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I parenti dall’America: una storia vicenda dagli Anni ’60

I parenti dall’America e “La nona in brodo”. Un racconto tratto da una vicenda famigliare accaduta a Chiuppano negli Anni ’60, tratto dal libro “Ciupàn: the ‘60s & ‘70s”.

MMMM….mama, mama, me vien da vomitare, a go el stomego rabaltà” Giovanin appena ebbe finito di leggere la lettera divenne bianco come una “pessa da lissia”, con i oci sburii si mise una mano sulla bocca e corse in te l’orto a vomitare su par na visela. Nell’orto Giovanin buttò fora anche l’anima, sua mamma arrivò con un sugamano bagnato e una bossa de acqua de milissia, era preoccupata, pensava che la minestra di dado americano avesse fatto male a quel toso malatisso. Per lui le aveva tentate tutte, oio de risino, oio de merlusso, papete de semense de lin, brodeto de galina, parfin aveva comprato un bussolotto de ovomaltina che il fermacista le aveva consigliato. Tutto aveva sortito poco effetto, Giovanin era sempre un stison che non veniva da gnente. Già da toseto Giovanin aveva dato da pensare, aveva pisato in leto fin a tardi e in casa non sapevano più cosa fare. Tentarono con un vecchio rimedio che aveva suggerito una donna quasi centenaria che si ricordava che quand’era giovane per questo problema de visiga debole, le donne cucinavano una morejeta come un uselo in farsora, con salvia, oio e lardo e la davano da mangiare al malcapitato.

Il risultato fu solo che Giovanin al vede
re quella schifezza si era stencà come na sardèla e non c’era stato verso di fargli ingoiare il sorde. Così erano passati gli anni tra carovane, febbri, vermi, mal de molton, tutto quello che c’era da prendere Giovanin lo prendeva, pareva un calamita che attraeva tutte le malattie, tanto che avevano pensato di far voto alla Madonna perché potesse intercedere per la sua salute ed avevano già preparato il vestitin da frate per farlo indossare al giovinetto come si faceva in quegli anni. La famiglia aveva dei parenti in America nello stato di Los Angeles emigrata da qualche decennio all’inizio del novecento  e in quella terra si era fatta con sacrifici e fatiche una tranquilla posizione di una normale famiglia americana. Nel tempo erano tornati anche a trovare i parenti rimasti in patria, portando con l’occasione dei doni che un’Italia mal messa del secondo dopoguerra poco conosceva. Allora arrivavano con dei bolli di cioccolata bella grossa, gomme da masticare al sapore di menta, sigarette con il filtro per gli uomini e specialità rara e preziosa, i dadi da brodo, cubetti di concentrato di carne che insaporivano tranquillamente una pignatta di acqua senza tanto trafficare con carne di pollo, manzo e ossa.

Come per miracolo Giovanin mangiava volentieri quel brodo, un po’ di pastina e di formaggio era diventato una miscela che prendeva volentieri senza tanto farsi supplicare. Questi parenti la prima volta che vennero in Italia vedendo Giovanin che pareva un cadavere presero paura, poi, vedendo che il loro dado aveva sortito un piccolo miracolo nella salute di quel nipote malatisso ne furono contenti ripromettendosi di fornire di tanto in tanto quei cubetti una volta rientrati negli Stati Uniti. Quando arrivava quel pacco postale pieno di francobolli e di timbri era una festa per la famiglia, si sentivano privilegiati per quella roba mericana, aprivano l’involucro con at- tenzione, piano, con una liturgia che richiamava tutta la famiglia. Poi comparivano quei contenitori di latta a scritte colorate che nessuno comprendeva, poi piano aprivano e nella stanza si spandeva quel profumo di spezie e di cioccolato ben distante dall’odore da romatico e di fumo a cui erano abituati. Ormai il dado era diventata la medisina de Giovanin, da centellinare come fosse oro, na puntina de guciaro, un fià de buro e acqua e la minestra era fatta. Chissà cosa che ghe sarà dentro si chiedeva la buona famiglia che in qualche modo si sentiva toccata dalla fortuna.

Ne parlavano quasi a bassa voce come per confidare un segreto. “Xé rivà el paco dala merica, cicolata e dadi” confidava la Lusietta, cioè la mamma de Giovanin, all’amica Mabile mentre andavano in chiesa per la prima messa. “Un giorno a tin faso sercare”, prometteva, ma il tempo passava e la Mabile non ebbe mai la grassia di sajare quela specialità. Questa storia andò avanti per qualche anno, arrivavano pacchi e qualche lettera una miscela di italiano, dialetto e merican in cui non era facile districarsi, fortuna che Giovanin che faceva la quinta elementare era abbastanza bravo a lesare e la cavra non gli aveva magnà i libri come era successo per i suoi fratelli. Sicuramente avrebbe preferito anche lui andare a lavorare i campi piuttosto di stare a scuola, o laorare pico e baile, ma oramai era alla fine dell’anno e bastava tenere un po’ duro. L’ultima volta però era arrivato un pacco un po’ strano, senza scritte ed un po’ più grande del solito, sempre di latta per quello, ma diverso dai soliti, forse i buoni parenti mericani avevano cambiato casolìn disse la Lusietta che non aveva bene in testa cosa poteva essere stato quel cambiamento. La polvere all’interno era un po’ diversa di colore, ma sempre polvere era, e sempre misurate dovevano essere le dosi. Si accorsero in casa che anche il sapore era un po’ diverso che quel brodo sapeva di poco, così aumentarono la dose della polvere che mettevano nell’acqua ed aggiunsero un po’ di sale e una gambetta de selino, così la menestra era accettabile. Scrivere che questa volta il dado non era tanto buono non se la sentivano, sembrava di fare un torto a quei buoni parenti, non si tegnevano in bon, gli pareva di offenderli. Comunque de rife o de rafe la polvere nella scatola calava e Giovanin continuava a mangiare quel brodo anche se ultimamente sapeva da lissiasso.

Un giorno la postina arrivò con una lettera, la solita lettera che ogni tanto arrivava dalla merica, color azzurro con dei bei francobolli con il volto del presidente che in quel tempo era H. S. Truman. La Lusietta che aveva qualche difficoltà con la vista dietro cui si nascondeva una incertezza scolastica mai sanata nel leggere, a maggior ragione con quei termini mezzi mericani, non si fidava certo di avventurarsi tra quelle righe e la mise in un angolo dietro il vetro della vetrina in bella vista ed attese mezzogiorno che tutti fossero a casa, ma soprattutto Giovanin, l’addetto alla lettura. Quando tornò da scuola, e tutti erano già intorno al tavolo per il pranzo, Lusietta aspettò che avessero finito di mangiare poi consegnò con curiosità e quasi trepidazione la lettera al figlio affinché la leggesse a tutti ad alta voce. Si schiarì la voce e cominciò: Cari zermani: Morta la nona, la senare drento la scattola, parché lei brusata con il fogo (cremata). Ela sempre vusudo essàre sepelia nel cemeterio del so paese dove géra nata. Preghemo valtri de provedare col prete a sepulirla. Saluti dala merica dai vostri zermani. Grassie. Giovanin che qualche difficoltà a leggere l’aveva, figuriamoci con quel miscuglio di dialetto, italiano e merican, affrontare quelle righe era difficile come sapare un canpo de sorgo e cominciò ad avere i sudori. Alla difficoltà letteraria si aggiunse la tensione di avere tutta la famiglia intorno che pendeva dalle sue labbra, non voleva far brutta figura, tra incertezze e imbalbamenti, capì benissimo il senso di quelle frasi, mentre gli altri avevano solo capito che era morta la nonna. Si irostò come il musso de Biasieto quando non voleva andare avanti ed esclamò: A ghemo magnà la nona in brodo!! Le facce degli astanti si fecero di sale e Giovanin, impietrito, cominciò a sudare, gocce di sudore grosse come medaglie gli imperlarono il viso come quando andava ad aiutare nei campi. Divenne bianco come una pessa da lissia, si alzò di scatto che sembrava una susta e andò a gomitàre nell’orto su par na visela. Sua mamma gli corse dietro con la bottiglia dell’acqua de milissia continuando a ripetere: “E desso, cossa ghe contemo al prete mariasanta”?

Di Maurizio Boschiero (discendente del celebre architetto vicentino) da Storie Vicentine n. 3 Luglio-Agosto 2021


In uscita il prossimo numero di Marzo 2023
distribuito nelle edicole del centro e prima periferia e agli Abbonati
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Antonio Caregaro detto Negrin: architetto e patriota di Vicenza

Il 13 giugno 1821, in stradella Stalli a Vicenza, da Domenico Caregaro e Maddalena Negrin nasce  il piccolo Antonio.

Di per sé nulla di speciale: normale evoluzione della specie. Perché quindi dopo oltre 200 anni, ricordare questo avvenimento? Chi era questo “piccolo Antonio” ? Si trattava dell’ Antonio Caregaro detto Negrin, architetto vicentino, che tanto diede alla sua terra nella seconda metà dell’800. Ripercorriamo la sua storia, per meglio conoscere questo personaggio, le sue idee, i suoi lavori. Mentre il suo operato come architetto, edile prima e dei giardini poi, è abbastanza conosciuto, anche se molte cose meriterebbero maggior approfondimento, poco si è parlato del suo impegno per la difesa di Vicenza e di Venezia, impegno che ha proseguito negli anni successivi realizzando progetti che servissero alla causa Italiana, usando simbolismi utilizzati nella creazione di giardini e opere annesse. In parte autodidatta, dovette tutto alla sua volontà e ai suoi ideali al suo impegno, alla sua instancabile attività. Ebbe grandi soddisfazioni ma anche grandi delusioni e sconforti, specialmente nell’ultimo periodo della vita, come accade spesso a chi precorre i tempi e a chi persegue un ideale che non condiviso e inteso da tutti, perché fuori dalle righe. La sua storia comincia con Maddalena Negrin, ultima discendente del capomastro Negrin di casa Colleoni in Venezia. Non è dato sapere il nome del padre ma, si racconta, fosse un valente capomastro e che avesse una discreta posizione economica.

Antonio Caregaro Negrin
Antonio Caregaro Negrin

Maddalena aveva sposato Michele Quartesan, che lavorava alle dipendenza del padre. Dal matrimonio ebbe un figlio, Giovanni, ed una figlia, Elisabetta. Rimasta vedova sposò Domenico Caregaro, anch’egli capomastro, anch’egli vedovo, con tre figlie. Il loro matrimonio, diede origine a quella strana situazione che portò poi negli anni alla formazione del doppio cognome: Caregaro Negrin. Nella nostra famiglia infatti, a noi bambini, veniva detto che il doppio cognome veniva dalla “nonna che si era sposata due volte!” Il 13 Giugno 1821, in Stradella Stalli a Vicenza, da Domenico Caregaro e Maddalena Negrin, nacque quindi il piccolo Antonio. Nel frattempo, Giovanni Maria Quartesan, figlio di prime nozze di Maddalena, ha sposato Francesca Caregaro, figlia di prime nozze di Domenico,

Giovanni M. Quartesan, sotto la guida di Domenico, imparò l’arte e lavorò nella ditta del suocero. La morte prematura di Domenico, nel 1930, peggiorò i già difficili rapporti di Antonio con il fratellastro Giovanni M.; dissapori nati dal fatto che Giovanni M. e la moglie Francesca vedevano Antonio  come  un  “intruso”. Giovanni M. diventò così capofamiglia e in casa rimasero mamma Maddalena, vedova per la seconda volta, gli sposi con il figlio Michele ed il piccolo “intruso” Antonio. Solo la mamma lo copriva di affetto, ma essa stessa era stata messa da una parte dagli sposi e viveva quindi con questo grande dolore. Per la verità Antonio godeva anche dell’affetto del nipote Michele. Anche la madre Maddalena morì poco dopo, nel 1833, quando Antonio aveva 12 anni. Il piccolo Antonio frequentò a stento le scuole elementari essendo sempre molto occupato con mansioni d’ufficio e pratiche nell’impresa del fratellastro. Riuscì però a frequentare un corso tecnico e di disegno e fu la sua occasione. Il professore di disegno Bongiovanni ed il professore di matematica Magrini, vedendo la sua buona volontà e sapendo del poco tempo a disposizione per gli studi, lo vollero spesso a casa loro per migliorare la sua preparazione e per avviarlo agli studi superiori con notevoli progressi. A vent’anni, nel 1841, per le continue amarezze e umiliazioni che subiva da parte del fratellastro, decise di andarsene con duemila lire ricavate dalla vendita di una casa in Contrà Busa S.Michele lasciatale dalla madre. Così, libero e padrone di se stesso, si fece capomastro avendo di tale professione molta pratica e col suo lavoro occupò un discreto numero di operai. Nello stesso anno, sposò Veronica Zanetti, sua amata e felice sposa, andando ad abitare in Contrà S.Biagio. Il lavoro non mancava: vari ingegneri e capomastri ricorrevano a lui per disegni, dettagli e sagome. La famiglia con gli anni divenne numerosa: 
la prima, Maddalena, in ricordo della madre; poi Giovanni, Eugenio, Adele, Clorinda, Cesare e due che purtroppo morirono appena nati. Col passare del tempo si dedicò sempre più alla progettazione e all’arte dell’architettura fino a dedicarsi esclusivamente ad essa. Le commissioni, consistenti in gran parte in riduzioni e riforme, non mancavano al giovane architetto che si fece stimare per saper ben concatenare progetto e realizzazione dell’opera, ottimizzando lavori e quindi spese. Spesso era assente da casa per lavori che dirigeva un po’ dovunque da Padova a Vicenza a Treviso. Le famiglie Salvi, Nievo, Fogazzaro, Cabianca furono quelle per le quali prestò i suoi primi servizi. Nel 1846, dopo aver diretto il restauro della scena del Teatro Olimpico viene 
nominato Accademico. E’ iniziata in pratica l’ascesa della sua carriera che, ha avuto un’indiscusso spessore culturale ed artistico. Di questo aspetto già vari ricercatori ne hanno parlato mettendone a fuoco ora un aspetto ora un altro: i concorsi per opere di interesse nazionale, la progettazione di giardini, lo studio del restauro architettonico, ed altri ancora. Leggendo e rileggendo suoi documenti o gli elaborati dei vari ricercatori ho sempre avuto la sensazione di trovare tra le righe un pensiero costante: la Patria. Non dimentichiamo che erano gli anni della presenza dell’Austria nel Veneto e che era palpabile l’insofferenza, specialmente della borghesia, verso questo dominatore. Patria  come  identità  culturale,  come fonte di pensieri e di tradizioni che ci rappresentano e delle quali dobbiamo essere fieri e gelosi. La prof.ssa Ricatti, nel suo libro “Antonio Caregaro Negrin – un architetto vicentino tra eclettismo e liberty” dice: ”L’artista vicentino si pone paladino dell’arte italiana, dalla quale vuole escludere ogni soggezione dalle altre nazioni europee. In particolare, nel caso del Duomo di Milano (..) il Caregaro Negrin afferma che per progettare la nuova facciata in conformità con lo stili del meraviglioso monumento, conviene studiare nel Duomo stesso, senza ricorrere agli esemplari gotici d’oltralpe”. Questo suo modo di essere non è “di comodo” come verso la fine della sua carriera qualcuno ipotizzò, anzi era più difficile creare uno stile italiano indipendente dagli altri stili; questa ricerca e la sua curiosità lo portò all’ecclettismo che lo contraddistingue. Nel 1846, a 27 anni, accademico, artista richiesto, famiglia felice con prole, poteva 
guardare all’avvenire con una certa tranquillità. Ma nel 1948 prese una pausa dalla sua attività di artista e si dedicò totalmente alla causa della Patria, nella lotta per la liberazione dagli austriaci, come del resto molti suoi concittadini. L’arma a lui più congeniale era la conoscenza delle tecniche edilizie, e si propose infatti per la progettazione delle barricate di Vicenza, alla diretta dipendenza del comitato della difesa e del col. Belluzzi. Le tristi vicende degli assalti a Vicenza, nel Maggio del 1848 e la capitolazione il 10 giugno dello stesso anno, sono sicuramente fatti noti a tutti. Nei tre mesi della difesa si lavorò indefessamente nei borghi e sui colli, notte e giorno. “Riposavo qualche ora” – dice l’architetto – su di una tavola o sull’erba, ove m’imbattevo, mai a letto”. Per suo ordine, le carte più compromettenti furono trasportate dal Palazzo Vescovile, ove aveva sede l’ufficio per i lavori della difesa, nei locali adibiti a studio del Palazzo Negri a Santo Stefano, e nella notte stessa bruciati nel piccolo camino. All’alba del successivo 11 Giugno le truppe, agli ordini del gen. Durando, uscirono dalla città e con esse naturalmente partirono, con gli onori militari, tutti coloro che avevano avuto tanta parte nell’eroica resistenza, riconosciuta dagli stessi austriaci. Fra questi anche il nostro architetto: “Non dirò dello strazio dell’anima mia e di mia moglie alla mia partenza. La marcia a piedi fino a Rovigo fu disastrosa, perché gli austriaci avevano devastato tutto ciò che potesse lenire ai vinti le pene del lungo viaggio. Molta strada la feci montato sopra un predellino della carrozza della famiglia Nievo, nella quale eravi l’illustre Massimo D’Azeglio ferito gravemente ad una gamba nel combattimento a Monte Berico. Gli tenevo sopra la ferita una vescica d’acqua fredda. Ero anch’io leggermente ferito al polpaccio della gamba sinistra da una scheggia di granata scoppiata a Porta Padova. A Rovigo molti seguirono le truppe, alcuni invece si portarono a Chioggia e quindi a Venezia. Io mi unii a questi.” A Venezia l’architetto fu messo subito in contatto, tramite il conte Salvi, con lo stesso col. Belluzzi già conosciuto a Vicenza e fu aggregato, dopo un rigoroso esame, al corpo d’ingegneri militari addetti alle opere di fortificazione. Rimase a Marghera quattro mesi; poi dal Governo ebbe l’incarico di ricostruire le batterie sui canali di Campalto, Tessera e Mazzorbo per formare la seconda linea. Durante il giorno seguiva i lavori nei vari cantieri, spostandosi con una barca, e alla sera si recava alle lezioni di “Fortificazione stabile e campale” e di “Tattica militare”. Il 13 novembre 1848 ottenne il brevetto di sottotenente del corpo Zappatori del Genio. Il 5 maggio del 1849 gli vengono affidati i lavori per il forte di Marghera e viene nominato direttore dei lavori del circondario di Brondolo, Calino, Cà Maccari. A Chioggia attiva il ponte volante di barche sul Brenta. Molte altre opere militari portano il suo sudore, e sarebbe interessante approfondire l’argomento.

Antonio Caregaro Negrin
Villa Fogazzaro Cobalchini a Momtegalda – ampliamento e ristrutturazione di Antonio Caregaro Negrin

I suoi meriti furono comunque riconosciuti dal generale del forte di Marghera che così di lui scrive al gen. Antonini: “Pochi sono stati attivi come questo individuo nelle fortificazioni di Venezia. Voi più di ogni altro conoscete come merita quell’uomo che si dedica al servizio, abbandonando famiglia ed averi.” Seguirono giorni difficili. Oltre ai continui bombardamenti degli austriaci, anche la malaria e il colera mieteva vittima tra i difensori. Anche l’architetto ne fu colpito; ma il suo più grande dolore fu perdere Maddalena, sua figlia prediletta. Il dolore lo rese ancora più debole e, nonostante la vicinanza della moglie che coraggiosamente lo aveva raggiunto, si temette per la sua vita. Dopo la capitolazione di Venezia, 22 agosto 1849, 
si portò a Padova dove lasciò proseguire i suoi cari per Vicenza, via Bassano, e si recò alla Longa in casa del poeta Jacopo Cabianca che lo accolse per potersi curare nel corpo e nell’animo. Dopo un paio di mesi tornò in famiglia, col pensiero di riprendere la sua carriera d’artista. Il suo desiderio, quando cadde Venezia, era quello di emigrare, come alcuni suoi contemporanei (Giovanni Sottovia) ma ne fu distolto dal col. Belluzzo, ormai suo caro amico, il quale lo convinse che in patria era sicuramente più utile. Fece parte del comitato segreto con l’ing. F. Molon, il Tecchio ed il Cavalletto. Venne la pace di Villafranca e finalmente nel 1866 il Veneto fu liberato. In tale data, in occasione della venuta a Vicenza di Vittorio Emanuele II° ebbe dal Re la nomina a Cavaliere Mauriziano. Presidente per molti anni dell’Associazione dei Veterani, fu dal Governo nominato Commendatore della Corona d’Italia. La sua esperienza patriottica sembra finita; lo slancio di generosità gli è comunque costato sia in salute che finanziariamente avendo trascurato il suo lavoro per quasi due anni. In realtà l’esperienza continua, perché la parte attiva è stato solo una bolla che è venuta a galla, parte integrante di un pensiero in lui sempre presente. La sua concezione dell’Arte viene ora più che mai intesa come espressione più alta del sentimento patriottico nazionale. Scrive la prof.ssa Ricatti:” In tal dimensione va vista la sua tenace difesa della tesi dell’origine tutta italiana del giardino paesista, e si spiega la sua adesione alla corrente medievalista, con preferenza per l’architettura romanica, e, infine, il simbolismo espresso dai progetti dei monumenti al Cavour e a Dante Alighieri”. In tutte le sue opere c’è sempre la ricerca dei valori della “nostra” cultura e la conservazione di quanto fatto dai nostri predecessori. Come membro della Commissione all’Ornato di Vicenza lottò sino all’ultimo contro opere di restauro che nulla avevano a che vedere con l’opera da restaurare, anzi ne segnavano tristemente la fine. Per Caregaro Negrin il restauro era innanzitutto motivo di profondo studio dell’originale per capirne le tecniche d’esecuzione, i simbolismi ed i messaggi che l’artista di allora voleva comunicare. Lavorò con entusiasmo per tutto ciò, convinto non solo che “Per ben progettare il futuro bisogna ben conoscere il passato” ma anche della necessità di operare in modo discreto, senza far apparire la personalità del restauratore. Il pensiero “Non videtur manus” rappresenta questo concetto.

Ecco alcuni passi della relazioni del 1894 relativa alla facciata con arcone fra la torre del Tormento e la Basilica Vicentina: ” …. In base al mio progetto, furono eseguiti i lavori sulla via Catena e venne restaurata la facciata dell’arcone senza che fosse mai interrogato l’autore del progetto stesso. Fu invece applicata una tinta neutra, stonata con le parti sottoposte. Vi aggiunsero anche un fregio che si volle esistesse e che né dalla litografia disegnata da Marco Moro né dalla fotografia apparisce. Il pittore decoratore Zampese ha seguito allo scrupolo le prescrizioni di due distinti pittori membri della Commissione dell’Ornato e a lavoro compiuto, visitato il lavoro da vicino e da lontano, lo approvarono. In seguito a ciò è da stupirsi come ora i due membri della commissione sconfessino tale fatto, dopo che 
lo avevano approvato, anzi si può dire che il lavoro era opera loro” …e prosegue più avanti: ”Ma l’onorevole civica Commissione all’Ornato è troppo nemica delle costruzioni a laterizio visto, fino a dire che tali costruzioni sono solo per cortile da frutti o per un rurale, cosicché si dovesse mettere a paragone dei rurali i grandiosi templi, i castelli ed altri ragguardevoli monumenti in laterizio dell’epoca aurea dei Comacini o dei Lombardi, o noi a Vicenza si dovesse detestare le nostre chiese di S. Corona o di S. Lorenzo”. E’ solo un esempio con quale impeto cercava, di contrastare lavori di restauro che di conservativo avevano ben poco. Purtroppo molte volte la politica è più forte dell’arte e nel 1889, per manovre dei suoi nemici uscì dalla Commissione all’Ornato. Viaggiò molto sia in Italia che all’estero; Milano, Torino, Firenze, Bologna, Roma, Napoli, Palermo. Nel 1862 visitò Parigi, Londra, Berlino, Vienna, Budapest sempre più allargando le sue cognizioni e facendo utili raffronto, non tanto per portare in Italia “Scuole” di altri paesi, ma per la sua sete di arte e di cultura. Ben lo comprese il sen. Alessandro Rossi che a lui affidò l’arricchimento architettonico di Schio e dei  paesi vicini. Ma la sua anima restava a Vicenza, dove comunque eseguì opere apparentemente modeste per chi avrebbe desiderato abbellire la propria città natale che non corrispose il suo amore. Egli vagheggiò di adornarla con splendidi edifici, di cui studiò ed eseguì anche i progetti, pur sapendo che non sarebbero diventati realtà e che nessun frutto avrebbe ricavato da essi; ideava di liberare la Basilica dal suo ingombro di botteghe, di costruire il mercato coperto, di riunire le scuole facendo una città degli studi con relativa palestra, di decorare il Teatro Olimpico di una facciata classica, di trasformare in giardino archeologico la piazza del museo con gli avanzi del teatro Berga; sognava il bagno pubblico a Santa Croce, l’ampliamento del cimitero con una zona riservata al clero; progettava di completare con due archi la Loggia del Capitanio e dare alla Piazza dei Signori uno sfondo degno del Palladio, creando a sera una costruzione con colonne, archi e terrazze, di aprire il giardino Salvi al pubblico con una cancellata in armonia con il portone d’ingresso, di fare la pescheria a San Biagio vicino al fiume, riprogettò Campio Marzio immaginandolo 
parco per accogliere il visitatore e luogo di rappresentazioni pubbliche, togliendo il via vai di mucche che andavano ad abbeverarsi nella roggia ecc. ecc.

Molti dei suoi progetti poi divennero realtà anni dopo la sua morte lasciando forse ancor più amarezza in bocca ma almeno la soddisfazione postuma dei profeti. Gli ultimi anni della sua vita hanno qualcosa in comune con la sua fanciullezza. Rammaricato per non aver potuto fare tutto quello che aveva ideato di fare, rattristato nel vedere che la lotta per il potere era più forte della ragione dell’arte, finì i suoi giorni amareggiato, con il solo conforto di essere stato un buon marito, un padre e un patriota. Riporto una sua lettera del 28 Luglio 1885 (Biblioteca Bertoliana di Vicenza) al Comm. Jacopo Zanella, allora presidente dell’Accademia Olimpica di Vicenza:” A suo tempo feci rientrare la mia intenzione di dimettermi da presidente della Sezioni Arti, trattenuto da quell’affetto che mi lega ad una carica, alla quale sacrificai tanta e tanta parte di vita, e più che tutto la speranza che la nostra Scuola Popolare di Disegno venisse regolata nel modo desiderato e raccomandato dallo stesso Illustre Marchese 
Selvatico fino al 1876. M’ingannai. Si volle rendermi più spinosa la via. L’appoggio che mi aspettavo da chi era dovere di darmi mi venne a mancare! Lotte personali, cavillose asserzioni da un lato, persecuzioni dall’altro. Oltretutto questo: la mia dignità ingiustamente offesa, stanchezza di lavoro e gli anni molti. Non mi sento perciò la forza di lottare. Vi rinuncio con animo tranquillo di chi sa di aver sempre costantemente lavorato con onesti intendimenti. Vi rinuncio nella speranza che chi mi succederà raggiunga veramente quello che la città e l’operaio domandano: il vero miglioramento della nostra scuola informato a sana istruzione, al giusto progresso dei tempi. Viene detto e con ragione, che il tempo è galantuomo. Si vedrà se le mie proposte fossero o no accettabili.” Certamente l’Architetto amò Vicenza ma altrettanto certamente si trattava di amore non condiviso. Dopo la lettera sopra riportata del 1885 altri fatti successero, altre delusioni e altri “affanni e calunnie” dalla sua città, come lui stesso scrive, lo accompagnarono negli ultimi giorni della sua vita. Morì il 28 dicembre del 1898. Molto altro si potrebbe dire e molto ancora si può scrivere.

Di Antonio Caregaro Negrin (discendente del celebre architetto vicentino) da Storie Vicentine n. 3 Luglio-Agosto 2021


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Le donne partigiane: testimonianze raccolte sui supplizi subiti dalle resistenti vicentine

Le donne partigiane combatterono la guerriglia armata, giustiziarono spie, guidarono gruppi di uomini all’assalto, vissero i mesi della montagna, torturate dai fascisti non parlarono. Le testimonianze raccolte sui supplizi subiti dalle resistenti vicentine. Nel dopoguerra taciuti come una vergogna, per decenni.

donne partigiane vicenza vicentine
Luisa Urbani, Juna, con un’altra partigiana nel Bosco Nero di Asiago

In una società con molte ferite, tra qualche giorno ricorrerà il 76° anniversario della Liberazione dal nazifascismo, ancora senza le cerimonie ufficiali. Io ho pensato di ricordare comunque una parte di quella Resistenza, le donne, le partigiane che hanno lottato e sofferto per la nostra libertà e i nostri diritti. Voglio inserire un piccolo ricordo su alcune di loro. Vorrei iniziare con “Maternage di massa” – Anna Bravo. Con l’armistizio dell’8 settembre 1943, alcune centinaia di migliaia di soldati italiani furono nascosti dalle donne sotto abiti civili, spesso quelli appartenenti ai propri congiunti militari: «Per di qua alpini! Per di là!» scrive Gigi Meneghello «il popolo italiano difendeva il suo esercito, visto che s’era dimenticato di difendersi da sé: non volevano saperne che glielo portassero via. Alla stazione di Vicenza fummo afferrati e passati praticamente di mano mano finché fummo al sicuro. Le donne pareva che volessero coprirci con le sottane: qualcuna più o meno provò».

In stazione a Vicenza c’era una folla di gente che cercava di aiutare i soldati italiani presi prigionieri dai tedeschi tentando di passare per quanto possibile cibarie e acqua, ma soprattutto raccogliendo i bigliettini, che venivano gettati fuori dalle finestrelle, sui quali i militari avevano scritto il nome della famiglia e l’indirizzo. Accadeva alla stazione principale, ma anche ai passaggi a livello dove il treno era costretto a fermarsi. In questo clima di solidarietà due giovani donne, Novelia Turato e Nerina Sasso persero la vita, l’11 e il 13 settembre, per un gesto di altruismo. «La mamma sentiva gridare fino a casa i ragazzi rinchiusi dentro i carri bestiame e chi li sentiva non poteva restare indifferente», racconta la figlia di Novelia, Regina Gaiola. «Guarda» disse Nerina alla sorella «c’è un treno pieno di soldati! Dai andiamo a dire loro che devono scappare altrimenti i tedeschi prendono e li portano in Germania e magari loro pensano di essere finalmente a casa». Nerina non sapeva che erano già stati catturati e che il treno aveva la scorta armata pronta a sparare su donne indifese. Invece Novelia sapeva che era pericoloso: «Lo zio diceva a mia madre di non andare perché c’erano i tedeschi che ammazzavano la gente, ma lei aveva un cuore grande ed era cocciuta». Di età diversa, entrambe avevano subito dei gravi lutti familiari che probabilmente le avevano portate ad una maggiore sensibilità verso la sofferenza altrui: a vent’anni Nerina era già orfana di entrambi i genitori, invece Novelia nel 1938 a causa di un pirata della strada che le aveva ucciso il marito, era rimasta vedova a 29 anni con due figli molto piccoli. Nerina e Novelia percepiscono tutta la tragicità di quel momento. Il giorno precedente la sua morte Nerina era andata più volte nella vicina caserma con la fedele Marcella, la domestica che aiutava in trattoria, a portare acqua, pane, uva ai soldati italiani catturati dai tedeschi: faceva molto caldo e avevano fame e sete. Novelia, operaia del lanificio Rossi che non si interessava di politica, aveva un animo grande, sempre pronta a dare una mano, e con altre ragazze aveva aiutato alcuni militari a scappare, «prendendoli a braccetto» e se li era portati a casa dove li aveva fatti cambiare d’abito, sostituendo la loro divisa con i vestiti del fratello. Novelia e Nerina non sono donne innamorate di principi astratti, ma guidate dai valori morali e ritenevano che restare umane fosse più importante che restare vive. La scelta dei valori morali non implica necessariamente che si debba sottovalutare la vita, dato che sopravvivere resta uno scopo perfettamente rispettabile, ma non a qualunque costo. Entrambe furono uccise, una in zona Ferrovieri, l’altra vicino alla chiesa di S. Maria Regina della Pace, nel tentativo di proteggere i nostri soldati, uccise dai tedeschi con le pallottole esplosive, vietate dagli accordi internazionali per gli effetti devastanti sugli esseri umani.

Le donne del battaglione Amelia. Nel Vicentino, all’indomani della Liberazione, partigiane, staffette e patriote della brigata garibaldina Stella furono inquadrate nel battaglione Amelia dal nome di battaglia di Cornelia Lovato, caduta il 28 aprile 1945.

donne partigiane
Il battaglione Amelia sfila coraggiosamente allo stadio di Valdagno nei giorni di Maggio del 1945

Flora Cocco “Lea” e Wilma Marchi “Nadia” furono nominate rispettivamente comandante e commissario politico. Se la nomina fu sulla carta e a posteriori, essa rispecchiava comunque una realtà di fatto. Un consistente numero di donne aveva aderito alla resistenza in tutta la valle dell’Agno. Erano divise in gruppi e ogni garibaldina aveva il proprio compito da svolgere. Alcune confezionavano calze, altre raccoglievano lana e indumenti vari, medicinali, viveri ecc. ecc.; altre facevano la spola dal paese alle più alte contrade di montagna con sacchi di pane; altre ancora facevano le staffette da un distaccamento all’altro. Il giornale Noi Donne era letto con entusiasmo e passato con cura di gruppo in gruppo e alle riunioni, che si tenevano ora nei boschi, ora nei fienili o nelle alte contrade, partecipavano oltre 40 ragazze. Flora Cocco aveva deciso di aderire alle formazioni partigiane dopo l’uccisione del fratello Gaetano (Leo) avvenuta durante il rastrellamento della Piana (9 settembre 1944).

A Ermenegildo Rigodanzo (Catone) commissario politico della brigata Stella, che conosceva fin dai tempi del liceo, scrisse il 23 settembre 1944: «Scrivo a te come a un fratello, perché tale ti voglio considerare dacché il cielo mi ha rapito il caro Leo… Ho già espresso il mio desiderio ed ora insisto perché mi sia data presto la gioia di lavorare con voi. Guarda che io sono decisa a tutto: non importa se mi chiederai qualcosa di gravoso o pericoloso, perché sarà allora che io lavorerò con più entusiasmo». Alla fine di novembre del 1944 venne arrestata dalla brigata nera di Valdagno. «Durante il mio arresto» denunciò alla fine della guerra «fui spesso percossa e torturata: mi facevano mettere le mani in una pressa, o torchio, ed il Visonà girava la manovella affinché con lo schiacciamento dovessi parlare. Vi era poi Cracco che mi tirava i capelli». Wilma Marchi (Nadia) venne arrestata in seguito alla delazione di Maria Boschetti, Katia, e torturata: «La Wilma l’hanno picchiata così tanto» ha raccontato Luigina in una intervista «che sulla sua pelle non c’era neanche un ago bianco, erano in due. Le hanno tirato su il vestito fin sopra la testa e uno per parte armati di bastone l’hanno picchiata. Eravamo in cella insieme e l’ho vista tornare dopo le botte. […] anche con la Wilma, la bastonavano fino a quasi a farla crepare dal dolore, ma non la ammazzavano. Lei diceva: “Ammazzatemi (Copème) almeno per piacere, che sia finita!”. “No, prima di farti morire vogliamo che tu parli”. E allora la smettevano, ti buttavano una secchia di acqua addosso per farti rinvenire. Se penso a quello che hanno fatto alla Wilma mi viene da piangere ancora adesso perché la bontà di quella ragazza era infinita». Trasferita in diverse carceri, Wilma riuscì ad evadere dal campo di concentramento di Peschiera, poco prima della Liberazione.

Le donne in montagna. Fra le donne che avevano aderito alla Resistenza un certo numero viveva presso i comandi di brigata. Emilia Bertinato, staffetta della brigata Stella, mi ha raccontato nell’intervista che: “C’erano tre o quattro donne partigiane fisse, la sorella di Giglio, Anita, per me una grande amica, aveva il mitra in spalla, [ma poi c’erano] la Serena, la Maria, l’Agata, fisse là. Anche la Liliana stava fissa. Dormivano sulla tezza, là c’era il fieno. Portavano i pantaloni e il giubbetto rosso fatto dalle sarte, chissà a loro cosa sembrava, di andare chissà dove. Ce n’erano tante, non solo loro, molte da Montecchio”.

Qualcuna di loro era innamorata ed era salita in montagna per vivere la sua stagione d’amore, ma Emilia ci tiene a sottolineare che erano poche, per lo più: “C’era l’ambizione, il coraggio di un’idea …”. Certo, la promiscuità dei sessi comportava alcuni problemi per i responsabili dei distaccamenti. E infatti si legge nell’ordine del giorno di Iura, comandante della brigata Stella, datato 23 agosto 1944, che «Si è convenuto per eliminare certi scontenti verificatisi tra i vari distaccamenti, che, da oggi, tutte le garibaldine dovranno restare riunite in sede separata e svolgere quei compiti che verranno loro affidati. Oltre al lavare, cucinare e servizio di staffetta, all’arrivo del medico diverranno anche crocerossine. Con l’affluire dell’elemento donna si faranno delle vere e proprie pattuglie. Esse dovranno montare la guardia diurna, mentre verrà ad esse concessa un’ora al giorno di piena libertà, affinché possano recar visita all’uno o all’altro distaccamento. Non sarà permesso alcun contatto tra garibaldini e garibaldine durante le ore di servizio. Ai trasgressori verrà applicata quella punizione che si meritano». Alcune delle donne partigiane presenti nei distaccamenti possedevano un’arma e la usavano. “La Tamara …” mi dice Emilia “se c’era un partigiano bravo, quello era proprio lei”. Una delle più combattive è comunque Luigina Camerra, “Anita”, sorella di quattro fratelli partigiani. “Mia sorella” ha detto nell’intervista il fratello Giglio “era come un uomo con il suo mitra per traverso. Mia sorella sparava e ne ha anche colpiti. Ha partecipato anche lei armata al disarmo della Marina”. Durante il rastrellamento della Piana, il 9 settembre 1944 fu catturata dal battaglione russo di Marano, assieme a Ombretta (Maddalena Faccin), altra partigiana fissa al distaccamento. Furono portate in carcere a Thiene e sottoposte a diversi interrogatori, poi trasferite a San Biagio. Furono liberate verso i primi di novembre 1944 e dovettero nascondersi fino alla Liberazione, tagliandosi e tingendosi i capelli di colore diverso. Nei documenti ritroviamo Anita il 28 aprile 1945 a Tezze di Arzignano, quando con il fratello Inferno va armata a “rinforzare le file” del btg. Brill. Ombretta, invece, prese parte con i partigiani all’occupazione di Valdagno.

Le donne nelle Brigate. Anche se non organizzate e strutturate come nella brigata Stella, le donne sono presenti presso tutte le brigate partigiane, spesso per la semplice necessità di doversi eclissare essendo state individuate dalle polizie nazifasciste. Liliana Colombara, la staffetta Meri, operaia del lanificio Conte di Schio si nascose nel bosco, con la pattuglia di Ivan del distaccamento Barbieri. Nell’intervista ricorda che dormiva dove capitava: «a Monte di Magrè ai Casarotti, in qualche casa, nel buso, nel fieno. Portavo ordini e messaggi. Andavo al Xomo, a Monte di Malo. Andavo giù in valle, uno dei partigiani faceva la guardia e io su due sassi mettevo su un gran pentolone per la minestra. Quando veniva prelevata una bestia, siccome non c’era il frigorifero, la si tagliava in quarti e lo si dava anche agli altri distaccamenti». Filomena Dalla Palma, Gina, invece si rifugiò sul Grappa. Lei era un’operaia alla pressa alla Lancia di Cismon del Grappa e, inizialmente, con il permesso del direttore dello stabilimento portava, in un punto stabilito, ad una persona in contatto con i gruppi partigiani della montagna, una busta piena di buoni per prelevare generi alimentari.

La sua famiglia non era impegnata politicamente, ma il contatto con l’ambiente della fabbrica portò Gina a scegliere di mettere la sua vita in pericolo, per combattere per la libertà.

Avvisata da una cara amica che il suo lavoro era stato individuato, con tanto coraggio, ma grande disperazione della mamma, a piedi, con alcune amiche, tutte sorelle o mogli dei partigiani in montagna, raggiunse i garibaldini della brigata Montegrappa,sul massiccio del Grappa. Gina era armata di una vecchia pistola a tamburo a 5 colpi, portava il fazzoletto rosso e la coccarda tricolore sul petto che lei stessa aveva confezionato anche per tutti i compagni. Indossava i pantaloni perché, scrive nel suo diario, si corre meglio «e non ti impicci negli alberi».

Sul Grappa c’erano diverse partigiane, come ad esempio Idalma Rech, Mirka, garibaldina aggregata alla Gramsci, arrestata nel luglio del 1944 e deportata nel lager di Bolzano. Di alcune però non c’è sicurezza del nome, come le tre ragazze da Seren del Grappa, di cui parla Gina nel suo diario, che assieme ad altre lavoravano al Forcelleto in una sorta di sartoria messa in piedi per poter cucire capi di vestiario per gli uomini. Durante l’assalto nazifascista del Grappa, con il “Si salvi chi può” lanciato dal comando partigiano il 21 settembre, Gina riuscì a fuggire dalla montagna in fiamme insieme a Gianna Costa, Katia. Anche Be- atrice Giacconi, staffetta della brigata Matteotti, riuscì a scappare dai rastrellatori mentre il marito, il carabiniere Domenico Giacca veniva ucciso in com- battimento, ma l’attendeva un destino tragico e cru- dele nell’ottobre successivo per mano nazista. Gianna Ferrarese lavorava presso il comando della brigata Italia Libera Campo Croce, e se il partigiano Dante Perato la ricorda impegnata, agli inizi, in cucina, alla macchina da cucire e al lavatoio, secondo il fratello Nico invece: «La Gianna sì, quella era una partigiana con tanto di mitra, non era solo la cuoca dei partigiani, come dicono alcune memorie, non era solo una staffetta. […] E non l’hanno mai presa, era la «primula rossa». Lei sparava, lei colpiva, mi ricordo, le coppe di ceramica che tenevano i fili della luce. Colpi- va senza problemi, con estrema precisione. […] Lei era l’obiettivo. Ma non l’hanno mai presa. Il fatto che fosse una donna era un motivo in più di risentimento e di rabbia, anche per la mentalità di allora […] il maschilismo era parte integrante del modo di pensare dei fascisti. La donna doveva essere come mia madre che sveniva e cadeva a terra. Ma mia sorella Gianna si è sempre ribellata a questo stato di cose». Durante l’attacco del Grappa, Gianna venne vista da un partigiano allontanarsi dagli scontri armati e superare lo sbarramento posto ai piedi del massiccio dai brigatisti, mentre accompagnava Valentino Filato, ferito e zoppicante, in cerca di un rifugio. Le partigiane e l’uso della violenza. Per le donne che avevano compiuto una scelta di campo si presentò il secolare dilemma fra la rivendicazione dell’eguaglianza con l’uomo e l’affermazione della diversità, che sembrò doversi riassumere, nell’emergenza della lotta armata, nella scelta fra usare e non usare le armi. Lo sparare sui nemici era visto talvolta come una sfida vinta anche nei confronti dei propri compagni, ma spesso si trattava di una decisione consapevole. Luisa Urbani, nome di battaglia Juna, scesa dall’altopiano di Asiago, nell’ottobre del 1944, entrò nel distaccamento Mameli che aveva posto le basi nella zona di Zanè, Grumolo Pedemonte e Fara Vicentina. Fin dall’inizio ebbe l’incarico di vice commissario e come tale divenne la responsabile dell’ufficio stampa, pertanto divulgava «manifesti in tutta la zona della brigata per incitare la popolazione contro i na- zifascisti e sostenere i partigiani», ma senza rinunciare alle azioni armate. Definita «intrepida garibaldina», nel marzo del 1945 catturò «due tedeschi armati che percorrevano la strada in motocicletta» e la notte del 25 aprile 1945, al comando di una squadra di partigiani liberò Caltrano prendendo possesso del magazzino della Todt ed eliminando la resistenza repubblichina. Vi erano per contro donne che si rifiutavano di sparare e di uccidere per propria e convinta scelta. Curavano i feriti, portavano ai combattenti armi, plastico e munizioni, ma non sparavano mai. Queste donne erano probabilmente convinte del valore assoluto della vita, ma si rifiutavano di sopprimere di propria mano quella altrui. Esse, che pure avevano compiuto una netta scelta di campo, alle ragioni della lotta politica e armata non hanno sacrificato quelle della pietà. «Non sono mai stata capace neppure di tirare il collo ad un gallina» mi ha detto nella sua intervista Luigina Castagna, partigiana Dolores del btg. Romeo «se la mia famiglia avesse dovuto aspettare me sarebbe morta di fame». La sua era una scelta interiore del rifiuto di qualsiasi tipo di violenza. Mi raccontò che un giorno i partigiani le dissero: «“Questa pistola te la regaliamo per ricordo”. Io invece dopo l’ho regalata a un partigiano che era senza armi, non ho mai pensato di tenerla per difendermi perché odio le armi. Non ho mai sparato un colpo in vita mia. A Campo Davanti i partigiani volevano insegnarmi a sparare ora che avevo anch’io la mia pistola, ma io fui decisa nonostante le loro insistenze. No, le armi mai, sparare mai. Penso che per un uomo fosse più semplice essendo stato abituato già sotto le armi, infatti penso che adesso sia più semplice per una donna prendere in mano una pistola, troviamo le donne poliziotto, soldato…forse hanno più dimestichezza di una volta». 

Le partigiane nei bunker. Le donne che svolgevano il loro lavoro nella Resistenza stando a casa, ovvero coloro che svolgevano il duplice o triplice ruolo di par- tigiana e di mamma/figlia/sorella e operaia/ contadina/impiegata/studentessa, nel momento in cui venivano scoperte, per sfuggire alla cattura, dovevano salire in montagna in brigata.

Come gli uomini, durante il lungo e gelido inverno del 1944-45, rimasero nascoste in rifugi chiamati bunker: «tane scavate nella terra di dimensioni varie a seconda del numero dei componenti la pattuglia, potevano essere di sei metri quadrati, di otto o di dieci, la loro altezza non superava mai il metro e mezzo di altezza. Teresa Peghin, staffetta e portaordini della brigata Stella, una ragazza che non aveva paura perché troppo orgogliosa, [«Quando facevo la staffetta non avevo paura: ero orgogliosa di fare qualcosa di importante, di prestarmi, di fare»], fu costretta a rimanere nascosta in montagna nei bunker per cinque mesi, assieme ad altri partigiani: era ricercata per aver portato 18 milioni del tempo, in denaro e assegni, da Selva di Trissino al C.N.L. di Padova, denaro che era stato prelevato dal Ministero della Marina che aveva sede a Montecchio Maggiore in seguito ad un attacco partigiano. «Catone allora, visto che ormai ero “bruciata” mi ha spedito su a Recoaro e sono sempre stata là fino alla liberazione. Tutto l’inverno l’ho passato nascosta nei “busi”. Si dormiva vestiti con solo una coperta e quando c’era la neve al mattino dovevamo strizzare le coperte perché la neve ha cominciato a sciogliersi verso aprile». In contrada Branchi Wally rimase nascosta per un periodo con Antonio Povolo, “Ortiga”, in un “buso” ricavato all’interno di un deposito di fascine di legna, al quale si accedeva da un ovile adiacente, passando attraverso un’apertura posta sotto la greppia dove mangiavano capre, pecore ed agnelli. Ma per non essere individuata cambiò spesso rifugio insieme ai suoi compagni: si nascose in contrà Balestri in una tana scavata sottoterra nella quale si entrava scendendo una scaletta nascosta dentro un gabinetto fatto di canne, ma anche in un “buco” ricavato all’interno dei muri di sostegno tra una casa e l’altra. Il rischio di venire scoperti era molto alto a causa dei continui rastrellamenti operati da fascisti e tedeschi per cui a molte partigiane divenne difficile, se non impossibile nascondersi. Teresa divideva il bunker anche con il medico dei partigiani, il dott. Gianattilio Dalla Bona, che venne catturato a Recoaro proprio davanti all’entrata del “buso” il 23 febbraio 1945, mentre lei si era recata con un’altra partigiana Virginia Zuccate, a casa della mamma di “Ortiga”, ucciso tre giorni prima, per portarle parole di sostegno e di conforto. Un giorno un’amica della contrà le dice: “Vieni con me che devo lavare la biancheria, laggiù in valle!”. Teresa prende il suo lavoro a maglia e la segue. “Siamo lì lei che lava nel fosso e io che faccio la maglia. Faceva abbastanza freddo. Lì vicino c’era un sentiero … Ci accorgiamo che c’è una pattuglia di fascisti. Io mi sono resa conto che non avrei mai fatto a tempo a scappare … Allora sono stata ferma continuando a lavorare. Un fascista mi chiede i documenti. “Mi dispiace ma non ho documenti” ho risposto “sono tutti rovinati e non me li porto dietro” era l’unica scusa che mi veniva in mente in quel momento. Mi chiesero come mi chiamavo e io pronta: “Storti Maria” che era poi la sorella della mia amica. I fascisti continuavano a guardarmi e a parlottare fra di loro. Mi chiesero se andavo mai in paese a Recoaro. “Si, qualche volta” risposi “quando ne ho bisogno”. Mi chiesero se andavo a ballare. “Magari” risposi io “che mio padre mi lasciasse andare a ballare”. Alla fine se ne andarono salutandoci e dopo avermi detto: “Beh, se dovesse andare a Recoaro a ballare avrei piacere rivederla!”. Alla mia amica non chiesero niente, neppure i documenti, ma era cambiata di colore per lo spavento. Io invece ero tranquilla. Non so, ero così incosciente a quell’età…… Appena i fascisti si furono allontanati, la mia amica mi viene a dire che mio papà e mio fratello erano stati ammazzati dai fascisti. Per questo mi aveva chiesto di accompagnarla a lavare la biancheria, perché aveva il compito di comunicarmelo”.

In realtà il fratello Pietro, ferito gravemente, riuscì a salvarsi grazie all’aiuto di una famiglia che lo nascose, ma per diversi giorni tutti pensarono che fosse stato ucciso come il padre Ettore.

Le partigiane e la tortura. Scoperte dalla delazione di spie prezzolate, ma più spesso da ex compagni e compagne passati al nemico, molte partigiane vennero incarcerate, torturate, violentate. Nel febbraio 1945, circa 150 tra uomini e donne risultavano essere stati seviziati da uomini dell’UPI della Gnr e della banda del maggiore Carità, al punto che il procuratore della Rsi, Alfonso Borrelli avviò le indagini che portarono alla raccolta di numerose denunce da parte delle vittime, ognuna accompagnata dalla perizia medica eseguita dal dr. De Megni, parte delle quali giunsero sul tavolo dello stesso Mussolini. Gli interrogatori degli arrestati venivano condotti usando le peggiori torture: mani, scarponi, bastoni, nerbo di bue, nastro cinese, fiammiferi e sigari accesi, corrente elettrica, violenze e umiliazioni sessuali. Per le donne che venivano arrestate non c’era molta scelta: o parlare e tradire per sempre i propri compagni, o non parlare, e andare incontro ad un grande dolore fisico e morale. All’inizio la scelta di non parlare è scontata, per chi lotta credendo negli ideali, ma poiché la soglia del dolore è molto soggettiva, il corpo e la psiche umana hanno limiti molto diversi da una persona all’altra. Il risultato è che moltissimi parlano: «Qualcosa bisogna pur dire» dirà Maria Gallio, perché la smettano o diano un attimo di tregua al proprio corpo lacerato dalle ferite e dalle botte o sconvolto dalle scosse elettriche o dalle violenze sessuali. «Bisognerebbe provare gli interrogatori» sostiene Wally Pianegonda, «Dalle botte ero ormai impazzita. Al mattino quando sentivo la carceriera con le grosse chiavi che tintinnavano, contavo i passi con il cuore che mi saltava in gola, man mano che aumentavano. Contando i passi, sapevo se toccava a me o a un altro. Io diventavo matta, anche due volte al giorno mi portavano via. […] Uno degli ultimi interrogatori ci portarono tutte insieme nella stanza dove assistemmo all’interrogatorio della mamma: sempre le stesse domande. Cominciarono a picchiarla con violenza. Prima sui piedi le diedero 35 cinghiate: aveva pezzi di carne che si staccavano e più tardi rischiò la cancrena. Erano colpi forti perché il torturatore si era inginocchiato per picchiare più forte. Poi la denudarono e la misero sopra un tavolo e la picchiarono con la cinghia dappertutto, sulla schiena, sulle gambe. Le misero una calza di lana in bocca perché non parlasse: lei continuava a dirci di stare zitte, di non parlare. […] Dopo ci fecero uscire, sentimmo sparare un colpo: “Adesso abbiamo ucciso la vostra mamma, siete contente?”. Ci vennero a dire che nostra madre era morta. Invece per fortuna lo avevano fatto per spaventarci. Fu portata in una cella ancora più fredda, senza pagliericcio per terra e a pane e acqua. E pensare che la neve veniva dentro dalla finestra senza vetri. Appena riuscì ad avere un po’ di forze si fasciò i piedi piagati con la sottoveste». Per delazione di un amico d’infanzia, Victor Piazza, che si era infiltrato nella brigata partigiana, Wally Pianegonda venne arrestata e portata nel carcere di Rovereto insieme alle sorelle Adriana e Noemi, alla mamma Bariola Bon Maria e a due zii materni. Quello che gli aguzzini volevano sapere da mamma e sorelle era il luogo dove si nascondeva il loro figlio/fratello Walter. Alla fine, furono internate nel campo di concentramento di Bolzano. Le donne della valle dell’Agno furono in gran parte arrestate dalla brigata nera di Valdagno, tra novembre ’44 e gennaio ‘45, per la delazione della Katia, un personaggio assai controverso. Wilna racconta nel suo diario i giorni degli interrogatori passati da lei e dalle altre ragazze a palazzo Festari: «Quando entra Dolo- res è già buio…. Dalla stanza di tortura mi giungono acutissime le grida di Dolores. A quali torture l’avranno sottoposta perché gridi in quel modo? Si odono anche le risate dei brigatisti che provengono dalla stessa stanza. Io mi sento una fredda nube di sudore sul viso e tremo, inorridisco nell’udire la mia compagna sottoposta alle torture. Due ore e mezzo dura questo supplizio. Finalmente vedo aprirsi la porta ed uscire Dolores. Tomasi uscendo dice: “Per oggi basta, domani toccherà a te Nadia preparati …”. Mi avvicino a Dolores e con lei proseguo vedo la stanza ove le tre Benetti mi at- tendono, naturalmente circondate dalla ciurmaglia che tanto s’è divertita nel vederle sottoposte alla tortura della macchinetta». Ho chiesto a molte di loro dove trovassero la forza per affrontare quei momenti. Maria Gallio mi ha risposto: «Trenta giorni a San Michele … la forza me l’hanno data le mie compagne, il mio entusiasmo con cui vivevo i miei anni giovanili pieni di speranze e ideali, la voglia di uscire da un baratro, la speranza che un giorno la causa per la quale lottavamo io e i miei amici vincesse».

La Liberazione del Vicentino 28-30 aprile 1945. Finita la guerra, nel momento della discesa dalle montagne alle piazze e delle sfilate per le strade cittadine, le donne partigiane vengono messe in coda o non sfilano affatto o le circondano l’imbarazzo e l’ironia dell’Italia tradizionalista e bacchettona, che non sono esclusivamente di una parte politica:

“Io non ho potuto partecipare alla sfilata, però. I compagni non mi hanno lasciato andare. Nessuna partigiana garibaldina ha sfilato. Mi ricordo che strillavo: “Io vengo a ficcarmi in mezzo a voi, nel bello della manifestazione! Voglio vedere proprio se mi sbattete fuori”. “Tu non vieni, se no ti pigliamo a calci in culo! La gente non sa cos’hai fatto in mezzo a noi, e noi dobbiamo qualificarci con estrema serietà”. Così alla sfilata ero fuori, in mezzo alla gente, ad applaudire. Ho visto passare il mio comandante, poi ho visto il comandante Mauri con i suoi distaccamenti autonomi e le donne che avevano combattuto. Loro sì, che c’erano. Mamma mia, per fortuna non ero andata anch’io! La gente diceva che erano delle puttane”. Il racconto è di Trottolina, e si riferisce al 1° maggio di Torino. Ma non mancano testimonianze simili dalle città emiliane: si verificò già all’indomani del conflitto una pronta espulsione, sia materiale che mentale, delle donne dal movimento della Resistenza. “Dirò che finita la guerra noi donne siamo state tanto offese” ha sostenuto Alberta Cavaggion “Io sono stata fortunata che ho trovato un marito meraviglioso, con il quale non ci sono stati problemi. Ma io dovevo essere l’amante di questo, l’amante di quello […] per me era un’offesa da chiarire”. Le partigiane da attrici, anzi artefici della liberazione, diventano spettatrici, tra il pubblico che applaude, scruta e mugugna, dei liberatori che si esibiscono festanti sulle strade. Dalla visibilità del conflitto le donne tornano a scomparire tra l’anonimato della folla. Eppure, diversamente da tante altre città, a dispetto della morale bigotta, in quei giorni a Valdagno il battaglione Amelia sfilò, in divisa insieme a tutti gli altri reparti partigiani combattenti, al campo sportivo, in occasione dei festeggiamenti e le donne di Recoaro, sedute su un carro agricolo per il fieno, erano arrivate tutte insieme a Valdagno. Da piccole fotografie, relegate nelle vecchie scatole in fondo agli armadi, sono emerse le istantanee di giovani uomini e donne, l’uno a fianco all’altra, spesso entrambi in divisa e armati. Pezzi di vita custoditi gelosamente nei quali le ragazze partigiane sono sorridenti e a testa alta esprimono tutto il loro orgoglio della scelta di aver partecipato alla Resistenza. Il sorriso di alcune è però offuscato dalla tristezza e dal dolore che custodivano nel loro cuore. “Adesso abbiamo raccontato la nostra storia” mi hanno detto Wally e Adriana Pianegonda, al termine dell’intervista, in un unico racconto a due voci “ma è difficile comunicare quello che noi abbiamo sofferto …entrare nel campo di concentramento di Bolzano ha significato la liberazione, la liberazione da un incubo …eppure mi sentivo sola, completamente sola e costretta a diventare adulta tutto in un momento … avrei voluto essere io l’artefice della mia vita …invece mi sono trovata in balia di esseri mostruosi. Eppure…se dovessi tornare indietro la mia esperienza non la venderei a nessuno…avevo un ideale che mi sosteneva…

ho pagato a caro prezzo la fede in un ideale giovanile, ma alla fine mi sono sentita ricca dentro …la libertà che abbiamo conquistato per noi, per le generazioni che sarebbero venute ci ha ripagato di tutta la nostra sofferenza”. 

Di Sonia Residori da Storie Vicentine n. 2 Aprile maggio 2021


In uscita il prossimo numero di Marzo 2023
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Foza, un piccolo paradiso montano fra abeti rossi, croci di vetta e panorami affascinanti

Dopo il Comune di Rotzo, Foza è il secondo Comune più piccolo dell’Altopiano di Asiago. Come altitudine, essendo a 1.083 m.s.l.m., è il secondo più alto del Vicentino dopo Gallio (1.093 m.s.l.m.). Il paese di chiamava Vüüsche, in lingua cimbra. Come gli altri paese dell’Altopiano di Asiago è un piccolo paradiso montano immerso nella storia e nella natura con boschi di abete rosso e panorami affascinanti.

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Gli abeti dell’altopiano. Foto: pag, facebook Altopiano di Asiago e dei 7 Comuni

Le vette

Situato nel versante nord-ovest dell’Altopiano di Asiago, a 1083 m s.l.m., Foza è cinto da alcune delle più belle vette dell’Altopiano: dal Monte Miela (1780 m) al Monte Fior (1824 m), allo Spill (1800 m) fino alle celebri Melette (1730 m). Il Comune di Foza è piccolo e caratteristico, con case affrescate da artisti di tutta Italia, giunti per abbellire Foza dei loro capolavori. Due opere di grande valore risiedono nella chiesa parrocchiale di Santa Maria Assunta, eretta dopo la guerra: una pala d’altare di Francesco da Ponte il Vecchio del 1519 e un crocefisso in legno di autore sconosciuto. La chiesa, in stile simile a quello romanico, ed il campanile sono fatti di granito bianco estratto dalle cave in località Futa.

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Le vette dell’altopiano. Foto: pag. facebook Altopiano di Asiago e dei 7 Comuni

La chiesetta di San Francesco

La Chiesetta di San Francesco è invece posta sul punto più alto del promontorio dove si sviluppa il paese, della quale abbiamo notizia fin dal 1641. Ricostruita qui nel 1926 dopo le distruzioni della Grande Guerra, la nuova chiesetta venne progettata dall’architetto ferrarese Annibale Zucchini ed inaugurata il 15 agosto 1926. L’altarino in marmo è opera della ditta Donazzan di Pove del Grappa. La campana maggiore, dedicata a san Francesco è opera della fonderia Colbachini di Bassano del Grappa.

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La chiesetta di San Francesco. Foto: Instagram foza7comuni

La croce di San Francesco

Suggestiva è anche la Croce di San Francesco, dove fin dal 1645 si trovava anche il primo e per secoli l’unico eremo dell’Altopiano, abitato dai terziari del Terzo Ordine Francescano. Da qui si gode uno dei panorami più belli di tutto l’Altopiano, con la visione della Valsugana e della pianura veneta fino alla laguna di Venezia. Durante la Prima Guerra Mondiale questo fu il limite fino al quale arrivò l’avanzata dell’esercito austriaco. Poco prima e dopo la chiesetta sono ancora ben visibili lungo la strada le antiche trincee.

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La croce di San Francesco. Foto: Instagram foza7comuni

 

 

Alla Chiesa di San Giorgio in gogna, la più antica di Vicenza, si respira spiritualità

E’ una delle chiese più antiche di Vicenza. Situata nella zona sud di Vicenza, sulle pendici di Monte Berico, la chiesa di San Giorgio in gogna o S. Giorgio martire è stata costruita prima dell’anno Mille. E’ un luogo dove si respira una spiritualità straordinaria e dove si percepisce la storia di San Giorgio…

La facciata e l’interno

La facciata è di stile romanico. I muri perimetrali, costituiti da agglomerati di materiali diversi sono una dimostrazione dell’origine artigianale della costruzione, L’interno a una sola navata e l’abside sfaccettata all’esterno e semicircolare all’interno richiamano modelli ravennati, per cui la struttura complessiva della chiesa potrebbe essere antecedente al citato 983. Altri elementi, tra cui le finestrelle a feritoia strombate potrebbero invece risalire alla ristrutturazione operata dai monaci intorno al mille.

chiesa san giorgio
La facciata della chiesa. Fonte: wikipedia

La storia

Varie leggende circondano le origini di questa chiesa. Qualche autore ha ipotizzato che, ancora in età tardo-antica, un sacello cristiano abbia sostituito un tempietto dedicato a Diana, oppure che la chiesa sia stata eretta dai Longobardi, particolarmente devoti a San Giorgio, dopo la loro conversione al cattolicesimo.

A partire dal 1259 e durante tutti i ricorrenti periodi di peste fino all’ultimo del 1630, fu destinata a lazzaretto. Da ciò forse il nome di “Gesù di Nazaret” in un testamento del 1456 e nella Pianta Angelica del 1580.

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L’interno della chiesa di San Giorgio. Foto: https://www.arcart.it/portfolio-item/chiesa-di-san-giorgio-martire/

Nei secoli più recenti fu adibita a prigione, da cui l’apposizione “in Gogna”, e ancora a magazzino comunale e poi canile. Trovandosi vicina alla stazione ferroviaria, durante la seconda guerra mondiale fu colpita dai bombardamenti angloamericani, ma fu ben restaurata con materiale originale dapprima nel 1949 e più recentemente nel 2011. Del convento e dell’ospizio restano solo alcuni ruderi. La chiesa, prima appartenente alla parrocchia di Santa Caterina, è stata eretta a parrocchia autonoma nel 1963.

San Giorgio Martire

Il culto di san Giorgio, originariamente venerato in Oriente, si ebbe inizialmente in Europa in conseguenza delle Crociate in Terrasanta, e più precisamente ai tempi della battaglia di Antiochia. Accadde che, nell’anno 1098, durante una delle più furiose battaglie, i cavalieri crociati e i condottieri inglesi vennero soccorsi dai genovesi, i quali ribaltarono l’esito dello scontro e consentirono la presa della città, ritenuta inespugnabile. Secondo la leggenda, il martire si sarebbe mostrato ai combattenti cristiani in una miracolosa apparizione, accompagnato da splendide e sfolgoranti creature celesti con numerose bandiere, nelle quali campeggiavano croci rosse in campo bianco.

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San Giorgio Martire si venera il 23 aprile. Foto: https://www.santodelgiorno.it/san-giorgio/

 

Raul Cremona al Teatro Comunale di Vicenza con il suo best of

Un one man show di cabaret, magia, musica e non solo, con un personaggio televisivo amatissimo: è “Il meglio di … Raul Cremona” in programma al teatro comunale di Vicenza venerdì 10 febbraio, alle 20.45.

L’originale spettacolo, una produzione Ridens Produzioni Srl, vede protagonista Raul Cremona nel doppio ruolo di interprete e autore. Dal mago Oronzo a Jacopo Ortis, passando per il mago de Milan e tanti altri personaggi che gli hanno dato la fama grazie alla platea televisiva di “Zelig”, ma anche le sue inimitabili gag, i numeri di magia e prestidigitazione, oltre naturalmente a qualche sorpresa, tutto questo è lo show che Raul Cremona porterà in scena al Teatro Comunale; restano pochissimi biglietti. “Il meglio di… Raul Cremona” a Vicenza è realizzato in partnership con Anthea S.p.A., tra i principali broker assicurativi nazionali con sedi in tutta Italia, una realtà che crede nel valore della cultura e dello sport e che da sempre supporta le attività del territorio.

Raoul Cremona
Raoul Cremona

“Il meglio di … Raul Cremona” è un viaggio surreale nella memoria artistica del mago, comico e cabarettista milanese, costellato di incontri con i personaggi che l’hanno reso celebre, amati e attesissimi dal pubblico, vere e proprie “maschere” che diventano rappresentazione di tipi umani, a volte famosi, a volte uomini qualunque, ma sempre resi unici dalla sua irresistibile comicità. E così sfileranno il dissacrante Mago Oronzo, giunto alla ribalta grazie a “Mai dire gol”, l’attore Jacopo Ortis con tanto di calzamaglia nera e sproloquio melodrammatico, dal sapore vagamente gassmaniano, il milanesissimo e intollerante Omen, a capo di un’associazione maschilista per la difesa dei diritti dell’uomo e Silvano, il mago di Milano, con la sua formula magica “sim sala min”, parodia del Mago Silvan, un mito per Raul adolescente e da sempre un riferimento nella sua carriera di artista. 

Mago prima, comico dopo; l’uno senza mai dimenticare l’altro. Milanese figlio di milanesi, Raul Cremona, è un personaggio decisamente singolare: il bisnonno, Max Kremont, era un clown, mentre il nonno e il padre esercitavano in piazza del Duomo come imbonitori, ma è grazie a una scatola di giochi di prestigio della Arco, avuta in regalo dalla nonna, che da bambino è rimasto stregato dalla magia. Ha poi fatto il rappresentante di prodotti odontotecnici, il mago-comico, è partito dal mago Oronzo e da lì non si è più fermato. Dal Derby a Zelig, dalle cantine ai luoghi sacri del cabaret, ai palcoscenici di tutta Italia: è diventato un personaggio amato e apprezzato ovunque, molto noto grazie alla tv, ma sempre in grado di stupire e far divertire all’ennesima potenza il suo pubblico.

Nel corso dello show Raul Cremona regalerà dunque agli spettatori un viaggio indimenticabile, sospeso tra il disincanto e un pizzico di nostalgia, avendo come unica guida la sua irresistibile ironia; un’esperienza a tratti poetica, a tratti vorticosa, in cui l’artista si conferma nel suo ruolo di cantastorie che si serve della magia come arte della narrazione. 

Magia, prestidigitazione, giochi di parole, gag, battute e macchiette, sono solo alcune delle “pratiche” con cui Raul Cremona incanterà, ancora.

Gian Giorgio Trissino, il “creatore” del Palladio, ma non solo

Vicenza è una splendida città che ha donato al Veneto e all’Italia personaggi di grande spessore. Se è stata incredibile l’avventura di Antonio Pigafetta attorno al globo non è meno, per i suoi effetti, Gian Giorgio Trissino, letterato vicentino vissuto a cavallo tra il XV e il XVI secolo.

La vita e gli studi

Trissino nacque da una nobile famiglia vicentina nel 1478. Prima di stabilirsi a Roma, dove passò i suoi ultimi anni e morì, portò avanti i sui studi in varie città d’Italia. Studiò greco a Milano, filosofia a Ferrara, e a Firenze si legò a Niccolò Machiavelli frequentando il suo circolo letterario. A Roma ebbe modo di conoscere altri intellettuali come Pietro Bembo e Giovanni Rucellai.

Busto trissino
Busto di Gian Giorgio Trissino (Foto FB: VICENZA)

Le opere

Nel corso della sua vita Trissino si interessò di molte cose; la letteratura, tuttavia, fu il suo vero grande stimolo. Poeta e drammaturgo, grazie ai suoi studi classici meritò di essere considerato un innovatore della scena drammatica italiana. La sua tragedia più famosa, Sofonisba, tratta un episodio delle guerre puniche, basandosi sul racconto di Tito Livio.  Ad essere interessante, però, non è solo il tema: Trissino inserisce nella struttura della tragedia anche elementi mutuati dalle tragedie di Sofocle e Euripide, e si serve di una metrica all’epoca assolutamente non comune per il dramma, il verso sciolto.

Villa Trissino a Cricoli
La villa della famiglia Trissino (Foto: WikiMedia Commons)

Trissino e il Palladio

Sarebbe limitante ridurre lo spessore intellettuale di Trissino a solo una parte del suo contributo alla scena culturale italiana. Tuttavia, è impossibile non ricordare come il poeta e drammaturgo sia stato il primo mecenate di un’altra figura di spicco della cultura vicentina, la più famosa di tutte: Andrea Palladio. Trissino affidò al giovane il rinnovamento della villa di famiglia e contribuì in grandissima parte alla sua formazione portandolo con sé in più di un viaggio a Roma, affinché familiarizzasse con l’architettura antica.

Non solo: lo stesso pseudonimo “Palladio” fu attribuito al futuro grande architetto, il cui vero nome era Andrea di Pietro dalla Gondola, proprio da Gian Giorgio Trissino.

A Roana, sull’Altopiano di Asiago si gode di natura, storia e cultura

L’aria di montagna è ricca di ossigeno e una bella giornata sulla neve ci fa sentire rigenerati. Continua il nostro viaggio sull’Altopiano di Asiago. Dopo Rotzo, Enego e Gallio, eccoci a Roana, a circa 1000 m.s.l.m., che comprende un territorio molto vasto. Qui vi sono boschi, campi, pascoli, dolci pendii e anche un laghetto balneabile. Roana ha inoltre 6 frazioni, dette anche 6 campanili perchè ognuna ha la sua chiesa parrocchiale. Sono Camporovere, Canova, Cesuna, Mezzaselva, Roana e Treschè Conca.

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Sull’Altopiano non manca la movida. In alcuni punti ristoro c’è anche musica con dj.

Cosa visitare

Come negli altri Comuni dell’Altopiano, ci sono numerose testimonianze della Prima Guerra Mondiale. A Canove è possibile visitare il Museo Storico della Grande Guerra, che raccoglie oltre 5000 reperti bellici tra mappe, indumenti, suppellettili varie, documenti e fotografie. Numerosi ritrovamenti bellici risalenti alla Prima Guerra Mondiale sono poi raccolti a Treschè Conca nella famosa Collezione Rovini.

E’ possibile inoltre visitare numerose fortezze militari ottimamente conservate, quali il Forte Verena, il Forte di Punta Corbin con il museo annesso, il Forte Campolongo e la Caserma sul Monte. Sul Monte Cengio è invece presente il celebre Salto del Granatiere, il percorso scavato a tratti nella roccia ed a picco sulla valle. Il panorama è godibile lungo il tragitto e l’area monumentale della cima rappresenta di sicuro uno dei luoghi più spettacolari e significativi della Grande Guerra sull’Altopiano di Asiago.

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Il Salto dei Granatieri sul Monte Cengio. Foto: facebook pag. Salto dei Granatieri, scatto di Elena Giugnoli

La tradizione cimbra

E’ presente inoltre un Museo e Istituto di Cultura Cimbra, con sede a Roana, che salvaguarda il patrimonio linguistico e culturale ereditato dagli antichi popoli germanici nell’Alto Medioevo. A Treschè Conca inoltre, nella sede dello Chalet Turistico Municipale, si può trovare lo Sportello Linguistico Cimbro, per un approfondimento su questa misteriosa etnìa. E la cultura cimbra è celebrata ogni anno a Roana con con “Hoga Zait” il festival cimbro, importante appuntamento per residenti e turisti, in seno al quale sono organizzati spettacoli, incontri culturali e concerti nelle varie frazioni del Comune di Roana.

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Il Forte Corbin. Foto: Pag. Instagram iat_roana

Il Museo dei Cuchi di Cesuna

A Cesuna di Roana si trova un museo davvero unico. Si tratta del Museo dei Cuchi, che raccoglie oltre 10mila cuchi, popolari fischietti di terracotta delle più svariate forme e provenienti da tutto il mondo, che la tradizione popolare voleva che i ragazzi regalassero come promessa d’amore alle proprie innamorate il 25 aprile, festa di San Marco, giorno in cui ancor oggi a Canove di Roana di svolge la Sagra dei Cuchi.

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La sede del Museo dei Cuchi di Cesuna. Foto pag. facebook Museo dei Cuchi

 

 

 

Il parco e il museo di villa Guiccioli: Sede del Museo Storico del Risorgimento e della Guerra

Il Museo del Risorgimento e della Resistenza a di villa Guiccioli di Vicenza è intimamente legato alla vita morale, culturale ed alle tradizioni della città e del suo territorio, per una serie di motivi ed argomenti che possono essere spiegati dal materiale conservato e dall’ubicazione stessa della sede museale. L’Istituto raccoglie infatti memorie di eventi e di personaggi che appartengono alla storia d’Italia e che furono protagonisti nelle vicende storiche della città. E ancora, sul colle Ambellicopoli dove sorge l’edificio di villa Guiccioli, attuale sede del Museo, si svolse l’eroica resistenza del 1848 che vide la popolazione vicentina, impegnata per la difesa della città, in unione con i volontari provenienti da varie regioni della penisola. Le raccolte conservate dal Museo sono quanto mai varie ed interessanti e anche un breve elenco può dare veramente la misura di questa ricchezza; il nucleo principale della documentazione è infatti costituito da

pubblicazioni a stampa, periodici, giornali, manoscritti, ritratti, quadri, stampe, diari, bandi e proclami, decreti, atti privati, monete, medaglie e decorazioni, carte geografiche civili e militari, armi bianche e da fuoco, bandiere, oggettistica militare di vario genere. Materiali con i quali non è difficile individuare un filo storico conduttore: i documenti e i cimeli delle raccolte rappresentano infatti un’interessante testimonianza degli avvenimenti vicentini e nazionali ed in qualche caso europei, delle vicende storiche che vanno dalla prima campagna d’Italia di Napoleone nel 1796 alla fine della Seconda Guerra Mondiale e alla lotta di liberazione(1945); si tratta di un secolo e mezzo di vicende che hanno trasformato più volte il volto politico, sociale, economico e morale d’Italia e d’Europa.

(Dal sito del Museo)

Villa Guiccioli Ingresso Museo del Risorgimento e della Resistenza
Villa Guiccioli: Ingresso Museo del Risorgimento e della Resistenza

Il Parco storico di Villa Guiccioli è ubicato in uno dei luoghi più suggestivi di Vicenza. Le notizie documentate sul complesso di Villa Guiccioli risalgono al 4 marzo 1788, data in cui le Contesse Laura e Anna Maria Bombarda di Verona cedettero l’intera proprietà a tale Antonio Marchiori di Vicenza. Proprietario di “case e beni arativi, prativi e boschivi sul Monte Berico”, il Marchiori fece molte spese per migliorare lo stato e la condizione del complesso. Il 22 settembre 1794 un Maestro di Zecca veneziano, di origini greche, Marino Ambellicopoli acquistava le case ed i beni dal Marchiori. All’epoca la proprietà sembrava comprendere anche i terreni di pianura che si trovano in prossimità dell’abitato di Campedello.

L’anno 1799 corrisponde a quello della presumibile costruzione della Villa ad opera dell’architetto veneziano Giannantonio Selva amico dell’ Ambellicopoli. Dopo la sua morte, l’ 11 maggio 1803, la proprietà passava ai nipoti, gli eredi del greco, tali Giorgio e Francesco Vassili più tardi a Rosa Rughi vedova di Giorgio che ne rimase proprietaria sino al 1853, epoca in cui il complesso fu venduto al Marchese ravennate Ignazio Guiccioli, cui si deve l’attuale nome della Villa. Nel 1848 la zona fu teatro di aspre battaglie tra le truppe Austriache e quelle Italiane comandate dal Generale Giovanni Durando.

Nel 1855, grazie ad una concessione di Papa Pio IX° venne eretto un Oratorio privato di cui attualmente non rimane traccia. Il Marchese Guiccioli apportò alla Villa alcune modifiche architettoniche, ed è presumibile pure un cospicuo intervento nell’area verde circostante. I successori del Guiccioli rimasero proprietari del complesso, sotto vari titoli, fino al 1935, anno in cui il comune di Vicenza acquistò Villa Guiccioli, “con parco e terreni annessi“, per istituirvi un Museo Storico del Risorgimento e della Guerra. In tale occasione vennero effettuati alcuni lavori di restauro e alcune modifiche sia alla Villa che al Giardino.

Il parco di villa Guiccioli occupa la sommità del colle Ambellicopoli 151 m. con un’estensione di circa quattro ettari. A nord-est, la parte più ripida dei versanti è occupata dal bosco. Nel parco sono presenti complessivamente 536 piante, tra alberi e arbusti, appartenenti sia alla flora locale che a specie esotiche; le specie vegetali determinate sono circa una quarantina. Gli arbusti sono piuttosto scarsi e rappresentati prevalentemente da Lauro ceraso (Prunus laurocerasus) e dal Tasso (Taxus baccata). La presenza di specie a fogliame persistente costituisce il 63% del totale (Cipressi 31 %, Cedri 13%).

La maestosa presenza della Zelcova (Zelcova carpinifolia), censita tra gli alberi monumentali della provincia di Vicenza, arricchisce ulteriormente l’importanza di questo parco. Nella parte orientale il parco non presenta nessun elemento di discontinuità con il bosco; i grandi Lecci, i Cipressi e la stessa Zelcova sono a stretto contatto con la vegetazione arborea ed arbustiva del bosco. Qui in mezzo ad alberi di Orniello, Olmo, Carpino nero e maestosi esemplari di Roverella si snodano numerosi sentieri.

Di Luciano Parolin da Storie Vicentine n. 2 Aprile maggio 2021


In uscita il prossimo numero di Marzo 2023
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Il Covolo di Costozza: viaggio in un sistema di grotte dalla storia millenaria

Uno storico vicentino di fine Settecento, l’abate Gaetano Macca’ (Sarcedo 1740 – Vicenza 1824), ha lasciato parecchie opere frutto di studi e ricerche sul territorio, tra cui una voluminosa “Storia del territorio vicentino”. Un’altra sua opera interessante riguarda le grotte di Costozza” (“Storia della famosa grotta di Costozza detta volgarmente il Covolo o Covalo di Costoza” – Vicenza MDCCXCIX – 1799).

Il Covolo di Costozza frontespizio del libro di Gaetano Macca'
Il Covolo di Costozza frontespizio del libro di Gaetano Macca’

Questo pittoresco paese dei Berici ha la peculiarità che le sue grotte vantano una storia millenaria che si perde nella notte dei tempi, legata all’estrazione della pietra calcarea da taglio la cosiddetta pietra di Costozza o pietra di Vicenza.

Insigni studiosi, storici, letterati e architetti nei secoli passati (Giovanni Arduino, Filippo Pigafetta, Pietro Bembo, Andrea Palladio, Domenico dell’Acqua, Giangiorgio Trissino, Francesco Scoto, e altri) descrissero queste grotte o covoli definendoli “l’ottava meraviglia del mondo antico” poiché, col progredire dell’estrazione, erano diventate vastissime: insieme formavano un intricato labirinto, anche su più livelli, la cui estensione era pressoché sconosciuta, secondo alcuni storici la più vasta, per quanto noto, in Italia.

Riporta lo Scamozzi che “alcuni covoli trapassano sino a Brendola per lo spazio di cinque miglia”. Ed ancora “Il conte Alfonso Loschi nei suoi compendi storici dice che questa caverna è lunga miglia dieci”. Maccà riporta la citazione da una “storia manoscritta di autore anonimo esistente in Casa Testa, che asserisce essere questa caverna amplissima trapassando di monte in monte sino a Brendola”.

Il Maccà chiese ed ottenne dal conte Ottavio Trento, ultimo erede della famiglia che visse e dominò a Costozza per oltre 200 anni, il permesso di visitare le grotte di sua proprietà, le perlustrò e le descrisse in questo volume che dedicò al nobile Collegio dei Notai di Vicenza. La proprietà Trento alla fine del 1700 comprendeva le due più grandi grotte: quella attigua al palazzo Trento e quella più in alto denominata il covolo della Guerra, che il conte aveva comprato nel 1759 al prezzo di 16 ducati d’argento.

L’utilizzo di queste grotte ha origini antichissime: prima ancora che a quella romana risalgono all’era paleoveneta o etrusca. Lo dimostra un’iscrizione in caratteri paleoveneti (o etruschi secondo il Da Schio e altri) un tempo incisa sopra l’ingresso della grotta maggiore, fu asportata nel 1800 ed ora esposta nell’atrio di palazzo Da Schio in Vicenza.

Il Maccà descrive l’entrata del covolo della Guerra qual era al tempo: angusta e protetta ai lati da feritoie per archibugi e balestre per respingere dall’ingresso gli assalitori in tempo di guerra, divenendo così un rifugio inespugnabile come fortezza (all’interno furono trovati anche quattro piccoli cannoni in ferro).

Lo storico Giulio Barbarano scrive: “in questo Covolo potrebbero alloggiare dieci mila uomini”. Negli spazi più ampi, intervallati da enormi pilastroni di sostegno, erano stati ricavati recinti e “cameroni” in muratura, con porte e finestre a inferriate, luoghi che la tradizione individuava come le antiche prigioni.

In effetti qualche storico ipotizza che il nome Costozza possa derivare dal latino “custodiae”, o prigioni, dove i condannati erano adibiti al lavoro di estrazione della pietra. Ma, nei secoli successivi, erano state anche cantine per la conservazione ottimale di vino e derrate.

Il Macca’ ritrova un forno in mattoni per cuocere il pane e riporta altre fonti che affermano esisterne più di uno. Impossibile gli fu perlustrare interamente tale labirinto per la sua vastità e complessità e per i crolli in alcuni tratti che ne ostacolavano il percorso, dovuti anche a terremoti, l’ultimo dei quali in data 22 ottobre 1796.

Il Maccà conferma la presenza di sorgenti e di un lago (descritto anche da altri autori e in una lettera del Trissino) con acqua limpidissima e “in alcuni luoghi profondissima” in cui stanziava una specie di gamberetto cieco. La cronaca cita tentativi di prosecuzione del percorso con barchette, tuttavia impediti a un certo punto dal completo allagamento delle gallerie. (Nella mappa del 1759 redatta da un pubblico perito sono visibili gli “stagni d’acqua” o laghetti, oltre i quali la grotta prosegue, come pure nella mappa di metà 800 pubblicata dal Da Schio).

Il Maccà vede e descrive l’inizio dei ventidotti ossia i cunicoli – noti anche al Palladio – che dalle grotte scendono il monte e si dipanano, ancor oggi, con successivo percorso sotterraneo, fino alle ville storiche del paese portando in esse un circolo d’aria a temperatura pressoché costante in ogni stagione. (nella foto in basso il locale di Villa Eolia raffrescato naturalmente).

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Il locale di Villa Eolia raffrescato naturalmente dai condotti ventilati

In appendice al suo volume il Maccà riporta i vari fatti storici che hanno interessato le grotte, tratti da cronache di guerra fino agli anni 1510-1514 quando gli eserciti tedeschi e spagnoli, impegnati nella guerra di Cambrai contro Venezia, tentarono più volte di espugnare le grotte dentro le quali, dai paesi vicini e dalla città, si era rifugiata una moltitudine di gente con i loro beni più preziosi, ma il tentativo fallì.

Di Luciano Cestonaro da Storie Vicentine n. 2 Aprile maggio 2021


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