I nobili conti Chiericati, erano a Vicenza sin dal 1440, inseriti nel Consiglio Cittadino e Collegio dei Giudici. Nel 1549 l’Imperatore Federico concesse il titolo di conte. La Serenissima Repubblica, confermò il conte Gerolamo del titolo comitale per lui e figli maschi ed ebbe in concessione il feudo di Friola nel 1791.
I conti Giovanni e Lionello di Francesco per eredità del nobile Gianfilippo Salvioni aggiunsero al proprio nome quest’ultimo cognome. I rappresentanti della Famiglia si chiamarono Chiericati Salvioni.
Riconosciuto con Regio Decreto nell’anno 1915. Imparentati con i Da Porto durante le lotte tra nobili, fecero una politica di alleanze attraverso i matrimoni. Il nome della casata si lega ad Andrea Palladio quando, nel’ 500 Girolamo Chiericati ordinò all’architetto il Palazzo di Città che da loro prende il nome.
Uno dei personaggi più celebri fu Lodovico Chiericati la cui attività, commercio di tessuti in Francia rendeva molto, oltre alle ricchezze di famiglia poteva contare sulla dote della moglie Faustina Godi figlia di Pietro. Da documenti sappiamo che il conte Lodovico il 3 giugno 1578, nella sua proprietà di 70 ettari fece erigere un muro come recinto da destinarsi alle battute di caccia.
Nel 1590, Lodovico fece costruire a Longa di Schiavon la sua Villa di campagna, rendendo i terreni più fertili, migliorando le strutture murarie e pagando il quartese (la 40a parte del raccolto) alla chiesa di Longa sino al 1840. Lodovico morì nel 1602, il figlio Nicolò un anno dopo nel 1603, i tre figli si divisero il patrimonio costituito da case, terreni per 130 ettari.
Una figura particolare della famiglia Chiericati fu l’ultimo ge- nito Pietro, nato nel 1587 morto 16 aprile 1629, si fece frate cappuccino, costruì nella Villa di Longa una cappella per l’Assunta Maria Vergine.
Alla sua morte la proprietà passò ai figli di Nicola, Lelio e Lodovico. Le successioni proseguono passando a Pietro e Scipione figli di Marcantonio. Nel 1735, morì l’unico maschio Lodovico figlio di Scipione, la proprietà andò ad un ramo collaterale della famiglia discendente da Girolamo. Ma la famiglia aveva perso il suo antico prestigio e gran parte del patrimonio di Longa. Le ultime eredi discendenti furono le figlie di Camillo, Paola e Lavinia che il 2 agosto 1850, vendettero la proprietà al poeta e patriota Jacopo Cabianca.
Palazzo Chiericati
PALAZZO CHIERICATI
Progettato nel 1550 come residenza nobiliare per i conti Chiericati dall’architetto Andrea Palladio e costruito a partire dal 1551, fu completato solo alla fine del Seicento. Nel 1456 Girolamo aveva ottenuto in eredità alcune vecchie case prospicienti la cosiddetta “piazza dell’Isola” (oggi Piazza Matteotti), uno spazio aperto all’estremità est della città, che doveva il proprio nome al corso del Retrone e dal Bacchiglione, che confluivano l’uno nell’altro al porto fluviale cittadino, l’Isola era sede del mercato di legname e bestiame.
L’eredità spinse Girolamo a chiedere al Consiglio cittadino di poter utilizzare una fascia di circa quattro metri e mezzo di suolo comunale antistante le sue proprietà per realizzarvi il porticato della propria abitazione, garantendone disponibilità pubblica All’accoglimento dell’istanza seguì nel 1551 l’apertura del cantiere, che si arrestò nel 1557 alla morte di Girolamo, il cui figlio Valerio si limitò a decorare gli ambienti interni.
Il Comune di Vicenza acquistò il palazzo nel 1839 dalla famiglia Chiericati, con l’intenzione di raccogliervi le civiche collezioni d’arte. Restaurato dagli architetti Berti e Giovanni Miglioranza, il museo civico fu inaugurato il 18 agosto 1855. Il corpo occidentale del cortile fu realizzato nell’ Ottocento. Miglioranza inoltre demolì la casa confinante che segnava il passaggio della piazza dell’Isola nel Corso Palladio, mutando il contesto originario. Il palazzo è inserito dal 1994 nella lista del Patrimonio della umanità dell’UNESCO assieme alle altre architetture palladiane della città.
Lo Stemma: rosso fino alla fascia d’oro, caricata di un’aquila bicipi- te di nero, coronata di rosso, ed accompagnata da tre teste d’uomo, due nel capo ed una in punta, d’argento con capelli d’oro in forma di chierica.
Di Luciano Parolin da Storie Vicentine n. 3 Luglio-Agosto 2021
Dopo aver raccolto l’eredità dell’azienda agricola di papà Virgilio, il giovane vignaiolo Ilario Vignato ha intrapreso nel 2017 la strada del biologico assecondando la natura delle sue vigne.
Ha saggiamente voluto conservare la dimensione di una cantina familiare e nei suoi prodotti ha raccolto l’anima identitaria del suo territorio.
Ilario, sei “figlio d’arte” e ti porti dietro l’eredità di papà Virgilio e mamma Mariucia: cosa hai cambiato in cantina e nei tuoi vini da quando nel 2017 sei alla guida della cantina?
Fondamentalmente non ho cambiato procedure né pratiche in cantina, ho solo deciso di allungare i tempi prima di tutto in vigna portando la vendemmia a fine ottobre/primi di novembre, e lo stesso allungamento dei tempi è stato adottato anche in cantina, dando la possibilità al vino di maturare e quindi esprimere tutto il suo potenziale. A fine 2017, poi, ho deciso anche di intraprendere la strada del biologico.
Ilario Vignato
In cantina ti occupi tu di tutto o deleghi mansioni? possiamo definirti un vignaiolo non di penna ma che si sporca le mani?
La nostra è un’azienda familiare e in tutti si fa tutto: dalla potatura ai trattamenti, dalla raccolta fino all’imbottigliamento, l’etichettatura e la consegna seguo tutto io, dividendomi tra vigneto, cantina e rapporto con i clienti. L’unica mansione che delego è la gestione dell’ufficio, che la segue mia moglie: si sa che anche nelle piccole realtà la burocrazia è presente, dall’aspetto fiscale a quello amministrativo fino alla tenuta dei registri vitivinicoli e adempimenti da porre in essere per le certificazioni biologiche.
Definisci i tuoi vini naturali da terreno vulcanico. Non c’è troppa polemica sulla definizione “naturali”? Che futuro vedi?
Il termine “vini naturali” mi ha sempre turbato. Il termine che uso per i miei vini è “vini del territorio” perché cerco di fare vini che rappresentano l’essenza della terra di Gambellara: secondo me più trattamenti effettuo sui vigneti, siano essi meccanici o chimici, più mi allontano dal mio obiettivo. Quindi sto lavorando per poter non annullare, ma quasi, le pratiche agronomiche invasive, lavoro che necessita di equilibrio, tempo e pazienza.
Quale ritieni che sia il vino simbolo della tua cantina?
I vini che, secondo me, rappresentano la mia cantina sono due: il Capitel Vicenzi Gambellara Doc Classico, che racchiude l’anima di Gambellara, con i suoi sentori di pietra focaia, mandorla amara, che rimandano alle nostre colline vulcaniche. Poi il Gambellara Recioto Spumante Metodo Classico Docg: è doveroso sottolineare l’intuizione dei miei genitori, all’inizio degli anni ’90, di proporre il Recioto Spumante non con il metodo Martinotti, ma con il più ardito e laborioso Metodo Classico, trovando un equilibrio tra acidità, zuccheri e alcool. Questo spumante non particolarmente stucchevole si abbina benissimo con dolci lievitati o accostamenti più arditi come antipasti salati.
La vigna ai tempi del Coronavirus non si è fermata: ma tutte le altre attività al di fuori delle vigne come vi siete organizzati?
Verissimo! La vigna non si è fermata di fronte a questa pandemia e quindi il mio lavoro ha sempre continuato. Per quanto riguarda invece l’aspetto commerciale, lavorando principalmente con il settore horeca, è palese che anche la nostra realtà ne sta risentendo. Nonostante questo, ho deciso di non intraprendere altre strade per ovviare a questa lacuna: non ho aperto canali di e-commerce e/o Gdo, perché innanzitutto io sono un vignaiolo e faccio vino, pertanto voglio rispettare e tutelare il lavoro dei miei partner commerciali. Presto questa situazione finirà, e conto di tornare a “correre” tutti insieme.
Come si sta presentando la vendemmia?
Per come si sta prospettando e da come ho impostato il vigneto sarà un buona annata; poi il tempo in cantina ci dirà se siamo stati bravi e fortunati.
Ci sarà un nuovo vino?
Se ci sono le condizioni ideali ho in mente un “orange wine” da uve Garganega con fermentazione sulle vinacce per qualche mese. Raccoglieremo le uve da vigneti storici: 3000 ceppi per ettaro impiantati da mio nonno Vincenzo 50 anni fa a circa 270 metri nella zona dei Monti di Mezzo: incrociamo le dita!!!
Il punto di vista di Dario Loison
Ilario Vignato è un giovane vignaiolo che sta portando avanti la cantina di famiglia tutto da solo: è un ragazzo infaticabile con un grande senso di responsabilità e con il giusto grado di innovazione che è un elemento imprescindibile nelle nuove generazioni. Lui crede molto in quello che fa, è supportato da papà Virgilio e mamma Mariucia, che conosco molto bene, e da sua moglie che fa la sua parte dietro le quinte della cantina.
Nei suoi prodotti ha raccolto l’anima del suo territorioregalando vini eleganti e fortemente identitari, grazie alle terre di origine vulcanica, come il Gambellara Classico Doc il Recioto di Gambellara Docg che utilizziamo in Loison per conciare le uve o per impreziosire i panettoni.
Cantina Vignato
Azienda agricola Virgilio Vignato
Via Guizza 8
36053 Gambellara (vi)
La Rocca scaligera o Castello di Arzignano domina la città dal colle San Matteo. E’ un luogo magico, incantevole da cui si gode anche di un bel panorama sulla valle del Chiampo. Dai conti agli scaligeri fino all’assedio di Pippo Spano, la storia del castello è molto particolare. Ed è legato da un antico voto alla chiesa di Sant’Agata di Tezze. Oggi il piccolo borgo è meta di passeggiate e cene romantiche.
I conti Maltraversi
Il castello venne edificato per difendere la Pieve di Santa Maria, che nel frattempo era diventata la chiesa madre di tutta la zona circostante. Tra il X e l’XI secolo il territorio di Arzignano era controllato dai signori feudali. Il territorio vicentino era conteso tra i due poteri allora predominanti, il conte e il vescovo, che erano spesso in lotta tra loro. Ad Arzignano ebbero la meglio i conti Maltraversi che fecero costruire il castello. Egano da Arzignano insieme al fratello Singofredo, sembra derivare da un certo “Gerardus Magnus” che, per la sua appartenenza alla famiglia dei Maltraversi, venne investito del feudo di Montebello. Notizie di ciò le ritroviamo nella cronaca di Ezzelino del 1213.
La pieve di Santa Maria nei pressi del Castello. Foto: Marta Cardini
Egano fu colui che si stabilì ad Arzignano, assumendo il controllo del castello, mentre Singofredo dimorò nella Città di Vicenza. I due furono in perenne contrasto per le loro idee politiche, in quanto Egano era “ghibellino”, sostenitore dell’Impero, e Singofredo era un “guelfo”, che appoggiava la Chiesa. Lo scontro tra Arzignano e Vicenza fu tale che alla morte di Egano, caduto per mano di un proprio nipote, i Vicentini decisero di distruggere il castello per bloccare ogni eventuale rivolta dei ghibellini arzignanesi nel 1266.
L’arrivo degli Scaligeri
Nel XIV secolo l’avanzata degli Scaligeri sul territorio vicentino fu così importante che portò più volte gli Arzignanesi a partecipare direttamente alla lotta contro i Veronesi. Fra gli oppositori più attivi e intraprendenti vi fu Singofredo da Arzignano, figlio di quel Rosso che aveva ucciso lo zio, il conte Egano. Egli, insieme ai guelfi vicentini e ai padovani, nel 1312 organizzò una conferenza che radunò a Padova tutte le forze anti scaligere.
Porta Cisalpina vista dall’esterno. Foto: Marta Cardini
Successivamente un altro componente della famiglia dei “da Arzignano”, Giacomino, figlio di Singofredo, appoggiato da tutti gli uomini della Valle del Chiampo, fu un capo delle forze che combattevano contro gli Scaligeri: la guerra terminò nel 1339 con la vittoria degli Scaligeri, guidati da Mastino della Scala. La paura di incursioni esterne e le lotte interne alla famiglia, portarono gli Scaligeri ad edificare castelli e fortificazioni in tutto il territorio conquistato.
L’assedio di Pippo Spano
Dopo un periodo Visconteo e uno veneziano, nel 1410 arrivò Sigismondo di Lussemburgo, re d’Ungheria, che aspirava al trono imperiale. Volendo recarsi a Roma per essere incoronato dalle mani del Papa, trovò una notevole resistenza al suo passaggio nello Stato della repubblica Serenissima. Inasprito, assoldò lo spietato condottiero e uomo d’armi Pippo Spano. Quest’ultimo, su comando di re Sigismondo, nel 1413 prese d’assalto la Città di Vicenza, che si difese strenuamente. Fu quindi costretto ad abbandonarla, rivolgendosi invece alle fortezze e ai castelli del territorio. Con la parte migliore delle sue truppe, attaccò Marostica, ma senza esito per l’energica resistenza trovata. Battendo la via pedemontana giunse ai castelli di Brendola e di Montebello Vicentino, rapinando ed esigendo viveri. Poi passò alla valle del Chiampo e cercò di assediare il Castello.
La porta di entrata del Castello. Foto: Marta Cardini
Il voto a Sant’Agata
Gli Arzignanesi formularono voto a Sant’Agata, patrona del paese. Se per intercessione della venerata martire di Catania fossero riusciti a liberarsi dagli Ungari, avrebbero eretto una chiesa in suo onore. Il giorno seguente di buon mattino dalle alte mura del castello vennero gettate ceste di pane e otri colmi di vino, grandi quantità di fieno e di avena. Pippo Spano rimase interdetto. Convinto che gli assediati avessero ancora ingenti riserve di provviste, calcolando che troppo lunga sarebbe stata l’attesa, impartì subito l’ordine di levare le tende. Era il giorno 5 febbraio del 1413, festa di Sant’Agata: una grazia speciale della santa invocata.
Uno scorcio dall’alto su porta Cisalpina. Foto: Marta Cardini
La chiesa, eretta a Sant’Agata a saldo del voto, è quella vecchia di Tezze e ogni anno, nel giorno della santa patrona, una rappresentanza del comune di Arzignano, con il sindaco in testa, scende da Castello a Tezze e presenta al sacerdote di quel luogo l’offerta di “quattro libbre di cera e quattro ducati d’argento”, cioè la somma corrispondente a quanto fu allora promesso. Al passaggio della processione, lungo l’antichissima via Calpeda, ancora oggi i castellani usano far sparare fucili a salve in ricordo dell’assedio del feroce Pippo Spano.
Il panorama su Arzignano visto dalla rocca. Foto: Marta Cardini
Il Castello oggi
Oggi dentro le mura del Castello si può passeggiare come in un piccolo borghetto. Dentro le mura ci sono anche due ristoranti che rispecchiano l’atmosfera medioevale e l’antica appartenenza ai Conti. Passeggiare all’interno del piazzale è come vivere in un’atmosfera magica e senza tempo.
Porta Calavena vista dall’interno. Foto: Marta Cardini
Quella “Cavazza” è una cantina che da 92 anni rappresenta la genuinità di due territori, la zona classica del Gambellara e i Colli Berici e una famiglia che ha capito l’importanza di conservare la dimensione di azienda artigiana e imbottigliare solo il vino prodotto dalle proprie vigne
Cavazza è una famiglia che dal 1928 è legata al proprio territorio: Stefano, cosa vuol dire vivere tra le vigne?
Mai come in questo periodo mi sono reso conto della fortuna che ho avuto di nascere tra le vigne e i boschi. Durante i mesi del “lockdown” mi sono accorto di vivere in un paradiso. Io faccio un lavoro che mi porta spesso in giro per l’Italia e nel mondo, in un vortice di continui contatti con il pubblico e in quelle settimane mi sono sentito rinascere: camminare al mattino in mezzo ai boschi o tra le vigne, avvolti dai profumi delle acacie e dei fiori di sambuco, mi ha riportato indietro nel tempo, a quando ero bambino e giravo in vigna con la mia piccola bicicletta.
Le settimane che sono stato “confinato” a Selva di Montebello, piccolo centro di poche centinaia di abitanti, mi hanno rievocato bei momenti perché ho ritrovato tante persone che non vedevo da anni, riscoprendo i valori che ci hanno insegnato i nostri vecchi.
Speriamo di trovare il giusto equilibrio tra la vita che tornerà con i suoi ritmi e quello che ci ha insegnato questo periodo di riflessione.
Il 2020 ha visto annullare appuntamenti di caratura internazionale come ad esempio ProWwein e Vinitaly: come avete affrontato il confronto con il pubblico dei Buyers e dei consumer?
Questa situazione ha preso in contropiede anche noi, nessuno se l’aspettava. Per fortuna che siamo riusciti a relazionarci comunque con i nostri buyers e consumer con le nuove tecnologie digitali che ci hanno permesso un costante contatto in tutto il mondo. Siamo sempre riusciti a garantire le nostre consegne e il momento più buio ce lo stiamo lasciando alle spalle.
E l’attività in cantina?
Non ci siamo mai fermati né in cantina né tra le vigne: con tutte le dovute precauzioni e tutelando sia la nostra salute che quella dei nostri collaboratori, abbiamo continuato la nostra attività perché in campagna la vita continua e le vigne necessitano di attenzioni continue. Le premesse per una buona annata ci sono tutte ma è ancora prematuro ed è meglio non far previsioni.
Cantina Cavazza ci tiene a rimanere in una dimensione di “Azienda agricola” in due 2 territori: quali sono le caratteristiche distintive?
La cantina di Selva è immersa nel verde dei nostri vigneti, piccoli e storici appezzamenti acquisiti dal secondo dopoguerra, che costituiscono oggi una quarantina di ettari nella zona classica di Gambellara (Creari, Bocara, Capitel e Selva) di origine vulcanica ricchissima di minerali come basalto, ferro, magnesio e potassio che fanno da nutrimento per le nostre viti di uva Garganega, autoctona per eccellenza.
A fianco la Tenuta Cicogna, nel cuore dei Colli Berici, un tempo di proprietà della nobile famiglia dei conti Cicogna, e che identifica oggi la nostra collezione di rossi di grande evoluzione. In questo territorio, convivono vitigni storici dei Colli Berici come Cabernet, Tai Rosso e Merlot, e varietà poco comuni come Syrah e Solaris, ciascuna vinificata singolarmente.
Un punto fondamentale del vostro manifesto riguarda la “viticolura sostenibile”: ci può spiegare qualcosa al riguardo?
E’ responsabilità di tutti noi tutelare il paesaggio e salvaguardarne la straordinaria bellezza, comportamento che si riflette nella gestione delle nostre vigne. Ecco che per noi questo si traduce nelle buona pratiche di coltivazione come l’inerbimento a basso impatto ambientale, la diversificazione di colture con salvaguardia della biodiversità, coltivazione non intensiva con vigneti intervallati da oliveti boschi e alberi da frutto autoctoni, uso sostenibile degli agrofarmaci, sovescio, potatura manuale per tenere sotto controllo l’equilibrio vegeto-produttivo di ogni pianta, micro-irrigazione per una minore dispersione d’acqua, e ultimo, ma non meno importante, la salvaguardia di vigne storiche come il Tai rosso Cicogna.
Dal 2019 i vostri vini si fregiano del certificato Sqnpi (Sistema di Qualità Nazionale Produzione Integrata) cosa vuol dire?
Dalla vendemmia 2019 siamo certificati Sqnpi (Sistema di Qualità Nazionale Produzione Integrata) e ogni bottiglia Cavazza riporta il marchio della certificazione riconosciuto dal Ministero delle Politiche Agricole per l’agricoltura integrata. E’ un’ulteriore garanzia che i nostri vini contribuiscono alla sostenibilità dell’ambiente, alla biodiversità del territorio e che sono il risultato di diversi passaggi e controlli lungo tutta la filiera di produzione, dal vigneto fino all’imbottigliamento.
C’è un vostro motto che dice “C’è un vino Cavazza per accompagnare ogni momento, ogni sapore e ogni stagione”. Come è possibile coprire una dimensione così ampia di richieste? E’ “solo” il saper fare di 92 anni di esperienza o anche il saper fare analisi di mercato?
Questa frase riporta l’evoluzione della nostra storia che è sintomatica di quasi un secolo di miglioramento continuo portato avanti da padri, figli e nipoti: siamo passati dal vendere il vino al barile, dalla damigiana alla bottiglia e noi imbottigliamo solo il vino prodotto dalle nostre vigne con tracciabilità garantita. Dai rossi autoctoni della Tenuta Cicogna (due Doc, Mertlot e Cabernet) alle Selezioni di prestigiosi Cru delle denominazioni di Gambellara, passando per spumanti come il Prosecco Doc e la Durella Doc e i passiti pluripremiati come il Gambellara Vin Santo Classico Doc.
In verità se riusciamo a coprire l’ampio spettro di richieste non abbiamo fatto altro che utilizzare al meglio quello che ci offre il nostro territorio, niente di più: il resto lo fa la credibilità di una famiglia con quasi un secolo di esperienza e l’affidabilità dei propri prodotti.
Quando sento parlare della Cantina Cavazza emerge immediatamente il legame tra famiglia e territorio. Una famiglia fatta da nonni, padri, figli e nipoti tutti sinceramente dedicati e legati con amore alle proprie vigne per realizzare vini veri e genuini che sono la loro espressione storica. Una famiglia, è il caso di dirlo, con i piedi per terra, nella loro terra, che produce vino fatto esclusivamente dalle proprie vigne.
Con Stefano ho condiviso memorabili momenti dove i nostri prodotti, panettoni e vini, hanno intrecciato una grande complicità gustativa e sensoriale e sono stati testimoni di manifestazioni con le associazioni del nostro territorio già dagli anni ‘90 come le indimenticabili serate SlowFood. Impossibile non citare l’evento della Pigiatura del Recioto: all’inizio ci trovavamo tra pochi amici e poi come tutte le cose che funzionano bene è diventata un’occasione più grandiosa per omaggiare un antico rituale di famiglia.
Lettore di “Arte culi ‘n aria”, ricette e biografia di Umberto Riva
“Arte culi ‘n aria“ è il titolo di una serie di.. articuli così come li ha scritti (la precedente pubblicazione di quello che ripubblichiamo oggi è del 6 aprile 2021, ndr) Umberto Riva per te che nel piacere della tavola, vedi qualcosa di più: gli articoli sono raccolti insieme alla “biografia” tutta particolare del “maestro” vicentino Umberto Riva nel libro “Arte culi ‘n aria”, le cui ultime copie sono acquistabili anche comodamente nel nostro shop di e-commerce o su Amazon)
“Ciuciare i osi” é un’arte.
Peccato che i polli abbiano due sole zampe, e non sempre due.
Il macellaio e pollivendolo, “el sior Francesco”, distribuiva equamente le estremità dei volatili da cortile a chi acquistava solo il quartino, fosse passo o volo. I quarti erano quattro, le zampe due così venivano cedute di volta in volta a questo od a quell’acquirente, normalmente in coppia, ma anche separatamente. Così, quand’eri l’eletto, era meraviglioso.
Le zampe ben lavate, scottate per levare la parte squamosa, venivano cotte lessate con il lesso, od in umido con l’umido. Cotte conquistavano il tuo piatto. Si rosicchiava per quanto c’era da rosicchiare, e poi…… si dava il via al ciucciare. Tutti quegli ossicini del piede, ché il piede era della zampa la parte più sostanziosa e gustosa. Si ciucciavano quelle pellicine che circondavano l’osso. Attaccavano.
Si attaccavano alle dita, e ciucciarsi le dita era buono. Ti rimproveravano “no ‘a xe creansa” ma era un rito. Un rito per chi rimproverava, un rito per te che imperterrito continuavi a a succhiarti le dita condite dal “tacaiso” delle ossa.
Nel rito del ciucciare entravano anche altre ossa anche se non così guastose. Se ti capitava un ginocchio di manzo l’operazione si estendeva assai nel tempo, durava fino a tanto che le ossa non fossero lucide come per una permanenza di mesi nel deserto esposte alla deflazione ed al sole.
I nervi erano pura libidine.
Umberto Riva06
L’attacco si svolgeva con una operazione concentrica. Si cominciava dai nervetti più piccoli, quelli periferici e poi i bocconi più grandi e poi la parte dura ed alla fine si intaccava quelle parti ove un osso si muove dentro ad un altro e che con la bollitura si scagliava.
Romantiche erano le ciucciate quando in tavola capitava un ossobuco. Due cose ti esaltavano: la “megola” ed il periostio. Se la fetta d’osso era ricavata all’estremità dell’arto, non c’era il buco. L’interno era spugnoso, ed il piacere era succhiare a mò di aspiratore per almeno quindici minuti.
Le ossa degli arrosti? Chi se ne ricorda! Gli arrosti erano talmente rari che ogni volta dovevi inventarti un sistema di “ciucciare”.
Delle bracciole non se ne parla, anzi se ne parla solamente. Chi le aveva mai viste.
“Dame i osi pa ‘l can”. Allora non si diceva, che se ne poteva fare di quelle ossa il cane! Se l’amico dell’uomo avesse potuto esprimersi avrebbe detto ‘ma mi prendi in giro?’.
“Ciucciare i osi” é un’arte?
É assai di più.
“Ciucciare i osi” é cultura.
Il ponte Ponte di San Michele a Vicenza è stato definito più elegante della città con la sua unica arcata slanciata e audace, così come siamo abituati ad ammirarlo specie nella prospettiva da ponte San Paolo in tutta la sua armoniosa bellezza.
È una costruzione che risale a quattro secoli fa, ma la storia di questo ponte va ancora più indietro fino a circa otto secoli. Le prime notizie risalgono al 1260 circa quando gli statuti comunali decisero di avviare i lavori per costruire un attraversamento sul Retrone, che fosse accessibile con carri e cavalli, per collegare il centro della città a quella zona dall’altra parte del fiume dove l’ordine degli Eremitani di Sant’Agostino stava costruendo la sua nuova chiesa.
Ponte di San Michele a Vicenza
Questo primo ponte era in legno e prese il nome appunto dalla vicina chiesa di San Michele, che oggi non esiste più. Lo storico Battista Pagliarino nelle sue “Croniche di Vicenza” (1663) riporta che “nel 1422 fu cominciato a fondare il ponte in pietra di San Michele” e inoltre afferma che “li Nobili de Ferramosca haueuano case, molini , & molti altri edifici nel fiume dal volgo chiamato Retrone, ove al presente è il ponte di pietra da San Michele, nel qual luogo hora sono le sue case, le quali benchè per alquanto spatio di tempo siano state possedute dalli nobili Boni finalmente tornarono alli suoi primi possessori.”
Questo ponte del 1422, più robusto, in pietra di Montecchio, era ad unica grande arcata, ispirandosi in qualche modo al modello del ponte di Rialto già famoso e ammirato. I cronisti del tempo lo descrivono come “opera bellissima e da meraviglia”, la sua immagine è giunta fino a noi in un disegno del Marzari contenuto nella “Historia di Vicenza” del 1604.
Fu danneggiato da disastrose piene e restaurato nel corso degli anni, dal 1500 in poi, ma finì col crollare rovinosamente nel 1619. La prima pietra del nuovo ponte, quello che vediamo oggi, veniva posta nel 1621 e la costruzione fu completata solo nel 1636 con la posa delle balaustre.
Secondo lo storico Francesco Formenton i vicentini decretarono di erigere una chiesa per commemorare la liberazione di Vicenza dal tiranno Ezzelino III da Romano, che fu sconfitto definitivamente il 27 settembre 1259 e alla fine di quel mese morì (il 29 settembre è il giorno in cui si commemora l’Arcangelo Michele, che è considerato protettore e difensore nelle battaglie).
All’epoca nella città di Vicenza ognuno dei tre ordini ecclesiastici aveva la sua chiesa: Santa C rona ai Domenicani, San Lorenzo ai Francescani e San Michele agli Eremitani di Sant’Agostino. Lo storico Barbarano, vissuto nel 1600, riferisce che quel tempio misurava circa 4900 piedi quadrati e ne ha tramandato qualche descrizione: aveva la facciata a capanna con un portale adorno di intagli e colonne sostenute da leoni (simile a San Lorenzo).
Era una chiesa oltremodo ricca di opere d’arte con dipinti di Lorenzo Veneziano, Maffei, Carpioni, Tintoretto, Montagna, Buon- consiglio, Cittadella e altri. Quasi tutte queste opere sono andate disperse. Una pala del Montagna con la Madonna in trono tra i santi Onofrio e Giovanni Battista è ora presso la pinacoteca di palazzo Chiericati. L’opera, una delle più significative del Montagna, è firmata su un cartiglio alla base del trono della Vergine, era originariamente collocata sul terzo altare, alla sinistra dell’ingresso.
La chiesa, dopo l’abbandono degli agostiniani a fine settecento, divenne semplice parrocchiale ma, essendo soggetta a frequenti inondazioni, fu conglobata con la vicina Santa Maria in Foro detta “dei Servi” e, purtroppo, fu demolita nel 1812. Nulla rimane dell’antico annesso convento.
Di Luciano Cestonaro da Storie Vicentine n. 3 Luglio-Agosto 2021
Cesare Feltrin, dopo molti anni di ricerca sul territorio dei nostri amati colli, finalmente ha pubblicato, con l’aiuto dell’Associazione Difesa Natura 2000 Colli Berici e la collaborazione del Dottor Carmelo Rigobello , questo libro, illustrando con schede botaniche e foto, ben 15 generi di orchidee spontanee suddivise in 35 specie con le loro relative varietà. Lo scopo di questo volume è far conoscere la bellezza di questi straordinari fiori che ci offre madre natura e nel contempo che serva al rispetto e alla loro salvaguardia, nei luoghi dove crescono. L’illustratrice Lisa Conte nel riprodurre fedelmente gli apparati radicali ha prestato particolare attenzione alle caratteristiche che distinguono le diverse specie (tuberi più o meno arrotondati, rizomi, rizotuberi di forma diversa oppure anche di radici). Le illustrazioni sono state realizzate ad inchiostro. Il lavoro di ricerca scientifica è stato integrato con la fedele rappresentazione grafica degli apparati radicali e delle parti che compongono l’orchidea spontanea. Il disegno scientifico diventa supporto ai contenuti naturalistici e strumento di riflessione, apprendimento e comunicazione. Il disegno naturalistico è un mezzo essenziale di documentazione e un insostituibile metodo con cui riprodurre nella maniera più fedele possibile ogni partico- lare del mondo naturale.
Il libro di Cesare Feltrin
LA FLORA DEI COLLI BERICI
La flora dei Colli Berici è caratterizzata da un meraviglioso miscuglio floreale di diverse specie, importantissimo fattore di interesse apistico. Si trovano facilmente il tarassaco, l’aglio orsino, la polmonaria e molte altre specie vegetali autoctone, tra cui le meravigliose orchidee spontanee dalle molteplici forme e pigmentazioni, ad oggi sono state censite 35 specie diverse suddivise in 15 generi con diverse varietà. L’Ophrys Apifera ad esempio, il cui nome richiama quello dell’insetto, ha un particolare aspetto che attrae le api e assume così, inconsapevolmente, un ruolo essenziale per la salvaguardia della biodiversità e per la conservazione della natura stessa. Tra la flora dei nostri colli spicca in particolar modo la Sassifraga Berica che risulta essere l’unica specie endemica della provincia di Vicenza. Facendo particolare attenzione si può notare che uno dei suoi cinque petali è più lungo degli altri. Il periodo di fioritura è di norma tra aprile e maggio, ma a seconda dell’andamento climatico se ne possono avvistare anche già da febbraio. È possibile inoltre individuare l’Adonis Annua specie delicata e rara a causa del progressivo avanzamento della vegetazione per abbandono, oltre all’utilizzo di attrezzature moderne per gli sfalci, fiorisce ad aprile, la si può trovare a Sossano su prati aridi . Uno degli scopi dell’Associazione Difesa Natura 2000 Colli Berici è proprio la salvaguardia della flora purtroppo minacciata dalla presenza sempre più massiccia del cinghiale. I troppi esemplari presenti, oltre a cibarsi di rizotuberi, diventano protagonisti di azioni che arrecano danni enormi al manto erboso, facendo così scomparire ogni possibilità di crescita floreale. Altro elemento che minaccia in modo particolare la flora nei prati aridi è l’avanzare dello scotano, arbusto strisciante invasivo, in grado di chiudere gli areali delle fioriture. L’Associazione si sta impegnando a contrastare questi due eventi in modo metodico e scientifico, cercando di tutelare e preservare i siti da un progressivo depauperamento per la salvaguardia di tutte le biodiversità.
Lisa Conte – Bertillo Conte
Di Lisa Conte da Storie Vicentine n. 3 Luglio-Agosto 2021
Nel mondo antico il concetto di ospitalità pubblica e privata spesso coincideva così pure le funzioni di osteria (templum diaboli) e locanda, in questo modo talora la casa personale diventava anche albergo, e l’oste non disdegnava di offrire ai viaggiatori oltre al vino, cibo e stallatico, pure una dolce compagnia femminile.
Luogo di sosta di viaggiatori e pellegrini, a partire dal secolo tredicesimo l’osteria divenne topos letterario quale spazio di incontri, sotterfugi e raggiri, dove spesso a farne le spese erano proprio gli osti sprovveduti che venivano beffati, come nel Decameron (IX giornata, sesta novella) quando un buon uomo della piana del Mugnone, oste in caso di necessità, ospitò gli occasionali avventori nella sua stessa camera, in letti accostati, ma alla moglie toccò la disavventura di scambiare il letto del marito con quello dell’ospite.
Elementi grotteschi e farseschi sono parte integrante anche dei racconti del Novellino di Masuccio Salernitano dove l’oste amalfitano Trofone, reo di troppa gelosia nei confronti della moglie viene gabbato dall’amante travestito da donna (novella XII) o l’oste di Iovenazzo, dal nome parlante di Tonto de Leo, al quale un giovane mercante raguseo sottrae la moglie con la stessa collaborazione del marito, per mezzo di uno stratagemma ingegnoso (novella XXXIV).
La taverna, locale fumoso, talvolta torbido, è un luogo che appartiene all’immaginario di molti scrittori, dalle osterie di medioevale memoria (Carmina Burana, sec. XIII) a quella manzoniana di Gorgonzola (Promessi Sposi), dove il povero Renzo Tramaglino, in quelle stanze un po’ sordide, con l’aria pesante e il frastuono che si spande attorno, spinto dal buon vino, si lascia andare a affermazioni che lo costringeranno alla fuga: «Due lumi a mano, pendenti da due pertiche attaccate alla trave del palco, vi spandevano una mezza luce. Molta gente era seduta, non però in ozio, su due panche, di qua e di là d’una tavola stretta e lunga, che teneva quasi tutta una parte della stanza: a intervalli, tovaglie e piatti; a intervalli, carte voltate e rivoltate, dadi buttati e raccolti; fiaschi e bicchieri per tutto … Il chiasso era grande. Un garzone girava innanzi e indietro, in fretta e in furia, al servizio di quella tavola insieme e tavoliere: l’oste era a sedere sur una piccola panca, sotto la cappa del cammino, occupato, in apparenza, in certe figure che faceva e disfaceva nella cenere, con le molle; ma in realtà intento a tutto ciò che accadeva intorno a lui».
Tutti i quartieri della città e tutti i paesi del territorio erano pieni di taverne e bettole. A Vicenza gli osti si erano riuniti in una fraglia, una corporazione di mestiere, fin dal 17 luglio 1458 come attestato da un manoscritto in pergamena conservato alla Biblioteca civica Bertoliana (ms.185). Si tratta di un codice contenente una matricola, il registro, con i nomi di coloro che appartenevano alla fraglia, e in aggiunta gli statuti, ossia le regole fondamentali relative all’organizzazione e all’ordinamento giuridico dell’associazione. Il capitolo, l’organo direttivo, della fraglia si riuniva una volta all’anno, il 25 aprile, giorno di San Marco, per eleggere il gastaldo che aveva la funzione di governare la corporazione e far rispettare gli statuti. Per esercitare l’arte del «tavernare» ci si doveva iscrivere alla fraglia e pagare una tassa di adesione, cifra che doveva essere corrisposta anche per partecipare alle fiere che si svolgevano in Campo Marzio o in altri luoghi della città e dei borghi.
Chi voleva vendere in piazza o in città «carne, pesse, torte o altre cosse cote da magnare» doveva pagare alla fraglia 15 soldi di denari oppure entrare nella fraglia stessa. Nella Matricola degli Osti è inserita anche una rubrica degli statuti del Comune di Vicenza: Rubrica de falsitate statere ponderum et mensurarum, concernente i giusti pesi e le giuste misure che gli osti della fraglia dovevano osservare scrupolosamente nell’esercizio del loro mestiere.
In particolare, dovevano misurare e vendere il vino, sia al minuto che in quantità, secondo due giuste misure, di mezza e di bozza («due mensure medie seu bozole»), fatte di metallo o di bronzo, solide, che non si potessero rompere e piegarsi («bone et solide quae rumpi et flecti non possint»), uguali nella forma e misura al modello scolpito nel quadro di pietra collocato nel peronio o piazza della città di Vicenza.
Per misura giusta e corretta s’intendeva il colmo fino all’orlo, ma se il recipiente fosse arrivato al tavolo del cliente con una quantità di vino inferiore, l’oste o l’ostessa sarebbero stati sanzionati con una multa. Nel caso in cui, però, durante il tragitto fino al cliente, ne avessero versato o bevuto, non sarebbero stati penalizzati se avessero giurato che all’origine la misura era colma fino all’orlo.
Pur essendo un lavoro umile, il mestiere dell’oste era tenuto in grande considerazione: la sua rimuneratività faceva dimenticare una certa fama equivoca che aleggiava attorno alla figura di chi svolgeva tale attività. La fraglia, infatti, godeva di una configurazione sociale dotata di un certo rilievo: aveva un suo posto assegnato nel corteo delle processioni cittadine (Corpus Domini, Santa Corona e San Vincenzo, il patrono della città), dove i suoi membri dovevano sfilare dietro al proprio stendardo.
L’osteria è lo spazio della gioia e del non lavoro, il territorio sacro del tempo libero e del gioco, dove spesso fra denaro, vino e carte, finivano per ritrovarsi, presenti nella stessa stanza, o anche seduti allo stesso tavolo, borghesi e ambulanti, artigiani e girovaghi, contadini e nobili.
Definita il «tempio dell’Anticristo», «templum diaboli», la «navata della controchiesa», l’osteria diventa il luogo privilegiato del vivere trasgressivo alle gerarchie e ai valori costituiti, mondo rovesciato rispetto alle regole della società ufficiale.
In questa sospensione del presente scompaiono le differenze sociali fra gli individui e la taverna è avvertita come un rifugio dove tutti sono uguali e possono interagire tra di loro senza alcuna barriera o distinzione sociale. Naturalmente i membri dell’aristocrazia che frequentano le taverne e che finiscono nelle risse come i popolani, non sono quelli più in vista della città: si tratta, in genere, di famiglie con una lunga e importante tradizione, ma dotate di scarso potere politico all’interno del consiglio cittadino.
L’8 settembre 1791, Nicola Velo, figlio del conte Giobatta, era stato tutto il giorno a «uccellare» con il nobile Antonio Monti ed un certo Angelo Curti. Alla sera tutti e tre si erano recati all’osteria detta la Loggetta, situata in borgo San Felice, dove avevano bevuto del vino. Tutti e tre ubriachi cominciarono a litigare cercando di coinvolgere estranei e conoscenti, spintonando, insultando, picchiando, puntando le armi. Un paio di mesi prima Antonio Longo e il conte Ugolino Sesso, figlio del conte Scipione, stavano giocando nell’osteria di Domenico Brunello al Tormeno quando scoppiò un furibondo litigio. Anche in questo caso gli esiti della lite finirono davanti ai giudici poiché, una volta usciti dal locale, cominciarono a bastonarsi a vicenda e a ferirsi con armi da taglio. La Matricola degli Osti del 1458 riporta al
suo interno i nomi dei 12 tavernieri che facevano parte della fraglia. Ogni nome era accompagnato dal nome fantasioso dell’insegna, posta solitamente all’ingresso della bottega, scolpita in legno o incisa in metallo: a la Crose, a l’Orso, al Sole, a l’Agnolo, e così via. I locali della taverna si trovavano sovente nella casa stessa dell’oste che aveva, naturalmente, una cantina, la «cella vinaria», una cucina che comunicava o, più spesso, si trovava nello spazio riservato agli avventori, fornito di focolare, tavoli e panche. Accanto alla porta d’entrata vi era quasi sempre la «restrelliera» dove i clienti deponevano i fucili. Talora, oltre all’ambiente principale, vi erano altre stanze disposte in parte al piano terra e in parte su quello superiore, nelle quali, volendo, si poteva anche dormire alla notte in una delle camere oppure organizzare una festa danzante al suono di qualche violino durante il carnevale. All’osteria si stava seduti per ore intere mangiando trippe, pollastro o castagne, e bevendo vino. Si chiacchierava e si discuteva, ma soprattutto si giocava alla «mora», a carte, il «tressette», al gioco del «tibusco» o dell’«amore», al «trionfo degli uccelli», al
«tornello della bianca e della rossa». Si giocava anche al tiro a segno, «a trare al segno»: si appendeva un «coppo» ad un filo e vinceva colui che sparando riusciva a perforarlo da parte a parte, senza romperlo. In ogni gioco, pur non essendo d’azzardo, c’era una posta: una piccola somma di denaro oppure un boccale di vino. Il gioco era segno di allegria e di svago, e chi non trascorreva il tempo partecipando non era degno di far parte di una buona compagnia, per cui, attorno ad esso, vi erano sempre concentrati gruppi di uomini.
Paolo Rampon detto Smiderle e Giuseppe Talin stavano giocando a carte, mentre Giuseppe Pozzer detto Palesa si mise a guardare. Questi ad un certo punto invitò il Rampon, che accettò prontamente, a scommettere cinque soldi sulla partita. Nonostante le proteste di Palesa che a torto dichiarava di essere lui il vero vincitore, il Rampon si prese i soldi della scommessa avendo vinto. Allora il Pozzer tirò fuori la pistola che aveva nascosto dietro la schiena durante il gioco e sparò contro l’avversario che con uno scatto si rifugiò dietro un tino posto vicino all’entrata, raccattando un grosso pezzo di legno.
L’osteria si svuotò degli avventori che se ne andarono temendo ognuno per la propria vita. Rimasti soli Palesa, sempre armato, sfidò l’avversario ad uscire dal nascondiglio e, infatti, il Rampon uscì con un balzo e con il bastone gli diede in testa un «sì gagliardo» colpo che il Pozzer cadde a terra tramortito«gridando ajuto».
Le occasioni di maggiore affluenza erano i giorni festivi e le ore serali, ed erano anche i momenti in cui si verificava il maggior numero di delitti: gli uomini mangiavano e bevevano di più, alterando il normale comportamento, trasgredendo le regole della vita quotidiana, che scandivano i ritmi di una sottoalimentazione cronica. Nonostante le reiterate istanze dei rettori, i governanti cercarono sempre di intervenire con moderazione sui momenti e sui luoghi di festa, ben sapendo che la festa forniva una valvola di sfogo per le tensioni sociali.
Jan Steen: Giocatori d’azzardo litigano
Le risse si sprecavano, così come i gesti inconsulti dovuti ai fumi del vino tanto che per ammazzare qualcuno non occorreva avere a portata di mano un’arma. Nel febbraio del 1789 alcuni avventori si divertivano ballando al suono di un violino in una delle camere superiori dell’osteria.
Zuanne aveva pagato 15 soldi al musicista affinché lo seguisse per suonare in un altro luogo, suscitando così le proteste dei presenti, soprattutto di Francesco e in breve ne era nata una rissa. I partecipanti alla festa scesero frettolosamente nella cucina. Zuanne prese dal focolare un «supioto» di ferro e si mise a inseguire Francesco attraverso la corte, ma questi, più veloce, raccolse un sasso e glielo scagliò contro colpendolo alla testa e uccidendolo sul colpo.
Le motivazioni che portano all’aggressione e al delitto denotano chiaramente l’impu sività e l’immediatezza di quel genere di violenza: le festa catalizza umori ed euforie che sfociano nelle liti, ma vede anche i devastanti effetti dei fumi dell’alcool. I fratelli Gaiga, Domenico e Francesco, avevano suonato, tutta la sera della domenica 22 luglio 1759, in un’osteria di Valdagno, l’uno il violino, l’altro il violoncello, dilettando le persone presenti, che avevano ballato fino alle quattro di notte, allorché, stanchi di suonare, decisero di uscire dal locale seguiti da diverse persone. Passati sulla piazza contigua all’osteria per incamminarsi verso casa, i due fratelli s’invitavano l’un l’altro a riprendere a suonare.
Avendo udito ciò, Francesco Nissaro cominciò a deriderli perché, essendo ubriachi, non potevano suonare. Alle risentite risposte di Francesco Gaiga, un compagno del Nissaro, Domenico Tomba, cominciò a percuoterlo con il fucile, finchè dall’arma stessa uscì un colpo che uccise, quasi istantaneamente, il Gaiga.
L’osteria, «luogo laico della mensa fraterna», della convivialità popolare, del mangiare e del bere in compagnia, svolgeva un ruolo particolare nella vita degli emarginati, di coloro che senza fissa dimora non possedevano una casa e per i quali l’osteria, in particolar modo quella urbana, era una specie di focolare domestico, un luogo, comunque, dove passare il tempo, soprattutto in inverno.
Qui vagabondi e “falsi bordoni” scialacquavano le elemosine ricevute, i ladri sperperavano il denaro proveniente dalle refurtive, malviventi e meretrici si incontravano. A Vicenza la banda di Geffe Beccaro, detto Enea, durante l’estate del 1764 aveva assaltato notte tempo alcune case private, nelle campagne contigue alla città, rubando denaro e oggetti in oro. Del gruppo facevano parte, oltre a Geffe originario di Arzignano, Agostino Manetto, «stroppio» d’un braccio, di mestiere scarparo nel borgo di Porta Castello; Zuanne detto Anzolon, figlio di Angelo Tremeschin che aveva osteria al Duomo; Bortolo Pedana e Giuseppe Occhioni di professione samitari (tessitori di seta). Nel giugno del 1764 essi alloggiavano tutti a Vicenza, alla locanda di Zuanne Rossi, soprannominata la Casa del diavolo.
Secondo l’interrogatorio di Giulia, una testimone, questi uomini erano tutti di «carattere tristo dati ai vizj ed ai rubamenti, con abbandono dei propri respetivi impieghi», anzi il Manetto ed il Beccaro erano usciti da poco tempo dalla prigione, dopo aver scontato una condanna per furto. Questa compagnia di «scavezzoni», secondo un’altra testimone, frequentava pure l’osteria di Perotin al Monte e talvolta «aveano seco loro delle donne […] di mala vita». L’osteria/locanda aveva la funzione di offrire ristoro e riposo per il viandante, in particolare per il pellegrino, colui che si recava in pellegrinaggio a piedi in un luogo santo, da solo o in gruppo.
In realtà, le sentenze criminali raccontano come spesso le taverne fossero punti di ritrovo per i componenti delle bande, dove si stipulavano patti criminali e si architettavano azioni delittuose, al punto da diventare un luogo di insidie e pericoli per gli sprovveduti, una vera e propria trappola per i viaggiatori. Anzolo Pasqualin, detto Panzale, da Lonigo, i fratelli Antonio e Domenico Lavezzo, Zuanne Caichiolo, da Lonigo e Gregorio Panzoldo da Noventa Vicentina, Bastian de Grandi, ferrarese, si ritrovarono la mattina del 23 agosto 1700 nell’osteria dei Ponteseli, tra Barbarano e Noventa, e stettero tutto il giorno a bere e a giocare. Verso sera arrivarono dalla parte di Noventa, Alessandro Nievo e Domenico Gobbato insieme con Francesco dalla Rizza e Zuanne Negroti, i quali, in «habito di pellegrini» stavano tornando da Roma dove si erano recati, «per puro istinto di pietà e divotione per l’anno Santo», insieme ai confratelli della compagnia del Santissimo Crocefisso. Poco lontano dall’osteria, li incontrò Domenico Lavezzo, che attaccò discorso unendosi a loro per la strada.
Scorgendo l’osteria i pellegrini mostrarono desiderio di fermarsi, perché l’aria cominciava ad oscurarsi, ma l’«empio» Lavezzo li convinse a proseguire il viaggio, come fecero, tenendo il cammino verso Barbarano. Intanto il Lavezzo, entrato nell’osteria, raccontò ai suoi compagni del passaggio dei pellegrini e subito decisero di inseguirli per derubarli. Armati tutti di un fucile, rincorsero i viandanti e raggiuntili all’altezza della fornace dei Rosa, li assalirono per rapinarli. Ne uccisero barbaramente tre, quindi, spogliati i morti e fattisi consegnare gli averi dai vivi, tornarono all’osteria dei Ponteseli, dove fecero un resoconto del misfatto a Bastian de Grandi, capo della banda, e ad Antonio de Mori, suo servitore, che s’incaricarono poi di vendere la refurtiva ad un ricettatore dl la zona di Cologna Veneta.
Di Sonia Residori da Storie Vicentine n. 3 Luglio-Agosto 2021
Vi proponiamo La storia delle famiglie nobili vicentine presenti nella toponomastica vicentina, Tratto dal libro “Storie di Strade”.
Gli storici moderni, hanno ormai definito i tratti culturali della famiglia di nobile lignaggio, concepita oggi, come un’entità del passato. Per lignaggio si intende un’ unità famigliare estesa alle relazioni di parentela avendo come gruppo, un antenato comune. Questo aspetto non è da ritenersi solo in riferimento a titoli, onorificenze che sicuramente distinguevano certi gruppi famigliari da altri, ma è anche una dimensione di valori diversi come l’onore, il diritto di precedenza, l’esclusione di altri ceti sociali. Il lignaggio aristocratico fu anche la conoscenza della propria antichità storica, le imprese gloriose degli avi, la consapevolezza di appartenere ad un gruppo cui spettava l’onore e l’onere di guidare le sorti della città di origine. L’emergere della nobiltà in tutti i paesi europei fu un fenomeno significativo in particolare nelle città e nei comuni minori italiani. La gestione della res publicae era inscindibile dal ruolo svolto dalle famiglie aristocratiche, il lignaggio aveva la sua preminenza economica per la capacità dei nobili di interagire con altri nelle complesse reti di amicizia. L’eguaglianza di tutti i cittadini nei doveri e nei diritti era del tutto compatibile con l’esistenza di forti differenze nel peso politico, nelle ricchezze, perché la partecipazione alla vita politica non era individuale, ma Comune come associazione giurata, importante il ruolo di pacificatori svolto dagli aristocratici nei confronti delle beghe che animavano i sudditi.
L’Onore distingueva tutti i rapporti sociali e sanciva la gerarchia nella società.
Lo status di nobile aveva affermato alcuni privilegi come il diritto di precedenza e la distinzione tra tutti gli altri.
La dimensione dell’onore non era una posizione economico sociale ma era anche un pericoloso terreno di conflitti. Il rapimento di giovani ereditiere era frequente e ridefiniva la dimensione dell’onore. La Repubblica Serenissima per i rapimenti, emanò nel 1574 una legge contro questi crimini particolarmente odiosi. L’ideologia nobiliare aveva una cultura intrisa di valori mitici e religiosi. Per le famiglie nobili era comunque necessario trovare alleanze soddisfacenti magari attraverso i matrimoni per cui si concedevano alle figlie doti matrimoniali cospicue purché si maritassero convenientemente. Il matrimonio era una strategia elaborata e ponderata che mirava a creare alleanze famigliari. I nobili celebravano i loro riti con scambi sociali e relazioni affettive ma anche scegliendo edifici sacri come chiese, cappelle, oratori, i grandiosi sepolcri di famiglia come nel Cimitero Monumentale della città dove la dimensione sacrale del lignaggio era massima. Un’ altra voce che dava il grado del prestigio raggiunto da una famiglia era il Palazzo cittadino che misurava il valore della famiglia destinata a governare la città. La storia di una città è la storia delle famiglie che avevano un ruolo di prestigio, per molti secoli gli aristocratici Vicentini svolsero questo ruolo con onore.
Di Luciano Parolin da Storie Vicentine n. 3 Luglio-Agosto 2021
Il viandante è appena entrato nel bosco abbandonando la strada dei Berici dopo Perarolo. Conosce bene la deviazione che lo condurrà alla meta, ma gli piace fermarsi davanti al grande cippo viario in pietra e leggere le indicazioni incise per Sant’Agostino, Vicenza, Perarolo, San Gottardo.
La stradina è sterrata in ripida discesa. Quando spiana, il bosco si apre sulla valle delle Casare. Nel vicino orizzonte a oriente si disegnano contro il cielo la cupola e il campanile della Basilica di Monte Berico, sulla sinistra Valmarana segna la collina col campanile dell’antica chiesa di San Biagio.
La ragazza col berretto rosso, che accompagna il viandante, correndo è già davanti all’oratorio. Al mattino di buon’ora, erano entrati nella cappella del convento di clausura delle Carmelitane a Monte Berico. Di là della grata protetta da una tenda verde si alzò il canto della Salve Regina. Pareva che le suo- re donassero un augurio per il cammino li aspettava. Prima dell’oratorio si scorgono i cipressi e le acacie che incalzano il pendio ai lati della strada. Sull’arco dell’ingresso è scritto SALVE REGINA, nell’inferriata che chiude l’ogiva, sopra la porta di ferro, è ritagliato un cuore. “Sacello della Beata Maria Vergine Addolorata”: così lo chiama Papa Pio X in una sua lettera spedita da Roma il 30 luglio 1904 per la concessione di indulgenze.
E’ la chiesa più vicina al cielo sul territorio di Altavilla, solo il nucleo centrale, quello originario, poi le estensioni successive ricadono anche nel territorio del Comune di Arcugnano. Mi hanno raccontato che il cippo di confine tra i due Comuni sia proprio sotto l’altare. I Papi scrivono in latino. Sacellum: recinto all’aperto con un’area consacrata si legge nel vocabolario. Qui la sacralità la percepisci anche attorno, come se il bosco fosse una cattedrale vivente e prende anche un senso di serenità nell’essere lì, immobile e non parlare, non dire niente a chi ti sta vicino, neanche che sei felice. Luogo di grande riconciliazione spirituale con il cielo. Così pensava il viandante mentre lo sguardo scendeva dalle cime dei cipressi e si calava dall’azzurro del cielo al rosso dei coppi che coprono il tetto dell’ottagono originario. Già ci si accorge di come la chiesetta si inserisca nel paesaggio a somiglianza di chiaro elemento geometrico e diventi oggetto di contemplazione. Non ha nulla o quasi delle apparenze della natura, ma con questa entra in armonia senza quindi insidiarla o contrastarla. Prima che il sacello fosse costruito, un segnale religioso distingueva questo luogo: era un’immagine della Madonna affissa a una quercia. Il bosco diventava tempio senza confini. La prima segnalazione rintracciata della costruzione risale al 1893 in un verbale dell’Amministrazione Catastale per la delimitazione delle proprietà nel comune censuraio di Valmarana dove si legge: “Questo giorno 25 ottobre 1893 … onde determinare in modo certo e stabile i confini del fondo denominato Salve Regina posseduto da Bianchini Giuseppe fu Vincenzo, posto nella frazione suddetta, sono stati invitati oltre al possessore del fondo anche i possessori finitimi. Percorrendo le fronti di detta possidenza si è trovato che: A levante confina con Bianchini Giuseppe e che il confine è costituito da una linea retta individuata da un termine comunale e da un muro compreso dalla chiesetta di Salve Regina. Detta chiesa segna il confine fra il Comune di Arcugnano ed il Comune di Valmarana. A mezzogiorno e ponente confina con la strada vicinale detta di Malpasso e il confine è costituito da una linea curva.
individuata dallo spigolo della chiesetta di Salve Regina e da un picchetto provvisorio. A settentrione confina con Caneva Antonio e il confine è costituito da linea spezzata in tre tratti determinata da due picchetti uno già descritto da una croce in sasso e da un termine comunale pure descritto.” I lavori di costruzione del sacello terminarono nel 1903, dopo essersi protratti per anni sotto la cura di padre Giovanni Maria Bianchini dei Servi di Maria. Chissà cosa pensavano i boscaioli nel veder sorgere quegli archi gotici uniti nella forma dell’ottagono. Nel 1904 il sacello era benedetto e l’otto del mese di maggio vi si celebrava la prima messa. Cinque anni dopo, un altro ottagono, più ampio, coronava il primo completando la costruzione.
E’ inaugurato solennemente solo il 12 settembre del 1910. Costruttore e forse progettista fu nonno Ettore che allora aveva ventinove anni. L’ottagono è simbolo della resurrezione ed evocatore della vita eterna. Le antiche fonti battesimali sono ottagonali o si innalzano su otto pilastri. L’otto è il numero dell’equilibrio cosmico e delle direzioni dei punti cardinali unite alle direzioni intermedie. Sul pinnacolo in pietra, al centro del tetto di coppi rossi, il viandante osserva una croce di ferro a quattro braccia. E` orientata secondo i punti cardinali.
Coincidenze? Continua a pensare che anche i raggi delle antiche ruote di legno erano, di solito, otto e che l’otto è legato alla Ruota e all’Ottuplice Sentiero buddista, ai petali del fiore di loto. Da un fiore ad otto petali escono le piccole croci di ferro, sempre a quattro braccia orientate, che concludono le due torrette sul tetto basso in pietra tenera finemente disegnata e bugnata, sormontate da una cupola vagamente orientale. Sulla cupola un fiore in pietra a otto petali si apre a contenere le croci. Sotto le croci le banderuole segnavento, bloccate dalla ruggine in direzioni di venti antichi. L’ottagono e il numero otto, si rincorrono continuamente, non come qualcosa di disperso, ma come un non numerabile mirato a costruire un’unica identità. Il viandante si rende conto che se continua a pensare entrerà in acque molto agitate.
Allora cerca una spiaggia cui approdare. Gira attorno alla chiesetta per scoprire a nord la facciata del romitaggio di fra Giovanni Maria con le finestre a bifora sovrapposta. Sopra la bifora superiore pende una campanella. Chissà quando suona, chissà come sarà questo suono libero sulla valle aperta e come voleranno via gli uccelli del bosco. Gli uccelli! Negli anni in cui celebrava padre Pietro Maria Contessa dei Servi di Maria, vi fu una domenica di primavera che la santa messa si celebrò con le porte spalancate. C’era nell’aria un profumo mai dimenticato e gli uccelli non smisero di accompagnare la celebrazione con i loro canti. Ad un certo momento il frate chiese a tutti, anche a se stesso, di stare in silenzio, di lasciar entrare nel sacello quel canto perché ci fosse solo quel suono negli ottagoni consacrati. La Beata Vergine sull’altare non pareva più Addolorata. Erano gli “uccelli dell’aria” di suo Figlio. Il romitaggio è impostato su due piani.
La porta d’ingresso verso mattina è ad arco gotico come la finestra che la sovrasta, quattro aperture a ogiva si aprono sulla parete verso il tramonto. Il viandante sorride vedendo ai lati delle porte i ‘feri par netàre le scarpe dal paltàn’. Pensa ai villici che arrivavano traversando i prati o per sentieri e mulattiere, le scarpe già pesanti, più pesanti ancora per il fango. Li vede fermarsi davanti a quel ‘fero’ poi entrare con tutta la loro fede addosso per recitare la Via Matris Dolorosae: Simeone davanti al gran Tempio, l’Angelo che invita Giuseppe a fuggire, Gesù che si smarrisce nel tempio, l’incontro sulla strada del Calvario, Gesù che muore, il Figlio deposto, il Figlio nel sepolcro. E la giovane madre sempre lì con il suo presente affanno e il suo dolore.
Il viandante non crede che la giovane Myriam abbia pianto, perché se le sue lacrime avessero profumato la terra, adesso il mondo sarebbe diverso. La statua della Madonna Addolorata ha conosciuto la strada per Ortisei quando nel 1955 vi fu portata per ricavarne una copia che sarebbe stata collocata nel santuario dei Servi di Maria di San Carlo a Milano. La nuova statua riesce male e così i Padri di Milano si trattengono l’originale che fanno benedire dall’Arcivescovo Giovanni Battista Montini il 7 dicembre 1955. Intanto il Priore di Monte Berico si vede ritornare la copia mal riuscita della Beata Vergine. Recita un paio di giaculatorie non previste dal breviario e rispedisce la statua a Milano. Il religioso trafugamento non dura molto. Il 22 aprile dell’anno dopo una folla acclamante assiste al solenne trasporto dell’originale nella chiesetta della Salve Regina.
Il parroco di Valmarana era allora don Mario Frangipane. Questo cognome dolcissimo insidia da sempre l’anima del viandante. Gli ricorda i viandanti del Vangelo nella casa di campagna di Emmaus, la cena, lo spezzare del pane, il riconoscimento. Adesso la statua è sull’altare, con le mani giunte, col capo rivolto verso il basso, verso di noi, gli occhi chiusi, una corona di stelle sul capo, il Figlio nel tabernacolo ai suoi piedi. Ai lati i sette Santi Fondatori dell’Ordine dei Servi di Maria. Padre Pietro Maria Contessa e don Mario Frangipane non ci sono più. Anche tanti altri sono partiti per quell’altrove che ci aspetta. Di loro due il viandante non ricorda le parole, ricorda solo la figura sacerdotale. Ma un altro Servo di Maria insegue il viandante, in questi tempi, con le sue parole: Padre Ermes Maria Ronchi. Lui racconta che è necessario molto silenzio per ascoltare lo stupefatto silenzio di Dio. Insegna che Dio non lo trovi negli abbagli delle grandi visioni, nello splendore di un grande tempio, ma nella vita che è un’anfora di ombre. Nel buio di un grembo sta la luce
della vita. Racconta ancora di Maria e di tutte le madri che attendono non per una mancanza o per un’assenza da colmare, ma per una pienezza, per una sovrabbondanza di vita, per generare. Poi ci chiede di partire in pellegrinaggio verso il luogo del cuore, per decifrare le radici delle nostre azioni. Ci guarda negli occhi e ci dice che non siamo fragili o poveri, quanto piuttosto creature incompiute in cammino verso forme più alte.
Il muro della chiesa è caldo nel sole di mezzogiorno. Qualcuno ha piantato rami fioriti nei due vasi al lato della porta. Il viandante si siede. La ragazza col berretto rosso che lo accompagna si è allontanata nei prati di sotto. Nel silenzio intatto basta un leggero richiamo. La ragazza si gira, fa un cenno alzando il berretto. Sarà qui subito. Intanto il viandante recita sottovoce una Salve Regina.
Di Giorgio Costantino Rigottoda Storie Vicentine n. 3 Luglio-Agosto 2021