Storie Vicentine ci racconta storia e architettura della casa del Mutilato in piazzale del Mutilato.
La sezione Vicentina dell’Associazione Mutilati e Invalidi di Guerra, fu trasferita in Piazzale del Mutilato che, assunse il nome attuale il 21 giugno 1932. Il nome scelto fu Carlo Delcroix, grande mutilato di guerra e medaglia d’oro al Valor Militare, pur essendo ancora in vita il Delcroix, si ottenne l’autorizzazione, essendo una eminente figura morale, civile e patriottica che godeva la stima generale degli Italiani. Il 18 aprile 1944, con deliberazione podestarile, il toponimo era cancellato, sicuramente perchè Delcroix aveva dubitato del fascismo, il nuovo nome era sostituito con quello di un’altra medaglia d’oro al Valor Militare il pilota Ernesto Monico, caduto in Spagna il 4 settembre 1936. Con provvedimento del C.L.N. Comitato Liberazione Nazionale del 19 dicembre 1945 anche il nome Monico, scomparve sino al’11 gennaio 1963, quando assunse definitivamente il nome di Piazzale del
Mutilato. Ma veniamo al Palazzo con vista sul Giardino Salvi. Con atto 17 luglio 1929 il Comune alienava lo stabile di piani 3 e stanze 19, con lo scopo di farne una Casa di riposo per mutilati poveri con il ricavato della vendita di Lire 40.000. Iniziati i lavori, si accorsero che si potevano mantenere solo i muri perimetrali con aumento notevole della spesa, non sopportabile dall’Associazione. Intervenne allora la cittadinanza con generose offerte e tutto fu completato, secondo il progetto dell’architetto Giuseppe Chemello. Una facciata sobria, una scalinata esterna a duplice gradinata, ingresso con la scritta sull’architrave “Ubi mutilus, ibi frater”. All’interno il salone Dalmata è decorato con gli stemmi delle città della Dalmazia, abitate da Italiani.
Di Luciano Parolin (tratto dal libro Toponimi Vicentini) pubblicato su Storie Vicentine n.14- 2023.
Da Storie Vicentine ecco la storia di un artigiano del Novecento: Giuseppe Rigon, argentiere con Bottega in S.ta Lucia.
Giuseppe Rigon, detto Pino, nasce nel 1907 in stradella Araceli da Rigon Cristiano (fiorista) e da Panigaglia Lucinda (discendente nobile decaduta). Dopo essere emigrato a Trieste e assunto come vetrinista da una grossa ditta, ritornò a Vicenza e venne assunto come apprendista dalla argenteria Aurelio Sandonà, dove imparò l’arte di argentiere. Nel 1934 in compagnia con Italo Venturini di Milano (ricco possidente) abitante a Vicenza, come finanziatore e in società con Bortolo Dalla Pria (incisore) aprirono una bottega in Contrà
Santa Lucia, al civico 64 (corte da Fanin) acquistando i ferri vecchi e attrezzi lasciati dall’artigiano Faggi che a sua volta aveva ereditato da Merlo, vecchie glorie dell’artigianato
argentiero vicentino.
Sempre finanziati da Venturini fino alla fine della guerra 1945. Allora, assieme a Pino Rigon e Bortolo dalla Pria, come operai lavoravano Sereno Alberton, Carlo Corato, Italo Verdi, Alfonso Miele. Nel 1946/47 cominciò a lavorare in bottega anche il figlio Giacomo, detto Mino: poco più tardi vennero anche Lovato Ruggero, Bertuzzo Armando (Bebis), i gemelli
Rossi Romano e Giuseppe, più tardi Arcandi Severino, Adinolfi Michele, i fratelli Marchetto
Giuseppe e Giorgio e altri nomi che fecero grande l’arte argentiera vicentina.
A quel tempo i clienti che si servivano all’argenteria Pino Rigon erano, a Verona, negozianti come Toffaletti o Passeroni o Bertolini e altri; a Vicenza, Zanasco, Marangoni; in più gallerie di antiquariato di Roma, Mantova e Modena, Milano, Venezia.
I marchesi Roi e i conti Marcello, la Marchesa d’Ivrea e altre case nobiliari d’Italia si facevano fare copie di argenteria antica nei vari stili e fogge; poi c’erano diversi industriali per pezzi di argenteria su disegno; è stato fatto persino un servizio da the stile impero in oro massiccio per un cliente di Berlino e un servizio da the per un regalo alla Regina Elisabetta.
Nel 1959 Rossi Romano e Arcandi Severino aprirono una attività in proprio, più tardi anche Adinolfi e Marchetto e anche Rossi Giuseppe (ora figlio CarloRossi) e nel 1960 anche il figlio Mino uscì dall’Azienda aprendo una propria attività, sempre di argenteria. Con alterne vicissitudini, anche famigliari, l’attività è proseguita condotta da Pino finchè si esaurì con la cessione di tutti gli attrezzi e modelli alla ditta De Benedetti Gino.
Pino Rigon è stato, forse, quello che ha dato di più all’arte dell’argenteria e allo sviluppo della moderna industria argentiera in Vicenza, creando, suo malgrado una scuola da dove sono usciti degli ottimi allievi che hanno saputo, facendo tesoro di quello che hanno imparato dal maestro, continuare con profitto la loro attività.
Pino Rigon è nato artista artigiano, da bambino aveva sofferto la fame essendogli mancato il padre all’età di sei mesi, pertanto aveva un carattere duro con se stesso e con la famiglia, ma era coraggioso, generoso ed impulsivo e soprattutto fiero di se e della sua arte, badava solo alle soddisfazioni della vita e del lavoro e non al denaro.
Morì all’età di sessantanove anni al “Casermon” in via Pajello a Vicenza, povero e dimenticato.
Nel 1954 “Primo Premio” con un centro tavolo del peso di oltre cinque chili, acquistato prima della premiazione dall’Ing. Innocenti di Milano (tubi Innocenti) e poi ne è stata fatta una copia per l’Ing. Ernesto Gresele. Nel 1955 Diploma d’onore a Maestro Artigiano argentiere. Nel 1956 secondo premio con anfora a forma di papera. Nel 1957 terzo premio con vaso a forma di donna egiziana; nel 1958 premio Città di Vicenza con servizio da thè stile impero.
Maria Fogazzaro, esponente della buona società e grande benefattrice, è stata incompresa dai vicentini. Il racconto di Storie Vicentine.
Maria era un personaggio molto in vista nella buona società: ultima esponente di una famiglia colta, ricca e famosa. Ma, di propria volontà, rinunciò a essere la grande donna vicentina che poteva essere, per divenire “la disprezzata dai suoi familiari e dai concittadini”. Eppure a questa grande benefattrice, sia in vita sia negli anni successivi è venuta a mancare una doverosa riconoscenza.
La prima volta che ho incontrato Maria Fogazzaro è stato da bambino: frequentavo la Casa Materna a Longara, non come orfano, ma come esterno nel servizio pomeridiano di doposcuola. In cortile alzavo lo sguardo alla facciata seicentesca della villa, alta e sontuosa, che da mezzo secolo ospitava gli orfani e leggevo la lapide murata a ricordo della benefattrice che l’aveva acquistata e adibita a tale scopo fin dal 1918.
Ma è stato molti anni più tardi e in maniera del tutto casuale che mi è capitato di incontrare di nuovo Maria, tra il groviglio delle mie letture. L’occasione mi è stata data da un libro di Giustino di Valmarana intitolato “Ieri”. Da quel momento è nato in me il desiderio di conoscere la sua figura.
“Ieri” è un libretto a tiratura limitata: la stampa di un taccuino di memorie che il conte ha lasciato tra le sue carte in cui, tra l’altro, ha descritto alcuni personaggi della sua famiglia e di quella dei Fogazzaro (imparentate tra loro da quando, nel 1866, la zia contessa Margherita aveva sposato lo scrittore Antonio). Il conte Giustino (1898-1977) ebbe modo
di conoscere da vicino i Fogazzaro e di frequentarli, in qualità di cugino di Maria.
Per lunghi anni le due famiglie, che avevano le loro ville adiacenti sul colle di San Sebastiano nell’immediata periferia di Vicenza, in virtù del vincolo di parentela vissero in stretto contatto, addirittura quasi come un’unica famiglia, specie nel periodo in cui i nipoti di Antonio rimasero orfani di entrambi i genitori e lo scrittore li considerò alla stregua di figli. Personaggio “sui generis” d’altri tempi, il conte Giustino era la figura più idonea a dipingere questo microcosmo di provincia, attento a cogliere le sfumature salienti dell’ambiente ristretto ed esclusivo in cui si muovevano i notabili di provincia negli anni a cavallo tra ‘800 e ‘900. Egli li descrive con tratti incisivi, senza possibilità di appello. Era un clan di pochi eletti che villeggiava con pragmatica consuetudine nelle dimore signorili fogazzariane che comprendevano, oltre a San Bastian, ville di campagna e di villeggiatura.
Nella cerchia dei parenti figuravano i Valmarana, i Franco, i Lampertico, i Roi, ma molto variegata era la presenza di amicizie e di personalità altolocate, di esponenti di primo piano della cultura, della nobiltà, del clero, della politica.
Bisogna notare che Giustino non era minimamente interessato alla pubblicazione delle sue memorie, non ci pensava affatto e infatti il libro uscì postumo nel 1978.
Come testimonia Giustino: “Era Maria una creatura buona e simpatica che a quelli che la circondavano dava una impressione di fiducia e di conforto”. Una bambina intelligente e sensibile si era manifestata fin dai primi anni di vita e il padre lo rimarcò con orgoglio in vari scritti. Fu a lungo malata, e portò i segni di una coxalgia restando claudicante per tutta la vita. In secondo luogo, sempre secondo il cugino, la sua era una “natura complementare” nel senso che viveva non di vita propria, ma riflessa. Cioè la sua vita si sarebbe suddivisa in vari periodi, in ciascuno dei quali era guidata dalla “spinta e direzione” di un’altra persona: dapprima il padre scrittore e dopo di lui Tommaso Gallarati Scotti, l’amica Noemi Lucchini, il padre spirituale Gioachino Maria Rossetto dei Servi di Monte
Berico e, da ultima, Emanuela Zampieri, con la quale diresse fino alla fine un’istituzione
filantropica.
Altro importante aspetto che Giustino sottolinea del carattere di Maria è il suo continuo porsi in cambiamento, senza conservare memoria del passato, come del resto ammetteva lei stessa. Maria non sentiva di essere stata diversa e quindi – e questa può sembrare una critica che il cugino le muove – il cambiamento senza memoria del passato non giova a “tenere lontani dagli estremi e a credere nel presente come un assoluto, perché il ricordo di quando si pensava all’opposto serve di controllo, di remora”. Forse più di tutte la motivazione spirituale ebbe un ruolo determinante in Maria, nata e cresciuta in una famiglia di profonda spiritualità: recepì e condivise il tormento religioso del padre, che influì sulla sua formazione e sulle sue scelte di vita. Dopo esser stata la confidente e la curatrice postuma della memoria paterna, Maria fece di più: riuscì a risolvere quella che per il genitore era stata una tensione spirituale e un’inquietudine che avevano caratterizzato la sua vita interiore e i suoi libri. La figlia è riuscita a tradurre la più intima aspirazione cristiana del padre in vita vissuta. Maria è la continuità ideale e concreta della vita interiore
del padre, la sua realizzazione. Ulteriore elemento a influire sulle sue scelte può essere stata la rinuncia a una vita sentimentale propria e a una famiglia tradizionale, dopo che fallì il progetto amoroso che nutriva, in quanto non ricambiato; su questo punto Giustino è di una chiarezza impietosa: quell’uomo da lei amato aveva “stroncato una creatura, senza darle quello cui agognava”.
Eppure la vita di Maria fu contraddistinta da una coerente determinazione; affrontò le critiche e la disapprovazione del suo stesso ambiente, non si curò di chi voleva fermarla, apertamente o per vie traverse, ignorò i canoni della mentalità corrente fino a perseguire a caro prezzo lo scopo che si era prefissa. Di suo pugno lasciò una dichiarazione di autonomia nei confronti del frate proclamando la sua libertà decisionale. Perché la storia di Maria e delle sue opere e quella di padre Rossetto, si sono a un certo punto indissolubilmente intrecciate e lei, insieme al frate, dovette affrontare ostacoli, accuse e recriminazioni, fino ad abbandonare per sempre Vicenza. La Zampieri in una sua nota delineò in lei “la grandezza d’animo e la fiducia illimitata nel seguire il padre Rossetto”.
Nella mia ricerca tra i documenti d’archivio anche l’aspetto patrimoniale assumeva un rilievo importante. Alla famiglia Fogazzaro faceva capo un patrimonio che aveva assunto una cospicua consistenza finché lo scrittore era in vita. Antonio e la consorte contessa Margherita avevano raggiunto, nel primo Novecento, un ragguardevole grado di agiatezza, notorietà e prestigio. Notevoli erano le ville di loro proprietà: a San Bastian, a Montegalda, a Velo d’Astico e a Oria sul Lago di Lugano oltre ad altri palazzi e possedimenti terrieri (a Caldogno, a Montebello, a Ferrara) che procuravano rendite del tutto significative. E però al momento della morte della contessa Rita (avvenuta nel 1922) nell’asse ereditario, di cui ella per testamento dispose che fosse suddiviso in parti uguali tra le due figlie, non risultavano più alcuni importanti possedimenti.
Negli undici anni intercorsi tra la morte dello scrittore e quella della consorte, nella massa ereditaria non erano presenti beni rimarchevoli, come le ville di Oria e di Montegalda o lo storico palazzo in contrà dei Carmini in cui era nato lo scrittore. In quel lasso di tempo alcuni cespiti erano passati in proprietà ai Roi (la sorella Gina aveva sposato nel 1888 l’industriale della canapa Giuseppe Roi), per accordi intervenuti tra le sorelle con il consenso della madre e, con ogni probabilità, per adempiere alla volontà di Maria di monetizzare la sua parte del patrimonio per fini caritativi.
Cercando nelle biblioteche non ho trovato uno studio organico su Maria, fatta eccezione per un opuscolo commemorativo redatto nel 1953 da Ottorino Morra con il contributo dei familiari e della Casa S. Raffaele di Vittorio Veneto, dove l’anno prima si era ritirata ed era morta. Il Morra, studioso e biografo del padre, ebbe modo di conoscerla personalmente e non esitò a definirla “una creatura indubbiamente d’eccezione”.
Come la sua indole voleva, la vicenda personale era riflessa in quelle di altri personaggi; ho dovuto perciò ricostruirla, mettendo insieme un tassello dietro l’altro, ricavandoli da notizie, documenti e ricordi, da fonti varie, come un mosaico. La maggior parte delle notizie relative a Maria si ricava in primis dalla corrispondenza paterna e per gli anni successivi dalle biografie del Rossetto.
Il libro, fin dal titolo, vuole riferirsi a una famiglia, quella dei Fogazzaro, che a Vicenza fu lo specchio di un’epoca. Inoltre, con l’iniziale maiuscola, è il nome di un’istituzione filantropica, nata per iniziativa di fra’ Rossetto, a cui Maria fu tra le prime a farne parte. Quelle donne laiche che la costituivano volevano supplire alla famiglia, cellula fondamentale della società, tutte le volte che in qualunque modo veniva drammaticamente a mancare.
Ho strutturato il libro in due parti: il racconto in cui, pur concedendo qualche spazio alla fantasia, tutti gli episodi sono documentati, a cui fa seguito la biografia.
Storici sono alcuni episodi poco noti della famiglia Fogazzaro, anzi tenuti volutamente
nell’ombra, come quando tra suocero e genero si innescò una diatriba di natura politica che debordò nel privato, minando l’integrità della famiglia (nel marzo del 1909 Giuseppe Roi, già sindaco di Vicenza dal 1906, presentò la propria candidatura per il collegio di Vicenza in occasione delle elezioni nazionali per il Parlamento; non fu eletto, e ritenne determinate per la sconfitta il mancato appoggio politico dell’illustre suocero con cui ruppe ogni contatto).
Storici sono alcuni scritti personali dello scrittore, taluni riferiti a una sua segreta passione amorosa, che furono secretati dagli eredi per cento anni dalla sua morte. O il misterioso furto perpetrato nel 1926 nella biblioteca della villa di S. Bastian ad opera di ignoti, al fine di sottrarre alcuni documenti ritenuti compromettenti per l’integrità morale di Maria.
Il titolo richiama il concetto di “memoria”, la propensione a tenere viva la conoscenza e gli insegnamenti della storia, specie quella del territorio in cui viviamo, indispensabile per nutrire il sentimento delle nostre radici. Un’attitudine andata quanto mai dispersa nella nostra epoca e in una società che ora è profondamente cambiata rispetto a cent’anni fa, una società “liquida” nei valori e nella cultura.
Maria passava da un periodo all’altro piena di ardore, “senza ricordare gli stati d’animo precedenti”. E intanto realizzava una dopo l’altra le sue opere: le case-famiglia, gli orfanotrofi, gli asili, la Casa di protezione della giovane… Realtà che in molti casi sono tuttora presenti. L’opera di Maria è stata “oscura, umile e grande” secondo il giudizio del biografo Morra. Dovette subire non pochi affronti, tra cui per pochi giorni anche la prigionia.
(Alla fine del conflitto il Generale Pecori Giraldi le conferì la Croce di guerra).
Eppure a questa grande benefattrice, sia in vita sia negli anni successivi è venuta a
mancare una doverosa riconoscenza. Per le tante opere sociali Vicenza, la sua città, avrebbe dovuto attribuirle almeno postumo il giusto riconoscimento, magari con l’intitolazione di una strada o di un edificio pubblico, il ché non è avvenuto.
Di Luciano Cestonaro da Storie Vicentine n. 14-2023.
Tra gli scorci vicentini nel cuore della città si fa notare Ponte Pusterla che conduce all’omonimo Borgo, un luogo caratteristico che vanta antiche radici. In età romana era una zona paludosa e soggetta ad inondazioni causate dalle piene del fiume Astico. Tutto ciò la rendeva quindi un’area scarsamente popolata ma era comunque un punto strategico di passaggio.
Gli abitanti però volevano sfruttare a pieno le capacità del territorio, perciò nell’XI secolo deviarono il corso del fiume per evitare le problematiche inondazioni, permettendo quindi che solo una parte dell’acqua arrivasse qui. Grazie a questo ingegnoso intervento, Borgo Pusterla cominciò finalmente a crescere e a svilupparsi.
Innanzitutto venne edificata la Chiesa di San Marco che, però, necessitò nel tempo di così numerosi interventi di restauro a causa degli allagamenti che venne infine demolita nel 1800.
Il 1500 vide la nascita anche di alcuni monasteri ma l’ambito ecclesiasticonon fu il solo protagonista nell’evoluzione di Borgo Pusterla. Nel 1400, infatti, la zona fu coinvolta nel conflitto tra i Carraresi di Padova e i Visconti. In seguito, fortunatamente, giunsero tempi più felici e le battaglie lasciarono spazio alle svariate attività commerciali che sorsero lungo il fiume, sfruttando l’energia dell’acqua per le pale dei mulini e altri macchinari. Nacquero manifatture dedicate alla lavorazione della lana e successivamente della seta. All’apice della crescita di Borgo Pusterla iniziarono a sorgere e dominare la zona numerosi e fastosi palazzi signorili.
Punto focale del borgo è l’omonimo ponte, che vanta una storia antica e travagliata. L’origine del nome Pusterla si può trovare nel tardo latino “pusterola”, diminutivo di porta. Questa si differenziava infatti dalle altre porte della città, ovvero Porta Feliciana e Porta San Pietro, che erano più grandi, e l’etimologia “diminutiva” si riferiva in particolare ad un’apertura pedonale lungo le mura di un castello, di una città o a fianco del ponte levatoio carraio.
Abbiamo traccia del Ponte Pusterla sin dall’inizio del 1200, quando esisteva una struttura in legno a tre arcate che venne successivamente rifatta in pietra. Le erano, inoltre, anticamente annessi una torre con un ponte levatoio e una porta a saracinesca. Ponte Pusterla è strettamente legato al fiume Bacchiglione che fa il suo ingresso a Vicenza proprio sotto questo ponte e prosegue poi il suo corso attraverso il territorio. In epoca moderna il ponte è stato nuovamente modificato per adattarlo al traffico quotidiano e alle necessità dello stile di vita cittadino.
Lungo la strada principale di Brendola che conduce alla famosa chiesa, conosciuta come l’Incompiuta, si trova un gioiello rinascimentale: la chiesetta Revese. Dedicata a S. Maria Annunciata, venne fatta costruire tra il 1486 e il 1499 dalla nobile famiglia di cui porta il nome, che aveva varie proprietà in paese e appartiene all’architettura sacra vicentina rinascimentale.
Osservando il prospetto si notano somiglianze con la chiesa di Santa Maria dei Miracoli di Lonigo e con la Chiesa ortodossa di S. Michele nel Cremlino di Mosca. La prima, famosa per gli ex voto portati dai fedeli devoti alla Madonna, fu il luogo di un miracolo nel 1400, quando essa si manifestò attraverso gocce di sangue che sgorgarono da un’ opera a lei dedicata. La seconda, custode di meravigliosi affreschi e dipinti, venne costruita nel 1500 sotto la supervisione dell’architetto italiano Alvise Lamberti da Montagnana, il cui intervento è, quindi, ipotizzato anche per la chiesetta di Brendola.
Internamente la navata è decorata da conchiglie dipinte nelle lunette superiori e nell’area della pareti laterali e che si alternano a riquadri con angeli musicanti. La figura della conchiglia è un tema molto interessante e ricorrente nella storia dell’arte. Simbolo legato all’acqua e, nel mondo cristiano, alla nascita/rinascita come purificazione dello spirito, ispira la forma degli oggetti legati ai riti cristiani di purificazione.
Oltre a ciò la conchiglia è collegata anche al fatto di custodire qualcosa di prezioso, come si evince nella Pala di Montefeltro di Piero della Francesca. Sopra la Vergine, che sorregge Gesù addormentato sulle sue ginocchia, è, infatti, raffigurata una grande conchiglia. In questo caso è un simbolo riferito a Maria che custodisce suo figlio, il dono più prezioso, al pari della conchiglia con la perla. Tornando agli interni della chiesetta brendolana, nella parte inferiore si possono ammirare le allegorie del Bene e del Male: da una parte sono raffigurati, infatti, dei vasi classici affiancati da angeli e dall’altra le arpie.
La chiesa rimase della famiglia Revese fino all’ultimo discendente e poi passò agli Scola e successivamente agli Scola-Camerini. Dal 1989 è proprietà del comune ed è stata in seguitonuovamente restaurata. Prezioso gioiello nel cuore dei colli Berici, viene aperta solo in alcune occasioni, quando è possibile visitarla e scoprirla in tutta la sua bellezza.
Lorenzo Perlotto è un giovane artista e figlio d’arte trissinese: il racconto di Storie Vicentine.
Il giovane artista è nato nel 1985 e, come da tradizione famigliare, ha bottega-fucina a Trissino, il paese che rappresenta tutta la storia della sua famiglia. E’ infatti figlio d’arte ma anche di più: discende da un’antica famiglia di maestri fabbrili, che inizia nell’Ottocento con Antonio Lora e continua attualmente con Gilberto Perlotto, eccellente scultore del ferro, della quarta generazione.
Lorenzo, soprannominato Lurè, ha frequentato il liceo artistico Umberto Boccioni di Valdagno e poi ha lavorato per nove anni presso la Fucina Trissinese, specializzata nella lavorazione del ferro. Le sue opere sono realizzate a mano, con rigorose tecniche fabbrili. Dall’ideazione grafica dei soggetti Lorenzo Perlotto poi passa alla realizzazione che prevede una pigmentazione davvero originale. Sono ballerine che si slanciano leggere con silhouette agili e affusolate, le protagoniste dell’originale prima serie di sculture di Lorenzo Perlotto.
Ridotte a forme essenziali si lanciano disinvolte nello spazio, animate da un senso di leggerezza e agilità. Alcune sculture hanno colorazioni date con stesura a freddo sulla superficie di patine, fissate successivamente con vernice acrilica.
Altre sono rifinite con basi cromatiche in acrilico Ral o fluorescenti, tamponate o punteggiate con procedimenti particolari, con tecniche a spolvero, nylon a bolle o a pennello.
Risorgimento a Vicenza. Storie Vicentine ci racconta come Vicenza si liberò dalla dominazione austriaca nella notte tra il 12 e il 13 luglio 1866.
Sorgeva immediatamente il libero Municipio, a capo di esso misero Gaetano Costantini,
con il commissario del Re Antonio Mordini il quale, decise che si doveva ricostruire l’amministrazione municipale secondo la legge dalla Sovrana Patente del 7 aprile 1815 che era in pratica la Costituzione del Regno Lombardo-Veneto. Il Regio Decreto 1 agosto 1866 n° 3130 dava disposizioni relative alla costituzione dei consigli comunali, nelle province liberate e in base all’articolo 29 del decreto si convocarono in Provincia le elezioni fra il 23 e il 30 settembre. Le elezioni seguirono in Vicenza il 1° ottobre. L’amministrazione ebbe breve durata perché con R. D. 2 dicembre 1866, nel Veneto e nella provincia di Mantova vennero promulgate tutte le disposizioni comunali e provinciali del 20 marzo 1865 che, si accordavano con il Veneto e Mantova: vennero bandite nuove elezioni per il 31 dicembre 1866.
L’articolo 88 della legge comunale R.D. 2 Dicembre 1866 recitava: “le sedute del Consiglio
Comunale saranno pubbliche quando la maggioranza del Consiglio lo decida.” Il 13 marzo 1867, per discutere di una mozione dell’ing. Francesco Formenton, si accenna alla pubblicità sui giornali delle adunanze consiliari. L’anno dopo l’on. Paolo Lioy in una adunanza del 25 maggio 1868, propose una commissione composta da Gaetano Costantini,
Fedele Lampertico, Vincenzo Fontana, per la stesura di un Regolamento che fu adottato dal 21 luglio 1868. Il periodo che succedette ai giorni del nostro riscatto, fu memorabile, negli scritti esaminati, in archivio, si rispecchia la perizia amministrativa e la prudenza che in quei tempi ebbero il governo del Comune, ma pur tra le difficoltà del dopo occupazione, i governatori cittadini seppero trasformare la città in quella che si potrebbe definire Vicenza, città bellissima, grazie anche al Sindaco di Vicenza Conte Cavaliere Antonio Porto. E G. Mosconi – L. Fogazzaro – E. Boschetti – G. Costantini. I primi provvedimenti urgenti della Giunta Municipale, furono molti, in primis: Polizia, ordine pubblico e sicurezza.
La dirigenza dei lavori e modalità fu affidata a Luigi Fogazzaro, il quale servendosi di impiegati ed inservienti non coinvolti con la polizia imperiale, riattivò l’ufficio di guardia civica cittadina, la cui organizzazione fu demandata al nobile Fabrizio Franco, il quale assunse diversi cittadini per perlustrare la città nella stessa serata del 13 luglio, immediatamente si fece il rilascio dei fogli di via e passaporti. Sotto stretta sorveglianza
si posero le carceri per criminali e politici.
Inquisiti per soli titoli politici furono scarcerati. Non si ottenne dal Tribunale la scarcerazione del condannato politico signor Zattera. Molti impiegati compromessi con il Governo austriaco furono consigliati di allontanarsi al solo fine di salvare la loro vita. Questi furono il signor Buzzi Commissario Distrettuale, Bonaldi professore al Ginnasio (ora Liceo Pigafetta), ed Eccli ragioniere capo. Le licenze per porto d’armi e le armi furono restituite ai richiedenti, con la promessa di porsi in regola con domanda e pagamento della tassa. Al Vescovo salvato da una violenza popolare per interposizione della Giunta, fu consigliato di emettere una circolare per parroci e cappellani onde, “lungi da farsi fautori di opposizioni,
abbiano da assecondare l’impulso nazionale e influire sull’ordine pubblico”.
Il canonico e direttore scolastico Eugenio Meggiolaro, arrestato su ordine del commissario del Re, e tradotto alle carceri di San Biagio. Antonio Mordini aveva scritto un telegramma a Ricasoli chiedendo immediata sospensione del Concordato della Santa Sede con l’Austria
e l’immediata estensione anche nel Veneto delle corporazioni religiose, il commissario fece licenziare dal Liceo Pigafetta Don Andrea Scotton ed allontanare dalle parrocchie cinque parroci ed una accurata ispe-zione al Seminario ritenuto un covo austriacante.
Poste e Telegrafi :L’ufficio postale era stato abbandonato dal suo capo, riaperto sotto la guida del cittadino Domenico Piccoli in collaborazione con l’impiegato Rossi e con altri assunti la cui condotta non aveva motivi di rimarco. Le comunicazioni con i maggiori centri
della provincia furono riaperte e l’ufficio cominciò a funzionare. Il Direttore delle Poste, al momento della partenza, asportò diversi gruppi di denaro diretti a privati per una somma ragguardevole, senza rilasciare quietanza. Il fatto fu denunciato al Tribunale. E’ arrivato
dalle Poste di Bologna un Commissario Regio, il quale con istruzioni verbali dichiarò che la Posta dipenderà dalla Direzione di Bologna.
Finanze: l’ufficio è stato chiuso e l’intendente ha dichiarato di cessare dalle sue funzioni. Il Municipio dispose che a mezzo del signor Scanferla e del membro di Giunta signor Nicoletti, venisse redatto un atto di consegna, colla chiusura di tutti i giornali e con un riscontro di cassa. Militare: prima di andarsene, la milizia imperiale, a mezzo di un ufficiale del Genio, consegno le chiavi di tutte le caserme. L’Ospedale sito in Santa Maria Nova (già collegio Cordellina) fu consegnato al facente funzione di Podestà con circa 60 malati da curare. La cura dei malati fu affidata ai signori Villanova Girolamo, Gianesin , Biagio, e Vejer Federico, ordinando la somministrazione dei medicinali alla farmacia della Carità e gli alimenti alla impresa Laschi, che anche prima ne era la fornitrice e nominando custode e sorvegliante di tutto il nobile Uberto Barbaran. Per le caserme si commise al personale tecnico di fare gli inventari dei beni mobili. Inventari nelle caserme e magazzini erariali nel giorno
13 luglio e dichiarati preda bellica dal capitano dei Lancieri Dario De Lu e portati a Padova.
Il 15 Luglio 1866 altri Lancieri, provenienti da Padova asportarono dalla caserma di San Felice e Fortunato, numero 820 sacchi di farina erariale. Una terza spedizione requisì gli oggetti e strumenti di un Ospedale da campo, con lingerie per i feriti, nonché la farmacia completa. Di tutto il materiale fu rilasciata ricevuta. Il Commissario Regio di Guerra Mordini diede l’ordine di confezionare una vistosa quantità di pane da fornire prima ad un corpo militare accampato a Grisignano e quindi all’armata principale, accampata a Padova.
Le razioni previste 20 mila al giorno. Fu acquistato del frumento e avvalendosi dei forni
dell’impresa Laschi fu fatto il necessario, ma non bastò. In un deposito si trovarono 500 sacchi di farina, non soggetta a preda bellica, e con assenso del Regio Commissario, approfittando dei mezzi del signor Gnoato e dei forni militari si confezionò una buona partita di pane da spedire a Padova. L’argomento importante di quei giorni è il pane che verrà a mancare ed è attualmente pagato dalla Intendenza dell’Armata, in misura inferiore al costo commerciale e forse con monete soggette a “disagio”. Requisizioni: sarà necessario riattivare la Commissione Provinciale per le requisizioni e trasporti militari, con residenza negli alloggi del comune. Commercio: lagnanze sorgevano tutti i giorni per i pagamenti con moneta italiana e specialmente con carta moneta. La Camera di Commercio ha in via di pubblicazione un avviso con il ragguaglio tra la moneta italiana e quella austriaca, istruzioni da Padova non giunsero. I venditori di merci sono stati diffidati a non alterare i prezzi senza motivo, sotto pena di chiusura e la privazione della licenza per i girovaghi.
Di Luciano Parolin Da Storie Vicentine n. 14-2023.
Storie Vicentine ci racconta l’interessante storia dello scrittore Goffredo Parise, un uomo dal destino fortunato e insaziabile di conoscenze.
Alcuni sostengono che sia l’uomo a forgiare il proprio destino e in parte non ci si può esimere dall’essere d’accordo. Sono infatti le nostre scelte che, una volta intrapresa una determinata strada, ci conducono nella giusta direzione. Sta di fatto però che c’è sempre una componente legata al destino e questo si rispecchia perfettamente nella figura di Goffredo Parise: scrittore, giornalista, sceneggiatore, saggista e poeta vicentino.
Nato a Vicenza nel 1929 Goffredo Parise inizia la sua esistenza senza un padre, salvo poi essere riconosciuto dall’uomo che sposa sua madre: il giornalista Osvaldo Parise, allora direttore del Giornale di Vicenza. Mettendo in relazione questo col preambolo inziale ci si potrebbe chiedere: “Cosa sarebbe successo se la madre di Goffredo Parise avesse sposato un altro uomo?” “E se non si fosse sposata affatto? Perché si è innamorata proprio di un giornalista?“.
Non è facile trovare risposta a queste domande o meglio, è quasi impossibile saperlo
ma il fato non è certamente rimasto indifferente davanti ad un grande talento. Tornando comunque alla vita concreta dell’autore, a quindici anni prende parte alla resistenza nella provincia di Vicenza e, alla fine della guerra, si diploma al liceo classico come privatista. A questo punto ci si aspetterebbe la sua successiva iscrizione all’università con conseguente laurea, invece non è così. Bisognerà attendere il 1986 per poterlo chiamare Dottor Parise, con laurea ad honorem in lettere all’Università di Padova.
Ricollegandoci alla suddetta riflessione, su come il destino ci metta sempre un pizzico del suo intervento, è proprio grazie al marito della madre se inizia a lavorare per quotidiani come “Alto Adige” di Bolzano “L’Arena” di Verona e “Il Corriere della Sera”. Ed ecco che arriva l’illuminazione nella sua vita. Il giovane Parise capisce qual è la sua vera passione: scrivere storie. Di conseguenza, per rincorrere il suo sogno, si trasferisce a Venezia dove scrive il suo primo libro “Il ragazzo morto e le comete”, pubblicato dall’amico Neri Pozza.
Quest’opera in realtà è però anticipata da un prosa che lui aveva composto anni prima, dal titolo “I movimenti remoti”. Arriva poi un secondo scritto “La grande vacanza”, elogiato persino dal grande Eugenio Montale, il quale esalta la capacità dell’autore di calarsi nel tema dell’infanzia, senza cadere però nella classica nostalgia.
Lasciata la romantica e misteriosa Venezia, si trasferisce poi a Milano, dinamico centro culturale, pullulante di opportunità pronte per essere colte. Qui lavora alla casa editrice di Livio Garzanti e nel 1954 scrive “Il prete bello” che gli permette di scalare la vetta del successo a livello internazionale. A cui seguono “Il fidanzamento” e “Atti impuri”, costituendo una trilogia realista. Da questo momento in poi tutto cambia e per Parise inizia un periodo intenso di viaggi.
Decide di non tornare a Vicenza ma è indeciso se recarsi a Milano, Venezia o Roma. Nella capitale diventa amico di Carlo Emilio Gadda, uomo dalle mille sfaccettature in cui convivono e coesistono un animo letterario di scrittore e uno pragmatico di ingegnere.
La sua sete di conoscenza è però implacabile, tanto da portarlo in America , dove Dino De Laurentiis vorrebbe che scrivesse un film per il regista Gian Luigi Polidoro. La “Grande Mela” però rappresenta per Parise un contrasto vivente, tanto da esserne al contempo colpito e deluso. “Di una città non apprezzi le sette o settantasette meraviglie, ma la risposta che dà ad una tua domanda” disse Italo Calvino e probabilmente Parise di quesiti da risolvere ne aveva molti.
La sua esplorazione del mondo infatti prosegue tra Cina, Laos, Vietnam, Malaysia, Regno Unito, Francia, Russia, Indonesia e Giappone. Ed è proprio in questa lontana terra orientale che, dopo essersi ristabilito in seguito ad un infarto, ha l’ispirazione per la sua opera “L’eleganza è frigida”. Nel 1986 la frenetica corsa dell’autore verso le risposte tanto ambite però si placa, poiché sopravviene la morte. Questa pone infatti fine alla vita di uomo che non si è mai accontentato e che ha sempre percorso imperterrito la sua strada verso il successo, senza perdere mai di vista l’obbiettivo ma ricordando sempre perché tutto è iniziato: la scrittura.
Andrea Zanzotto, nella prefazione aLe stelle fredde di Guido Piovene, Premio Strega del 1970, si riferisce all’autore definendolo come l’uomo del perpetuo ritorno a un luogo. Più precisamente, Vicenza, l’unica dimensione spaziale che è stata per l’autore il suo ‘grembo materno’. La sognava quando era distante proprio perché era l’unica origine a cui ricondurre la sua vita e la sua intera produzione artistica, ma soprattutto era un bisogno per esistere, per tornare a respirare e a riconoscersi.
Civenza, era bastato uno scambio di consonanti perché tutto, ne Le Furiedel 1963, diventasse romanzescamente finto; il covo di malafede e di serpi che aveva descritto per tutta la sua vita e da cui si era allontanato viaggiando, era stato da lui sapientemente adattato alla finzione artistica.
L’intenzione autoriale era quella di trasferire e sradicare dal loro luogo d’appartenenza le persone e le vite vere del suo passato, tornate presenti, che non riusciva a tollerare. Le collocava, quindi, in una cittadina dal nome leggermente differente e, sfruttando le sue conoscenze di giornalista, che aveva viaggiato per molti anni, faceva apparire tutto in una nuova veste. Una bipartizione, perenne e parimenti in una forma sempre in fieri, che ha caratterizzato la sua scrittura, tra dimensione romanzesca e giornalistica.
Umilmente e instancabilmente, in ogni reportage, Piovene rivolgeva il suo sguardo verso il luogo in cui si trovava con la volontà di scattare un’istantanea con i suoi occhi, ‘in punta di piedi’, senza sfiorare o manipolare la realtà con preconcetti e filtri che risultavano ad hoc per molti viaggiatori e giornalisti occidentali ma di certo non per lui. Alla ricerca della verità per ogni elemento d’indagine che diventava un tutt’uno con la sua persona, per descrivere la profondità sentendosi parte della medesima, ‘dall’interno’.
Guido Piovene si immergeva in ogni nuovo contesto, rifiutando le vie di comunicazione predisposte, per analizzare ogni aspetto sociale, politico ed economico del luogo in cui si trovava come ne sentisse e ne parlasse per la prima volta. Un modus operandi volto alla descrizione e difesa della realtà, senza mezzi termini.
Quando si trattava di Vicenza, tuttavia, questo processo non gli riusciva. Due o tre punti, definiti da lui stesso, di paesaggio assoluto, a causa del troppo dolore presente nel ricordo, resistevano al suo tentativo di manipolarli per non dover affrontare il momento di confronto con quell’insieme di “mostri”, di “Furie”, con il suo passato. Il tentativo era quello di alienare se stesso e il lettore forzando uno psicologismo in primo piano ma manipolato.
La progressione nelle differenti dimensioni spaziali è, senza dubbio, uno dei temi centrali della produzione pioveniana; un movimento inteso in senso letterale ma anche figurato. Proprio perché l’atto del camminare, nella sua scrittura, è sempre connesso a quello del capire. Si tratta dell’espressione di un percorso che non è da intendersi limitatamente a livello di estensione nello spazio ma, al contrario, si intreccia col perenne mutamento della condizione esistenziale dell’autore, che si riflette, soprattutto, nella dimensione romanzesca.
«Uno scrittore, veneto come me, parla del bisogno cocente che prova di staccarsi dalla schiavitù (fantastica, morale) dei luoghi dov’è nato. Ossia di sradicarsi, di rinascere in un ambiente estraneo. La forza del legame e dell’attrattiva per quello dov’è nato gli si muta in disgusto. È un sentimento che anch’io provo, insieme con il suo contrario; in un’alternativa di movimenti, verso il proprio sangue e contro, senza poter decidere in quale di essi si conquista una libertà maggiore. E vorrei che i miei scritti riuscissero a rappresentare questi due movimenti, il sorgere l’uno dall’altro, la loro relazione». (Guido Piovene, La coda di Paglia, Milano, Mondadori, 1962, cit., p. 480).
Vicenza rappresenta quindi il centro, da cui allontanarsi ma anche ricondursi; la ragione, pura e unica, dietro e dentro la materia della sua produzione artistica, considerata nella sua interezza. La ‘distruzione’ di quella visione e conseguente percezione salvifica di questo luogo era stata provocata dal dolore che non aveva ancora avuto il coraggio di affrontare.
Nonostante la difficoltà del percorso che si prospettava, l’autore riuscì a porre fine a quella ‘fuga’, procedendo in direzione di una coraggiosa accettazione del suo passato. Cambiò rotta e dopo lunghissimi anni di silenzio, soprattutto grazie alla lunga e difficoltosa genesi e stesura de Le Furie, tornò all’origine. Questa è la Vicenza di Guido Piovene.
«Diventa sempre più necessaria e interna quanto più la allontano, la stacco, la converto in un luogo della fantasia ed in una realtà morale; il punto d’avvio obbligatorio di mille fantasie centrifughe, anche quando è taciuto. Se penso o immagino qualcosa, prima sono costretto a tornarvi dentro in me». (Ivi, p. 585).
Storie Vicentine ci racconta storia e architettura dell’Ospedale dei Proti, un capolavoro di Antonio Pizzocaro.
Poco oltre la metà del XVII secolo i governatori dell’ospedale dei Proti di Vicenza si rivolgevano al più autorevole architetto e impresario a quell’epoca operativo in città: Antonio Pizzocaro. Il Pizzocaro era nato a Montecchio Maggiore allo scadere di settembre del 1605 dal padre Battista, di professione muraro, proveniente da Lonato e che lo aveva instradato alla professione di architetto. Proprio per avere migliori possibilità lavorative, Antonio, raggiunta la maggiore età e divenuto pienamente responsabile sul piano giuridico del proprio patrimonio, sino ad allora gestito da un tutore testamentario, decideva di stabilirsi a Vicenza. Qui, infatti, nel 1625 veniva ascritto negli elenchi della fraglia dei lapicidi della città – la corporazione di mestiere che riuniva le professioni di quanti lavoravano con la pietra: architetti, scultori, capomastri, tagliapetre, murari ecc. – a quel tempo diretta dalla gastaldia di Giambattista Albanese, il celebre scultore e architetto postpalladiano di una trentina d’anni più anziano rispetto ad Antonio col quale il nostro avrebbe collaborato negli anni giovanili, per proseguire poi la collaborazione, dopo la morte di costui nel 1630, col fratello e cotitolare della bottega Girolamo Albanese.
Rivolgersi per i governatori dei Proti al Pizzocaro dovette essere inevitabile, se si considerano i successi professionali maturati dall’architetto a partire dalla metà degli anni Trenta in avanti e se si tien conto della sua capacità di stagliarsi sul palcoscenico vicentino dell’epoca. Dove, del resto, usciti di scena i grandi del passato (Palladio era morto nel 1580, Scamozzi nel 1616, Giambattista Albanese, appunto, nel 1630, Ottavio Revese Bruti sarebbe invece morto poco dopo, nel 1648) e dove mancava una grande concorrenza (Girolamo Albanese era maggiormente orientato alla scultura, mentre Domenico Borella non aveva la levatura del nostro), al Pizzocaro riuscì in qualche modo di emergere proponendo un linguaggio tutto suo. Un linguaggio architettonico sicuramente memore della lezione di maestri, che inevitabilmente dovette subire il fascino dell’antico proiettato
dalle rivoluzionarie architetture palladiane, ma che si fece maggiormente incline a subire la seduzione di un’architettura dalle linee più secche e severe qual era quella scamozziana.
Peraltro, filtratagli e resagli più immediata e accessibile dalla semplificazione formale proposta proprio da quel Giambattista Albanese che lo aveva accolto in fraglia e sulla cui
lezione e intermediazione Antonio dovette a lungo meditare negli anni giovanili.
Quindi approdò ai Proti. Dove, non si dimentichi, a segnalare ancor più le ragioni di una scelta, tra i governatori dell’ospedale figurava il conte Alessandro Godi, il quale nel 1652 aveva tenuto a battesimo, in qualità di padrino, l’ultimogenito di Antonio, Giambattista, e che contemporaneamente all’avvio del cantiere dei Proti era anche magistrato sopra la fabbrica delle prigioni nuove, ove l’impegno del nostro è cosa nota.
Già da tempo si stava valutando l’opportunità di rinnovare il vecchio ospedale dei Proti, fondato ai primi del Quattrocento in seguito alle disposizioni testamentarie di Giampietro de’ Proti che aveva voluto dar vita a un istituto sul luogo dove sorgevano le case della sua famiglia che potesse accogliere nobiluomini «vegnudi in povertà». La struttura si dimostrò ben presto di grande utilità per il centro berico. Tuttavia, dopo più di due secoli
di attività, essa necessitava di consistenti lavori di ripristino.
A rendere improcrastinabile l’intervento furono essenzialmente due circostanze: anzitutto un incendio che verso la fine del 1606 aveva pesantemente danneggiato l’ospedale, il quale, per quanto riparato tempestivamente dai capomastri Natale Baragia e Barnaba
Mazzonchi, ancora alla metà del Seicento si presentava bisognoso di riordino. Ma fu soprattutto la particolare e assai delicata congiuntura sociale ed economica, aggravata com’è stato osservato dalla peste del 1630, a determinare l’urgenza non solo di un rinnovo della struttura, bensì, soprattutto, di un suo significativo ampliamento.
La crisi che permeava la società vicentina arrivando a lambire in misura preoccupante persino gli strati dell’aristocrazia – configurandosi come una piaga dolorosa se paragonata alla floridezza della condizione cinquecentesca – aveva determinato una povertà mai sino
ad allora sperimentata con tanta brutalità dalla classe nobiliare, in seno alla quale furono diversi gli esponenti che si videro costretti a svendere il proprio patrimonio immobiliare.
Cattive congiunture climatiche iniziate già alla metà del XVI secolo avevano iniziato a condizionare pesantemente la vita della popolazione. Intorno al 1550 aveva iniziato a presentare il conto quella che gli storici avrebbero chiamato la piccola glaciazione dell’età moderna. Ad inverni rigidi si susseguirono con costanza estati brevi e poco assolate. A livello globale si assistette, allora, all’avanzata dei fronti glaciali. In alcuni inverni persino
i fiumi nel mezzogiorno della Francia ghiacciarono, come ha ricostruito lo storico del clima Leroy Ladurie.
Non solo: basta leggere le cronache del vicentino Fabio Monza allo scadere del Cinquecento per accorgerci di quanto il clima si fosse fatto rigido. I lupi erano scesi dai colli e dai monti e, affamati, erano arrivati a lambire la città. I nobili vicentini vengono immortalati dal cronista all’interno delle proprie dimore urbane o delle residenze di campagna in pieno luglio col fuoco del camino acceso e la pelliccia indossata.
Questa piccola glaciazione, che si sarebbe prolungata sino alla metà dell’Ottocento con una maggior incidenza proprio tra il 1550 e il 1650 circa, determinò, come causa più diretta,
una drammatica crisi agraria, che mise nel giro di pochi decenni, a partire dalla fine del XVI secolo, in ginocchio buona parte dell’aristocrazia terriera che proprio sui latifondi rurali dell’entroterra veneto aveva costruito la sua fortuna economica.
È nei confronti di questa nobiltà decaduta, allora, che il Consiglio cittadino intero si sentì in obbligo di assumere urgenti manovre riparatrici che potessero venire in aiuto dei “colleghi di ceto” in difficoltà. L’unica strada percorribile era l’ampliamento dell’ospedale dei Proti, istituto già deputato a tale funzione di assistenza sociale. L’unico architetto, poi, su cui si poteva contare a quell’epoca, per esperienza, serietà, fiducia, come chiarito, era Antonio Pizzocaro. Egli poteva da un lato vantare una lunga e ben collaudata collaborazione con l’amministrazione civica e, dall’altro, aveva maturato, soprattutto nel corso degli ultimi quindici anni, una perizia nel campo dell’arte architettonica in grado di proiettarlo sulla ribalta della scena vicentina, al centro di un palcoscenico ambito che da troppi anni aveva perso i ricordati protagonisti di riferimento.
L’edificio pizzocariano assolve alle esigenze di pura funzionalità: semplice ed essenziale, si presenta spoglio e severo all’esterno, dov’è bandito qualsiasi orpello decorativo. Estremamente asciutto e rigoroso anche – e forse in misura ancora più evidente – il cortile interno, strutturato nel ritmo incalzante degli archi, d’un nitore e di una secchezza pressoché tagliente. Una vera e propria scatola “psichedelica” che attraverso la scansione modulare raggiunge esiti altissimi, toccando i vertici di un lirismo mai sino ad allora esibito dal Nostro. Una scatola, dicevamo, dove tutto è giocato sull’iterazione delle arcate secondo un valore di razionalità e pragmatismo, nell’intento di evidenziare attraverso l’identità di
queste aperture filtranti – che servono a dar luce ai loggiati – la pari dignità dei nobiluomini ospitati nelle corrispondenti sale retrostanti, indistintamente beneficati in ugual misura.
Qui si consuma forse la più brillante e moderna sperimentazione del Pizzocaro. Un cortile di una purezza senza eguali, dove a regnare è il confronto con l’antico. Non una citazione
proiettata verso la città, ma intima, introversa, interiore. Risolta nell’intimità e nella discrezione degli interni. Un luogo inscalfibile da occhi indiscreti, di un razionalismo asciutto, teso, severo, finanche austero che porta alle estreme conseguenze quella meditazione pizzocariana intorno all’opera e alla lezione di Vincenzo Scamozzi. Un’opera di un razionalismo modernissimo, dicevamo, che anticipa di ben tre secoli la soluzione formale che, estroversa e proiettata alla città, sarebbe stata proposta nella palazzina della civiltà italiana all’EUR di Roma.
I lavori presero il via nel 1655 dall’oratorio annesso alla struttura per poi estendersi all’ospedale vero e proprio, e proseguirono a lungo (fino al 1668) sotto la direzione di
Antonio Pizzocaro che poteva in questo modo contare su di un introito fisso mensile per la supervisione alla fabbrica. Si trattava di compensi continuativi e di assoluta soddisfazione
cui si aggiungevano i guadagni via via crescenti derivanti anche dalle commissioni di natura privata evase in quegli anni. Fu su questa base economica sicura e stabile che al Pizzocaro risultò possibile sviluppare i propri investimenti finanziari nella natia Montecchio, ove curò l’acquisto di nuovi terreni, immobili e livelli, nell’intento di rinvigorire i possedimenti
nella zona ereditati dal padre o già acquisiti negli anni passati, o nella stessa Vicenza e in alcune delle sue più riguardevoli appendici territoriali.
Di Luca Trevisan (Accademia Olimpica di Vicenza- Università di Verona) da Storie Vicentine n.14-2023.
Bibliografia essenziale di riferimento:
L. Trevisan, Antonio Pizzocaro architetto vicentino 1605- 1680, Rovereto 2009, pp. 70-73, 123-127 cat. DA7 (con bibliografia precedente).
L. Trevisan, Antonio Pizzocaro. Un architetto del Seicento da Montecchio Maggiore a Vicenza, Rovereto 2010, pp. 35-37.
L. Trevisan, Per la famiglia dell’architetto vicentino Antonio Pizzocaro nella sua terra d’origine. Tracce dei Pizzocolo a Lonato attraverso inediti documenti d’archivio, in “Postumia”, 2016, pp. 307-322.