenendo conto che Lisa e Andrea erano già impegnati nelle loro attività professionali.

Nel 2012 finalmente nasce la loro birra perfetta, una birra che potesse essere onesta, franca, pura e soprattutto una birra che non scenda a compromessi. Nasce Ofelia, nomen omen, proprio come il personaggio dell’opera Shakespeariana, perdutamente Innamorata di Amleto.

Il legame con il territorio

Il piccolo impianto da 1.2 ettolitri nel tempo ha cominciato a starci un po’ stretto – raccontano Lisa e Andrea – e così dal 2016 abbiamo realizzato, sempre a Sovizzo e a pochi passi dal precedente, un altro birrificio da 12 ettolitri con un impianto più efficiente”.

Nel nuovo birrificio – continuano – abbiamo predisposto anche la tap room, un’area del birrificio dedicata e aperta a tutti coloro che vogliono bere una buona birra alla spina direttamente nel luogo di produzione. E naturalmente è sempre in funzione il punto vendita per l’asporto”.

Lisa e Andrea selezionano personalmente malti e luppoli più adatti alle loro birra, anche per quelle  caratterizzate da altri elementi come ad esempio Scarlet con le corniole De.C. di Cornedo o Speltina, realizzata con farro spelta di Sovizzo, in corso di certificazione De.Co.”. Facciamo il possibile per utilizzare ingredienti dal territorio vicentino.

I love Loison

Con Dario ci siamo sempre tenuti in contatto – racconta Lisa – dai tempi in cui lavoravo per il consorzio di promozione turistica Vicenza è, incrociandoci spesso in occasione di fiere di settore come Golosaria a Milano, Vinitaly a Verona e ad incontri più svariati sempre in tema gastronomico vicentino“.

Il punto di vista di Dario

Conosco Lisa e Andrea e so quanto si sono dati da fare per realizzare il loro progetto. Hanno rinunciato alle loro professioni, alla sicurezza e tranquillità per inseguire un sogno. Tra le proposte in rassegna apprezzo molto la birra “Piazza delle erbe”, la saison con spezie ed erbe dal grande equilibrio e bouquet aromatico. Stiamo comunque facendo fermentare insieme, una dolce idea che lego la birra artigianale Ofelia con un prodotto di pasticceria”.

Info

Birrificio Ofelia

Viale dell’Artigianato, 22

36050 Sovizzo VI

Tel 340 400 2458

https://birraofelia.it/

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Musica sull’Acqua, Pueri Cantores in concerto presso la Chiesa di San Marco a Vicenza

Domenica 26 marzo alle 16 il coro “Pueri Cantores” del Veneto APS, diretto dal Maestro Roberto Fioretto, si esibirà presso la Chiesa di San Marco a Vicenza nel concerto “Musica sull’Acqua” in collaborazione con il Comune di Vicenza (Assessorato alla partecipazione) e Viacqua.

Lo spettacolo, inserito nella giornata regionale dei Colli Veneti, vuole affrontare insieme alla comunità vicentina il tema dell’importanza dell’acqua. La carenza di risorse idriche, secondo una nuova analisi dell’Università di Twente (Olanda) pubblicata sulla rivista Science, non solo è una delle sfide più pericolose che il mondo si trova ad affrontare, ma probabilmente è di gran lunga peggiore di quanto ci si aspetti. Un fatto che sta rapidamente portando al degrado irreversibile delle falde acquifere, rendendo vulnerabili intere comunità.

Il prof. Massimo Celegato illustrerà alcuni dei problemi legati al cambiamento climatico in atto, all’impatto che la società ha nel territorio, allo spreco e la scarsità d’acqua. Proporrà altresì semplici comportamenti che ognuno di noi può adottare per contribuire al benessere del nostro pianeta, della natura e di noi stessi.

Musica sull'acqua
Pueri Cantores del Veneto

La musica interpretata dal coro “Pueri Cantores” del Veneto creerà un legame con il territorio intorno a noi al quale sono legate la nostra storia e la nostra cultura affinché essa possa contribuire al benessere della nostra salute e della natura che ci circonda.
Nella seconda parte del concerto, in tema con il periodo quaresimale che stiamo vivendo, saranno presentati alcuni brani tratti dal Requiem di Mozart con lo scopo di infondere una purificazione spirituale che solo questa musica è in grado di instillare.

Il coro “Pueri Cantores” del Veneto ha al suo attivo un curriculum prestigioso in 37 anni di attività. Nella sua storia il coro è stato infatti diretto da illustri direttori d’orchestra come John Eliot Gardiner, Claudio Scimone, Giuliano Carella, Ion Marin e ha collaborato con Teatri lirici quali la Fenice di Venezia, L’Arena di Verona e il Teatro Real di Madrid. Inoltre il coro ha tenuto concerti in diverse città europee con rinomate orchestre tra le quali si ricordano la “Croatian Chamber Orchestra”, l’Orchestra sinfonica della “Florida State University”, la “New York Chamber Orchestra”, l’“Orchestra Verdi di Milano, “I Solisti Veneti”, la “Philarmonia Veneta”, “I Musicali Affetti” e l’“Orchestra del Teatro Olimpico” di Vicenza, l’orchestra della Fenice di Venezia, l’orchestra dell’Arena di Verona.

Ulteriore prova di questo riconoscimento da parte della comunità musicale internazionale è data dal fatto che il coro collaborerà con la prestigiosa Varna International, per l’esecuzione del Requiem di Mozart e “Suor Angelica” di Puccini con la New York Chamber Orchestra diretta dal M° Gregory Buchalter, direttore del Metropolitan Opera House di New York.

Alessandro Massaria: un grande innovatore nel campo della prevenzione

Michelangelo Zorzi, nell’opera “Vicenza illustre”, annovera Alessandrio Massaria «fra i più acuti e begli ingegni, anzi tra gli ornamenti più luminosi della nostra Patria (Vicenza)». Massaria fu una tipica figura vicentina rinascimentale: filosofo e naturalista, cultore della medicina e delle lettere, caritatevole e fastoso: insomma, un uomo universale.

Il De peste ritrae Massaria mentre con le mani inguantate, il capo avvolto da veli profumati, masticando la sua pasticca odorosa, gira per le vie vicentine desolate

dalla pestilenza. Alcune note biografiche sono d’obbligo. Alessandro Massaria nasce a Vicenza nel 1524 da un’antica famiglia con illustri antenati. Studia prima a Vicenza “umane lettere, greche e latine” sotto la guida di Jacopo Grifolo, e poi a Padova con Lazzaro Bonamico. Decide quindi di darsi alla professione di medico e si addottora nel Ginnasio Patavino, dove ha per maestri nell’arte medica Falloppio in anatomia, Oddi in Medicina Teorica e il vicentino Fracanzano in Medicina Pratica. Torna a Vicenza e inizia con valore la professione di medico. Con Conte da Monte (“Montano vicentino”) e Fabio Pace, suo nipote e discepolo, promuove e istituisce nel 1563 il “venerabile” Collegio dei Medici di Vicenza, al fine di distinguere i nobili e retti seguaci di Esculapio, che dissertavano in la- tino e citavano gli antichi greci in testo originale, da concorrenti ciarlatani di basso rango, quali gli speziali e quelli che curavano «cum ferro e igne», precursori degli odierni chirurghi, come era successo a Londra nel 1518 con la fondazione del Royal College of Physicians da parte di Thomas Linacre. Nel 1555 figura, insieme ad Andrea Palladio, fra i promotori di quell’Accademia che il 1° marzo 1556 chiamarono Olimpica, firmandone lo statuto. Nel 1557 traduce e presenta in Accademia la commedia di Terenzio Andria, successivamente un’altra commedia di Terenzio, L’Eunuco, e nel 1575 anche una sua commedia, intitolata Alessandro. Sempre in Accademia fonda una scuola Anatomica, dando dimostrazioni di Notomia. Raggiunge la sua massima notorietà nel 1579 con la pubblicazione del De peste libri duo, dove racconta le vicende e gli aspetti sanitari-scientifici della peste bubbonica che nel 1576, dopo aver colpito Trento, Treviso, Padova, Mantova e Milano e decimato Venezia, era arrivata anche a Vicenza, agli inizi negata o non riconosciuta come era avvenuto a Venezia. Risulta che a Vicenza, a confronto con altre città venete, si fosse riusciti a contenere notevolmente il numero dei morti. La storia raccontata da Massaria nel De peste (e letta nei passi più significativi da Roberto Cuppone) è anche quella del suo impegno nel curare gli ammalati, isolare i soggetti sani, vigilare sulle misure igieniche. Fra l’altro eseguì la prima autopsia di un parente morto appestato. Gli abitanti di Vicenza, trentamila prima della peste, si ridussero di 9.816 unità per i decessi e per la fuga in campagna. Dei malati, 538 erano accampati in baracche nel Campo Marzio e 440 nei lazzaretti. L’autorità pubblica provvedeva al sostentamento di ben 5.000 persone. Il De Peste rivela come Massaria non fosse estraneo al movimento di rifondazione della medicina. Prescriveva di spruzzare la stanza d’acqua e aceto, infiorare i letti, masticare lentamente una pastiglia odorosa e puntò il dito sull’igiene. Introdusse il concetto di infezione da contagio, condividendo il pensiero di Girolamo Fracastoro, che alcuni decenni prima aveva parlato, nel suo libro De contagione et contagiosis morbis, di seminaria, corpuscoli minutissimi e animati, responsabili della diffusione e trasmissione della peste bubbonica attraverso contatto, diretto o indiretto, al pari dell’attuale coronavirus. Massaria, riallacciandosi alle innovative teorie di Fracastoro, afferma che tra le cause della peste vi è anche il contagio degli uomini e delle cose e asserisce che è l’aria a veicolare il contagio, permettendo così la trasmissione di particelle patogene, proprio come succede nella diffusione del coronavirus. Ci sarebbero voluti più di tre secoli per identificare, nel 1894, la pasteurella quale agente causale infettivo della peste bubbonica. E in questo Massaria appare un “novatore”. Come considerare altrimenti le sue convinzioni sui sintomi, che è vano curare, perché i sintomi non sono la malattia ma la seguono, a meno che non richiedano un particolare trattamento in quanto causano una complicazione o indeboliscono l’infermo? Ed è da novatore, e non certo da conservatore, la sua pratica di far ricorso a medicamenti semplici e di sostenere le forze dei malati con una buona alimentazione, invece di sottoporli a purghe o salassi: «In primis danda est omnis opera, ut corpus optime nutriatur». Scredita le pratiche superstiziose, il ricorso ad amuleti e a misteriose cure preventive contro la peste. Non è forse innovativa, anzi rivoluzionaria la sua sentenza «Ratione et experientia medicina fiat»? L’abnegazione e lo spirito di carità dimostrato da Massaria durante tutta l’epidemia gli valsero una tale fama da essere chiamato a esercitare con successo la professione medica a Venezia nel 1578, abbandonando “Teatro, Patria e Liceo”. E Venezia volle premiare un così grande uomo, perché tale stima spianò la strada dalla libera professione all’insegnamento universitario.

Resasi vacante la prima Cattedra di Medicina Pratica con il trasferimento di Girolamo Mercuriale all’ateneo di Bologna, il Senato Veneto nel 1587 chiamò a ricoprirla Alessandro Massaria, con lo stipendio di ben 800 fiorini, preferendolo a Girolamo Capodivacca, che teneva la seconda Cattedra di Medicina Pratica. Chissà se su questa decisione abbia pesato l’errore fatto da Mercuriale e Capodivacca in occasione dello scoppio della peste in Venezia nel 1575, quando questi “gran dottori”, chiamati a consulto, mancarono la diagnosi, sottovalutando la gravità del fenomeno morboso e così rendendosi responsabili del ritardo nelle misure preventive, con gli effetti catastrofici che causarono 40.000 morti.

Massaria tenne la cattedra per undici anni, fino alla morte, con tale prestigio da meritare l’aumento dell’onorario fino a mille fiorini (lo stesso stipendio che Galileo avrebbe ottenuto dopo l’invenzione del telescopio e la scoperta dei satelliti medicei di Giove). Nella prolusione inaugurale presso il Ginnasio patavino, Massaria classifica la scuola medica in tre categorie: l’insegnamento classico dei seguaci di Galeno, che dichiara orgogliosamente di seguire; la tradizione araba che si ispira ad Avicenna; le recenti dottrine, che non si identificano con nessuna delle antiche. Continuò l’uso, avviato da Giovanni da Monte nel 1543, di recarsi quotidianamente, con grande seguito di studenti, all’ospedale S. Francesco a visitare gli infermi, discutendo il caso e introducendo il concetto di lezione clinica, che è alla base dell’attuale insegnamento in Medicina. Massaria considerava il malato al centro dell’attenzione del medico, con le sue sofferenze e individualità, e affermava che non i libri ma i malati sono i veri maestri. Molte sono le opere importanti del Massa- ria, oltre al De peste, fra cui il Liber respon- sorum et consultationum medicinalium, e Practica medica. Nelle Duae disputationes, quarum prima mittendi sanguinem, altera de purgatione in principio morborum mette in discussione due cardini delle terapie adottate per secoli, ovvero il salasso e le purghe. Massaria andava arricchendosi e la sua bella casa di Padova, lussuosamente arredata, era aperta a notabili forestieri e a dotti di ogni provenienza. Amava condividere con gli amici la sua cantina ben fornita; non mancava però di essere generoso con i poveri, dispensando cento pani ogni venerdì. Il venerdì santo e alla vigilia di Natale tratteneva dodici poveri ad un lauto pranzo, congedandoli perfino con una generosa elemosina. Nel 1596 accadde un episodio che sottolinea il suo rigore. Incontrato per via uno studente, che lo aveva disturbato durante le lezioni, lo invitò in casa e lo prese a legnate, quale esempio di come si deve correggere la petulanza degli scolari insolenti. Morì improvvisamente il 18 ottobre 1598 e venne sepolto nella basilica di Sant’Antonio, senza lapide per incuria dei suoi discendenti e dei colleghi.

A Vicenza il suo ricordo fu affidato a una statua nel Teatro Olimpico, nel 1585, nel colonnato sopra la gradinata, e a una lapide murata nella chiesa dei Servi di Maria, nel 1677, che purtroppo andò distrutta e fu rifatta nell’antico stile dallo scultore Pietro Morseletto. Alessandro Massaria appartiene alla gloriosa tradizione dei medici vicentini, che erano ad un tempo scienziati e umanisti: Antonio Fracanzano, Domenico Thiene, Lorenzo Pezzotti, Giorgio Pototschnig. Il miglior modo di rendere omaggio a questo illustre concittadino e Accademico Olimpico è leggere le sue opere, fra le quali questa prima traduzione in lingua moderna del De peste.

Bibliografia

  1. Calvi, Biblioteca e storia di quegli scrittori così della città come del territorio di Vicenza che pervennero fin’ad ora a notizia del

P.F. Angiolgabriello di Santa Maria carmelitano scalzo vicentino, Vicenza, G. Battista Vendramini Mosca, 1772-1782, 6 voll., vol. v 1779, pp. lxxxii-xciv.

  1. Fracastoro, De contagione et contagiosis morbis, Venetiis, apud

haeredes Lucaeantonii Iuntae, 1546.

  1. Mantese, Per una storia dell’arte medica in Vicenza alla fine del secolo XVI, Vicenza, Accademia Olimpica, 1969 («I quaderni dell’Accademia Olimpica», 5), pp. 14-15.
  2. Marrone, Alessandro Massaria, in Clariores. Dizionario biogra- fico dei docenti e degli studenti dell’Università di Padova, Padova, Padua University Press, 2015.
  3. Massaria, De peste libri duo, Venetiis, apud Altobellum Salica- tium, 1579.
  4. Massaria, La peste (De peste), Introduzione, traduzione e note a cura di D. Marrone, Presentazione di G. Thiene e E. Pianezzola, Editrice Antilia, 2012.
  5. Morpurgo, Lo Studio di Padova, le epidemie ed i contagi duran- te il Governo della Repubblica Veneta (1405-1797), in Memorie e documenti per la storia della Università di Padova, Padova, La Garangola, 1922, pp. 105-240.
  6. Ongaro, La medicina nello Studio di Padova e nel Veneto, in Storia della cultura veneta, iii/3. Dal primo Quattrocento al Conci- lio di Trento, Vicenza, Neri Pozza, 1981, p. 75-134.
  7. Pesenti, La cultura scientifica: medici, matematici, naturalisti, in Storia di Vicenza, Vicenza, Neri Pozza, 1987-1993, 4 voll., iii/1. L’età della Repubblica Veneta (1404-1797), a cura di F. Barbieri e
  8. Preto, pp. 257-60.
  9. Pezzotti, Alessandro Massaria e il suo tempo, Vicenza, Rumor, s.d. [1953 ca.]. Preto, Peste e società a Venezia, 1576, Vicenza, Neri Pozza, 19842.

Da Storie Vicentine n. 1 2020


In uscita il prossimo numero di Marzo 2023
distribuito nelle edicole del centro e prima periferia e agli Abbonati
Prezzo di copertina euro 5
Abbonamento 5 numeri euro 20
Over 65 euro 20 (due abbonamenti)

Sol si è esibita in duo con Bertrand : Mendelssohn e Brahms a confronto al Teatro Comunale di Vicenza per la Società del Quartetto

Oggi, domenica 19 marzo, la celebre violoncellista Sol Gabetta in duo con il pianista Bertrand Chamayou si è esibita al Teatro Comunale per la Società del Quartetto. In programma c’era un confronto fra Mendelssohn e Brahms, con una finestra aperta sulla musica contemporanea. Prima del concerto, alle ore 20 nel foyer del teatro, la psicoterapeuta Luisa Consolaro parlerà dell’universo femminile per l’iniziativa Questione di Donne.

Sol Gabetta e Bertrand Chamayou sono stati i protagonisti, domenica 19 marzo, dell’ppuntamento inserito nella stagione di concerti organizzata dalla Società del Quartetto al Teatro Comunale di Vicenza.

Nata in Argentina da una famiglia con ascendenze francesi e russe, Sol ha iniziato giovanissima lo studio sia del violino che del violoncello optando per quest’ultimo quando aveva 8 anni. Trasferitasi in Europa, si è formata alla Escuela Superior de Música Reina Sofia di Madrid, poi all’Accademia di Basilea e alla Musikhochschule Hanns Eisler di Berlino. Fra i riconoscimenti che l’hanno lanciata nell’Olimpo dei grandi violoncellisti dei nostri giorni si possono citare l’European Culture Prize, l’Herbert von Karajan Prize al Festival di Salisburgo, l’OPUS Klassik (strumentista dell’anno), l’ECHO Klassik, l’incoronazione a artista dell’anno da parte di Gramophone, il Premio Würth alle Jeunesses Musicales e una nomination ai Grammy. Pur avendo un’intensa attività di solista a fianco di formazioni orchestrali come la Staatskapelle Dresden, la BBC Simphony, i Wiener Philharmoniker e la Concertgebouw Orchestra, Sol Gabetta pone al centro del suo mondo musicale il repertorio cameristico, che frequenta da sempre con artisti del calibro di Isabelle Faust, Alexander Melnikov, Patricia Kopatchinskaja e lo storico “compagno di viaggio”, il coetaneo Bertrand Chamayou con il quale si presenta domenica a Vicenza.

Francese di Tolosa, Chamayou ha studiato al Conservatorio di Parigi e a Londra (con Maria Curcio) ed è oggi considerato uno dei migliori pianisti francesi dell’attuale panorama: è l’unico musicista ad aver vinto per 5 volte – l’ultima quest’anno – il prestigioso premio francese “Victoires de la Musique”. Oltre alle numerose apparizioni con prestigiose orchestre di tutto il mondo – sono recenti i suoi debutti con la New York Philharmonic, la Chicago Symphony e la Budapest Festival Orchestra – il pianista francese si dedica con passione alla musica da camera insieme a colleghi come Renaud e Gautier Capuçon, il Quartetto Ébène, Antoine Tamestit e Sol Gabetta.

Il programma che il collaudato duo ha presentato lunedì al pubblico vicentino ha messo a confronto Mendelssohn e Brahms. Del primo abbiamo ascoltato a inizio concerto le Variations concertantes del 1829, otto sgargianti variazioni che nascono da un tema tanto elementare quanto ricco di melodia. È toccato poi al Brahms maturo della Sonata in Fa maggiore per violoncello e pianoforte datata 1886, lavoro energico e potente che risente della profonda esperienza sinfonica maturata dal compositore amburghese nel decennio precedente. Infine di nuovo Mendelssohn, con l’appassionata Sonata in Re maggiore del 1843 che si articola in quattro movimenti – caso unico nel suo catalogo sonatistico – e si distingue per il grande equilibrio fra i due strumenti protagonisti.

Gabetta e Chamayou sono artisti che amano confrontarsi spesso con il repertorio contemporaneo. Per questo, come fanno di sovente quando suonano assieme, anche a Vicenza hanno scelto di inserire nel programma un breve brano di un autore dei nostri giorni il cui titolo sarà svelato durante il concerto.

Insieme a quello di lunedì scorso con Viktoria Mullova, il concerto di domenica è rientrato nell’iniziativa “Questione di Donne” promossa dalla Società del Quartetto per la Giornata Internazionale della Donna. Prima del concerto, alle ore 20 nel foyer del teatro, la psichiatra e psicoterapeuta Luisa Consolaro del Laboratorio Idee per il Sociale – Casa di Cultura Popolare si è soffermata su uno dei nodi principali con cui le donne di oggi devono confrontarsi: la riedizione – complessa quanto inedita – del rapporto tra il femminile e il materno, tra il pubblico e il privato.

Laura Danzo e Luigi Borgo si raccontano dal passato al futuro della Tipografia Danzo

Ci accolgono con il sorriso e con entusiasmo i coniugi Laura Danzo e Luigi Borgo, titolari della Tipografia Danzo di Cornedo Vicentino, al confine con Valdagno. Ad agosto di quest’anno festeggiano i 70 anni dell’azienda, nata nel 1953 dal papà di Laura, Aldo e dallo zio Leonzio. Da quel momento in poi, l’azienda è andata in crescendo, anche grazie alla stampa in settori di nicchia e di valore culturale, quali i libri.

entrata danzo
Alcuni libri stampati all’entrata della tipografia Danzo. Foto: Marta Cardini

Sig. Borgo, ci racconta la storia della tipografia?

L’idea di aprire una tipografia è nata da mio suocero Aldo e da suo fratello Leonzio, che lavoravano per il Comune di Valdagno. Si resero ben presto conto che a Valdagno mancava un’azienda che producesse stampati. Inizialmente, le prime stampe erano in bianco e nero. L’azienda è poi cresciuta. Negli anni ’60 sono poi sorte altre tipografie a Valdagno. Nel 2011 siamo subentrati io e mia moglie Laura a dirigere l’azienda. Ma già nel 2000 era nata Mediafactory, la nostra casa editrice, che si occupa di stampare libri. Mentre nel 2006 è nata la rivista mensile Sportivissimo, che si occupava di ogni tipo di sport. La rivista è stata stampata per 15 anni, per un totale di 120 numeri.

interno tipografia
L’interno della tipografia Danzo. Foto: m.c.

Dal 2011 in poi, abbiamo rinnovato la tipografia sostituendo tutti macchinari e aggiungendo una sezione cartotecnica. Ora produciamo anche scatole e abbiamo in previsione nuovi packaging. L’azienda ora conta in tutto 20 persone fra dipendenti e titolari.

C’è stata crisi nel mercato e come l’avete affrontata?

Sì, la crisi del mercato è stata causata dalla sfida che ci ha imposto la digitalizzazione. Questo ha ridotto le tirature dei media cartacei. Noi l’abbiamo affrontata investendo nella produzione di scatole e nel packaging. Anche la pandemia e il rincaro dell’energia elettrica ci hanno imposto delle sfide. Noi le abbiamo affrontate con una gestione attenta e parsimoniosa. Siamo anche riusciti a lavorare con brand nazionali e internazionali rimanendo nel territorio valdagnese. Molte tipografie della nostra zona hanno, purtroppo, chiuso i battenti. Credo che, per la prosecuzione della nostra attività, ci abbia premiato il fatto di aver sempre cercato di seguire il cliente in modo personalizzato e che ci sia stata riconosciuta una certa serietà nel rapporto con dipendenti, fornitori e clienti.

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Un macchinario presente nella tipografia. Foto: m.c.

Quali progetti avete per il futuro?

Questo è un mestiere antico e bisogna saperlo “portare” nel futuro. Il progetto “materiale” è quello di trasferirci in un nuovo e più grande capannone a Brogliano, di ben 3.600 mq. I progetti culturali sono quelli che già portiamo avanti da molti anni. Non ci limitiamo solo a stampare libri di storia, di arte, di sport legati o meno al territorio, me seguiamo tutta la storia di ogni libro, attraverso la sua presentazione e la collaborazione costante con gli autori. Abbiamo pubblicato finora circa 300 libri. Ci mettiamo la passione per i contenuti, non solo la stampa.

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Altri macchinari presenti in tipografia. Foto: m.c.

Laura e Luigi

La coppia ha 2 figli, Guidaldo e Lapo. Sia Luigi che i figli amano lo sport e, in particolar modo, lo sci. Luigi è anche maestro di sci ed è laureato in Lettere. Ecco spiegato perché dal connubio tra sport e cultura era nata la rivista Sportivissimo! Laura, intanto, ci ha accompagnato a seguire il capannone, i macchinari presenti e gli operai al lavoro.

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Foto di Laura Danzo
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Foto di Laura Danzo

Paolo Lioy, una vita per il sapere tra scienze naturali, letteratura e archeologia

Artisti, navigatori, scrittori: Vicenza non si fa mancare nulla nel novero delle grandi personalità a cui ha dato i natali. Il vicentino di oggi è Paolo Lioy, naturalista e autore di numerosissimi saggi, ma anche archeologo e patriota.

Paolo Lioy e una vita per il sapere

Lioy nacque nel 1834 a Vicenza, sebbene fosse originario della cittadina pugliese di Terlizzi. Pur avendo mostrato fin dalla tenera età un forte interesse per le scienze naturali, studiò prima al liceo classico, per poi iscriversi alla facoltà di giurisprudenza.

Il suo amore per le scienze naturali, tuttavia, non ne risultò scalfito e anzi, continuò più vivo che mai. Già alla fine degli anni ’50 pubblicò La vita nell’universo, il suo primo grande successo divulgativo, che lo fece conoscere negli ambiti accademici di tutta Italia e anche all’estero. Intellettuale tout-court, Lioy coltivò anche la passione e il talento per la scrittura, pubblicando numerosi racconti.

L’impegno patriottico e politico

Il sapere fu per tutta la sua vita il suo obiettivo principale, ma non solo per se stesso: Lioy è ricordato anche per il suo impegno nell’istruzione. Come Segretario dell’Accademia Olimpica di Vicenza lottò per l’alfabetizzazione della classe operaia di Vicenza, e ottenne scuole serali gratutite per i lavoratori.

Lioy fu anche un patriota e fermo sostenitore dell’unità d’Italia, impegno che gli costò un esilio a Milano, dove non interruppe a sua attività intellettuale che ne risultò, al contrario, alimentata da nuovi interessi.

Lago di Fimon
Il lago di Fimon, nei pressi del quale sono ancora in corso scavi archeologici (foto flickr: Marco)

Gli scavi archeologici di Fimon

Nei pressi di Vicenza, nelle valli di Fimon, sono ancora oggi in corso scavi archeologici nel sito di un antico insediamento su palafitte. Ad avere l’intuizione che attorno al lago di Fimon, immerso nei monti Berici, potesse essere nascosto un tesoro di inestimabile valore storico, fu proprio Paolo Lioy. Per saperne di più clicca qui.

Arte culi ‘n aria, la ricetta n. 9 di Umberto Riva: la crema, l’importanza della crosta tutta da “ciuciare”

Lettore di "Arte culi 'n aria", ricette e biografia di Umberto Riva
Lettore di “Arte culi ‘n aria”, ricette e biografia di Umberto Riva

“Arte culi ‘n aria“ è il titolo di una serie di.. articuli così come li ha scritti (l’ultima pubblicazione di quello che ripubblichiamo oggi è del 3 novembre 2019, ndr) Umberto Riva per te che nel piacere della tavola, vedi qualcosa di più: gli articoli sono raccolti insieme alla “biografia” tutta particolare del “maestro” vicentino Umberto Riva nel libro “Arte culi ‘n aria”, le cui ultime copie sono acquistabili anche comodamente nel nostro shop di e-commerce o su Amazon.

Prima di “gustarti” la nuova ricetta fuori dal normale di Umberto Riva rileggi la Prefazione e il glossario di “arte culi ‘n aria“, una nuova serie di.. articuli così come li ha scritti il “nostro” Umberto per te che nel piacere della tavola, vedi qualcosa di più.


Se te fe ‘l bon te porto a vardare i siori che i magna ‘e paste“. Più un modo di dire, che una realtà.

Lettore di "Arte culi 'n aria", ricette e biografia di Umberto Riva
Lettore di “Arte culi ‘n aria”, ricette e biografia di Umberto Riva

Di reale c’era solo quel piccolo mondo di piccole cose di cui ci si accontentava e di cui si godeva. La modestia in ogni espressione, era accettata senza drammi o traumi. Così era. Il domani sarebbe potuto essere diverso, il domani era costruito sulle aspirazioni sui sogni, pertanto non poteva che essere diverso. Sognare é sempre bello é sempre importante, quando si sogna ad occhi aperti. La vita é traguardi per le grandi cose, per le cose che si credono grandi, ed anche per le piccole cose e, forse, le piccole cose sono più importanti perché quotidiane. Si sogna di poter scegliere, si sogna di essere scelti. John Lennon disse che importanti sono i sogni non i ricordi. Si e no! I sogni, quelli importanti, vivono di ricordi, perché anche dai ricordi nascono sogni. I ricordi sono maestri di nuovi sogni.

Uova, latte, burro pochissimo, farina bianca, buccia di limone grattugiata (ricordarsi poi di lavare ed asciugare bene la grattugia ché altrimenti “la se irusinise“). Una casseruola e rimestare lentamente ed incessantemente fino a cottura, fuoco basso tanto che la crema “la fasa blum”, ogni tanto”. Il tutto versato in una teglia (quella che sarebbe nata per l’arrosto) e raffreddato. Infine, solidificato e rovesciato sulla tavola, tagliato a parallelepipedi. Gialla, lucida, liscia, profumata, la crema era pronta.

Aspiravi, sognavi “speremo che i la frisa“. Se il sogno si realizzava, ti sentivi miracolato.

Le creme, della misura delle paste di pasticceria, venivano passate nel pane grattugiato, battute ben bene da tutte le parti col piatto delle dita, così che il pane penetrasse nella soffice crema. Il burro si scioglieva nella “farsora” e, quando cominciava a “sfritegare” si ponevano con somma gentilezza i pezzi di crema.

Diventavano dorati. La crosta assumeva consistenza e croccantezza. Il profumo, esilarante.

La crema avida per gli avidi tuoi occhi era li, sul piatto. Era il momento della gioia.

Si scorticava col coltello. Una scarificazione in piena regola. Quelle croste, quei “golosesi” venivano accantonati, godendo per primo della parte morbida di quella bontà. La bocca trasmetteva gioia alla mente ed al cuore. Piano lentamente, anche se qualcuno ti diceva “movete che deventa tuto fredo e no xe più bon“. Era sempre buono, buonissimo, fantastico.

Finita la parte morbida, si passava alle sei croste. La gioia era esaltazione.

Andavi ancora più piano, volevi illuderti che durasse in eterno. “Ciucion“.

Distilleria Schiavo, la grappa di Costabissara con solide fondamenta classiche

La piccola distilleria Schiavo è presente a Costabissara da 5 generazioni, dal 1887 per la precisione, tra le più antiche d’Italia.

Qui si fondono storia e visione, tradizione e innovazione. Il passato e il futuro sono elementi imprescindibili che si intrecciano come una trama “ad alta gradazione”.

L’amore per i distillati è nel Dna di Marco Schiavo, cresciuto in distilleria dove sin da piccolo ha imparato sul campo quello che nessuna scuola può insegnare, ma solo la sapiente esperienza di una famiglia sa tramandare.

Nel 2007 papà Beppe viene a mancare improvvisamente e Marco giocoforza deve prendere in mano le redini della Distilleria con tutte le difficoltà che comporta un passaggio generazionale “forzato” dalle circostanze. Ma questo non lo mette in difficoltà, anzi, è uno stimolo, una sfida da affrontare con la sua grinta e la benevola incoscienza della nuova generazione.

Marco mette in discussione la produzione, non in linea con i consumi dei superalcolici del momento che si sono lentamente frazionati, spostandosi dal dopocena verso la miscelazione pre e post dinner e ha l’idea: diversifichiamo il core business!

Il lato gagliardo e spiritoso di un distillato

La nuova linea Schiavo si chiama Gagliardo, come Marco del resto, pensata e realizzata proprio nel momento giusto del boom dell’aperitivo e del cocktail. Gagliardo nasce dall’infusione per 18 giorni di erbe, radici e spezie, rimescolate a mano con la tecnica del bâtonnage, con un risultato che ben si presta alla costruzione dell’aperitivo italiano. Una linea che comprende il Bitter Radicale, che si è aggiudicato il World Best Bitter 2019 al Liquors Competition in Inghilterra, il Fernet Radicale che sempre al Liquors Competition ha conquistato il riconoscimento Gold, il Bitter Radicale Extra e il Gagliardo Triple sec Radicale.

I love Loison

Gagliardo Triple sec Radicale è stato calibrato anche con l’intervento di Dario Loison. La sua idea è stata quella di inserire tra gli ingredienti il Mandarino Tardivo di Ciaculli (presidio Slow Food) ingrediente top dei suoi panettoni e me ne sono innamorato – racconta Marco. Non ho preparato quindi un liquore classico dolce, ho utilizzato le bucce candite del mandarino di Ciaculli che ho messo in infusione per 7 giorni per dare il tocco finale al Triple Sec realizzato con arancia dolce, arancia amara, lime, limone e bergamotto“.

Il punto di vista di Dario

Marco è un one man show, il lato pazzo del suo carattere lo porta ad essere sempre sul pezzo, di sperimentare e rischiare. Il suo carattere così espansivo, e anche generoso, gli dà la carica per esporsi in prima battuta; se a questo ci mettiamo accanto la sua fame di fare cose differenti, Marco riesce ad anticipare i tempi e realizzare qualcosa fuori dall’ordinario, talvolta controcorrente ma sicuro che prima o poi le soddisfazioni arriveranno. Soprattutto con il suo Gagliardo, vero segno di innovazione: un Americano con il Gagliardo oggi a Vicenza è un MUST a Vicenza!”.

Info

Distilleria Schiavo

Via Giuseppe Mazzini, 39

36030 Costabissara VI

Tel 0444 971025

https://www.schiavograppa.com/

https://www.gagliardobitter.com/

L’articolo Schiavo, la grappa di Costabissara con solide fondamenta classiche proviene da L’altra Vicenza.

Alessandro Rossi: l’industriale vicentino filantropo e pioniere dell’industria italiana

Alessandro Rossi nasce a Schio il 21 novembre 1819, quinto di sette figli della coppia formata da Francesco Rossi e Teresa Beretta. Così lui stesso descrive la sua famiglia, originaria della contrada Rossi di Santa Caterina di Lusina: «Mio bisavolo era pastore nei Sette Comuni, mio avolo ne scese mercante di lane e fittuario, mio padre fondò nel 1817 quell’industria che io continuai e continueranno i miei figli senz’altro blasone che l’onestà, spero, e l’amor del prossimo».

La sua famiglia, già affermata nell’ambito di lavorazione e vendita della lana che caratterizzava da secoli l’economia scledense, lo educò amorevolmente e con fermezza nel segno della fede cattolica. La madre apparteneva a una delle più importanti dinastie di lanaioli della zona di Schio ed era nipote di Sebastiano Bologna, senatore e notabile del Regno d’Italia; donna energica e attiva, fu molto presente nella formazione morale e religiosa dei figli, due dei quali, Giovanni e Gaetano, scelsero il sacerdozio.

Nel 1809 il padre di Rossi era passato dall’attività commerciale e agricola a quella industriale; nel 1839 il suo opificio, con circa 160 operai, poteva contare su una rete commerciale estesa all’Italia settentrionale. Alessandro intraprende gli studi nel seminario vescovile di Vicenza, dove ha come precettore il gesuita Andrea Sandri, con il quale condivide sentimenti patriottici contro la dominazione austriaca che prosegue dal trattato di Campoformio del 17 ottobre 1797 con cui Napoleone aveva ceduto i territori della Serenissima all’Austria. Alessandro non si iscrive all’università, ma nel 1836 entra nella fabbrica paterna come operaio e dopo tre anni viene chiamato a condividere la direzione dell’azienda.

Si distingue per l’attitudine a coltivare studi economici ma anche storici, sociologici, filologici e letterari, che conduce assiduamente per tutta la vita, così come ama dedicarsi alla composizione di versi e poemetti. Si avvicina al pensiero degli illuministi inglesi e francesi anche attraverso la frequentazione dell’abate Pietro Maraschin, insigne geologo e studioso in contatto con gli ambienti più qualificati della cultura europea. Il suo fidanzamento con Maria Maddalena Maraschin (1825-1905), figlia di Giovanni, possidente e amministratore di cospicui beni finanziari e nipote dell’abate Pietro, gli consente di frequentare la biblioteca di quest’ultimo, dove studia opere di politica economica di autori come Adam Smith, Joseph Priesley, Jeremy Bentham, John Stuart- Mill, Edmund Burke, David Ricardo e altri. Alessandro mette così a fuoco il tema dei rapporti tra agricoltura e indstria. Fra il 1841 e il 1842 Alessandro intraprende un lungo viaggio in Gran Bretagna, Francia, Belgio e Lussemburgo: «Partii con un doppio proposito, di ammirare quante più opere del genio umano fossero state create nelle arti, e di vedere quante più macchine lo stesso genio dell’uomo andava inventando […] tre forze mi attraevano, di cui noi eravamo scarsi e mancanti: quella dell’acciaio, del vapore e dell’elettricità» (Cappi Bentivegna, 1955, p. 73

Grazie anche alle commesse per conto della ditta visita fabbriche, fond rie, tintorie e miniere nelle principali città industriali britanniche: Manchester, Oldham, Birmingham, Sheffield. Durante quel periodo invia sistematicamente dettagliati resoconti al padre sugli affari in corso e si interessa sia agli aspetti tecnici della produzione sia allo stato del lavoro operaio e particolarmente al degrado delle condizioni di vita nelle grandi concentrazioni industriali. A Parigi entra in contatto con i sansimoniani, che professavano una fiducia incondizionata nella scienza. Secondo la loro ideologia le scoperte scientifiche e lo sviluppo industriale possono dare vita ad una società in grado di fornire migliori condizioni di vita ai proletari. Alessandro si abbona alla loro rivista, “Le Globe”. I suoi rapporti con il mondo industriale europeo si consolidarono nel tempo e si concretizzarono attraverso l’importazione di macchinari, tecnici, impiegati e dirigenti, con il concorso dei quali trasformò radicalmente l’assetto produttivo dei suoi stabilimenti. La costruzione di una rete informativa e relazionale diventa uno dei principali fattori del suo successo imprenditoriale e politico, sostenuta, come dimostra il ricchissimo carteggio, da un’eccezionale vena epistolare. In particolare, strinse rapporti e amicizie personali a Verviers, capitale laniera del Belgio, un ambiente per lui fondamentale sotto il profilo dell’aggiornamento tecnologico e intellettuale. Nel 1845 muore il padre Francesco e Alessandro gli succede nella direzione dell’azienda, procedendo al rinnovamento degli impianti con l’acquisto della filatrice meccanica Mull-Jenni, l’introduzione della prima macchina a vapore e dei primi telai meccanici. Il 3 novembre 1846, dopo sei anni di fidanzamento, sposa Maria Maddalena Maraschin, dalla quale ebbe undici figli (Francesco, Giovanni, Teresa, Giuseppe, Gaetano, Luigi, Caterina, Maddalena, Luigia, Antonio e Anna Maria).

Viene arrestato per un breve periodo durante le agitazioni quarantottesche e in seguito sorvegliato dalle autorità austriache, che gli ritirarono il passaporto. Tra il 1852 e il 1857 acquista altri lanifici di Schio, allargando l’area dell’azienda verso la zona collinare. Nel 1859 cominciano i lavori di ampliamento dell’opificio scledense, affidati ad Antonio Caregaro Negrin, celebre architetto vicentino e patriota. Nel contempo Alessandro avvia il progetto di costruzione del giardino Jacquard, che si sviluppava come un teatro all’aperto di fronte alla fabbrica principale ed esprimeva in embrione la concezione insieme ricreativa e allegorica poi applicata nella progettazione del nuovo quartiere operaio. Nel 1865 acquistò a Santorso l’antica villa Bonifacio-Velo, con la chiesa di S. Spirito e gran parte dei terreni circostanti, la ristrutturò nel solco della tradizione secolare che aveva popolato il Veneto di ville padronali e ne fece la dimora di famiglia.Nel 1861 Alessandro Rossi vuole ampliare la Lanerossi ispirandosi ai lanifici che ha visitato all’estero. Si rivolge così all’architetto Auguste Vivroux di Verviers, città laniera belga con cui Rossi ha molti rapporti d’affari e importanti amicizie. Vivroux viene invitato a Schio per dieci giorni, durante i quali ha modo di farsi un’idea precisa, prendendo le misure del nuovo sito. Ritornato poi in patria, l’architetto belga disegna una fabbrica moderna, basata sul modello multipiano europeo e dotata di moderne tecnologie e macchinari. La costruzione dell’edificio viene affidata ad Antonio Caregaro Negrin. Nasce così la Fabbrica Alta, eretta nell’arco di nove mesi nel 1862. Non viene però realizzato (forse per questioni di budget) l’edificio gemello previsto sul lato est. Negli anni a seguire verranno comunque costruiti altri edifici che andranno a formare un quadrilatero con un cortile al centro.

Alessandro Rossi
Alessandro Rossi. la Fabbrica Alta di Schio e l’Asilo infantile per i figli degli operai

La Fabbrica Alta è imponente: lunga 80 m, larga oltre 13 m, conta cinque piani più seminterrato e sottotetto. Ogni piano ospita una diversa fase della lavorazione della lana ed è composto da un grande salone diviso in tre campate sorrette da colonnine di ghisa. La forza motrice per il funzionamento dei macchinari era prodotta, prima dell’avvento dell’energia elettrica, da una macchina a vapore importata dall’Inghilterra; il materiale usato per la costruzione è principalmente laterizio e pietrame ricavati dal territorio. Nell’autunno del 1866, a seguito della 3a guerra d’indipendenza, il Veneto si congiunge al Regno d’Italia e Alessandro Rossi viene eletto deputato nel collegio di Schio. L’anno successivo la partecipazione del Lanificio all’Esposizione internazionale di Parigi contribuisce a stimolare ulteriori iniziative imprenditoriali.

Tra queste c’è la creazione ex novo di un impianto dotato delle tecniche più avanzate nella produzione di filati pettinati, inaugurato a Rocchette-Piovene nel 1869 insieme alla costruzione di un impianto idraulico, per la produzione della necessaria forza motrice (per il cui finanziamento Rossi si rivolge a capitalisti veneti, lombardi, belgi e svizzeri). Nel 1868 viene costituita una nuova società in accomandita semplice, la Alessandro Rossi e C., con il coinvolgimento dell’ingegnere Ernesto Stumm. L’azienda si allarga nell’Alto Vicentino con la costruzione di altri stabilimenti. Nel 1870 Rossi venne nominato senatore del Regno d’Italia, diventando così un ponte tra ambiente politico e mondo imprenditoriale. Il suo apporto è guidato da un forte spirito pragmatico senza guardare all’appartenenza agli schieramenti. Il principale obiettivo della sua politica è il potenziamento dell’Italia industriale, a partire dalle condizioni economiche reali e dalla valorizzazione delle tradizioni umane e sociali tipiche di un Paese a vocazione manifatturiera. Rossi esalta la nazione e le sue risorse, denunciandone al contempo i profili di arretratezza (nelle infrastrutture, nella scarsa disponibilità di capitali).

Politicamente avversa l’eccessivo rigore di Silvio Spaventa e di Quintino Sella, e sostiene il suffragio universale maschile e i propositi di riforme sociali di Agostino Depretis. Nel 1872, insieme a Leopoldo Franchetti e Sidney Sonnino, fà parte della commissione Jacini per l’inchiesta agraria.mNel 1873 l’azienda viene trasformata in una società per azioni, il Lanificio Rossi s.p.a., quotata alla borsa di Milano. Alessandro Rossi si occupa costantemente della formazione professionale della nuova generazione operaia, sradicata dalle antiche consuetudini e costretta ai tempi e alla disciplina di fabbrica. Però Rossi non si ferma a ciò e si prende a cuore anche l’educazione dei più piccoli. Nel 1867 fonda a Schio un primo asilo per bambini dai 3 ai 7 anni, aperto ai figli di operai anche non dipendenti del Lanificio e fornito di palestre, servizio sanitario, sale da bagno e di giochi, con un parco di tremila metri quadrati. Un’altra importante istituzione che viene creata è la Scuola serale per adulti, con premi di profitto, orari speciali e rendimento scolastico paragonato a quello lavorativo. Dal 1873 il Regolamento del Lanificio impone l’obbligo d’istruzione per essere assunti. Esemplare è il nuovo Asilo Infantile (1872), che arriverà ad ospitare 500 figli di operai, vantando “la maggior luce, la maggior aria, le maggiori comodità possibili”, pasti nutrienti, infermeria e un auditorium per la musica.

A completare il programma educativo sono le scuole elementari del lanificio (1873), dove si impartisce anche un’istruzione pratica su tessitura, igiene ed economia domestica e le scuole comunali (1876). L’Asilo di Maternità (1878), accoglie i bambini fino ai 3 anni, agevolando il lavoro delle operaie, che ad ore prestabilite possono allattarli. Alessandro Rossi rilancia inoltre l’istruzione tecnica, creando la Scuola Industriale di Vicenza(1878), con Officina e Convitto, per la formazione teorico-pratica di tecnici per l’industria. Istituto che ora porta il suo nome: il celebre ITIS A. Rossi, che ha avuto tra i suoi illustri allievi anche Federico Fag- gin, l’inventore del microchip. Persino alla morte, il suo ultimo pensiero va alle generazioni future. Alessandro Rossi lasciò in eredità tutto il complesso della sua villa di Santorso alle Opere Pie di Schio, oggi denominate la C.A.S.A., con la clausola che dovesse essere in futuro abitata da bambini ed adolescenti.

La villa divenne prima orfanotrofio fino al 1950-1960 e poi fu ceduta in comodato all’ANFFAS per ospitarvi le sue prime strutture riabilitative. Dal 1872 comincia la grande opera di ammodernamento della città, secondo un piano che prevede la costruzione di una “Nuova Schio” con scuole, biblioteche, bagni pubblici, teatro, chiesa e ospedale: una «città sociale» come «strumento di salvaguardia e riscrittura al tempo stesso della cultura contadina nell’età della produzione di massa e del lavoro salariato» Il progetto, basato sulle più importanti esperienze europee, si ispira al modello delle città-giardino. La realizzazione viene affidata all’architetto Antonio Caregaro Negrin. Nello stesso periodo Alessandro Rossi promuove la realizzazione di vie di comunicazione stradali e ferroviarie nell’area alto vicentina. Si inizia con una ferrovia economica Vicenza-Schio, inaugurata nel 1876 alla presenza del Principe Umberto. Seguiranno i tratti Schio-Piovene (1884), Schio- Torrebelvicino e Piovene-Arsiero (1885); qui, nel 1873, era nata la Cartiera del figlio Francesco, che sarà collegata a Schio da una linea telefonica di oltre 20 km. Così in una lettera di A. Rossi datata 1 Novembre 1884 Alessandro Rossi descrive i villaggi operai: «A Schio il mio sistema è applicato sovra 16 ettari (…) Son case che costano da £ 2100 l’una da 4/ m, da 6/m, da 8/m e fino a 12/m l’una. Le minori hanno cantina e 4 stanze e 1 soffitta, corticella di dietro e 15 m² di orto tra la casa e la strada, divisa da ringhiera d’un metro. (…) I contratti sono uniformi, non si concede la rivendita se non in casi determinati, né spacci di vino e liquori che già abbondano nella vecchia Schio. E’ la popolazione più sana e più morale questa della città – adulti e bambini fanno sinora 1000 proprietari nuovi. Questo sistema misto esclude l’apparenza casermale e giova a fondere le classi sociali».

Negli anni Settanta dell’Ottocento una crisi economica investe l’industria italiana. Ales- sandro Rossi coglie l’occasione per avviare ristrutturazione finanziaria e organizzativa dell’azienda. Nel 1873 il Lanificio Rossi fa quotare le sue azioni nella borsa a Milano. Questo permette di realizzare una consistente raccolta di capitali che a sua volta permette alle azioni stesse di aumentare il loro valore. Ma è la contemporanea scelta di costituire una società anonima a rendere l’imprenditore protagonista di una svolta storica. Nella visione rossiana questa forma societaria ha il pregio di affrancare l’impresa dalla dipendenza dagli istituti bancari. Il riassetto aziendale è basato sul sistema cosiddette “Gerenze Autonome”, che consiste nella suddivisione dell’azienda in quattro ambiti produttivi guidati ognuno da un diverso manager, completamente indipendenti dal punto di vista organizzativo ma sottoposte al divieto di reciproca concorrenza e al controllo finanziario dell’Amministrazione Generale e del Consiglio di amministrazione. L’anonima, con un capitale di 30 milioni di lire diviso in 120.000 azioni, ha come principale azionista l’industriale cotoniero Eugenio Cantoni, mentre Alessandro Rossi ricopre le cariche di direttore generale tecnico e di presidente. Il titolo VI dello statuto della nuova società è dedicato alle istituzioni operaie: il 10% degli utili netti dell’anonima veniva diviso a metà tra le istituzioni operaie e Alessandro Rossi, che poi rinuncia alla sua spettanza.

Questo riassetto aziendale permette a Rossi di dedicarsi maggiormente all’impegno parlamentare e pubblicistico, continuando a realizzare articoli che mirano a realizzare una nuova politica economica e industriale italiana e a promuovere la nascita di uno schieramento favorevole al protezionismo. ”L’avvenire è dei popoli lavoratori”. Questa è una delle frasi che si può leggere sul basamento dell’Omo, la statua voluta da Alessandro Rossi per celebrare i suoi operai. La puntata del 1° maggio non poteva che essere dedicata a lui: il tessitore che è diventato uno dei simboli di Schio. Il tessitore tiene in mano una navetta, l’innovativo strumento per il telaio da tessitura inventata dall’inglese John Kay nel 1733. Questo strumento contiene una spoletta di filato che serve a comporre la trama e consente di semplificare il lavoro del tessitore, accrescendo così la produzione di panni. Per l’impatto che ha avuto nelle fabbriche, viene considerata un simbolo della Rivoluzione industriale. L’opera viene solennemente inaugurata il 21 settembre 1879. La sua posizione originale è nel crocevia dei viali Pietro Maraschin e Alessandro Rossi, di fronte all’ingresso della Lanerossi. Qui vi resta fino alla seconda metà degli anni Trenta del Novecento, quando viene spostata nei limitrofi giardini pubblici per liberare il viale al transito dei mezzi. Nel 1945 il monumento viene trasferito nella sua ubicazione attuale: Piazza Alessandro Rossi, nel cuore del centro storico.

Dal 1873, cioè dopo la trasformazione del Lanificio in società anonima, Alessandro Rossi inizia a dedicare sempre più tempo alla politica. In contemporanea pianifica l’inserimento della terza generazione imprenditoriale dei Rossi e segue con affetto l’educazione dei figli con frequenti viaggi all’estero di studio e lavoro. L’educazione che ricevono è sia di natura tecnica che umanistica. Per il figlio maggiore Francesco, nel 1878 acquista la cartiera di Arsiero, rilanciandone l’attività. Rossi è molto attivo anche nel rinnovamento del settore industriale nazionale. Nel 1877 a Roma, assieme ad altri imprenditori tra cui Gaetano Marzotto Senior, fonda l’Associazione Laniera Italiana. Questa associazione di categoria rimarrà attiva fino al 1993, quando le industrie tessili italiane si raggruppano sotto un’unica sigla, che ora prende il nome di Settore Moda Italia. Nel 1884 Rossi inaugura la scuola convitto di Pomologia e Orticoltura con l’obiettivo di dare un sostanzioso contributo alla modernizzazione dell’agricoltura italiana, ancora legata a modelli feudali, arretrata e poco efficiente.

L’istituto ha due sedi: una a Santorso per la parte pratica e l’altra nel Quartiere Operaio, dove avviene la formazione teorica e dove gli studenti alloggiano. Il progetto tuttavia non riscuote il successo sperato e viene interrotto sul finire dell’Ottocento. Dal 1889 al 1891 Alessandro Rossi ricopre l’incarico di sindaco di Schio, promuovendo importanti opere pubbliche come: il macello, i bagni, il lavatoi, il lazzaretto, l’orfanotrofio, l’acquedotto, l’Istituto di Nazaret per le figlie abbandonate (ora Istituto Canossiano) e la Chiesa di S. Antonio Abate. Inoltre è fautore dell’ampliamento del Duomo con la costruzione della canonica. Rossi si dimette dalla presidenza del Lanificio nel 1892, ma continua l’attività finanziaria, politica e pubblicistica. Nei suoi ultimi anni di vita, il Lanificio continua a crescere, impiegando alla fine del secolo 5000 operai e aumentando le quotazioni in Borsa. Dopo una breve malattia, Alessandro Rossi muore il 28 febbraio 1898 nella sua tenuta di Santorso. La scomparsa di Alessandro Rossi lascia un grande vuoto, ma anche un’enorme eredità. Infatti sono innumerevoli le infrastrutture e le organizzazioni sociali da lui volute, che resteranno al servizio della cittadinanza. Come la sua villa di Santorso lasciata in eredità alle opere pie. Inoltre con le sua attività ha saputo stimolare la nascita di un tessuto produttivo che continuerà a prosperare anche negli anni a seguire.

Subito dopo la sua morte, in maniera spontanea si costituisce un comitato di cittadini intenzionato a rendergli omaggio. Il comitato, coinvolgendo l’amministrazione comunale, commissiona un’opera celebrativa a Giulio Monteverdi, lo scultore piemontese che aveva realizzato il monumento al tessitore. Il luogo scelto per il posizionamento della statua è l’ampio crocevia posto tra la chiesa di Sant’Antonio Abate, le scuole elementari, il quartiere operaio e la ferrovia, tutte opere realizzate grazie alla volontà e sostegno finanziario del senatore Rossi. Il monumento viene inaugurato il 12 ottobre 1902. La statua bronzea raffigura Alessandro Rossi in età matura con lo sguardo rivolto verso il centro cittadino. Il Senatore è in posizione fiera, in piedi su una ruota dentata, mentre una appoggia una mano su dei libri depositati su un tavolino.

Questi elementi simbolici richiamano i valori cardine che hanno sempre ispirato il suo operato: il lavoro e lo studio. A completare la composizione è un bambino che si solleva sulle ginocchia di una giovane donna per offrire un fiore al senatore; la donna probabilmente rappresenta la Città di Schio che intende proporre alle generazioni future (il bambino) l’ideale di vita rossiano, basato sul binomio cultura- lavoro. Sul basamento è presente inoltre una targa che ricorda l’anniversario di fondazione (1883) dell’Istituto tecnico industriale “Rossi “ di Vicenza, nato per volontà dello stesso industriale. Il problema scolastico educativo appassiona e impegna l’intera vita di Alessandro Rossi, a conferma del suo profondo desiderio di miglioramento del sistema e della politica scolastica del tempo. Alessandro Rossi è il primo industriale italiano ad occuparsi in modo organico degli operai, impegnandosi per la loro crescita umana, morale ed intellettuale e creando istituzioni previdenziali ed assistenziali a compensazione dei bassi salari.

Il suo sistema, legato a convinzioni ideologiche e religiose, incarna quell’armonia tra capitale e lavoro celebrata dal Monumento al Tessitore e solo raramente turbata da scioperi. La costruzione del Giardino Jacquard (1859-1878), per il tempo libero degli operai, e la Società di Mutuo Soccorso (1861), che fornisce assistenza medica in caso di malattia o infortunio, segnano l’inizio di questo percorso. Il problema della casa è affrontato dapprima con la Cassa fitti (1864) e con gli alloggi del Palazzón (1865). Sorgono inoltre dormitori, una cucina economica (1871) che distribuisce minestra a bassi prezzi e una casa-convitto per operaie (1873). Infine viene creato un quartiere dedicato interamente ai dipendenti. Centro di attività culturali è il Teatro Jacquard (1869), coi suoi 600 posti: vi sono rappresentati drammi popolari ed è sede di riunioni, feste, biblioteca, banda, orchestra, corsi di ginnastica, teatro e canto. Altro tema centrale è l’educazione a cui Rossi dedica molte energie. Tra le opere più esemplari c’è l’asilo Infantile pensato per i figli di operai. Nel 1872, con la costruzione della nuova sede, questa istituzione può vantare pasti nutrienti, un’infermeria dedicata e un auditorium per la musica. Nel 1873 quando il Lanificio diventa una Società Anonima, nel nuovo statuto viene indicato che il 5% degli utili deve essere destinato alle istituzioni operaie e apre agli operai la sottoscrizione di azioni. Ulteriori iniziative intraprese da Rossi per i suoi operai sono: i libretti di risparmio (1876), il Magazzino cooperativo (1873) per la vendita di generi alimentari a prezzo di costo, il magazzino merci (1875) per lo smercio di scampoli fallati, il circolo operaio (1877), il fondo pensione (1880), la Cassa-prestiti (1883). Nel 1889, in occasione del Giubileo operaio di Alessandro Rossi, si contano a Schio 21 istituzioni operaie, 13 a Piovene, 8 a Pieve e 7 a Torre.

Da Storie Vicentine n. 1 2020


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Neri Pozza: lo scrittore dei luoghi della vera identità di Vicenza

La scrittura di Neri Pozza ci porta a conoscere i palazzi e le contrade che custodiscono il genius loci, la vera identità di Vicenza ben oltre la facciata palladiana.

“L’uomo dovrebbe vivere in una città che gli somiglia…eppure vi sono uomini di intelligenza non volgare che vivono tutta una vita in una città senza averla mai guardata in faccia. Non conoscono il tessuto delle piazze, il percorso dei fiumi, la struttura e la bellezza delle case e delle piazze, il disegno dei giardini”. (Neri Pozza)

Neri Pozza (Vicenza 1912 – 1988) nasce come artista: si dedica alla scultura, presso la bottega del padre, e apprende le tecniche dell’artigianato artistico alla scuola d’ Arte e Mestieri di Vicenza. Deve in seguito la sua fama all’arte incisoria; infatti è considerato come uno degli acquafortisti più importanti del Novecento italiano, le sue opere sono state esposte alla Biennale di Venezia e alla Quadriennale di Roma. Giunge alla letteratura in un secondo momento, con articoli e racconti; l’atto della scrittura in Pozza è finalizzato alla trasmissione della memoria civile e politica, di vicende private e intime che divengono

esempio per la collettività. Ma è probabilmente l’esperienza di editore chiave di volta che sostiene e conchiude tutti i suoi intenti. Ossia, attraverso un’editoria di alta qualità, riesce a coniugare l’arte, l’attività imprenditoriale e la scrittura. Pozza investe tutte le sue competenze e le sue attenzioni nel seguire il processo di pubblicazione dei libri: interviene direttamente sui testi, sceglie in prima persona l’impostazione grafica, ovvero cura il progetto editoriale da diverse prospettive e con la passione dell’artigiano. Il libro per Pozza è al contempo opera d’arte e documento di vita civile. 

“Dietro lo straordinario affetto di Pozza per la sua città, c’è un porgetto di maturazione artistica. Pozza vuole raccontarsi attraverso la conoscenza ravvicinata di un ambiente che sente congeniale perchè ha limiti precisi, dei contorni netti, riconoscibili.

Non si può fuggire da ciò che si è. Il piccolo mondo contiene la radice primaria, il senso stesso del nostro esistere, la ragione di una ispirazione che ha bisogno di quel taglio di luce o di quell’angolo di strada per toccare terra e chiudere il cerchio della sua ricerca” (Marco Cavalli, curatore del Diario di Neri Pozza)

Di Giulia Basso da Storie Vicentine n. 1 2020


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