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L’oro di Vicenza. Il Rinascimento

Il Rinascimento, anche a Vicenza, fu un momento di fioritura delle arti, dell’architettura e della letteratura. Soprattutto le influenti famiglie della nobiltà vicentina si interessarono al mondo delle arti e cominciarono a collezionare alcune cose, in particolare gli artificialia, realizzati con tecniche complicate o segrete, provenienti da ogni parte del mondo e che suscitavano grande interesse e meraviglia.

Nel 1404 Vicenza si sottomise spontaneamente a Venezia. Fino al 1797 la Serenissima ebbe uncontrollo relativamente tranquillo sul territorio vicentino. Le due città avevano obblighi reciproci e distinte libertà; a Venezia interessava ottenere abbastanza denaro dalla colonia per la realizzazione delle sue imprese.

All’inizio del XV secolo si assistette ad una espansione della produzione mineraria e metallurgica, soprattutto di argento, oro, ferro e rame. Dalle cronache, dai rapporti di visite effettuate dai funzionari della Repubblica di Venezia, sappiamo di alcuni giacimenti di argento presenti nell’alto vicentino che attirarono l’attenzione della Serenissima.

Il Rinascimento, anche a Vicenza, fu un momento di fioritura delle arti, dell’architettura e della letteratura. Soprattutto le influenti famiglie della nobiltà vicentina si interessarono al mondo delle arti e cominciarono a collezionare alcune cose, in particolare gli artificialia, ovvero gli oggetti creati dalle mani dell’uomo, interessanti per la loro originalità ed unicità, realizzati con tecniche complicate o segrete, provenienti da ogni parte del mondo e che suscitavano grande interesse e meraviglia.

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Giovanni Antonio Fasolo,Ritratto di Giuseppe Gualdo con i figli Paolo e Paolo Emilio,1566-67,Vicenza

Una delle personalità più interessanti ai fini del nostro discorso è ad esempio il conte Girolamo Gualdo, nato in Vicenza nel 1492 e morto nel 1566, che fu amico di alcuni suoi insigni concittadini, quali Valerio Belli e Giangiorgio Trissino. La sua casa, dove volle il “Giardino di Cha Gualdo”, era situata in contrà Pusterla.

Qui creò uno spazio pensato come un museo all’aperto dove la collezione di opere d’arte era divisa cronologicamente tra gli autori più significativi nell’attività artistica di Vicenza. L’abitazione – museo, oggi distrutta, si componeva di due edifici speculari con porticati e logge, affrescati all’esterno e all’interno prospicienti un cortile scoperto che immetteva nel largo giardino abbellito di cippi, statue e sculture.

Nello studiolo erano raccolti gli oggetti più insoliti: ampolle, sigilli, carte di tarocchi, anelli, fossili, minerali, reliquie e talismani, monete,gemme, bronzi, bassorilievi, modelli di gesso. Dell’amico Valerio Belli, famoso orafo dell’epoca (fig.17), Girolamo Gualdo conservava due ritrattini in due tondelli dorati, l’uno “di Valerio intagliatore fatto per mano di Raffael d’Urbino”, l’altro “di Elio medico suo figlio fatto da Giovanni Antonio Fasolo”, oltre a numerose medaglie di cristallo di Benedetto Montagna e due paci d’oro scolpite con scene della Santissima Circoncisione e l’Adorazione dei Re Magi, che il Belli stesso aveva donato al Conte Girolamo dopo averle salvate dal sacco di Roma.

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Valerio Belli, Cofanetto in argento e cristallo di rocca, 1525

La sua casa – museo si presentava insomma come una raccolta di oggetti di cultura umanistica con riferimenti all’arte classica romana e veneziana che rappresentava bene la complessa situazione culturale di Vicenza sottoposta all’influenza della visione più moderna e aperta della Serenissima.

Gli esponenti della nobiltà e della classe erudita vicentina sentirono il bisogno di incontri e di convegni letterari che all’inizio del XVI secolo si tennero nei giardini delle case patrizie della città. Iniziò così, con la partecipazione di uomini illustri come Giangiorgio Trissino e Giangaleazzo Thiene, la tradizione dei circoli culturali a Vicenza che diventerà, nel 1555, una vera istituzione con l’Accademia Olimpica, il cui scopo era la ricerca su tutti i misteri delle scienze e delle arti.

Dagli ultimi anni del Quattrocento sino agli anni Trenta del Cinquecento, le notizie relative all’operato a Vicenza di maestri orafi si diradano notevolmente tanto da far pensare ad una crisi del settore che è in parte con- fermata dai soli cinque iscritti alla corporazione nel 1536, anno in cui vengono rinnovati gli Statuti.

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Opere di Alessandro Magonza

Tuttavia con l’elezione a gastaldo del famoso maestro Valerio Belli, si ebbe un movimento di rinascita della fraglia. Belli, noto anche come Valerio Vicentino, perché nato a Vicenza nel 1468, fu appunto un orafo, un incisore e medaglista fra i più abili del Rinascimento, elogiato da Giorgio Vasari nel suo trattato Vite de’ più eccellenti pittori, scultori e architetti italiani, da Cimabue insino a’tempi nostri.

Come il Gualdo, anche Valerio Belli fu amico di molti uomini colti suoi concittadini e, a differenze del conte, l’incisore conobbe persino Michelangelo Buonarroti e Raffaello Sanzio che lo ritrassero, il primo in un tondo di marmo e il secondo in uno di bosso. Produsse opere commissionate dai potenti di Firenze, Roma e Venezia, le tre capitali dell’arte rinascimentale: i papi, i Colonna, i Medici, i dogi. Se guardiamo alla produzione personale di Belli possiamo notare che gli oggetti per cui era famoso, e che firmò, sono o cristalli e gemme intagliate, o medaglie coniate, anch’esse risultato di una procedura di intaglio, nell’acciaio duro del conio.

Tra le sue opere più famose rimane la cassetta in argento con 24 piastrine incise in cristallo di rocca con scene della vita e della Passione di Cristo, commissionata da papa Clemente VII nel 1525, attualmente custodita al Museo degli Argenti di Firenze. La cassetta ha la forma di un piccolo sarcofago: lungo i lati maggiori una sequenza di colonnine doriche divide i vari riquadri, raffiguranti episodi della vita di Cristo dove si riconosce una forte influenza dei modelli classici dei quali Belli era un estimatore.

Altre scene evangeliche sono inserite nel coperchio e nel fondo della cassetta, che ospita le immagini dei quattro evangelisti. La cornice di argento dorato, che racchiude le diverse formelle, è decorata con fiori stilizzati e rosette disposte ad intervalli regolari entro due fasce di smalto policromo.

Nella matricola della fraglia degli orefici del 1536, accanto al prestigioso nome di Valerio Belli vi erano i nomi di altri maestri che vennero riconosciuti quali grandi interpreti dell’arte orafa, come Battista della Fede e un’intera famiglia di orefici provenienti da Schio: i Capobianco. Di questi artigiani restano poche notizie.

Sappiamo che Battista della Fede era considerato un uomo di buona fama ed era il genero del famoso architetto Andrea Palladio. Giangiorgio Capobianco fu il maggior discepolo del Belli, anche se in realtà fu un emulo di Benvenuto Cellini, uno dei più noti orafi rinascimentali che, per intercessione del duca di Urbino, gli salvò la vita dopo esser stato condannato a morte per aver ucciso in Venezia un suo nemico, e così dovette vivere esule fra Urbino, Milano e Roma dove morì nel 1570.

Alcune fonti testimoniano che a Giangiorgio Capobianco vengono attribuiti un anello d’oro dentro al quale stava un orologio che mostrava e batteva le ore, donato al duca di Urbino Guidobaldo II Della Rovere, un altro orologio, dentro a un candelabro d’argento, che nel battere le ore accendeva le candele, e una navicella d’argento semovente con varie figurine. Di Capobianco rimane anche il racconto del lavoro realizzato per l’ammissione alla fraglia: “un anelo d’oro con figure, et in la testa de lanello uno spinello per bandae di un altarolo in cristallo inciso”.

Purtroppo nessuna di queste opere ci è pervenuta. L’ultimo atto di presenza del Belli nella corporazione è citato il 27 giugno 1544, in cui si deliberò che nessuno dei confratelli si potesse recare a Venezia a farvi, in concorrenza con gli orefici veneziani, catene d’oro, braccialetti, anelli e altri lavori d’oro.

Questa deliberazione, come anche le successive leggi suntuarie, che vietavano lo sfoggio di vesti e di gioie lussuose, ebbero come conseguenza l’emigrazione di tutti i nostri migliori artisti, i quali, sull’esempio del Capobianco, abbandonarono Vicenza e andarono ad arricchire le varie corti principesche d’Italia e di Europa.

Tra le molte opere che sfortunatamente non ci sono giunte resta il modello della forma urbis di Vicenza, un modellino della città in legno, progettato dai maggiori esperti, e rivestito in argento dono alla Madonna di Monte Berico per la scampata peste del 1576.

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Il modello in argento di Vicenza ricostruito sulla base delle immagini dei dipinti di Maganza e Maffei

Nel modellino la città era circoscritta entro la cerchia di mura alto medievali con alte torri e porte. L’originale è andato perduto durante l’occupazione napoleonica nel 1797, ma alcuni dipinti hanno permesso la sua ricostruzione: due dipinti di Alessandro Maganza (1556 – 1630), uno del 1613, conservato a Thiene nella chiesa di San Vincenzo e raffigura la Madonna con il Bambino e i santi Vincenzo e Anastasio, l’altro del 1593 è una pala raffigurante San Vincenzo e un angelo che presentano a Cristo il modello della città ed è conservato nella chiesa parrocchiale di Poiana Maggiore.

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Maffei- San Vincenzo con il modello della città

Altri due dipinti sono di Francesco Maffei (1605 – 1660), uno del 1635 circa, che è attualmente nella sala di giunta della residenza comunale a palazzo Trissino a Vicenza e rappresenta San Vincenzo che regge la città di Vicenza e una pala del 1625 circa, raffigurante San Vincenzo con il modello della città, conservata al Museo diocesano di Vicenza.

Il modellino, inaugurato in occasione della festa della Madonna di Monte Berico dell’8 settembre 2016, è attualmente esposto presso il museo diocesano di Vicenza. Nel ‘500 la bottega artigiana acquisì importanza perché era diventata anche un luogo di collezione, nel senso che l’oggetto raccolto era, contemporaneamente, manufatto quotidiano, pezzo esemplare e modello da conservare.

I libri dell’Estimo del 1563-64 testimoniano la demolizione di sette botteghe che si affacciavano sul Peronio perché non più inserite nel nuovo assetto estetico strutturale del progetto della piazza, la loro locazione fu spostata sotto il volto degli Zavattari al compimento del palazzo della Ragione. L’Estimo informa che esistevano due botteghe sotto il palazzo della Ragione “da capo della piazza”, quattro botteghe situate “de dredo” verso piazza delle Erbe, affittate estraendo a sorte i nomi dei maestri orafi, come a un certo Iseppo Parente, a Cesaro orefice, a Troilo orefice e a Francesco Montecchio.

Questi erano i luoghi preposti per l’esercizio e il commercio degli orafi, ma non tutti si adeguarono alle norme dettate dagli statuti. Dai documenti notarili sappiamo che Giorgio Capobianco stava in una “apoteca” del corso. Le botteghe, inoltre, non dovevano esercitare il commercio durante tutto il periodo della durata delle fiere cittadine che, dal 1570 diventò una sola fiera, aperta dal 28 ottobre all’11 novembre.

In quest’epoca Venezia era considerata la porta per l’Oriente per tutti i paesi della mappa commerciale, di conseguenza a Vicenza vi giungevano gli echi delle culture straniere che influirono sul gusto e sulle scelta degli ornamenti e del costume. Da quei legami nacquero manifatture peculiari che evocano un’origine esotica. Tra i prodotti che giungevano nella Dominante grande parte avevano le perle e i coralli, l’avorio e le pietre preziose. L’imitazione degli stili e delle tecniche di lavorazione dei metalli preziosi per gli orafi vicentini fu inevitabile.

Un’interessante testimonianza sui modi per lavorare i metalli preziosi nelle botteghe del Cinquecento ci è offerta da Vannoccio Biringuccio (1480 – 1539), un metallurgista di Siena che viaggiò in Italia e in Germania, esercitando l’arte di fonditore e di tecnico minerario. Conosciuto soprattutto per il suo trattato De la Pirotechnia pubblicato nel 1540, dove fornisce una dettagliata descrizione delle principali operazioni di chimica e di lavorazione metallurgica e descrive anche l’attività orafa presente a Vicenza, all’interno delle botteghe del ‘500. Nel libro IX intitolato “Dell’arte del Fabbro Orefice” si dice che per poter lavorare bene oro e argento occorreva imparare a disegnare e, una volta acquisita tale disciplina, l’orafo doveva apprendere la tecnica della fusione.

La tecnica di fusione era di due tipi: una era necessaria per preparare la lega e l’altra per ricavare delle forme decorate. Per rifinire l’oggetto, occorreva conoscere altre tecniche, per smaltare e niellare, per dorare e lavorare di martello, di bulino, di lima e cesello. Nel Rinascimento trovò grande sviluppo l’arte dei battiloro per la grande richiesta di foglie d’oro usate nella doratura di sculture e cornici e per la produzione di fili d’oro impiegati nella tessitura di preziosi broccati.

La laminazione delle foglie d’oro avveniva in tre operazioni distinte: la laminazione, con il laminatoio a cilindri, la fusione e la battitura. Anche le fonti iconografiche acquisiscono importanza per venire a conoscenza dei diversi modi di lavorare i metalli preziosi. A tal proposito, infatti, sappiamo che per ridurre in filo l’oro era usato un banco a trafila sempre più piccola, dove il metallo era tirato con l’ausilio di una tenaglia trascinata da una corda avvolta sul cilindro di un argano mosso a mano.

Con il crescente impiego di pietre preziose provenienti dall’Oriente e dalle nuove terre scoperte, da incastonare negli anelli, diventò necessario possedere una approfondita conoscenza sulla qualità e i difetti delle pietre preziose. Per questo motivo, nel Cinquecento, si sviluppò l’arte della glittica, ossia l’arte dell’intaglio di pietre dure e gemme a “risalto”, cioè con l’utilizzo di strati sovrapposti di pietre di diverso colore per lasciar spazio ad una figurazione chiara su sfondo scuro, o gemme a “incavo”, dove la figura diventa matrice per sigilli.

Se nel primo Cinquecento i grandi incisori preferivano la perfezione e la limpidezza dell’intaglio in cristallo di rocca, solo nella seconda metà del secolo ritornò l’interesse per le pietre dure colorate – onici, agate – ed i cammei presero il sopravvento sugli intagli. I soggetti decorativi scelti seguivano il gusto rinascimentale dei modelli e dei temi dell’antichità classica: i miti greci e romani, il simbolismo magico o religioso, la ritrattistica.

Nel Rinascimento le placchette erano molto usate in bottoni di cappe, fermagli da vestiti, insegne e fregi da berretto, ornamenti a armatura o cintura e finimenti di cavalcature e in oggetti di uso quotidiano, come calamai, saliere o cassette e forzieri. Cesare Vecellio (1521 – 1601) nel 1589 disegnò 503 personaggi in Habiti antichi et moderni.

L’opera colossale riporta minuziose descrizioni di costumi dall’antica Roma al primo Rinascimento, ma soprattutto in uso negli anni fra il 1550 e il 1590. L’autore, oltre a citare i turbanti dei sovrani orientali impreziositi di gioie, i ricchi broccati arabescati d’oro e d’argento che gettano un ponte tra le ornamentazioni del Levante e i decori delle dogaresse e donzelle veneziane e delle signore vicentine, descrive anche per intero il costume delle vicentine della metà del XVI secolo: “Vestono vesti di raso con collari accollati dai quali vengono fuori le lattughe delle camicie ben lavorate e sottili, le maniche aperte giù per il braccio fermate con bottoni d’oro.

Usano portare al collo collane d’oro e aver per cinture alcune catene fatte di bottoni d’oro, con un capo delle quali legano un ventaglio di piume bellissime”. Nel Rinascimento il gusto della moda coglieva spunti delle corti europee e asiatiche: le collane di perle incorniciavano la base del collo, mentre pendenti di perle a goccia ornavano l’orecchio e le acconciature. Le spille, tanto in uso fino al XV secolo, con funzione di fermaglio della veste o del mantello, persero di importanza con l’avvento dei bottoni.

Questi, prima posizionati lungo la schiena divennero veri e propri gioielli di oreficeria quando il costume cambiò, portando la allacciature sul davanti. La moda dell’epoca prevedeva anche l’uso delle catene sottili a più fili, era adottato indistintamente dalle donne, dagli uomini e dagli ecclesiastici. Le prime catene prodotte furono le forzatine, la catena ad otto, la coda di volpe.

Questa moda è documentata in numerosi dipinti di artisti che operavano nell’area vicentina. Tra questi Giovanni De Mio (1510/12 – 1570), definito dal Palladio “homo di bellissimo ingegno”, che nella Adorazione dei Magi, firmata e datata al 1563, eseguita per la chiesa di Santorso, nel vicentino, oggi nella chiesa di San Lorenzo a Vicenza, rappresenta la catena come un ornamento di uso quotidiano.

Nel Ritratto di nobile giovinetto di Girolamo Forni (1558 – 1620), eseguito nel primo decennio del XVII secolo, oggi conservato nella Pinacoteca di palazzo Chiericati a Vicenza, una catena a tre fili viene indossata a bandoliera sul vestito damascato. Un altro esempio è offerto da un dipinto della seconda metà del XVI secolo, anch’esso conservato presso la Pinacoteca di palazzo Chiericati a Vicenza, il Ritratto di Ippolito da Porto, eseguito da Giovanni Antonio Fasolo (1530 – 1572), nella seconda metà del XVI secolo, dove il condottiero indossa una catena doppia, a losanghe, con un ciondolo posato sul petto che riporta sbalzata una quercia mentre la spilla con brillanti e piume da cappello mostra una palma.

Da tutti questi esempi è facile capire come la ritrattistica veneta del Cinquecento sia, ai fini della ricerca storica, una fonte iconografica preziosa per la storia del costume sociale, della moda e dell’uso dei gioielli. Le opere pittoriche diventano la testimonianza di un particolare momento storico che offre la possibilità di evidenziare diversi aspetti della vita dell’epoca, come ad esempio il gusto dei gioielli.

È necessario però prestare attenzione nel distinguere di volta in volta l’elemento realistico da quello simbolico delle raffigurazioni. Antonio Fasolo, pittore di origine lombarda, ma vicentino d’adozione, a Vicenza lavorò come ritrattista per la nobiltà cittadina. I suoi dipinti sono interessanti testimonianze di quella “civiltà di villa” peculiare del Veneto, dove i soggetti sono sempre aggiornati secondo i dettami della moda veneziana imperanti tra il sesto e l’ottavo decennio della seconda metà del Cinquecento.

Gli affreschi del Fasolo nel salone di villa Caldogno Pagello, a Caldogno, costituiscono un episodio particolarmente significativo. Il pittore è chiamato soprattutto a mettere in scena una serie di tranches de vie giocate anche sull’apparente caratterizzazione ritrattistica dei personaggi, raffigurati nelle dilettevoli occupazioni della villeggiatura con una libertà di atteggiamenti “fuori etichetta”, del tutto inedita e certo concepibile solo in villa, ma che, lo stesso, pone più di qualche interrogativo.

Gli affreschi Scene di vita in villa, eseguiti sullo scorcio del settimo decennio del Cinquecento, mostrano le figure maschili elegantemente vestite in velluto di seta, con le corte brache rigonfie e la giubba dalle aderentissime maniche staccabili, abbinate al colore delle calze e del berretto piatto di feltro con piume di struzzo infilate in un medaglione d’oro e le pesanti auree catene intorno al collo. Le giovani nobildonne indossano ampie vesti in seta allacciate sul davanti, al collo portano semplici catene o fili di perle. Hanno i capelli raccolti con dei fermagli in oro arricchiti con perle e pietre preziose.

Presso la Pinacoteca di palazzo Chiericati, a Vicenza è conservato un altro dipinto di Antonio Fasolo, il Ritratto di Paola Bonanome Guoaldo con le figlie Laura e Virginia, eseguito intorno al 1566. In questo dipinto è la perla a dominare l’immaginario femminile veneziano o vicentino dell’epoca: così le fresche donzelle del Fasolo portano gli orecchini allora più diffusi e un anello da cui pende una goccia di grandi dimensioni.

Paola Gualdo indossa un girocollo di perle, una catena ad anelli che pende fino alla vita e un’altra più corta che è fissata sul petto da una spilla con pendente di perla, gli anelli sono numerosi. Anche le figlie sono riccamente addobbate e indossano un girocollo a grossi grani di corallo a cui si alternano fusarole d’oro filigranato, anticipando quella che sarà la moda del secolo successivo dove i vivi cromatismi sono la caratteristica principale del gioiello. Le scollature sono nascoste da veli d’oro e d’argento, ricamati a Cipro; ai polsi, bracciali dal gusto veneziano a catena di maglia doppia.

Le cinture d’argento dorato, su cui sono inca- stonate perle e gemme policrome, segnano il punto vita delle vesti broccate. Anche il piccolo cane ha il suo collare ornato e prezioso. In questo episodio pittorico Fasolo descrive una delle pagine più vive della ricca storia del costume rinascimentale e del gioiello in uso nella società vicentina del tardo Cinquecento, ma occorre ricordare che questo era il costume tipico delle famiglie nobili e, in questo caso, le fanciulle ostentano una certa ricchezza per soddisfare il desiderio della committente stessa.

Nel Ritratto di giovane donna, del 1566 – 1567, sempre del Fasolo e oggi parte della collezione Zanella a Santorso, i monili esprimono uno stile smisurato. Il suo corredo si distingue per la ricercatezza dei particolari nei gioielli propri del XVI secolo. La collana di perle è in coordinato con i fili che intrecciano l’acconciatura, trattenuti da fiocchetti di seta che caratterizzano la moda della metà del Cinquecento.

La lunga collana di perle naturali di dimensioni diverse e pietre preziose, termina alla vita con un pendente ovale che delimita un cammeo a testa rossa. Sui fianchi è appoggiata una cintura a catena e vaghi in oro cui è appeso il ventaglio. Gli anelli sono in rubini e diamanti e al polso sinistro indossa un bracciale a catene fissate a una perla nera.

La testimonianza più esaustiva degli ornamenti femminili cinquecenteschi a Vicenza si trova nel Ritratto di Isabella Valmarana – Thiene , opera del Forni, eseguita nel 1594. I cordiali rapporti di Forni col padre di Isabella, Leonardo Valmarana, del quale fu esecutore testamentario, rendono ancor più verosimile il suo coinvolgimento nell’esecuzione del dipinto, realizzato con ogni probabilità in occasione del matrimonio della giovane con Ludovico Thiene nel 1594: lei aveva giusto vent’anni, un’età conveniente ai lineamenti poco più che adolescenziali del ritratto. Il rosso, poi, nel Cinquecento, era il colore degli abiti nuziali e anche i fiori sulla spalla e tra i capelli s’inscrivono nella tradizione matrimoniale. L’abito che indossa è ricco, ma non sontuoso, profilato alla vita da un grosso cordone dorato.

I capelli sono raccolti in un’acconciatura di perle e fiocchetti di seta rosa intenso; porta due bracciali a filo cordonati doppi e orecchini di perle grigie a goccia, legati da un fiocco di tessuto dello stesso colore dell’abito arricchito con una gorgiera in pizzo. Al collo sfoggia una robusta catena d’oro a maglia larga con pendaglio che incornicia, sempre in oro, un grosso cammeo. Se il gioiello laico si avvicinava sempre più al moderno concetto dell’ornamento di bellezza, l’oreficeria di oggetti sacri risentiva di più lenti cambianti di stile.

Dalla tesi di laurea di Anna Milan “Dalla Fiera al Museo dell’oro: oreficeria e gioielleria a Vicenza” pubblicata a puntate su Storie Vicentine n. 10 settembre-ottobre 2022


In uscita il numero di Maggio 2023
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L’oro di Vicenza. L’età medievale e i capolavori di arte sacra

La storia dell’arte sacra vicentina racconta una profonda devozione di popolo e il forte richiamo all’identità culturale oltre che religiosa della città. Attraverso la generosità delle donazioni diventava possibile la realizzazione di autentici capolavori in oro.

I capolavori di oreficeria sacra, attualmente conservati nella diocesi di Vicenza – sebbene non siano oggetto centrale dello studio, più orientato alla ricerca sulla gioielleria – sono, comunque, un elemento importante nell’analisi dello stile e delle tecniche orafe dell’epoca tra la fine del XIII e il XV secolo.

arte sacra
Reliquia della Sacra Spina a Santa Corona

Ne è un esempio il Reliquiario della Santa Spina, donato nel 1259 da San Luigi re di Francia al vescovo vicentino Bartolomeo da Breganze che volle la costruzione della chiesa di Santa Corona per conservare la reliquia e dove è ancora oggi custodita. In origine il reliquiario era costituito da una croce d’argento dorato che reggeva una teca in cristallo ove era posta la reliquia sormontata da una corona anch’essa d’argento.

Successivamente venne ingrandito con un basamento in forme gotico–internazionali, con una parte centrale a corona e con una sovrastante struttura a rami di pruno. La corona centrale, originale, lavorata come una corona di spine, regge una piccola teca contenente la reliquia di una spina della corona di Cristo, con raffigurazioni delle Marie al sepolcro da un lato, della Resurrezione dall’altro e da iscrizioni liturgiche in gotico.

Alla corona sono applicate altre tre placche con miniature tipicamente duecentesche disegnate su pergamena e protette da vetro, esse raffigurano San Luigi e il Beato Bartolomeo. Una recente e accurata ispezione delle parti interne del reliquiario ha potuto accertare un intervento ottocentesco che comportò il rifacimento completo del fusto e del piede, cui si sono aggiunti il completamento delle parti decorative mancanti e la indoratura del coronamento floreale.

Di epoca posteriore sono la base, con struttura piramidale a sei facce, le cui bordature a traforo contornano sei placchette in argento smaltate a traslucido con raffigurazioni di santi. L’impugnatura è costituita da tre parti sovrapposte ispirate all’architettura gotica con edicole, finestrelle, pinnacoli e statuine a cesello e fusione.

L’albero, che sovrasta il reliquiario, è composto da sei rami laterali, terminanti in piccoli busti di profeti, e uno centrale con la figura di un angelo alato, l’influenza è chiaramente gotico-naturalistica. Se si considera un confronto con l’oreficeria veneziana, il reliquiario, non considerando il nucleo centrale più antico, viene datato tra la seconda metà e verso la fine del XIV secolo.

Madonna con Bambino

Un altro modello esemplare dell’oreficeria sacra di impronta trecentesca è la statuina in argento della Madonna con Bambino, oggi conservata al Duomo. Voluta dal vescovo di Vicenza Giovanni de Surdis nel 1383, quando Vicenza era in preda alla peste, egli volle spendere, come si legge nel testamento, cinquanta ducati d’oro per costruire una figura della Madonna tutta in argento, “…per porla sopra l’altare di Maria Vergine nel Duomo di Vicenza”. Alta 54 centimetri, lavorata in argento tutto tondo, la statua raffigura la Vergine a figura intera che, ritta in piedi, regge sul braccio sinistro il piccolo Gesù.

Il capo è senza velo, sovrasta la corona regale. La lunga tunica, cinta in vita, le cade ai piedi in ricco panneggio curato. Lo scollo e i bordi delle maniche sono impreziositi da fine decorazione, di gusto rinascimentale. La figura poggia su uno zoccolo ottagonale a due fasce sovrapposte, di gusto gotico. La prima fascia sopra il bordo sagomato reca alternate i simboli della famiglia dei de Sordi (tre aquile imperiali ad ali spiegate disposte a triangolo su sfondo azzurro) e una rosa araldica.

Su un piccolo braccio a sporto proprio di fronte alla Vergine è applicata la piccola immagine del vescovo Giovanni de Surdis, il committente dell’opera, con mitra in capo, in ginocchio e a mani giunte, in posa solenne. Da queste sue caratteristiche si presume che l’opera sia da assegnarsi ad artefice, per ora anonimo, settentrionale con forti influssi nordicotedeschi. Un altro esempio di oreficeria sacra trecentesca è la Croce processionale del Duomo di Vicenza.

La croce poggia su un nodo nella consueta struttura a tempietto gotico-internazionale, con piccole guglie, nicchie e statuine di santi, cui sovrasta un cupolino a spicchi; di qui si dipartono due rami recanti le figure della Vergine addolorata e di San Giovanni. Per la tipologia e i suoi caratteri stilistici, la grande croce è stata riferita dall’Arslan alla bottega dei Da Sesto (Venezia), ipotesi successivamente confermata da Steingräber, che vi riscontra altresì influssi del primo Rinascimento, e da Mariacher, che tende a ricollegarla allo stretto ambito dei Da Sesto per il permanere del gusto tardogotico nel nodo e nella decorazione del fondo delle lamine.

Questi sono i prodotti più significativi dell’oreficeria sacra a Vicenza nel tardo Trecento, alcuni dei quali divennero in seguito modelli per la realizzazione della corona della statua della Madonna di Monte Berico, ma non mancano altri elementi di tradizione tardo gotica custodite nelle parrocchie della provincia di Vicenza, come il calice di rame e argento dorato della chiesa parrocchiale dell’Assunta a Sarego o la croce astile in lamina d’argento della chiesa parrocchiale di Cornedo Vicentino.

Dalla tesi di laurea di Anna Milan “Dalla Fiera al Museo dell’oro: oreficeria e gioielleria a Vicenza” pubblicata a puntate su Storie Vicentine n. 10 settembre-ottobre 2022


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L’oro di Vicenza. L’Età Medioevale, la fraglia degli orafi e le regole dell’apprendistato

Prosegue il viaggio di L’altravicenza con l’oro grazie alla pubblicazione a puntate della tesi di laurea di Anna Milan “Dalla Fiera al Museo dell’oro: oreficeria e gioielleria a Vicenza” pubblicata a puntate sul numero 10, settembre-ottobre 2022, di Storie Vicentine.

oro
La Matricula Vetus degli orefici di Vicenza (o Statum Aurificum Vicentiae)

Il travagliato periodo politico che seguì la crisi del regno longobardo portò, nel giugno del 774, l’avvento del dominio franco di Carlo Magno. Passata sotto i franchi, Vicenza divenne sede di contea e rimase un centro gravitazionale nella mappa dei territori soggetti ai carolingi. Durante tutta l’età carolingia, e nei difficili secoli che si susseguirono, l’attività artigianale non era istituzionalizzata e gli artigiani non avevano l’obbligo di riunirsi in corporazioni (collegia): l’artigiano era classificato tra il popolo di bassa condizione perché la sua immagine non si conciliava con il modello di massimo riferimento culturale, che era rappresentato dal guerriero.

Tale considerazione era così diffusa che anche la storia dell’orefice, e poi vescovo di Noyon, Eligio, veniva ricordata come un riferimento d’eccezione e, non a caso, Sant’Eligio divenne il patrono degli orefici: vissuto dal 590 al 660 d.C., apprese l’arte dell’oreficeria sotto la guida del maestro Abbone a Lemovacium (Limoges) e dimostrò le sue doti di artista eseguendo lavori importanti. Eccellente nella lavorazione di gioielli d’oreficeria quanto in pietà e carità cristiana, venne, infine, chiamato a reggere il seggio vescovile di Tournai e Noyon dove morì.

Dalle fonti apprendiamo che l’artigiano, tra la fine dell’VIII e l’inizio del IX secolo, acquisì una propria identità grazie alla presenza delle “gilde”, ossia dei raggruppamenti sociali che li classificavano, ma che non possono considerarsi preludio delle corporazioni artigiane del tardo medioevo che, invece, fiorirono tra il XII e il XIII secolo, quando le associazioni artigiane, riunitesi per tutelare i propri interessi, assunsero un ruolo importante nella vita della città.

Tale tendenza a difendersi nacque spontaneamente nel momento in cui l’autorità dello stato si indebolì o si rivelò assente. Fu così che commercianti e artigiani fecero il loro ingresso nella vita politica comunale e si posero come terza forza tra nobili e ricchi mercanti. Il primo documento ufficiale in cui si fa esplicito riferimento agli artigiani orafi vicentini è lo Statuto comunale del 1339, periodo in cui Vicenza si trovava sotto il dominio scaligero. In questo documento si trova registrata la fraglia degli orefici, ossia la corporazione d’arte e mestieri che riuniva tutti gli artigiani orafi e che veniva ammessa all’elezione di un membro del consiglio degli anziani. In questo modo la fraglia degli orefici poteva partecipa- re attivamente alla vita economica e politica di Vicenza.

Nonostante questo riconoscimento la corporazione ancora non possedeva un proprio statuto che ne regolamentasse la vita consociativa, la quale si basava essenzialmente su regole non scritte ma rispettate dagli appartenenti alla congregazione. Negli statuti approvati dal consiglio cittadino nel 1352 troviamo i documenti ufficiali della categoria degli orefici, come l’elenco dei maestri confratelli iscritti alla Matricula, ossia i capitoli con le norme per il buon governo della fraglia, con la quale gli orefici ottenevano una tutela dei propri interessi e facevano riconoscere la loro posizione attraverso i rispettivi rappresentanti: i gastaldi e il consiglio minore dei quaranta. La Matricula Vetus degli orefici di Vicenza (o Statum Aurificum Vicentiae), conservata nella Biblioteca civica Bertoliana della città, è il documento fondamentale della fraglia degli orefici.

Questo statuto, che costituisce la più antica testimonianza storica in età medioevale dell’istituzione che associa ufficialmente gli Artieri dell’oro vicentini, raccoglie le prime norme scritte riguardanti l’organizzazione gerarchica e le regole di condotta alle quali gli affiliati del XIV secolo dovevano attenersi; inoltre contiene la lista, o matricola, dei nomi degli iscritti all’arte orafa.

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Gli spazi commerciali sotto il portego della Basilica Palladiana

La Matricola è trascritta in fogli di pergamena, la compilazione è in caratteri “gotico – librari”. Il volume non è in realtà un testo unitario. È costituito dalla riunione di carte di cancelleria realizzate come copie di atti notarili, da alcuni stralci dei più antichi statuti della fraglia – datati di recente entro un arco cronologico collocabile tra il 1322 ed il 1339, forse addirittura risalenti al Vicariato imperiale su Vicenza del 1311 – 1312 a cui sembra riferirsi il proemio degli statuti – cui sono allegate alcune parti di antiche matricole, ossia di elenchi dei maestri iscritti all’arte, risalenti, queste, al XIV e XV secolo con alcune aggiunte cinquecentesche.

Il codice si apre con una maestosa invocazione alla Trinità, alla Vergine Maria, agli Apostoli, ai Santi patroni della città (Felice, Fortunato, Leonzio e Carpoforo) e a tutti i santi, affinché veglino sui vicentini e mantengano la pace. A questa segue la lista delle domeniche e delle festività religiose che gli orefici, molto ossequienti al culto cristiano, erano tenuti a celebrare, con l’astensione al lavoro e la partecipazione alle cerimonie, pena una multa pecuniaria. Successivamente venne definita l’organizzazione gerarchica delle autorità che governano la fraglia: il gastaldo era il capo indiscusso, che possedeva una rilevante responsabilità giuridica ed era affiancato dal consigliere.

Entrambi erano eletti dal capitolo, ossia l’assemblea dei confratelli; il loro incarico durava quattro mesi e al momento della nomina essi giuravano di operare per il bene della fraglia sui Vangeli. Spettava al decano recapitare le convocazioni alle riunioni, a frequenza obbligatoria, della confraternita e alle cerimonie religiose. Nell’ambito del capitolo tutte le proposte erano vagliate, discusse e votate con il sistema del ballottaggio. In questo modo gli affiliati erano coinvolti attivamente nella votazione delle delibere e erano così maggiormente motivati a rispettarle. La Matricola doveva essere presentata ogni anno al podestà, che delegava un giudice ed un notaio per esaminarla e verificare che rispettasse gli statuti della città.

Talora quindi per decreto dei deputati alcuni capitoli, benché approvati dalla fraglia intera, venivano cancellati; tal altra modificati. Il gastaldo aveva il compito di controllare periodicamente la qualità e il titolo dell’oro e dell’argento, l’esattezza dei pesi e delle bilance, e i manufatti degli orefici presso le loro botteghe collocate, per statuto, nel Peronio di Vicenza, cioè nell’attuale piazza dei Signori.

Queste continue ispezioni garantivano la qualità del manufatto, costituendo la premessa allo sviluppo di questo mestiere, il cui prestigio si consoliderà nei secoli potendo avvalersi di questa solida tradizione. L’associato veniva radiato qualora non avesse rispettato le risoluzioni del capitolo. Dopo aver descritto l’organizzazione della confraternita, la durata e i compiti delle varie cariche istituzionali, nella Matricula si affrontano tutte le regole che disciplinavano la vita lavorativa e i rapporti fra gli affiliati: ad esempio, quando un confratello moriva, tutti i componenti della fraglia dovevano rendere omaggio al suo corpo accompagnandolo nel rito funebre.

Nell’ultima parte del documento si arriva alla Matricula vera e propria, ovvero l’elenco dei nomi dei confratelli, dal quale risulta che spesso il mestiere si tramandava da una generazione all’altra. La lista rivela anche l’eterogeneità della provenienza degli orefici attivi a Vicenza; oltre agli autoctoni si deve però ricordare che nella fraglia erano entrati diversi orafi foresti, evidentemente attirati dall’importanza e dal prestigio attinto dall’arte orafa. Erano presenti orafi lombardi, piemontesi, emiliani e perfino francesi e tedeschi24.

Questo dimostra che già nel XIV secolo la fraglia godeva di grande credito e rappresentava un notevole polo di attrazione e di fiorente attività commerciale. Lo statuto si interrompe a questo punto, tuttavia esistono dei documenti che testimoniano come il codice abbia subito delle mutilazioni, perciò oggi possiamo leggere solo una parte del regolamento al quale erano sottoposti gli orefici della confraternita vicentina.

Da questo importante documento si nota come gli orefici conquistarono, nel corso del XIV e XV secolo, una determinante rilevanza politica, che consentirà loro un notevole sviluppo economico. L’ammissione alle fraglie era riservata solo a chi esercitava il mestiere, a patto che l’artigiano, di età maggiore ai venticinque anni, riuscisse a sostenere i pesanti oneri finanziari richiesti per l’ammissione, sapesse leggere e scrivere e non avesse debiti con la fraglia o con il Comune.

Inoltre era necessario esibire l’attestato redatto dalla parrocchia che assicurava la buona moralità dell’aspirante e l’attestato che certificasse il tirocinio e la pratica dell’arte esercitata. Lavoratori e garzoni erano esclusi dal Capitolo e pertanto, non avevano diritto di voto, non potevano prendere parte alle decisioni della fraglia né accedere a nessuna carica direttiva. Erano però soggetti al pagamento di un contributo simbolico, all’osservanza di tutte le norme statuarie e all’obbedienza del maestro che li guidava e li istruiva all’arte. Per passare dalla categoria più bassa, quella dei garzoni, alla successiva dei lavoranti, e da questa alla superiore dei maestri, era quasi sempre indispensabile sostenere e superare specifiche prove di abilità nell’esercizio dell’arte.

Dopo un lungo tirocinio di cinque anni il lavorante o il garzone poteva sostenere l’esame per il passaggio alla categoria superiore. In tal caso il richiedente doveva eseguire un’opera d’arte da sottoporre a una commissione di esperti giudicanti. Se la prova veniva superata la richiesta di ammissione veniva proposta al Capitolo e quindi messa ai voti. Se il numero di votanti a favore raggiungeva la maggioranza relativa il candidato, dopo aver giurato fedeltà allo statuto, otteneva il diritto di ascrivere il proprio nome nella lista della matricola.

Dal momento dell’iscrizione alla matricola, il corporato godeva di tutti i diritti concessi dalla fraglia, compreso quello di aspirare alle varie cariche direttive, esercitare l’arte e vendere i prodotti nella propria bottega, avere alle dipendenze garzoni e lavoranti. Per la fraglia degli orefici la festa del patrono si celebrava il 25 giugno, giorno di Sant’Eligio, con una messa solenne a cui dovevano partecipare tutti i confratelli iscritti nella chiesa di San Eleuterio, sede della confraternita.

Questa era una delle sette proto-cappelle vicentine, sorta prima del Duecento, nell’attuale slargo nell’odierna contrà Santa Barbara verso piazza Biade e dove nel 1454 venne eretto un altare a lato dell’altare maggiore, a spese degli orefici, dedicato al patrono della fraglia. Alla fine del XVII secolo la chiesa subì gravi danni a causa di un terremoto e, ricostruita, divenne sede della confraternita dei Bombardieri, cambiando nome in Santa Barbara. Oggi la chiesa non esiste più in quanto altri avvenimenti storici hanno portato alla sua soppressione e demolizione.

Tra le altre regole che lo statuto della fraglia orafa imponeva, vi era il controllo sul titolo dell’oro e la bollatura degli oggetti che veniva eseguita dai capi delle università e dei collegi. I rei erano soggetti a pesanti sanzioni pecuniarie e non solo; era anche prevista la chiusura della bottega e la distruzione degli oggetti prodotti con metallo non legalmente accettato. Queste regole statutarie furono una garanzia della validità dei pro- dotti per tutelare sia il cliente che tutta la categoria artigiana e, allo stesso tempo, il loro rigore giustificò l’ascesa della confraternita a Vicenza. Le botteghe dei maestri orafi venivano controllate con regolarità.

Esse dovevano essere locate esclusivamente nella piazza principale della città: il Peronio, oggi piazza dei Signori, in mostra nella più antica planimetria di Vicenza, che si conosca, fortunatamente recuperata più di trenta anni fa da Ettore Motterle. Si tratta di un disegno a inchiostro, di 61 cm x 43 cm, su una carta purtroppo strappata, databile con quasi assoluta precisione all’attacco degli anni Ottanta del XV secolo, dove sono segnati i seguenti toponimi: Pescharia, la piaza dal pesse menudo, la strada se va al Domo, la via dala Rota, la contrada di Zudei, la via dala Malvasia, la contrada dale veture, la contrada di Santo Eleuterio, piaza dale Biade, via di Servi, la piaza dal vino.

Il Peronio, oggi piazza dei Signori, in mostra nella più antica planimetria di Vicenza

Quindi la pianta del Peronio, conservata nella Biblioteca Bertoliana di Vicenza, mostra le piazze e le strade che confluiscono nell’attuale piazza dei Signori, centro dell’attività commerciale e amministrativa della città dove trovano spazio sette costruzioni al pianterreno, affianco al palazzo e alla torre dei Bissari. Queste non sono altro che alcune delle botteghe degli orefici iscritti alla fraglia, edifici che nel XVI secolo il Comune farà abbattere e trasferire sotto la Basilica palladiana.

In questa area erano ubicate anche altre botteghe di artigiani, come quelle dei recamatores, tessitori di fili d’oro, che a loro volta erano prodotti dai battiloro: orafi specializzati nella tiratura dei metalli preziosi, in foglia, richiesta per le grandi opere pittoriche su tavola, o in filo, utilizzato in ricami e broccati. Le fraglie vicentine si presentano come dei “micro – governi”, all’interno di uno più grande: il Comune. Le fraglie, infatti, erano considerate come enti giuridici ai quali venivano riconosciute dall’autorità pubblica le facoltà di emanare leggi proprie, di autogovernarsi e di amministrarsi autonomamente.

Tale forza politica – economica non poteva prevaricare l’autorità del Comune che attuava dei controlli legislativi. Tutte le norme statutarie elencate resteranno in vigore, unitamente ad altre prescrizioni o leggi in materia di lavorazione e vendita emanata dal governo veneziano, sino alla fine del 1700 quando, come vedremo, gli orafi vicentini provvederanno ad un aggiornamento del loro Statuto che, unitamente alla fraglia stessa sarà cancellato nel 1806 dai nuovi padroni francesi.

L’artigiano orafo, staccatosi dalla mera manualità artigiana, andava progressivamente esprimendo una propria individualità artistica che lo poneva in un determinato rapporto nei confronti dei committenti: all’artigiano venivano conferiti precisi incarichi, strettamente collegati alla funzione delle opere di gioielleria. In questo periodo, però, la produzione orafa era ancora riservata alle cerimonie e pochi erano i gioielli di uso quotidiano prodotti. Lo stile del gioiello nel periodo medioevale deve considerarsi in stretta relazione con il costume del tempo. Nella seconda metà del Duecento, a testimonianza dei primi lunghi viaggi, la moda prevedeva l’adozione di materiali provenienti dall’Oriente, nuovi tessuti di lana e seta, e l’impiego del ricamo in filo d’oro.

Il costume assunse un’importanza sociale: abiti e gioielli identificavano certe classi sociali come i nobili e i grandi proprietari terrieri che indossavano i preziosi indumenti intessuti d’oro e si ornavano di preziosi. La gioielleria prodotta in Italia fino al Trecento si ispirava ancora a motivi ornamentali gotici: anelli formati da semplici cerchi d’oro sormontati da soggetti in rilievo o da pietre incise, collane in filigrana a cui era appesa una piastrina tonda o romboidale dove campeggiava una croce ornata e incorniciata da pietre preziose, fermagli da mantello preziosamente lavorati a cesello o a rilievo e ornati da pietre con taglio a tavoletta o da decorazioni a smalto.

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Tavola del 1412 della Madonna della Misericordia

Di questo tipo gotico d’ornamento ne è un esempio il fermaglio che regge il mantello di Maria nella tavola del 1412 della Madonna della conservata all’oratorio dei Proti a Vicenza. La ricostruzione della gioielleria usata a Vicenza tra il X e XIV secolo risulta difficile poiché mancano quasi totalmente dei riferimenti iconografici o fonti descrittive e sono andate perdute testimonianze di opere d’oreficeria prodotte in quel periodo. Nel XIV secolo lo stile della gioielleria si stacca gradualmente dagli schemi tardo – gotici e acquista linee che troveranno pieno compimento nel Rinascimento.

I metalli principalmente usati sono l’argento e il rame dorato, mentre l’impiego dell’oro è più raro e arricchito dalla lavorazione a smalti colorati. Alcuni elementi d’oreficeria assumono un aspetto funzionale, ad esempio i bottoni lavorati in filigrana diventano piccoli gioielli. Verso la metà del secolo si diffuse la moda di ornare gli abiti con nastri di velluto o di raso terminanti con ciondoli d’oro o d’argento lavorati a sbalzo. Nel gusto dell’epoca erano in voga acconciature create dall’intreccio dei capelli ai lati del capo e rese preziose da reticelle di filo a cui erano fissate perle, grani di pietre oppure veri e propri gioielli.

Per questo motivo gli orecchini non trovarono largo riscontro nel costume dell’epoca. Largo spazio trovò invece l’oreficeria sacra. In quest’epoca vennero eseguiti calici, reliquiari, croci astili e processionali, dal forte gusto gotico e la loro costruzione si ricollega a tipologie più propriamente architettoniche: con i fusti e supporti foggiati a forma di piccole chiese e di torrette, con finestrelle, guglie, pinnacoli e statuine minutissime.

Dalla tesi di laurea di Anna Milan “Dalla Fiera al Museo dell’oro: oreficeria e gioielleria a Vicenza” pubblicata a puntate su Storie Vicentine n. 10 settembre-ottobre 2022


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L’oro di Vicenza, dall’età antica ai longobardi

La tradizione orafa vicentina ha origini antiche. A Vicenza l’oro, prezioso metallo, è stato impiegato sin dai tempi passati, per realizzazioni di grande prestigio. L’artigianato ha vissuto il periodo più fiorente nei secoli del Rinascimento e del Barocco, ma è uno Statuto comunale del 1339, in cui si trova registrata la fraglia degli orefici la quale veniva ammessa all’elezione di un membro del consiglio degli anziani e poteva partecipare attivamente alla vita economica e politica di Vicenza, che testimonia l’inizio della tradizione orafa vicentina, nata da artigiani che lavoravano il metallo all’interno di botteghe prese in affitto dal Comune e collocate nel Peronio, ossia l’attuale piazza dei Signori, le quali hanno fatto diventare l’oreficeria un mestiere e un’arte che hanno reso Vicenza una delle capitali mondiali dell’oro.

In realtà la tradizione orafa vicentina ha appunto origini antichissime, risale addirittura all’epoca paleoveneta quando, intorno al VIII secolo a.C., gli antichi veneti o paleoveneti, una popolazione indoeuropea proveniente dall’Illiria che si era stanziata nella regione dopo aver allontanato gli Euganei, cominciò ad esprimere un artigianato capace di produrre oggetti metallici lavorati di vario genere quali quelli rinvenuti, all’inizio degli anni Sessanta, in uno scavo delle fondazioni fra corso Palladio e piazzetta San Giacomo a Vicenza, che mise in luce quel che rimaneva di una struttura di grosse pietre, probabilmente un santuario, dove vennero ritrovati pezzi di estremo interesse archeologico.

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lamine

Tra di essi si annoverano laminette rettangolari, allungate verticalmente o orizzontalmente, cerchietti singoli o collegati a bracciale, rotelline radiate e pochissimi oggettini in ferro. Buona parte del materiale fu raccolto dal personale del Museo civico di Vicenza, e in seguito venne catalogato e conservato ai chiostri di Santa Corona, dove è tuttora visibile al pubblico. Le lamine  sono tutte tirate a martello, decorate a incisione dal diritto e a sbalzo dal rovescio, alcune a stampo.

Recano figure di animali, guerrieri, atleti, donne con una veste corta e uno scialle che copre la testa. Per la presenza di piccoli fori esistenti ai margini, più che come ornamento, si ipotizza che le laminette fossero un insieme di ex – voto dapprima affissi tramite chiodi ad una stipe votiva, poi staccati per essere sepolti all’interno di un santuario. Oltre alle laminette sono stati rinvenuti, nei siti funerari nei pressi di Vicenza, altri oggetti di pregevolissima fattura dell’epoca paleoveneta.

A Lumignano ad esempio è stata rinvenuta una figurina zoomorfa stilizzata in bronzo a fusione piena databile tra il VII e il VI secolo a.C. L’ornamento, a forma di canide, poteva far parte di un corredo funerario o essere la decorazione di un oggetto da toilette. In una tomba, sempre paleoveneta, nei pressi di Montebello Vicentino, sono stati raccolti bracciali, orecchini, fibule dalle linee eleganti, deliziosamente decorate.

fibule di tipo Certosa

Tutti questi oggetti in bronzo erano realizzati con la tecnica di fusione a cera persa che consisteva nel costruire il modello desiderato in cera; questo veniva successivamente avvolto nella terra refrattaria formando una sorta di contenitore chiuso nel quale si praticavano i fori per fare uscire la cera che si liquefaceva quando lo stampo veniva inserito in forno per la cottura del materiale refrattario. Dopo questa operazione si colava nello stampo, attraverso questi fori, il metallo fuso ottenendo l’oggetto voluto il quale veniva rifinito a mano dall’artista. Le fibule ritrovate negli scavi archeologici dell’area vicentina si possono classificare in due tipologie: fibule di tipo Certosa e fibule di schema La Téne.

Perle e pendenti di pasta vitrea

Le prime hanno un arco asimmetrico verso la molla, il cordone che sottolinea lo stacco tra arco e staffa e il bottone peduncolato o appiattito. Appartengono ad un periodo che va tra la fine del VI secolo e l’inoltrato IV secolo a.C.12 Le seconde, invece, suggeriscono contatti tra il mondo celtico d’oltralpe e l’area vicentina, sono in fusione di bronzo del IV secolo a.C., hanno arco a profilo simmetrico a sezione ellissoidale, molla bilaterale a doppia spirale, corda e staffa esterna. Tra i vari prodotti di ornamento i veneti apprezzavano le perle e i pendenti di pasta vitrea, di derivazione greca, sovente alternati a perle di altri materiali quali l’ambra, il corallo, il bronzo, l’osso e l’oro.

I frammenti ritrovati fanno pensare a una produzione in loco, tra il IV e il II secolo a.C., a scopo ornamentale come grani di collane o pendenti, ma anche con funzione di identificazione del ceto sociale o con valore apotropaico di amuleto. Tutti i reperti archeologici in metallo fin qui presi in esame hanno permesso di documentare la presenza paleoveneta a Vicenza la cui attività di lavorazione dei metalli è da considerarsi la vera e propria alba d’un artigianato artistico vicentino ed anche il primo passo verso quella che diventerà più tardi la nostra arte aurificiaria.

L’ipotesi di tutte queste testimonianze starebbe ad indicare che vi fosse una struttura sociale organizzata già in epoca preromana, con artigiani specializzati nella lavorazione del metallo, commercianti e sacerdoti; e quando Roma cominciò a guardare verso il territorio vicentino, questo aveva già messo in atto un processo spontaneo di trasformazione socioeconomica che la romanizzazione riassestò con la diffusione di monete e con la produzione agricola. Roma conquistò la Gallia Cisalpina e l’Illiria con la II guerra punica (218 a.C. – 202 a.C.), le città venete alleate si sottomisero a Roma e fra esse anche Vicenza (177 a.C.).

Era chiamata Vicetia o Vincentia: una città inizialmente piuttosto piccola e modesta, l’urbicula di cui parlano alcune fonti, divenuta via via sempre più ricca e prospera, dopo aver ottenuto, nell’89 a.C., il diritto latino ed essere stata, dal 49 a.C., finalmente eretta in municipium. Non esistono tracce documentate, quali oggetti o iscrizioni, di una attività orafa a Vicenza in età romana e, poiché la normativa romana vietava la sepoltura dei morti all’interno della cerchia abitata, a Vicenza non sono stati rinvenuti corredi funerari; per questi motivi i ritrovamenti dell’età romana sono molto scarsi.

Oro amuleto del IV secolo d.C
Amuleto del IV secolo d.C

Tuttavia un recente scavo nella necropoli della Madonnetta a Sarcedo, un paese della periferia di Vicenza, ha portato alla luce un amuleto del IV secolo d.C. Si tratta di una sottilissima lamina rettangolare, in oro, (alt. 2,5 cm; lungh. 8,5 cm; spess. 0,02 cm) rinvenuta in una sepoltura a inumazione poco sotto il mento dell’inumata. Strettamente arrotolata, era probabilmente un pendente sospeso al collo con un filo di materiale non conservato. L’iscrizione latina, preceduta da una serie di quindici segni magici, disposti su due righe, è stata vergata con uno strumento dalla punta arrotolata.

Nel testo si invocano gli angeli a prestare il loro aiuto affinché nulla di male possa capitare a Letilia Ursa, figlia di Letilius Lupus e di Ovidia Secunda, personaggi non altrimenti noti: “Ne quidquam mali facere possit aut nocere/ Letiliam Ursam, filiam Letili Lupi vel Ovidies Secundes, vos, ancili, estote in aiutorio”, ovvero: “Affinché nulla di male possa capitare o nuocere a Letizia Orsa, figlia di Letilio Lupo e di Ovidia Seconda, voi, o angeli, prestate il vostro aiuto”. In età romana, la figura dell’orefice rivestiva un peso politico ed economico notevole in quanto solo chi possedeva un cospicuo patrimonio, proprio come quello degli aurifices, poteva intraprendere la carriera politica e i gioielli prodotti per i potenti committenti patrizi facevano degli orefici i loro confidenti e parte dei familiares.

Esistevano, inoltre, gli artigiani addetti alle diverse specializzazioni dell’arte orafa: caeselatores (cesellatori), bractearii (battiloro), auratores (decoratori), margaritarii (commercianti di perle). L’oreficeria dell’età romana fu influenzata dallo stile dei gioielli greci, dal quale si differenziò fino ad assumere una fisionomia propria.

Gli anelli, talvolta semplicissimi e in metallo povero, recavano sovente un casto inciso su pietra dura o pasta vitrea. I bracciali erano semplici cerchi a tubo cavo o a elementi emisferici in lamina d’oro saldati tra loro, o erano forgiati a serpente ricordando gioielli di età ellenistica. A partire dal III secolo d.C. agli elementi classici della gioielleria romana si aggiunsero nuove forme espresse da tecniche importate dall’oriente e in particolare dalla cultura bizantina, come ad esempio l’opus interassile, caratterizzato da una lavorazione a trina della superficie del gioiello, resa a traforo per mezzo del bulino; tecnica adatta alle decorazioni astratte, floreali e arabescate.

Dal IV secolo d.C. a questi motivi di origine orientale si sommarono altri di derivazione “barbarica”, si ottennero gioielli arricchiti di pietre e paste vitree policrome, dove la funzione del metallo aureo era limitato alla sola montatura. Nell’autunno del 568 i longobardi, guidati da Alboino, occuparono Vicenza con una rapida azione militare che non trovò grandi resistenze da parte dei bizantini. La città, dopo i momenti duri e turbolenti vissuti nella lunga guerra tra ostrogoti e bizantini (535 – 554), visse un periodo florido.

I longobardi si insediarono nel territorio vicentino ridefinendone i frazionamenti e stabilendo nuove strutture amministrative e legislative. Vicenza divenne il quarto ducato della conquista longobarda, dopo Cividale del Friuli, Ceneda e Treviso. La loro presenza nel vicentino durerà fino al 774, con l’avvento dei franchi di Carlo Magno.

Testimonianze della presenza longobarda sono affiorate soprattutto a Sovizzo e a Dueville e sono ora raccolti al Museo civico di Vicenza. Si tratta, per lo più, di oggetti di corredo funebre, di resti antropologici, come linguette e placche da cintura, fibbie di scarpe e borse, armi, perle in pasta vitrea, pettini, gioielli e altri oggetti.

I corredi funerari forniscono elementi che ci permettono di definire i prodotti della civiltà longobarda nei suoi aspetti culturali, tecnici e sociali. I criteri più attendibili che si possono osservare per riconoscere le tombe longobarde sono principalmente le fibule a staffa e a “S” nelle tombe delle donne, e le armi (come spathe, scramasax, lance, scudi e accessori dell’armatura) nelle sepolture maschili, essendo l’esercizio delle armi l’attività principale del longobardo.

Tra gli oggetti ritrovati nei corredi della necropoli di Sovizzo, di particolare interesse sono: l’umbone di scudo da parata in ferro con decorazione a croce in agemina d’oro, due guarnizioni – una fibbia in bronzo da borsa a forma di grifone fantastico, databile verso la fine del VI secolo, e una placca formata da due uccelli affrontati del VII sec. -, alcune armille in bronzo, le collane di paste vitree variamente colorate, fibule di varia forma, orecchini in fili di bronzo, aghi crinali in argento e un collare in argento massiccio.

L’oggetto più prezioso fu scoperto nel 1912 a Dueville in una necropoli longobarda. Si tratta di una crocetta aurea, del VII secolo d. C., la cui parte centrale lascia intravedere un volto femminile. Le braccia sono di uguale lunghezza, leggermente espanse e ritmicamente dotate di otto fori lungo i bordi perlinati.

I quattro personaggi visibili all’interno sono figure mitizzate in abbigliamento cerimoniale con copricapo decorato da corna ritorte di derivazione asiatica. Essa veniva cucita in un velo posto sul viso del morto e si otteneva battendo una sottilissima lamina d’oro su di un modello di metallo o di avorio o di legno duro con l’ornamentazione in rilievo, oppure era decorato a punzoni. Un altro oggetto prezioso del VI secolo, ritrovato a Dueville, è un anello in oro con gemma ovale in pasta vitrea policroma, con matrice raffigurante due figure, una femminile e una maschile, oggi conservato ai Musei civici di Vicenza.

Come la crocetta aurea, è un oggetto prezioso presente solo in tombe di persone di status sociale particolarmente elevato e tutti questi reperti, congiunti alla probabile esistenza, in questa età, di una Zecca a Vicenza e, quindi, di orafi coniatori, sono una evidente dimostrazione della perizia dell’arte orafa longobarda nel territorio vicentino.

Dalla tesi di laurea di Anna Milan “Dalla Fiera al Museo dell’oro: oreficeria e gioielleria a Vicenza” pubblicata a puntate su Storie Vicentine n. 10 settembre-ottobre 2022


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Museo Zannato, uno scrigno di storia da oltre 100 anni

Numerose sono state nel 2022 le iniziative e le attività organizzate per festeggiare il centenario del Museo Zannato e coinvolgere la cittadinanza, spesso succede infatti che i tesori più a portata di mano siano anche i meno conosciuti, e così accade anche per questa struttura, rinomata tra ricercatori e studiosi di tutto il mondo, soprattutto per la collezione paleontologica, una delle maggiori del Veneto, di granchi fossili.

Un vero e proprio scrigno di reperti fossili che racconta la storia antica del nostro territorio, 20, 30, 40 milioni di anni fa. Il Museo, che ha sede in villa Lorenzoni in piazza Marconi, conserva anche notevoli testimonianze della storia passata delle nostre genti, dai Veneti Antichi ai Romani, dai Celti ai Longobardi. Il Museo è inoltre il punto di riferimento culturale dell’Ovest Vicentino per tutte le problematiche relative all’archeologia e alle scienze naturali.

Fondato dal Cavalier Giuseppe Zannato inizialmente come museo scolastico nella vicina scuola “A. Manzoni” nel 1922, nel corso degli anni fu visitato da Ministri, sottosegretari di Stato, professori di Università e direttori di musei di ogni parte d’Italia. Nel 1983, con delibera del Consiglio Comunale, assunse la nuova denominazione di Museo Civico “G. Zannato”.

Dal 2007 occupa l’intero palazzo di villa Lorenzoni e si compone di 12 sale espositive più cinque attualmente in via d’allestimento. Aula didattica, depositi e laboratori sono ospitati in sedi separate tra la Scuola Primaria Manzoni e la Materna Dolcetta.

Momento clou delle iniziative per festeggiare il Centenario è stata la Romeo Expedition, la spedizione in Argentina di un team di ricercatori ed esperti sulle tracce di Romeo, il coccodrillo del Museo. Si tratta di un progetto scientifico e divulgativo che prende spunto dal suo reperto più iconico, il caimano tassidermizzato (appartenente alla specie Caiman latiro-stris).

Proprio quello che compare in alcune foto storiche di Giuseppe Zannato. La Romeo Expedition nasce dall’intento di raccontare l’evoluzione nel corso del tempo dei musei e dell’ambiente e si pone in perfetta armonia con lo spirito del Cavalier Zannato, veronese di nascita e montecchiano d’adozione, che desiderava fortemente incuriosire, soprattutto i più giovani.

Per tutta la durata del viaggio infatti il team (composto da Roberto Battiston, capospedizione, conservatore e naturalista del Museo Zannato; Michele Ferretto, presidente della cooperativa sociale Biosphera ed esperto in sostenibilità, Emma Borgarelli, responsabile di Biosphera per i viaggi di ecoturismo internazionale di tipo sostenibile, Andrea Colbacchini documentarista specializzato in storia, antropologia e ambiente, e Arianna Caneva, laureata in Scienze Ambientali e specializzata nell’elaborazione di modelli ambientali per la conservazione delle risorse naturali) ha mantenuto il contatto costante con Vicenza attraverso i canali Social, rispondendo in tempo reale alle domande inviate dagli alunni delle scuole. Il progetto è stato possibile grazie al contributo di Trevisan Macchine Utensili.

Va detto inoltre che il Museo svolge attività di ricerca, didattica e divulgazione, seguendo le orme del suo fondatore, che tra i 14 e i 20 anni raccolse in Italia e all’estero minerali, fossili, insetti, esemplari di botanica e ricordi storici. A dicembre è stata inaugurata della mostra “Zannato and friends” allestita nelle sale espositive dell’ultimo piano di villa Lorenzoni per raccontare i 100 anni del Museo.

Per l’occasione sono stati esposti dei reperti inediti del fondatore, oltre a un’intera sala dedicata alla wunderkammer, la camera delle meraviglie per raccontare il collezionismo ottocentesco che ha permesso la nascita dei grandi musei. Va inoltre ricordato che l’associazione Amici del Museo, nata da un primo nucleo di appassionati l’11 dicembre del 1992, ha spento 30 candeline.

Tra le attività di maggior rilievo vanno ricordati gli scavi in cui l’associazione ha collaborato con Università e Soprintendenza, lo scavo della Lovara, quello di Castelgomberto per la messa in luce di tronchi di palma fossili, lo scavo ai Castelli di Montecchio che ha rivelato un villaggio preromano e quello della villa romana nell’attuale parcheggio dell’ospedale. Infine, è possibile visitare nel Museo l’esposizione permanente “Il Cavaliere Longobardo di Monticello di Fara”, che ospita i preziosi reperti venuti alla luce grazie ai recentissimi scavi della Soprintendenza.

Eccezionale è il corredo del cavaliere sepolto presso una chiesa e che dà il titolo alla mostra, tra cui diverse armi da offesa, cinture con elementi decorativi, uno sperone e uno scudo riccamente decorato. «La nostra città considera il Museo Civico Zannato un prezioso protagonista della vita culturale, – spiegano il sindaco di Montecchio Maggiore, Gianfranco Trapula e l’assessore alla Cultura, Claudio Meggiolaro – le collezioni continuano ad aumentare e il Museo è sempre più punto di riferimento archeologico per l’intera zona compresa dal Sistema Museale Agno Chiampo».

Di Loris Liotto da Storie Vicentine n. 11 novembre-dicembre 2022


In uscita il numero di Maggio 2023
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Antonio Turcato, una memoria del cospiratore fucilato a Vicenza

Antonio Turcato, cospiratore contro l’Imperiale governo, fu fucilato a Vicenza come monito alla cittadinanza. Nella facciata nord del Teatro Verdi, era stata apposta nel 1903 la lapide ad Antonio Turcato, nato a Castelfranco Veneto il 20/09/1817, che lasciò la moglie e tre figli in tenera età quando fu fucilato in quel luogo a Campo Marzio il 21/12/1860.

Una delle poche esecuzioni marziali effettuate in Città dal Governo austriaco, la quale fece scalpore in tutta la cittadinanza perché eseguita davanti agli occhi degli attoniti vicentini affinché servisse da monito, nei confronti del cosiddetto sovversivo Antonio Turcato “reo di tradimento per cospirazione contro l’Imperiale governo”.

Turcato era membro attivo del Comitato Segreto di Liberazione che si occupava di arruolare segretamente volontari per l’esercito piemontese durante Ie Guerre di Indipendenza Risorgimentale (1848-1860). Antonio Turcato risiedeva a Castelfranco Veneto e svolgeva, prima l’attività di artigiano calzolaio e poi di offeliere/pasticciere.

Fu arrestato il 16 dicembre 1860 a Castelfranco Veneto e trasferito successivamente a Vicenza. Qui, a ridosso di un capannone nel luogo dell’esecuzione, il 21 dicembre 1860 venne fucilato. Ad Antonio Turcato venne anche intitolata una via cittadina nella zona di Via dei Mille nel 1960 con deliberazione consiliare del 24 maggio 1960.

La lapide affissa a lato del Teatro Verdi (bombardato nel 1944) recava la seguente iscrizione (tratta dal libro di Giambattista Giarolli “I nomi delle nuove vie del Comune di Vicenza” – 2° volume – pag. 448 – anno 1988): ANTONIO TURCATO – DI CASTELFRANCO VENETO – DALL’AUSTRIACO OPPRESSORE – CONDANNATO A MORTE – PER ATTENTATA SEDIZIONE – QUI – INVOCANDO L’ITALICA LIBERTÀ – PERDEVA LA VITA – IL XXI DICEMBRE MDCCCLX – A PERENNE MEMORIA (firmato all’epoca I SUPERSTITI PATRIOTI – POSERO – Vicenza X giugno MCMIII)

Di Loris Liotto da Storie Vicentine n. 11 novembre-dicembre 2022


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A piedi nudi sulla terra, presentazione a Vicenza per il docufilm di Alessandro Scillitani

“A piedi nudi sulla terra” è il titolo del docufilm, con letture di Alessandro Scillitani, che verrà presentato a Vicenza in Biblioteca civica Bertoliana nella sede di Palazzo Cordellina in contra’ Riale 12, martedì 30 maggio 2023 alle 18.

Sarà presente Scillitani, autore di documentari, musicista e cantante, che alternerà letture a immagini e condurrà il pubblico in un viaggio attraverso la via Postumia, tra Vicenza, Cremona e Piacenza, “alla ricerca della lentezza per recuperare un ascolto del mondo in un tempo di evidenti sconvolgimenti climatici. Un viaggio a passo lento, alla scoperta di antiche vie che attraversanocon leggerezza i fiumi, le montagne, le terre selvagge all’estremo nord, alla ricerca dei resilienti, di chi ha scelto di vivere in modo sostenibile, nel rispetto di un’armonia perduta. Un viaggio fatto di incontri e storie, riflessioni sulla vita contadina e sulla modernità, cercando ciò che rimane”.

Fra gli altri si incontreranno anche Paolo Rumiz, Tonino Guerra, Alessandro Anderloni. Ingresso libero fino ad esaurimento dei posti.

Delle sue opere, Alessandro Scillitani cura sceneggiatura, regia, montaggio e musiche. Dal 2011 collabora con il noto scrittore e giornalista Paolo Rumiz, con il quale ha realizzato numerosi film, molti dei quali distribuiti con Repubblica ed in emittenti televisive (Rai, LaEffe Tv, Rsi) e proiettati nei cinema. Nel 2013 ha fondato una sua società di produzione, Artemide Film, con la quale ha realizzato numerose opere. Rielaborando i materiali filmici raccolti durante i suoi viaggi, realizza film-concerto, in cui le immagini su grande schermo si intrecciano con la musica eseguita dal vivo. Ha collaborato alla realizzazione di spettacoli della compagnia teatrale Teatro dell’Orsa (Nudi, Fatti di numeri, Saluti dalla Terra). Con i suoi film e con i suoi spettacoli ha partecipato a numerosi festival ed eventi importanti, tra cui Festival della Mente, Festivaletteratura, Sponz Fest, La Luna e i calanchi, Film Festival della Lessinia, Mostra del cinema di Venezia.

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Fonte: “A piedi nudi sulla terra”, martedì 30 maggio verrà presentato in Bertoliana il film readi , Comune di Vicenza

Luca Bassanese, Reset! il nuovo album

È uscito Reset! il nuovo album del cantautore vicentino Luca Bassanese: un lavoro discografico nato tra palcoscenici e camere d’albergo. Un album di inediti e brani che caratterizzano da sempre l’impronta artistica dell’autore, presente da alcuni anni nei maggiori palchi europei della World music come Sziget in Ungheria, Paléo Festival in Svizzera, Bardentreffen in Germania, Nuits Metis in Francia e molti altri. Il suo percorso caratterizzato da un suono fortemente sud Europeo si riconosce anche in questa nuova opera.

Stefano Florio, produttore, coautore e label manager di AIDA music: “RESET! È un album collettivo, con brani energici e pieni di vita, grazie alle potenti sonorità folk e popolari che da anni portiamo sui palchi d’Italia e d’Europa. RESET! È un album realizzato al di fuori di modelli di mercato che non ci appartengono e che riteniamo da sempre deleteri al nostro modo di fare musica e parola”.

Ci sono brani come “Canta per la vita”, “Piove”, “Carneval” o la stessa “Reset!” che invitano ad una partecipazione collettiva ed altri brani con tematiche più esistenziali e sociali come “Lascia tutto e vieni qui”, “Anima bella”, “Libera”. Nel brano “Ridi pagliaccio” Luca Bassanese duetta con la special guest dell’album, il tenore lirico Amadi Lagha, in un duetto che alterna sapori d’opera a cavalcate di ritmi popolari.

In questo album c’è anche una canzone nata come una riflessione sulla follia dell’essere umano dal titolo “Soldati buoni soldati cattivi”, dice Bassanese: “La guerra è il più grande crimine contro l’umanità difficile sottrarsi al quotidiano e restare indifferenti soprattutto se racconti la vita che ti circonda tramite musica e parole cercando di trovare in essa ogni perla di bellezza”

Due sono gli omaggi alla canzone d’autore e alla canzone popolare che Bassanese fa all’interno del suo nuovo album, interpretando “Bocca di Rosa” di Fabrizio de Andrè in una veste energica e corale, mentre di “Bella ciao” realizza una versione a due voci uomo e donna ad indicare come questa canzone sia nel mondo universale a difesa dei diritti civili

I primi tre videoclip che accompagnano l’uscita dell’album RESET! sono:

Ridi Pagliaccio
Reset!
Soldati buoni e soldati cattivi

Questa la tracklist completa dell’album:
1.Canta per la vita
2.Ridi pagliaccio
3.Preludio
4.Lascia tutto e vieni qui
5.Piove
6.Reset!
7.Cervelli in fuga
8.Ambarabà ciccì coccò
9.Ori ha!
10.Salta x l’indignazione
11.Cu ti lu dissi
12.Anima bella
13.Carneval
14.Bocca di Rosa
15.Soldati buoni e soldati cattivi
16.Bella ciao
17.Libera
18.Un italiano a Parigi

Luca Bassanese è un cantautore italiano che utilizzando gli stilemi di quello che si può definire un nuovo popolare, assieme alla sua Piccola Orchestra porta da anni sui maggiori palchi d’Europa il suo repertorio musicale originale caratterizzato da un potente suono folk.

In Francia, è stato definito come: “Il menestrello, attivista, poeta e musicista italiano che critica l’austerità convocando fanfare e tarantelle trans alpine, in una grande operetta felliniana popolare e mondiale” (Festival internazionale “Le Grand Soufflet” – Rennes, Francia).

Già Targa MEI (Meeting Etichette Indipendenti) come miglior artista di musica popolare e Premio Recanati Musicultura, è un artista in sintonia con i movimenti ambientalisti e di impegno civile.

Luca Bassanese è un “sognatore”: ecologista, fisarmonicista, cantante, poeta. Con la Piccola Orchestra Popolare si muove liberamente tra l’esuberante universo di Fellini, la tarantella popolare, feste da ballo e l’atmosfera frizzante degli ensemble balcanici. Le sue esibizioni dal vivo sono festose e socialmente coinvolgenti. Un antidoto all’oscurità dei nostri tempi

Il Teatro Pusterla al Patronato: centro culturale e musicale di Vicenza

Agli inizi del ‘900 in città esistevano due teatri che testimoniano la vivacità culturale di Vicenza. Stagioni estive ed invernali per la musica lirica si tenevano nello splendido Teatro Eretenio nella contrada omonima, lungo le rive del Retrone ed in Campo Marzio al Teatro Verdi. 

Il Teatro Eretenio inaugurato il 10 luglio 1784, voluto e frequentato dalle nobili famiglie vicentine, contava 1200 posti, 600 nei palchi, 350 in platea e 250 nel loggione, quest’ultimo estremamente particolare perché ricavato nella soffitta del teatro.

Il palcoscenico era alto 8,3 metri, largo 10,2 metri e profondo 14 metri, ma non disponeva di una fossa per l’orchestra. Superato in grandezza dal Teatro Verdi costruito nel 1871 e poi ampliato nel 1886, il teatro riuscì a resistere alla concorrenza di quest’ultimo grazie alla straordinaria acustica di cui era dotato, che permetteva di sentire anche i più timidi respiri degli attori fino al loggione.

Entrambi i teatri mettevano in scenae le opere più famose e seguite dell’epoca, ma in città non esisteva un teatro amatoriale ad uso delle nascenti compagnie teatrali, bande e orchestre musicali.

In un clima di fermento si svilupparono al Patronato, una serie di molteplici attività che coinvolsero non solo “amici e benefattori” ma molti musicisti vicentini come i Coronaro (padre e figlio), Arrigo Pedrollo, Antonio Mozzi, Francesco Giaretta e altre istituzioni cittadine come il conservatorio musicale “Canneti”, l’orchestra Euterpe, la Società Corale Vicentina, l’Orchestra del Teatro Eretenio, un insieme di sodalizi che animarono dal 1900, per oltre mezzo secolo, la vita culturale e musicale cittadina.

Al Patronato Leone XXII, vicino al Ponte Pusterla, finito l’anno scolastico, era tradizione festeggiare e premiare i 500 alunni della scuola che si erano distinti per risultati scolastici, nella scuola di canto, di disegno, per la buona condotta, il catechismo.

All’aperto, nel cortile, si radunavano, ragazzi, genitori, autorità cittadine civiche e religiose, erano momenti di allegria, ma anche occasioni per il Patronato di mostrarsi alla città. La Banda dell’Istituto, svolgeva un ruolo fondamentale, i premi erano distribuiti durante l’Accademia che, dal 1912, divenne più ricca, grazie alla Squadra Ginnica La Leoniana e le sue figurazioni artistiche. Ma il Patronato, mancava di un “vero” teatro al coperto per ospitare i 500 alunni/attori. Il sogno, si realizzò il 22 dicembre del 1901, nell’edificio delle scuole elementari, con una sistemazione provvisoria, sino al 29 Aprile 1908.

Di Luciano Parolin da Storie Vicentine n. 11 novembre-dicembre 2022


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Arnaldo Tornieri. Nulla di nuovo sotto il …cielo

Che negli ultimi anni si stia assistendo a ripetuti fenomeni atmosferici estremi è fuor di discussione: è sufficiente leggere i resoconti nei giornali o ascoltare le notizie su recenti episodi che hanno devastato numerose località. A leggere le cronache dei secoli passati, ci accorgiamo, però, che a simili eventi erano soggetti anche i nostri progenitori. Il 21 luglio 1787, infatti, fu per la nostra città un «giorno tragico, e memorando per un funestissimo avvenimento», che il diarista Arnaldo I° Tornieri Arnaldi (1739-1829) riporta nel suo mano- scritto dal titolo Memorie di Vicenza, cronistoria di fatti accaduti dal 18 giugno 1767 al 7 dicembre 1822. Ecco il racconto.

arnaldo tornieri
.Arnaldo I° Tornieri circondato dai quattro figli (da L’Eneide di Virgilio tra- dotta in ottava Rima dal Nob. Sig. Co. A. Arnaldi I Tornieri, Vicenza 1779)

Era quella la stagione nella quale si davano spettacoli al Teatro Eretenio, anche con gran concorso di «molti foresti». Per rendere ancor più massiccio l’afflusso di pubblico, si propose pure, per il 23 e il 30 di quel luglio del 1787, una manifestazione equestre. Si trattava, più precisamente, di una corsa di cavalli, da svolgersi nel «centro del Campo Marzo in quello spazio dove girano le carrozze» ovvero nel famoso O, riportato in numerose piante della città, ad iniziare da quella del Crivellari del 1821.

Allo scopo, «otto marangoni [ovvero falegnami] fino da un mese in qua [cominciarono ad allestire un] anfiteatro… tutto di legno con quattro ordini di scalini e sovra essi piantate 190 logge all’incirca per le persone nobili e per le dame; e all’intorno di esso dovevano [correre] i cavalli cinque o sei volte». Fu fornito anche il «disegno di un anfiteatro rotondo del diametro per questo primo anno di piedi 381 [ovvero di 136 metri all’incirca]». In sole quattro settimane il manufatto era pronto per ospitare le manifestazioni. Ma Giove Pluvio ci mise lo zampino. Nel tardo pomeriggio del 21 luglio, quando tutto era pronto e alcune carrozze stavano sfilando all’interno del recinto, si levò «un turbine procelloso [che] in un momento diroccò la massima parte di questa fabbrica, e sconquassò quel poco che restò in piedi; ma quel che è più, perirono sotto le rovine due marangoni ed altri non pochi rimasero feriti; e portati poi all’ospitale».

Il racconto di Tornieri così continua: «Non si può esprimere quale è stato in quel momento lo spavento e l’orrore. Alcuni furono portati con i palchi su cui trovavansi fino alla non vicina Seriola; altri credean fuggire; ma un pezzo di palco gli volò dietro e gli ruppe un braccio. I parapetti dello steccato furono trasportati fino al Retrone; e alcuni vasi di legno che contornavano il cimiero dell’edificio volarono sul Monte. Insomma in un momento tutto fu fracassato e desolato.

La città se ne accorse subito spaventata dal nimbo vorticoso e oscurissimo che dominava su tutte le contrade; e si scaricò poi in grandine, e quindi in pioggia. Passato questo e resa certa del funesto eccesso, corse tosto immenso popolo in Campo Marzo…». E così si videro «donne piangenti cercare dei loro mariti e figli desolati dei loro padri, temendo ognuno di aver fatto qualche perdita in mezzo quella rovina immensa di legni. Vi accorse sua eccellenza Capitanio e fatto qua e là scoprire il terreno sgombrandolo da quella catasta confusa si ritrovarono i due morti suddetti e un altro semivivo e fu portato ai Padri Riformati [erano i frati minori dell’Osservanza di san Francesco, che officiavano la chiesa e il convento – ora scomparsi – posti a ovest di piazzale De Gasperi, a fianco del giardino Salvi], oltre ad altri feriti che furono portati all’ospitale. Così finì questa gran giornata di lutto che era l’antivigilia di uno spettacolo in Vicenza non mai veduto».

Questo scampolo di storia vicentina consente di ricordare che la tradizione delle corse dei cavalli prese avvio nel 1576, allorché il principe dell’Accademia Olimpica Girolamo Schio, per allietare il soggiorno di alcuni padovani rifugiatisi a Vicenza in fuga dalla peste, «organizzò la rinnovazione dei Giochi Olimpici e la costruzione di un circo nel Campo Marzio… per la corsa delle carrette, (cioè delle bighe, in omaggio della tradizione romana) in ricordo dell’impresa [ovvero del “logo”] dell’Accademia, quale riprodotta nei disegni dell’epoca» (Zorzi, 1968), e quale si può ancor oggi ammirare nel proscenio del Teatro Olimpico.

A progettare tale “circo” – una struttura lignea smontabile, custodita nei magazzini del Comune e ricomposta all’occorrenza – fu chiamato Andrea Palladio, che ideò «un anfiteatro circolare in legno con una pista, intorno alla quale correvano i cavalli mentre gli spettatori si accalcavano in alcune logge aperte tutto all’intorno della pista e sopra alcune gradinate, come nei teatri classici» (Zorzi, 1968): una descrizione che corrisponde, sostanzialmente, a quella fornita da Tornieri per le corse del 1787 – non più delle bighe, ma dei berberi, ossia dei cavalli scossi, senza fantino – e a quanto riprodotto in una incisione settecentesca di Giacomo Leoni. Sempre Tornieri ci informa che il 16 settembre 1788 si tenne l’ultima manifestazione, che aveva visto «un concorso tremendo di forestieri e una piena immensa dell’anfiteatro medesimo». Giunse infatti «una Ducale del Consiglio dei Dieci questa mattina la quale impone fine a questi smoderati spettacoli, e comanda, subito dopo quello di oggi, la demolizione dell’anfiteatro».

Di Giorgio Ceraso da Storie Vicentine n. 11 novembre-dicembre 2022


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