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Le predicazioni contro l’usura: San Bernardino da Feltre e Beato Marco da Montegallo

Le predicazioni contro l’usura: San Bernardino da Feltre e Beato Marco da Montegallo in un approfondimento a quatto mani per Laltravicenza.

SAN BERNARDINO DA FELTRE

Detto comunemente Bernardino da Feltre dalla città dove vide la luce nel 1439, primogenito del nobile e facoltoso Donato Tomitano e di Corona Rambaldoni, cugina del celebre educatore Vittorino, il beato fu battezzato col nome di Martino. Assunse quello di Bernardino in onore dell’apostolo senese, di cui rinnovò la prodigiosa attività di predicatore, entrando il 14 maggio 1456, a Padova, tra i Frati Minori Osservanti della provincia veneta. Fanciullo d’ingegno precoce, avido di letture, fece rapidi progressi negli studi umanistici, tanto che a undici anni leggeva e parlava il latino con facilità.

Gli furono maestri il Guarino Veronese, Damiano da Pola e Giacomo da Milano. Studente di diritto a Padova, era ammirato da tutti per la serietà della condotta e l’intelligenza. Già aveva interpretato come segni ammonitori del cielo la morte repentina e immatura di tre suoi professori universitari, Zaccaria Pozzo, il Romanello e Giacomo de’ Zocchi, dai quali il giovane Martino era singolarmente amato, quando predicò nella città il francescano Giacomo della Marca, discepolo di Bernardino da Siena. La sua parola finì per convincerlo e Bernardino prese l’abito dei Minori, compiendo un rigoroso noviziato nel piccolo convento di S. Orsola, fuori le mura della città. Invano il padre andò a trovarlo per distoglierlo dal proposito: Bernardino, infatti, lo persuase che quella era la sua vocazione. Finito il corso di teologia a Venezia, fu ordinato sacerdote nel 1463. Dopo aver insegnato grammatica per alcuni anni, il capitolo provinciale veneto lo nominò predicatore.

Da quell’anno (1469) fino alla morte non cessò di predicare e percorse l’Italia centro- settentrionale (come limiti geografici si possono segnare approssimativamente Trento-Milano e L’Aquila-Roma) molte volte, a piedi scalzi, trovandosi spesso in frangenti difficili per le avverse condizioni atmosferiche, la fame, i pericoli di guerre, le espulsioni da parte di principi, l’odio degli usurai e degli ebrei, e perfino per l’indiscreto zelo di devoti, che minacciavano di calpestarlo quando non era protetto da armigeri. Bernardino tenne ventitré Quaresime, cioè una ogni anno, a partire dal 1470, eccetto il 1472 (era infermo). Stupiva i contemporanei che un uomo così fragile come Bernardino potesse avere tanta resistenza agli strapazzi: egli era di statura esigua, amava firmarsi nelle lettere piccolino, di salute delicata, spesso ammalato e minato dalla tisi che lo condusse a morte. Le sue prediche attiravano uditori senza numero e se lo contendevano le città più illustri, ricorrendo anche al papa per averlo. Qualcosa di certo sul modo e sui temi della sua predicazione si può ricavare dal quaresimale di Padova del 1493 e dall’Avvento di Brescia dello stesso anno, conservatici dal francescano Bulgarino, che fu suo compagno. Bernardino è parlatore vivo: come Bernardino da Siena, dialoga col popolo, racconta spigliatamente, lancia argute sferzate che vanno al segno. Lotta contro gli sfacciati costumi delle donne, le ingiustizie legali, le usure; esorta ai Sacramenti, alla devozione alla Madonna (della quale difende apertamente l’immacolato concepimento), all’amore per il prossimo, specialmente verso i poveri indifesi. Promotore dei Monti di Pietà (ne aprì a Mantova nel 1484, a Padova nel 1491, a Crema e Pavia nel 1493, a Montagnana e Monselice nel 1494), nonostante la forte opposizione della maggior parte dei suoi confratelli, sostenne, da esperta giurista, che era lecito esigere il pagamento di un modesto interesse sul mutuo, necessario al funzionamento della organizzazione bancaria. Contro l’usura fu inflessibile. Una grave lotta sostenne a Trento nel 1476 quando accusò gli ebrei di strozzinaggio e al fondo della sua drammatica cacciata da Firenze, in una notte della Quaresima del 1488, ci fu il risentimento della Signoria contro quel frate, debole di corpo ma coraggioso d’animo, che aveva denunziato le angherie fatte alla povera gente da prestatori senza coscienza. In nessun caso Bernardino fuggì le responsabilità del suo ministero: fu cacciato da Milano dal duca Ludovico il Moro (1491) perché aveva confutato in pubblico dibattito un astrologo, favorito del principe. A Padova, durante la peste del 1478, continuò a predicare, sebbene ne fosse più volte sconsigliato, perché nell’assembramento della gente poteva più facilmente propagarsi il contagio; egli invece mirava a rincuorare tutti, a spronare i sani affinché si dedicassero alla cura degli ammalati, dando egli stesso l’esempio negli ospedali, nelle case private, fino ad essere contagiato dal male.Vicario provinciale dei Minori osservanti veneti al tempo dell’interdetto lanciato dal papa Sisto IV contro la Repubblica (1483), pur dolendosi dell’infelice sorte spirituale della patria, obbedì al Sommo Pontefice e comandò a tutti i frati dipendenti di lasciare i conventi, provvedendo però a farne rimanere qualcuno per l’indispensabile servizio religioso. Per questo ebbe l’esilio perpetuo dal doge, come ribelle, con un decreto, revocato peraltro nel 1487. Bernardino incontrò sereno la morte a Pavia il 28  settembre  1494,  avendo interrotto pochi giorni prima del trapasso la predicazione, a causa dell’aggravarsi del male. Venerato subito dal popolo, il suo culto fu confermato nel 1654 per l’Ordine francescano e le diocesi di Feltre e Pavia. I Minori ne celebrano la festa il 28 settembre.

Predicazioni
Effige di Beato Marco e L’Urna del Beato Marco a San Giuliano

BEATO MARCO DA MONTEGALLO

Il Beato Marco nasce a Montegallo, (Ascoli Piceno) nel 1425, muore a Vicenza, 19 marzo 1496. Figlio del nobile Chiaro de Marchio, studia all’Università di Perugia e poi a Bologna laureandosi in Legge e Medicina. Sposa, per volere del padre, la nobile Chiara Tibaldeschi, ma convive in castità. Alla morte del padre, i coniugi si separano scegliendo la vita religiosa, lei entra nelle clarisse di Ascoli e lui tra i francescani. Fece il noviziato a Fabriano, poi come superiore a San Severino diventando, col confratello Giacomo da Monteprandone il fautore dell’apostolato sociale. Le principali piaghe del secolo erano le discordie civili e l’usura. La sua intensa attività si svolge ad Ascoli, Camerino, Fabriano.

A Vicenza arriva nel 1486, dopo che una sollevazione di popolo aveva cacciato gli ebrei. Predicava la carità tra l’entusiasmo del popolo, con l’approvazione delle autorità diede vita alla nuova istituzione, compilando lo Statuto per assicurarvi il buon funzionamento. Marco intravvedeva nell’usura la principale afflizione dell’anima e per questo sosteneva l’istituzione necessaria dei Monti di Pietà in ogni centro urbano, con la funzione di prestare senza interessi o “regalie” a chi avesse bisogno per evitare di rimanere vittime di usurai o di speculatori. “Era compito del Monte far sì che ognuno “negli occorrenti bisogni, con benefizio del pegno, potesse ricevere denari in prestito, senza interesse, se la somma non superava le lire sei, con interesse nelle somme maggiori, però mai oltrepassante l’annuo pro del cinque per cento.” Il perno su cui il frate predicatore fece ruotare la sua idea fu la costituzione di un patrimonio proprio, proveniente dalle donazioni liberali, esente da obblighi e i cui frutti avrebbero garantito l’attività del Monte stesso. Marco si mise a perorare la causa dei poveri e raccolse 200 ducati per iniziare l’attività. Le prime operazioni di prestito su pegno, venivano svolte nella Chiesa di San Vincenzo in Piazza, ma crescendo d’importanza, il Monte, dovette cercare una nuova sede per “tenervi i pegni del Monte di Pietà”. La costruzione iniziata nel 1499 consta di due edifici gemelli che guardano sulla Piazza Grande, con al centro la Chiesa di San Vincenzo. Tutto il complesso nel 1614, è abbellito dalla facciata monumentale della chiesa con statue del vicentino G.B. Albanese. La Fondazione Monte di Pietà di Vicenza è ancora attiva e continua, certo con gli aggiornamenti apportati dal tempo e con il trasferimento del credito a specifiche istituzioni, il servizio offerto alla città. Marco da Montegallo fu colto da malore e morì a Vicenza il 19 marzo 1496; venne sepolto nella Chiesa di San Biagio Vecchio, ora distrutta. Il culto del beato ebbe una conferma da Papa Gregorio XVI°, il 20 settembre 1839. La salma nel 1530 venne custodita per qualche tempo dalla nobile famiglia Vajenti, finché trova degna sistemazione nella chiesa di San Giuliano in Corso Padova, sotto apposito altare.

Di Luciano Parolin e Davide Lovat da Storie Vicentine n. 5 Novembre-Dicembre 2021


In uscita il prossimo numero di Marzo 2023
distribuito nelle edicole del centro e prima periferia e agli Abbonati
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Abbonamento 5 numeri euro 20
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Il ritratto pittorico di Vicenza tra Quattro e Cinquecento: racconti visivi di Giovanni Bellini e Marcello Fogolino

Le prime testimonianze iconografiche a colori di Vicenza “città bellissima” compaiono come dettagli in alcune opere di Giovanni Bellini.

Sembra che il grande maestro veneziano si mantenga in contatto con diverse famiglie del territorio, tra cui certamente i Trissino, i Graziani Garzadori e i Fioccardo. Le opere che attestano questa frequentazione sono la Madonna col Bambino “Contarini” e la Pietà “Donà dalle Rose”, custodite ora alle Gallerie dell’Accademia di Venezia, alle quali si aggiunge Cristo crocifisso in un cimitero ebraico, attualmente presso la Galleria di Palazzo degli Alberti a Prato. Le loro composizioni racchiudono uno o più riferimenti ai monumenti urbani ritenuti particolarmente significativi per la storia e l’identità del luogo: la facciata della cattedrale, la Torre Bissara, il Palazzo della Ragione.

Attraverso un sottile gioco di libere associazioni, al contempo estetiche e allegoriche, le opere di Bellini coinvolgono gli edifici simbolo di varie città per combinarli assieme a mo’ di capriccio, all’interno di un paesaggio immaginario affine alla geografia dell’Italia settentrionale, senza una caratterizzazione più specifica, ma rimanendo sempre a un livello puramente evocativo.

L’attenzione del maestro veneziano nei confronti della resa atmosferica e dei particolari naturalistici entra concettualmente in profonda sintonia con il sentimento religioso dell’epoca, in cui torna in auge l’idea della sacra solitudine nell’abbraccio del creato, dove ricercare un dialogo profondo e indisturbato con il Creatore dell’universo.

Nel Quattrocento, uno dei principali riferimenti per tale sensibilità “ambientale” rimane la parabola quattrocentesca di san Bernardino da Siena, frate francescano, nella doppia veste di asceta e di predicatore, seguito con grande partecipazione a Vicenza, dove si sofferma in ben due occasioni, lasciando un indelebile segno nella storia della diocesi. 

Giovanni Bellini
Marcello Fogolino, San Francesco d’Assisi riceve le stigmate, con la presenza di santa Chiara, beato Bernardino da Feltre (?), santi Pietro, Paolo e Bernardino da Siena, 1515 ca, Vicenza, Museo civico di Palazzo Chiericati

Il pittore Marcello Fogolino interpreta con grande efficacia questa tensione spirituale nella composizione della tavola raffigurante San Francesco d’Assisi riceve le stigmate (1515 ca), ora presso il Museo civico di Palazzo Chiericati. Il soggetto principale dell’opera diventa pretesto per convocare un convivio ideale di ben cinque santi: oltre a Francesco, troviamo anche Pietro, Paolo, Chiara e Bernardino da Siena, assieme alla sommessa ma simbolicamente incisiva presenza di un asceta francescano immerso in preghiera, identificabile probabilmente come il beato Bernardino da Feltre, resosi celebre come continuatore del messaggio spirituale inaugurato dal confratello Bernardino da Siena, proclamato santo già nel 1450, solo sei anni dopo la morte.

Il quadro di Fogolino, collocato in origine nella chiesa di San Francesco Nuovo in Borgo Pusterla, mette in particolare risalto un emblema devozionale ideato da san Bernardino: il trigramma del nome di Gesù. Questo si configura come un sole raggiante con al centro l’iscrizione IHS, che riprende le tre lettere iniziali del santissimo nome in greco (ΙΗΣΟΥΣ). Osservando la collocazione del trigramma nella composizione pittorica di Fogolino, si comprende con chiarezza il suo messaggio allegorico.

Il simbolo si pone come astro lucente nel cielo sopra la Torre Bissara, intesa come uno dei massimi monumenti della storia civica. L’opera  va  collegata  probabilmente  con l’attività devozionale delle confraternite del Nome di Gesù, legate all’ordine francescano e affermatesi sulla scia della predicazione del santo senese e, soprattutto, grazie all’impegno divulgativo del beato Bernardino da Feltre.

La collocazione di san Francesco all’interno di una grotta evoca un episodio radicato nell’antica storiografia locale, ma di dubbia storicità, il quale rammenta un viaggio del “patriarca serafico” a Vicenza nel 1216, con una sosta prolungata a Longare, nel paesaggio ameno dei Colli Berici, dove avrebbe dato il via alla fondazione della comunità religiosa delle clarisse damianite. Nell’economia globale della composizione, il panorama urbano occupa la metà a destra del dipinto e inquadra l’intero profilo della città, dall’abbazia dei Santi Felice e Fortunato fino a un ultimo campanile che coincide idealmente con l’ubicazione della chiesa di Ognissanti nei pressi di Porta Monte, occultata quest’ultima da uno sperone di roccia alle spalle di san Bernardino. Sul piano paesaggistico, i protagonisti della veduta sono il fiume Retrone e il Monte Summano circondato da altri colli, che precedono la cintura azzurrina delle Prealpi.

A destra della grotta in cui san Francesco riceve le stigmate, si apre invece una visuale meno corretta dal punto di vista topografico. Dopo un edificio romano in rovina, che ricorda probabilmente il perduto Teatro Berga, si intravede in lontananza un tempio in cima a un alto colle, con una serie di cappelle devozionali, non rapportabili al territorio vicentino. Più a destra, domina invece il profilo di Monte Berico, con la chiesa nella sua veste quattrocentesca e con il convento dei frati affacciato verso la Valle del Silenzio.

A Santa Corona, lo stesso Fogolino propone attorno al 1519- 1520 un’altra immagine panoramica di Vicenza, concepita come un’aggiunta iconografica alla pala Madonna delle stelle, la cui composizione originaria risale attorno al 1360 ed è attribuita a Lorenzo Veneziano. L’inquadratura ambientale è affine ma non identica al precedente esempio fogoliano. Il punto di osservazione è stabilito ora più a destra, sulla salita davanti a Porta Lupia, il cui varco conduce lo sguardo verso un tessuto urbano prospetticamente più ampio, che termina a sinistra con l’abbazia dei Santi Felice e Fortunato e mette in risalto simbolico il rilievo del Summano, motivato probabilmente dalla presenza dell’importante santuario mariano, ritenuto il più antico della diocesi. Il committente dell’opera – documentato nell’iscrizione sul dipinto (SODALICIUM DIVÆ MARIÆ MATRIS) – è la confraternita “della Beata Vergine della Misericordia”, legata ai domenicani di Santa Corona. Infatti, la veduta integra alla base un soggetto mariano che intreccia varie tipologie iconografiche: la “Madonna del latte” con il Bambino poppante è assisa sul trono di nubi, mentre viene incoronata dagli angeli come Regina caeli. Il suo manto notturno, con un risvolto dorato, scende per avvolgere idealmente tutta la città berica, ricordando sul piano compositivo le icone “della Protezione” di memoria bizantina. 

Di Agata Keran da Storie Vicentine n. 5 Novembre-Dicembre 2021


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TCVI Educational, la passione del Teatro inizia da piccoli

Entra nel vivo in queste settimane la programmazione dei Progetti Formativi del Teatro Comunale di Vicenza (TCVI), la serie di percorsi educativi e di inclusione per favorire l’avvicinamento ai linguaggi teatrali, dedicati ad un pubblico senza limiti di età. Una particolare attenzione è riservata ai più piccoli e alle loro famiglie perché la formazione e l’educazione del pubblico del domani rientrano, da sempre, nella mission della Fondazione.

Si concluderà così sabato 11 marzo alle 10.30, nello showroom di Inglesina, partner di progetto, Opera Meno9 un laboratorio musicale per le famiglie in dolce attesa realizzato in collaborazione con AsLiCo (Associazione Lirica Concertistica Italiana), giunto alla quarta edizione. Dopo i primi due appuntamenti del 26 febbraio e del 4 marzo, si chiude il percorso sui benefici della musica classica e del canto in gravidanza (particolarmente dal quinto all’ottavo mese), con un incontro di vocalizzazione e canto pre e post natale, dedicato ai genitori, realizzato da musicisti professionisti e operatori specializzati. Studi scientifici hanno dimostrato l’importanza di questo approccio all’ascolto musicale fin dai primi momenti di vita, con la musica in grado di influenzare positivamente la crescita fisica, emotiva e intellettuale dei piccoli, rafforzandone lo sviluppo cognitivo e sensoriale. Il progetto Opera Meno9 è stato reso possibile grazie al sostegno di Banca delle Terre Venete, realtà del territorio particolarmente attenta alla crescita della comunità e di Inglesina, azienda leader nel segmento premium degli articoli per la prima infanzia. “La nostra mission è accompagnare i piccoli alla scoperta del mondo, assicurando loro le migliori condizioni di benessere in tutte le occasioni – ci dice Luca Tomasi, Amministratore delegato di Inglesina. – Questo straordinario viaggio inizia ben prima della nascita e grazie alle attenzioni rivolte al bambino come l’ascolto della musica e la voce, i genitori possono sprigionare emozioni positive che sono alla base di quello che noi definiamo il baby wellness. Per questo, siamo molto felici di sostenere questa iniziativa”. Il progetto ha ricevuto inoltre il patrocinio dell’Azienda Ulss 8 Berica per l’impegno nella promozione del benessere dei piccoli e delle loro mamme, finalità condivisa da entrambe le organizzazioni.

TCVI educational

Gli altri percorsi educativi per il mondo della prima infanzia prevedono appuntamenti nei prossimi mesi: Opera Baby, uno spettacolo in doppia recita con musicisti e performer, per bambini da 0 a 36 mesi, è in programma sabato 27 maggio alle 10.00 e alle 11.15: si tratta de “Il flauto di Tam Pam” liberamente ispirato a “Il Flauto Magico” di W.A. Mozart, uno spettacolo partecipativo di canto, movimento e musica dal vivo, preparato a scuola con gli insegnanti, che hanno seguito a loro volta un corso percorso di avviamento alla musicalità, concluso in teatro, con la partecipazione delle famiglie. Lo spettacolo propone le arie più importanti dell’opera di Mozart per invitare il pubblico dei più piccoli ad un ascolto attento e partecipato e per far loro sperimentare, tramite i diversi sensi, una “configurazione scenica” a misura di bimbo, per produrre un’opera teatrale e musicale di forte impatto e di sicura leggibilità. Vale la pena di ricordare che sono oltre 450 i bambini che nel 2022 hanno partecipato agli spettacoli di Opera Baby al Teatro Comunale di Vicenza.

Prosegue inoltre anche nel 2023 l’importante sperimentazione di Opera Baby per la fascia di età della prima infanzia: e così negli 11 asili nido della Città, a gestione o concessione comunale, grazie alla collaborazione con il Comune di Vicenza, Assessorato all’Istruzione, circa 450 bambini da 0 a 36 mesi potranno familiarizzare – durante una serie di appuntamenti programmati nel mese di maggio – con le arie mozartiane grazie a questa “trasferta” del progetto, un’occasione unica per i giovanissimi spettatori, gli educatori e le famiglie dei bambini per avvicinarsi all’opera e all’esperienza musicale con guide d’eccezione.“Opera Baby è stato nuovamente scelto per dare l’opportunità ai bambini molto piccoli di sviluppare sensibilità rispetto all’opera lirica che sappiamo capace di apportare notevoli benefici nello sviluppo. Lo scorso anno, le famiglie sono state molto soddisfatte per quanto proposto ai loro piccoli e grande è stato l’apprezzamento degli educatori che  hanno potuto notare l’interesse negli occhi dei bambini, completamente rapiti dagli attori in grado di attirare la loro attenzione. Anche quest’anno quindi sono lieta di accogliere nei nostri asili nido questo straordinario progetto”, dichiara l’assessore all’istruzione del Comune di Vicenza, Cristina Tolio.

Il progetto Opera Baby è sostenuto da Banca delle Terre Venete, così come il progetto Opera Kids (ideale prosecuzione, in termini anagrafici e come format, del precedente) che vede anche il sostegno di Rotary Club Vicenza. L’esperienza si rivolge alle scuole dell’infanzia e si conclude con un evento in programma al Teatro Comunale di Vicenza martedì 18 aprile in doppia recita alle 9.30 e alle 11.00. In scena “Magico Flauto” tratto da “Die Zauberflöte”, musica di W. A. Mozart, uno spettacolo partecipativo di teatro musicale costruito con un percorso formativo dedicato ai docenti in cui saranno protagonisti i bambini. Realizzato con la collaborazione artistica di Vincenzo Picone, regia di Emanuela Dall’Aglio, drammaturgia musicale di Anna Pedrazzini, lo spettacolo vede in scena cantanti e attori, con burattini e puppet che accompagneranno i bambini a familiarizzare ed essere protagonisti di una delle opere più famose di Mozart.

Per ulteriori informazioni e per sostenere i progetti educativi del tcvi:

“Zorro” di Margaret Mazzantini con Sergio Castellitto, al Teatro Comunale di Vicenza

“Zorro. Un eremita sul marciapiede”, scritto da Margaret Mazzantini e portato in scena da Sergio Castellitto andrà in scena al Teatro comunale di Vicenza, martedì 14 e mercoledì 15 marzo alle 20.45 in Sala Maggiore.

Castellitto della pièce cura anche la regia, per una produzione Angelo Tumminelli/Prima International Company 2022, realizzata con il sostegno di Intesa Sanpaolo.

L’adattamento teatrale si rifà ad un romanzo breve del 2004 di Margaret Mazzantini, scrittrice e moglie di Castellitto e viene riportato in scena dall’attore, amatissimo anche dal grande pubblico televisivo e cinematografico, dopo vent’anni dal suo esordio. È una storia di ordinaria diversità di un uomo, un senzatetto (Zorro, come il suo cane perduto da bambino) che sceglie di vivere ai margini della società ma, proprio per questo, riesce a vedere con maggiore lucidità la vita delle persone normali; il risultato è un monologo tragicomico ed emozionante, interpretato magistralmente dall’attore. Per le due repliche di “Zorro” al Tcvi restano ancora dei biglietti.

Prima dello spettacolo, come di consuetudine nella stagione di prosa per i titoli in doppia data, ci sarà al Ridotto l’Incontro a Teatro condotto da Nicoletta Martelletto, giornalista e caporedattrice de Il Giornale di Vicenza. Nicoletta Martelletto incontrerà il pubblico – martedì 14 e mercoledì 15 marzo e alle 20.00 – per  introdurre i temi dello spettacolo, che sono quelli del romanzo, in primis il sottile confine che separa la cosiddetta normalità dalla vita borderline.

zorro
Sergio Castellitto

“Zorro. Un eremita sul marciapiede” è uno spettacolo di grande forza e intensità, protagonista Sergio Castellitto che torna  a interpretare quel  vagabondo – un antieroe con un nome da eroe, com’è stato scritto –  che ripercorre la sua storia e le scelte che lo hanno portato a vivere sulla strada; nel mentre riflette sul significato della vita,  capace di restituire attraverso una sorta di “filosofare” allegro e indefesso il “sale della vita”, la complessità e l’imprevedibilità dell’esistenza. 

Spiega Margaret Mazzantini nelle note a margine dello spettacolo: Zorro mi ha aiutato a stanare un timore che da qualche parte appartiene a tutti. Perché dentro ognuno di noi, inconfessata, incappucciata, c’è questa estrema possibilità: perdere improvvisamente i fili, le zavorre che ci tengono ancorati al mondo regolare (…) Perché i barboni sono come certi cani, ti guardano e vedi la tua faccia che ti sta guardando, non quella che hai addosso, magari quella che avevi da bambino, quella che hai certe volte che sei scemo e triste. Quella faccia affamata e sparuta che avresti potuto avere se il tuo spicchio di mondo non ti avesse accolto. Perché in ogni vita ce n’è almeno un’altra.

Zorro è la storia di un uomo che come tutti apparteneva alla normalità della nostra società civile, ma che poi, per una serie di circostanze (un incidente in cui toglie la vita ad un altro uomo), perde tutto: la sua quotidianità, gli amici, l’amore, ma non la dignità. Dignità è infatti un’altra parola chiave della pièce: nella parabola di Zorro, da individuo “normale” inserito nella società a “rifiuto”, si palesa una delle grandi paure del nostro tempo, quella di vedere sbriciolare le nostre certezze, non solo economiche, ma anche la perdita di sé; ma la dignità non ce la può togliere nessuno e questa è una certezza. E così, una vita che gli ha sottratto tutto riesce a regalare a Zorro una nuova libertà. Nel monologo si intrecciano i registri senza soluzione di continuità: in scena c’è una storia in cui la tristezza e la malinconia si mescolano alla clownerie, perché così è la vita, che può essere dramma, ma anche commedia, in cui gli elementi si sovrappongono. È necessario avere sempre due visioni, quella dei Cormorani, i cosiddetti normali, e quella degli Zorro, i marginali, i borderline, per ricordare la necessità di questo sguardo obliquo sulle nostre vite abitudinarie e piene di certezze e pretese, nonostante gli sconvolgimenti del nostro tempo.

I biglietti per lo spettacolo sono in vendita alla biglietteria del Teatro Comunale di Vicenza (Viale Mazzini, 39) aperta dal martedì al sabato (esclusi i giorni festivi) dalle 15.00 alle 18.15, è suggerito l’appuntamento; oppure al telefono, chiamando lo 0444 324442 nei giorni di apertura della biglietteria dalle 16.00 alle 18.00 e nei giorni di spettacolo un’ora prima dell’inizio; oppure online su www.tcvi.it.

Cornedo, dalla suggestiva chiesa di San Sebastiano alla croce del Monte Verlaldo

I boschi del Vicentino regalano spesso oasi naturalistiche, in cui immergersi per un po’ di sport o di relax. A Cornedo, in una piccolina collina sorge la suggestiva chiesetta di San Sebastiano, utilizzata per i matrimoni. Dal parcheggio della chiesa si può godere di un bel panorama sul paese. Da qui si dipartono numerosi sentieri che arrivano alla croce del Monte Verlaldo, dal 2021 riposizionata sul monte e illuminata la sera.

La chiesa di San Sebastiano

la chiesa sorge sull’omonimo colle e domina la vallata. In origine era una cappella privata del castello che sorgeva sulla sommità, di proprietà dei nobili Trissino, di cui non rimane traccia. La costruzione del santuario viene fatta risalire alla seconda metà del Quattrocento. Nel Cinquecento la chiesa fu affidata ai Servi di Maria, che vi aggiunsero l’intitolazione alla Madonna e vi costruirono accanto un convento. L’edificio subì numerosi restauri che non intaccarono comunque i tratti originari.

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La bicicletta arcobaleno presente nel cortile della chiesa. Foto: Marta Cardini

All’interno, in una cappella laterale, è custodito un rilievo in legno policromo raffigurante la Madonna con in braccio il Bambino. Datato 1514, fu eseguito su commissione della famiglia Gonzati. Di notevole pregio artistico sono poi il Martirio di San Sebastiano di Antonio De Pieri del XVIII sec. ed un dipinto di Alessandro Maganza del XVI sec. raffigurante i Santi Carlo, Valentino e Bernardino.

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L’altare della Madonna di S. Sebastiano. Foto: Marta Cardini

All’esterno della chiesa il giardino è ben curato dal custode e vi è anche una bicicletta “arcobaleno”. Mentre sotto la chiesa c’è un piccolo percorso via crucis molto interessante e percorribile anche da famiglie con bambini.

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Una delle scene della via crucis presente sotto la chiesa. Foto: Marta Cardini

La croce del Monte Verlaldo

E’ una meta molto ambita da escursionisti più o meno esperti. A partire dalla chiesa di S. Sebastiano si possono trovare dei sentieri che partono dalle contrade Piccoli e Corbara. Possono essere più o meno ripidi, a saliscendi. Un altro sentiero che permette di raggiungere la vetta parte dalla località “mundi alti”. Mentre da Faedo di Monte di Malo l’escursione sembra essere meno difficile.

croce verlaldo
La croce del Monte Verlaldo. Foto gentilmente concessa da Diego Falloppi.

Ci si inoltra nei boschi con i soli rumori della natura. Ci si gode il tragitto boschivo e, se si è fortunati, trovando il sentiero giusto, si può godere anche della bellezza di alcuni campi di lavanda, che in stagione di fioritura, regalano colori e profumi intensi. Con molta pazienza e costanza, è possibile raggiungere la vetta.

Dal Monte Verlaldo scendono anche numerosi appassionati di parapendio. Il luogo è infatti attrezzato con rampa di rincorsa e lancio molto utilizzata dagli amanti del parapendio e deltaplanisti.

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Il panorama visibile dal Monte Verlaldo. Foto gentilmente concessa da Diego Falloppi

La nuova croce sul Monte Verlaldo è stata inaugurata il 29 agosto 2021 perchè la vecchia croce era caduta nell’ottobre 2018, in seguito alla tempesta Vaia. E’ alta 13 metri ed è illuminata la sera. E’ rivolta verso il paese di Cornedo come simbolo di protezione.

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Un campo di lavanda visibile lungo uno dei tragitti. Foto gentilmente concessa da Edi Catia Fongaro
rampa
la rampa di lancio per i paracadutisti. Foto gentilmente concessa da Edi Catia Fongaro

Campo Marzo di Vicenza: la Festa dei Oto e il raduno dei Quatro

Mai stato da bambino a Campo Marzo proprio l’8 settembre. Perché negli anni Settanta quel dì la ressa era puntualmente esagerata e i giri in giostra duravano la metà che negli altri giorni delle due settimane prima e dopo la festa della Madonna. E pure per il fatto che già allora due minuti sull’autoscontro costavano mica poco.

Al luna park si andava in genere una volta soltanto a stagione, di sera dopo cena, quando papà e mamme sfiniti dall’insistenza dei pargoli venivano presi per stanchezza. I più fortunati beneficiavano anche di un turno supplementare pomeridiano, ma solo se potevano usufruire del privilegio d’annoverare in famiglia un’anziana zia signorina, tipico esemplare di stagionata parentela che nelle case contadine ed affollate d’un tempo non mancava mai, per la gioia di tutta la nipotineria potenzialmente viziabile.

Si arrivava in auto da Viale Risorgimento, per inforcare col fiato sospeso la Pontara di Santa Libera, dalla cui sommità lo sguardo all’improvviso annegava nel vortice di luci calde che da laggiù in fondo Campo Marzo irradiava in un caleidoscopio di colori abbaglianti ed intermittenti. Mano a mano che percorrevi la discesa verso quello che nella fantasia di “bocia” era proprio il paese dei balocchi di collodiana memoria ti veniva incontro un odor di fritto che altrove avresti definito stucchevole ma che lì per magia avvertivi quale meraviglioso profumo.

Frammenti d’immagini, fotogrammi d’un mondo andato: rimane questo se chiudo gli occhi e ripenso all’ottovolante, alla pista con tanto di parabolica e go-kart veri, di quelli a motore, oppure alla ruota panoramica che svettava (neanche poi tanto) tra quei platani allora riccamente chiomati ed oggi vivi solo in fotografia. Indimenticabile anche il pozzo della morte, coi suoi centauri che si esibivano alle nove e alle undici la sera tra il rombare assordante di motociclette truccate e l’aroma di zolfo e benzina, evocativo di paesi lontani, di circo e d’America.

Nel giro di qualche estate ancora saresti diventato ragazzo, quindi costretto a prendere coraggio e salire temerario sul neonato Tagadà, quello per intenderci che le nostre nonne chiamavano “el tamìso”, una specie di pedana rotante che diventava fatale se la affrontavi a stomaco pieno e digestione in corso. Con l’apparire dei primi muscoli ti prendevi magari il rischio di provare a farti bello agli occhi delle ragazze, sfidando la forza di gravità per tentare di trovare il ritmo e compiere qualche rotazione completa sulle famigerate gabbie, dimentico del fatto che appena sceso ti saresti ritrovato in condizioni di sudorazione tali non solo da far allontanare le suddette pulzelle ma addirittura da renderti fastidioso il tuo stesso starti vicino.

I più baldanzosi si pavoneggiavano disputandosi le attenzioni delle fanciulle accorse attorno al pungiball, dove aitanti Rocky dei Berici dispensavano cazzotti ad una grossa palla di cuoio anziché prendersi a pugni tra loro come adesso pare invece andare più di moda a Campo Marzo.

campo marzo
Foto di Luca Rossi

Rivedo tutti questi flash mentre, seduto su una panchina, osservo mio figlio che mi è accanto ed insiste nel picchiettare la tastiera del telefonino anziché accogliere entusiasta la mia proposta di farci un giro assieme sul calcinculo. Neppure lo appassiona l‘idea di infilarci tra gli specchi dello storico labirinto, che tante mie craniate ha patito ai tempi, quando mi incaponivo nel voler trovare ad ogni costo l’uscita ad occhi chiusi per sembrare più figo.

Giusto per farmi contento il pargolo mi concede di accompagnarmi sull’autoscontro, ma solo perché avevo ormai già acquistato i gettoni per un paio di corse prima di lasciargli il tempo di dissentire.

Gli racconto di Boris, che da sempre dev’essere il titolare dell’attrazione, con questo suo nome dell’est e dunque, per la proprietà transitiva, sicuramente da giostraio. Non riesco a suscitare quei piccoli sobbalzi dell’anima in cui confidavo. Ma forse sono io ad aver torto: mi porto appresso i miei ricordi ma non ho modo né titolo per caricarlI sulle spalle o intrufolarli nel cuore di un figlio del terzo millennio, per il quale quel quasi nulla che è sopravvissuto del luna park d’un tempo è roba buona ormai solo per grigi paleontologi.

Anche perché quell’unica manciata di giostrine superstiti e i pochi ambulanti che si ostinano a friggere distrattamente patatine precotte costituiscono purtroppo solo una retroguardia smarrita, un manipolo di reduci ormai inadeguati al confronto con generazioni di giovani (e meno giovani) che nella realtà virtuale si muovono molto più a proprio agio che su un anacronistico bruco mela.

Campo Marzo tra fine agosto e la prima quindicina di settembre da qualche stagione pare refrattario alla folla. Per paradossale che possa apparire, si è trasformato nel deserto delle emozioni. Un luna park semivuoto è l’autunno del desiderio.

Era la Festa dei Oto, è diventato il Raduno dei Quatro. Gati.

Di Davide Sacco da Storie Vicentine n. 4 Settembre-Ottobre 2021


In uscita il prossimo numero di Marzo 2023
distribuito nelle edicole del centro e prima periferia e agli Abbonati
Prezzo di copertina euro 5
Abbonamento 5 numeri euro 20
Over 65 euro 20 (due abbonamenti)

Fiera del Tempo Libero, a Vicenza il salone del divertimento e della vita all’aria aperta

Dopo il grande successo della scorsa primavera con oltre 12.000 visitatori, ritorna la Fiera del Tempo Libero, il Salone del tempo Libero, del divertimento e della vita all’aria aperta, in programma dal 10 al 12 marzo 2023 nel quartiere fieristico di Vicenza.

La tre giorni dedicata al camper, ai viaggi e alla vita all’aria aperta, dedicata a tutte le famiglie e agli appassionati di viaggi alla ricerca di nuove idee e nuovi itinerari per organizzare i weekend primaverili e le vacanze estive 2023.

Di seguito cosa si può trovare alla Fiera del Tempo Libero.

Camper: al 4 l’area dedicata ai rivenditori più importanti del Nord Est italiano di camper.
2.500 mq di esposizione dei più rinomati marchi tra i quali: Adria, Arca, Benimar, Chausson, Giottiline, Mc Louis, Pilote, Sun Living. E’ l’occasione di vedere e visitare i camper all’interno e capire quali sono le migliori offerte e proposte per le prossime vacanze.

Campeggio e accessori: al pad. 4 saranno presenti aziende di accessori e complementi tecnici tra i quali tende, ricambi, sedie e tavoli, led e illuminazione e molto altro
Turismo e viaggi: lo spazio espositivo al pad. 4 che ospita enti, APT, campeggi e villaggi, organizzazioni e aziende del settore turistico con le migliori proposte di vacanze per l’estate Idee, suggerimenti ed iniziative per il turismo in Veneto, in Italia e non solo.
In contemporanea negli stessi giorni e con lo stesso biglietto di ingresso si potranno visitare:

Spazio Casa: la fiera dedicata all’arredamento e alle soluzioni abitative che si svolgerà anche il fine settimana successivo del 18 e 19 marzo al pad.6

Una manifestazione con un concept nuovo e l’obiettivo di offrire un’esposizione completa che rifletta le nuove tendenze e gli stili di vita attuali. Gli espositori coinvolti spaziano dall’arredamento interno della casa, ma anche l’esterno. Lo spazio ideale per chi sta arredando casa o semplicemente ripensando ad alcuni particolari per rendere il proprio habitat sempre più confortevole e vicino alle esigenze della famiglia.

Danza in Rete Festival Vicenza – Schio, gli appuntamenti del weekend

Danza in Rete Festival | Vicenza – Schio, giunto alla sesta edizione, è riconosciuto e sostenuto dal Ministero della Cultura ed è realizzato con il supporto della Camera di Commercio di Vicenza, che interviene con uno speciale contributo alle attività culturali realizzate in rete. È sostenuto inoltre da società a capitale pubblico come Viacqua, l’organizzazione che gestisce il servizio idrico integrato in 68 Comuni della provincia di Vicenza e dalle sponsorizzazioni di aziende private come Webuild, leader mondiale nel settore delle infrastrutture, Mecc Alte, azienda vicentina che opera a livello mondiale nel settore energetico, D-Air Lab, start up innovativa attiva nella protezione del corpo in ambito non solo sportivo.

Questi i prossimi appuntamenti.

Danza in Rete Festival

Sarà presentata una creazione iconica di una delle compagnie indipendenti più accreditate (e blasonate) della danza contemporanea italiana: sabato 11 marzo alle 20.45 al Teatro Astra di Vicenza sarà la Compagnia Abbondanza/Bertoni a portare in scena “La morte e la fanciulla”, un lavoro del 2017 vincitore del Premio Danza&Danza come miglior produzione italiana e finalista, sempre in quell’anno, al Premio Ubu come miglior spettacolo di danza. La creazione, regia e coreografia di Michele Abbondanza e Antonella Bertoni, musiche di Franz Schubert dall’omonimo quartetto in re minore del titolo, ideazione luci di Andrea Gentili, video di Jump Cut, vede protagoniste le danzatrici Eleonora Chiocchini, Valentina Dal Mas, Ludovica Messina; rappresenta un raffinato lavoro sull’ibrido, sul dialogo tra reale e virtuale, tra contemporaneo e classico, ’un gioco di forze il cui scontro è bellezza amara e luttuosa’. 

Al termine dello spettacolo (55 minuti, atto unico), si svolgerà l’Incontro con l’Artista condotto da Giulia Galvan, audience developer, a cui parteciperanno i due coreografi, fondatori della compagnia, Michele Abbondanza e Antonella Bertoni. Per lo spettacolo restano ancora pochi biglietti.

Danza in Rete Festival

Domenica 12 marzo alle 20.45 in Sala Maggiore del Teatro Comunale di Vicenza, sarà il Collectif Fair-e a presentare – per la prima volta in Italia – i ritmi ispirati alla street dance e alla house music interpretati dalle danzatrici francesi e magrebine impegnate in “Queen Blood”, creazione iconica del 2019 di Ousmane Sy, coreografo e ispiratore del collettivo, figura di spicco dell’hip hop e dell’house dance in versione francese, prematuramente scomparso poco più che quarantenne, nel 2020. 

Il Festival di danza promosso dalla Fondazione Teatro Comunale di Vicenza e dalla Fondazione Teatro Civico di Schio, giunto alla 6° edizione, sostenuto dal Ministero della Cultura, si conferma come punto di riferimento per le nuove generazioni di danzatori e coreografi italiani e stranieri, e propone un’interessante chiave di lettura della scena di danza contemporanea che chiama il confronto, vivace e diretto, con l’effervescenza dei nuovi talenti e dei nuovi linguaggi, collegando la programmazione nazionale con quella internazionale, con scelte innovative e sempre diverse, supportate dalla fidelizzazione del pubblico.

Una prima assoluta sulla scena italiana, quella del Collectif Fair-e che con “Queen Blood” (sangue regale) proporrà una performance in più atti che armonizza ed esalta i diversi percorsi e le esperienze personali delle sette interpreti, ognuna protagonista con la sua particolare matrice culturale, un mix di hip hop, danze afro ed eclettici virtuosismi. Affascinato dal concetto di corpo di ballo, Ousmane Sy ne vuole portare all’evidenza l’estetica e la ritualità dei gesti, accompagnate dal denominatore comune della musica house, in un’azione scenica concepita per “fondere il ghiaccio con il fuoco”; con un organico interamente al femminile, in una disciplina solitamente maschile (e a tratti maschilista) come l’hip hop, il coreografo crea per le danzatrici il linguaggio comune della “sorellanza”, un omaggio a tutte le donne che lo hanno cresciuto ed educato. 

Creato dopo “Fighting Spirit” (2014), “Queen Blood” esprime il passaggio dalla giovinezza alla maturità dell’artista, con un lavoro più sottile e sensuale in cui Ousmane Sy sfida le danzatrici a mettere in discussione il loro rapporto con il gesto e la performance, al fine di rendere palpabile la loro nozione di femminilità. Una performance intima e vibrante sul femminile, una rappresentazione attraverso la danza e il movimento in cui la singola identità è al servizio dell’entità comune, perché regale è una nobiltà che nulla ha a che fare con il potere, ma con la forza che si acquisisce nel superare le prove della vita. “Queen Blood” è ciò che accettiamo di essere è il messaggio del coreografo. Dal punto di vista coreografico, la sfida finale è avere un corpo di ballo che si muove all’unisono, esaltando le doti di ognuna delle danzatrici, ciascuna con il suo personalissimo background, nella convinzione che possiamo capirci e comunicare attraverso la musica e con la house dance, la nostra lingua comune.

Ousmane Sy detto Babson o Baba – è stato uno degli esponenti più importanti della scena dell’hip-hop in Francia, contribuendo alla sua affermazione nell’ambito della danza contemporanea; co-direttore del Centre Choréografique National di Rennes e Bretagna, ha sviluppato la sua poetica attraverso diversi progetti: All4House, un format che riunisce eventi di danza hip hop attorno alla musica house, Paradox-Sal, gruppo femminile caratterizzato dalla varietà degli stili di danza delle sue componenti e Collectif Fair-e, collettivo di giovani coreografi hip-hop di diversa estrazione. Nato in Mali, dov’era una celebrità, arriva in Francia dove riesce ad affermarsi come protagonista nell’house dance, diventando anche un organizzatore di festival e contest di questi generi musicali. Cresciuto con il mito della break dance, della musica e danza per accompagnare tutti i momenti della vita, si afferma come breaker (nel 1995 si unisce ai Wanted Posse), vedendo in queste forme di espressione i segni forti di un’appartenenza e di un’identità. Le sue coreografie risentono di influenze africane, di cui la musica house americana è impregnata, mixate con danze tipiche dal sapore ancestrale che lo portano a sviluppare un personalissimo concetto di Afro House Spirit, fuso al French Touch (genere musicale quest’ultimo, di fine anni ’90, primi anni 2000, reso famoso dai dj star come Bob Sinclair e David Guetta). Ousmane Sy dice che “tutto parte dalla musica” e che c’è “una musica per ogni danza e una house per ogni cultura”. Come coreografo ha voluto portare lo spirito della musica da discoteca sulla scena di danza, e nelle sue performance inserisce spesso un dj; attraverso la house dance intende spezzare gli stereotipi e così mette in scena una danza “di rivolta” maschile, con una crew tutta al femminile.

Michele Serra in scena a Schio per la rassegna “Grande Teatro”

Un grande protagonista del giornalismo italiano, Michele Serra, in scena al Teatro Astra di Schio per la stagione Schio Grande Teatro della Fondazione Teatro Civico e del Comune di Schio realizzata in collaborazione con Arteven Circuito Teatrale Regionale.

Michele Serra calca il palcoscenico scledense sabato 11 marzo ore 21 con il suo spettacolo “L’amaca di domani”.

Scrivere ogni giorno, per trent’anni filati, la propria opinione su un giornale è una forma di potere o una condanna? Un esercizio di stile o uno sfoggio maniacale degno di un caso umano? Bisogna invidiare le bestie, che per esistere non sono condannate a parlare? Michele Serra è per la prima volta a Schio con l’ironia pungente e provocatoria de “L’Amaca”, la rubrica di corsivi pubblicata su “La Repubblica”, attraverso cui punta i riflettori sulla politica e sulla società italiana.

Le parole, con le loro seduzioni e le loro trappole, sono le protagoniste di questo monologo teatrale comico e sentimentale, impudico e coinvolgente. Serra apre al pubblico la sua bottega di scrittura, senza nascondere le scorie, i trucioli, le fatiche. Le persone e le cose trattate nel corso degli anni – la politica, le star vere e quelle fasulle, la gente comune, il costume, la cultura – riemergono dal grande sacco delle parole scritte con intatta vitalità e qualche sorpresa.

Uno spettacolo intenso e nostalgico che mostra il giornalista e l’uomo, il mestiere e la passione di scrivere, le parole e la realtà che raccontano. Il Text Mining, una tecnica di classificazione e analisi del testo, aiuta Serra a dipanare la matassa della propria scrittura, ma gli fornisce anche traccia delle proprie debolezze e delle proprie manie attraverso un attento studio delle parole. Il vero bandolo, come per ogni cosa, forse è nell’infanzia. Il finale, per fortuna, è ancora da scrivere.

Michele Serra
Michele Serra

Michele Serra è nato a Roma nel 1954 ma cresciuto a Milano. Ha cominciato a scrivere a vent’anni e non ha mai fatto altro per guadagnarsi da vivere. Dal 1996 collabora con “La Repubblica”, per cui ha anche curato la rubrica quotidiana “L’amaca”. Ha fondato e diretto il settimanale satirico “Cuore”. Tra le sue opere letterarie, “Il nuovo che avanza” (1989), “Il ragazzo mucca” (1997), “Cerimonie” (2002), “Gli sdraiati” (2013). Nel 2017 pubblica la raccolta delle rubriche quotidiane scritte negli ultimi venticinque anni “Il grande libro delle amache”.

La Rua, ovvero una tradizione di VIcenza che continua

Inizialmente il pomposo «macchinario» de La Rua veniva condotto in corteo partendo da piazzetta Palladio di Vicenza, snodandosi poi per contrà Muschieria, piazza del Duomo, contrà Vescovado, piazza del Castello, il Corso, contrà Santa Barbara, per concludersi con il trionfale ingresso in piazza dei Signori.

Dopo l’uscita di domenica 8 settembre 1901, lo strascinamento si limitò alla piazza: i fili della illuminazione elettrica, le rotaie del tram e lo stato del manto stradale avrebbero poi impedito l’originario percorso. Dal 2007 è collocata stabilmente in Piazza dei Signori, mentre un suo modello ridotto, la Ruetta, sfila per il Corso, le contrà e le piazze per poi concludere la processione nel Palazzo del Capitanio.

«L’ha mai vista lei la Rua? Una torre di legno alta più delle case, con una ruota, la ‘rua’, nel mezzo, a metà della torre, come una ruota di molino con dei ragazzi legati dentro. Altri ragazzi alle finestre della torre; uno sulla punta… E tutti i costumi antichi…»: così il nostro concittadino e scrittore Gian Dauli la descrive nel suo omonimo romanzo del 1932.

Ma come è nata la tradizione che ancora continua? La storia è lunga e si vorrebbe affondasse le sue radici nientemeno che nel XIII secolo, al tempo delle frequenti lotte fra vicentini e padovani. Il campanilismo, infatti, aveva alimentato la leggenda – perché di leggenda si tratta, mancando ogni riscontro documentale – secondo la quale i vicentini avrebbero sottratto ai padovani una ruota del loro carroccio in occasione di uno dei tanti conflitti che li vedevano opposti e ne avrebbero fatto un trofeo da ostentare.

La verità storica, invece, assegna la nascita della Rua alla iniziativa del Collegio dei notai. Nei loro libri-registri si legge, infatti, che il 15 marzo 1441 fu proposto di «eleggere quattro notari, i quali debbono immaginare qualche cosa bella e venerabile per celebrare la festa del Corpus Domini», in sostituzione del modesto cero che quel giorno essi portavano in processione per le vie della città unitamente a tutto il clero, alle arti e alle fraglie, che, a loro volta, dovevano recare le loro insegne e ceri accesi. Nacque così la Rua.

Ma perché fu inserita – in una specie di tabernacolo – una ruota che oscilla in senso verticale, con dei sedili nei quali prendevano posto dei bambini? Scartata l’ipotesi dell’esibizione del bottino di guerra, due le probabili motivazioni. Una è legata alla articolazione professionale  dei  notai,  divisi  fra  «Vacantes» e «Modulantes».

I primi, superate le prove di ammissione alla professione, erano in attesa di entrare nel ruolo dei secondi, trecento in tutto, che, ripartiti in cinque gruppi o «module», oltre a redigere documenti a contenuto patrimoniale, esercitavano anche l’ufficio di cancelliere, verbalizzando gli atti giudiziari e amministrativi. Dalla rotazione nella carica alla ruota, emblema della professione, il passo fu breve.

Tanto che l’odierna stradella dei Nodari – dove aveva sede il loro collegio – che collega contrà delle Due Rode a piazza dei Signori, è denominata, nella pianta del peronio del 1481 (ovvero dell’area circostante piazza dei Signori), «via dala Rotta». La seconda motivazione sta nel fatto che essa rappresenterebbe la fortuna – che, si sa, «gira» – ma anche la nascita e la morte, il moto della terra e degli astri: una sorta, insomma, di richiamo alla ciclicità dell’esistenza, dell’universo, della storia.

Dal progetto alla realizzazione della Rua passarono tre anni: i già ricordati libri- registri del Collegio dei notai riportano infatti, sotto la data del 14 gennaio 1444, che «Nicolò Almerico, Cristoforo Muzan, Giovanni da Castelnuovo, Gabriele da Ridolfi e Giacomo Ferretto, eletti per il culto, ornamento ed aumento della festa del Corpo di Cristo, … debbano liquidare i conti con Maestro Giorgio Pittore per la fattura della Ruota e per altri ornamenti dal medesimo Giorgio fatti…». Nel successivo mese di giugno la «macchina» fece finalmente il suo primo trionfale debutto e continuò ad essere presente, con alterne vicende, nella vita della città fino al 1928.

E quasi a presagire che quella sarebbe stata l’ultima sua apparizione, lo Stabilimento tipografico Angelo Brunello celebrò l’avvenimento con la stampa di un opuscolo, riassuntivo della storia di questo simbolo vicentino.

Sopraggiungerà poi la seconda guerra mondiale e la Rua non uscirà più dal deposito di Gogna, dove era stata ricoverata, distrutta dagli incendi seguiti ai bombardamenti. La tirannia dello spazio non consente di rievocare tutte le vicende e le storie legate al manufatto. Basterà ricordare che ben presto l’evento perse la sua originaria valenza religiosa: già il 16 gennaio del 1483 il Collegio dei notai lamentava che la festa «che si fa nel giorno della processione del sacratissimo Corpo di Cristo, piuttosto che accrescere la devozione delle oneste e devote persone che vi intervengono, la diminuisce».

E che il 19 dicembre 1585 il Consiglio dei cento deliberò che la festa si sarebbe svolta, da allora in poi, annualmente – anche se in seguito non sarà sempre così – a cura e a spese della città e non più del Collegio dei notai. «Municipalizzando», così, l’evento, che divenne esibizione del potere costituito.

Tant’è che, oltre allo stemma di Vicenza, furono da allora collocati sulla «macchina» anche i simboli del dominante di turno: il leone marciano, il gallo francese, l’aquila asburgica e, finalmente, il tricolore con lo scudo sabaudo. Nel 1880 l’uscita della Rua cessò di celebrare la ricorrenza del Corpus Domini per diventare un’attrazione del «Settembre vicentino».

E proprio nell’Ottocento numerose riviste italiane e straniere, quali, L’illustrazione italiana del 1890, il Beilage zur Illustrirten Zeitung del 1857, L’univers illustré del 1860, Il mondo illustrato del 1847, dedicarono alla festa della Rua gratificanti articoli, corredati altresì da belle immagini del manufatto. Queste e molte altre testimoniano come la struttura abbia subito nel tempo mutazioni di rilievo. L’odierna ricostruita Rua, grazie al già ricordato intervento dell’AMCPS, che nel 2007 fece ricostruire l’imponente manufatto per festeggiare i cento anni della sua fondazione, riproduce, con fedeltà e in scala 1:1, quella ideata nel Settecento da Francesco Muttoni e rappresentata nell’incisione di Giorgio Fossati del 1760.

A proposito del progetto muttoniano è stato sostenuto che si tratterebbe – in realtà – della rimodulazione di un disegno di Palladio. Va osservato, al riguardo, che, per la parte sommitale dell’apparato – quella dallo stemma di Vicenza in su – e per le statue laterali, è da escludersi ogni suo intervento, essendo chiaramente cosa settecentesca. Il settore, invece, che va dalla base fino allo stemma cittadino è altrettanto chiaramente di gusto cinquecentesco. E qui, allora, potrebbe entrare in gioco il nostro architetto.

Sennonché manca ogni prova documentale che Palladio si sia effettivamente occupato del manufatto: il che, peraltro, non esclude neppure che egli sia in qualche modo intervenuto. Ecco servito un giallo da risolvere per chi volesse approfondire l’argomento.

Di Giorgio Ceraso da Storie Vicentine n. 4 Settembre-Ottobre 2021


In uscita il prossimo numero di Marzo 2023
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Prezzo di copertina euro 5
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