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Museo del Gioiello di Vicenza: un maggio di workshop ed eventi

Si apre un mese ricco di novità e iniziative al Museo del Gioiello di Vicenza: a maggio le sale del piano nobile della Basilica Palladiana si animano di progetti e attività per avvicinare grandi e piccini alla tradizione orafa e alla bellezza dei preziosi.

LA FESTA DELLA MAMMA AL MUSEO

Domenica 14 maggio il Museo del Gioiello celebra la Festa della Mamma. Tutte le mamme accompagnate dai propri figli e figlie avranno l’opportunità di una visita guidata gratuita alla mostra permanente “Gioielli Italiani”. Incluso nel costo del solo biglietto di ingresso, dunque, un percorso accompagnato per apprezzare al meglio le migliori storie orafe della penisola, assieme ai manufatti della mostra temporanea “Gioielli e amuleti. La bellezza nell’antico Egitto”, prorogata fino a domenica 28 maggio. Nata dalla collaborazione tra il Museo del Gioiello e il Museo Egizio come collaterale alla mostra in Basilica Palladiana “I creatori dell’Egitto eterno. Scribi, artigiani e operai al servizio del faraone”, conduce i visitatori alla scoperta di una settantina di antichi manufatti, in gran parte esposti per la prima volta al grande pubblico.

COME SI CREA UN GIOIELLO? AL VIA I WORKSHOP CON BARBARA UDERZO

Novità della primavera 2023 al Museo del Gioiello saranno due workshop pensati per un pubblico adulto, a cura dell’orafa e designer di gioielli Barbara Uderzo, le cui opere sono state esposte in numerose gallerie e musei internazionali, quali La Triennale di Milano, il Museo delle Arti Decorative di Berlino e il Victoria and Albert Museum di Londra. Domenica 21 maggio il primo appuntamento che, partendo dall’osservazione di un ornamento preistorico in esposizione nelle teche del Museo, insegnerà ai partecipanti a lavorare il filo di alluminio per creare un anello personalizzato. Il secondo laboratorio si terrà domenica 11 giugno e avrà come protagonista l’acciaio, per creare una spilla ispirata alle antiche fibule esposte al Museo.

I workshop hanno un costo di 20 euro in aggiunta al prezzo del biglietto di ingresso.

LE ATTIVITÀ PER I PIÙ PICCOLI

Si chiude a fine mese il ciclo di laboratori dedicato ai bambini: domenica 28 maggio l’ultimo appuntamento, “Disegni preziosi” che permette ai più piccoli di sviluppare la creatività e divertirsi esplorando il tema del gioiello. I bambini dai 5 ai 12 anni potranno entrare gratuitamente, mentre per partecipare ai laboratori la tariffa sarà di 4,50 euro. Il costo per l’ingresso degli adulti è di 10 euro (5 euro se residenti a Vicenza e provincia), 4,50 euro per il laboratorio.

Le attività per i più piccoli proseguiranno a giugno con i centri estivi al Museo, nell’ambito dell’iniziativa “Vivi Museo” promossa dai Musei Civici di Vicenza (Museo del Gioiello, Museo del Gioiello, Museo di Palazzo Chiericati, Museo Naturalistico Archeologico, Palladio Museum, Museo Diocesano) con il coordinamento della Cooperativa sociale Scatola Cultura. Dal 19 giugno al 28 luglio, tutte le mattine saranno dedicate alla scoperta delle opere d’arte custodite nei musei cittadini con attività e laboratori (info e prenotazioni al numero 348 383 2395 o via mail a [email protected]).

Il Museo del Gioiello è un progetto di Italian Exhibition Group gestito con il Comune di Vicenza.

Per informazioni e prenotazioni sulle attività in programma: +39 0444 320799, [email protected].

Orari di visita: dal martedì al venerdì dalle 10:00 alle 13:00 e dalle 15:00 alle 18:00, sabato e domenica dalle 10:00 alle 18:00. Informazioni utili: il biglietto per la mostra “Gioielli e amuleti. La bellezza nell’antico Egitto” è compreso nel biglietto di ingresso del Museo del Gioiello (intero €10, ridotto €8). Ingresso ridotto se in possesso di biglietto della mostra in Basilica “I creatori dell’Egitto eterno” o del Museo Egizio e viceversa. Per conoscere i vantaggi della “Vicenza Card” e tutte le convenzioni: www.museodelgioiello.it.

Chiesa di Santa Caterina al porto di Vicenza

La Chiesa di Santa Caterina al porto è una delle chiese meno conosciute di Vicenza ed era situata già dal XVI sec. nei pressi del principale porto cittadino da cui deriva il nome. Oggi, se si devono spostare persone e cose, si utilizzano le strade. Un tempo, invece, ci si serviva dei fiumi. E così, ogni città che ne era attraversata aveva il suo porto.

Vicenza ne aveva due. Un approdo minore si trovava nell’attuale contrà Burci, che si estendeva fino alla riva destra del Retrone, dove attraccavano i burci del pesce, ossia le imbarcazioni che portavano in città i prodotti ittici della laguna di Venezia. Il porto principale, detto dell’Isola, era invece situato nei pressi dell’attuale piazza Matteotti, alla confluenza del Retrone con il Bacchiglione, prima della diversione dei corsi d’acqua, eseguita nel 1876 su progetto dell’ing.

Carlo Beroaldi, che diede vita a viale Giuriolo. Nel 1802 la Dogana dispose il trasferimento di questo porto, per maggior controllo, in Borgo Berga, di fronte alla chiesa oggetto di queste note, che prese così il nome di Santa Caterina al porto, anche per distinguerla dall’altra omonima, sempre in Borgo Berga.

La Dogana, a sua volta, stabilì la sede nel fabbricato – eretto nelle attuali forme nel 1841 su probabile progetto di Bartolomeo Malacarne e oggi sede del Corpo Forestale dello Stato – che si incontra sulla sinistra, giungendo da piazzale Fraccon, dopo l’ex Cotonificio Rossi. Molto antica la chiesa di Santa Caterina al porto. 

Chiesa di Santa Caterina al Porto
Chiesa di Santa Caterina al Porto

Sin dalla metà del XIV sec. si ha notizia di un piccolo oratorio annesso all’ospedale di Campedelo che nel 1423 fu ampliato dai rettori del sito, Giovanni Cerchiari e Giovanni del fu Antonio, come attestava una perduta iscrizione sopra la porta, fortunatamente trascritta dallo storico del Seicento Francesco Barbarano nella sua Historia ecclesiastica della città, territorio e diocese (!) di Vicenza.

Con il trascorrere del tempo l’edificio andò sempre più in rovina, sia per mancanza di manutenzione e sia per le frequenti esondazioni del Bacchiglione. A risollevare la situazione intervenne Giovanni Maria Bertolo, uno dei più grandi avvocati della sua epoca, nato a Vicenza il 31 agosto 1631, figlio di un tornitore con bottega nei pressi del duomo, e morto il 7 novembre 1707 a Venezia, che divenne il centro dei suoi affari e interessi.

Egli, tuttavia, rimase sempre legato alla città natale, tanto che nel 1694 assunse la carica di deputato ad utilia, stabilendo la propria residenza vicentina in quella che oggi è conosciuta come villa Valmarana ai Nani. Nel 1677 Bertolo, con l’intento di rendere la chiesa una sorta di oratorio a servizio della sua dimora di Monte Berico, dispose la ricostruzione dell’edificio, con l’ampliamento dell’area del coro e il rifacimento della facciata, demolendo l’originaria gotica.

Lo attestano due lapidi ivi affisse: TEMPLUM D. CATERINAE SACRUM / VETUSTATE COLLAPSUM/ REFECIT / IN AMPLIOREM FORMAM REDEGIT/ TOTUMQ. ORNAMENTUM ABSOLVIT / IOANNES MARIA BERTOLIUS / IN VENETO FORUM CAUSARUM PATRONUS / ANNO MCD / LXX. VII. [Questo tempio sacro a Santa Caterina, in rovina per la sua vetustà, rifece e ingrandì, adornandolo di ogni ornamento, Giovanni Maria Bertolo, avvocato del Foro veneto, nell’anno del Signore 1677].

Nel 1806 un decreto napoleonico soppresse la confraternita che gestiva il sacro edificio, l’Ordine di Santa Caterina al Porto. Seguirono, di conseguenza, l’abbandono e il progressivo deterioramento di tutto il complesso. Nel 1845 la chiesa passò in proprietà della famiglia Valmarana, che poi la cedette alla parrocchia di Santa Caterina. Tra il 2000 e il 2005 si diede avvio ad una campagna di radicale recupero e restauro, che riportò la chiesa ai seicenteschi splendori.

La facciata, a causa dell’innalzamento di oltre due metri del piano stradale, appare alterata nelle sue proporzioni, poco slanciata e appesantita dal grande frontone, con la porta di accesso palesemente sproporzionata. Per di più, l’edificio risulta soffocato dalle abitazioni che nel tempo gli si sono affiancate. Una situazione ben diversa da quella originaria, abilmente ricostruita in occasione del ricordato restauro dall’arch. Renata Fochesato dello Studio Aeditecne. Il fronte è scandito da quattro lesene di ordine dorico. Fra le due laterali sono collocate, nella parte inferiore, due lunghe finestre incorniciate, mentre nella rimanente superficie campeggiano le due già memorate lapidi, a cornice bombata, che ricordano l’intervento del Bertolo.

Il settore centrale ospita la porta di ingresso, al di sopra della quale si adagia un piccolo frontone, nel cui timpano è collocato uno scudo non decifrabile, proveniente, forse, dalla primitiva chiesa quattrocentesca. Sul prolungamento degli stipiti del portale si innalzano due sottili lesene, che reggono un architrave, sul quale poggia una lunetta, la cui chiave di volta incontra il capitello centrale. Conclude la facciata un robusto frontone, che ospita nel timpano lo stemma del più volte ricordato Giovanni Maria Bertolo, costituito da un leone rampante con due code, allusive ai due rami del diritto – civile e canonico – praticati dal famoso giurista.

Coronano il prospetto tre statue in pietra tenera: al centro, quella raffigurante S. Caterina d’Alessandria, titolare della chiesa, che regge la ruota del martirio, a sinistra – omaggio al Bertolo – quella di san Giovanni Evangelista con l’aquila, suo simbolo, e, a destra, quella di san Giovanni Battista, qui ripreso non in veste di battezzatore, ma di predicatore nel deserto, essendo affiancato da un cane. Quello che caratterizza la facciata è il sottolineato verticalismo, impresso dall’asse che parte dalla statua di santa Caterina, interseca lo stemma del Bertolo, scende fino al capitello della trabeazione, continua nella chiave di volta, incontra il vertice del frontone soprastante la porta – che è ancora quella originale – e si conclude fra i suoi due battenti. Quanto all’architetto, non è stato finora trovato alcun documento che indichi il nome.

Scartata l’attribuzione ad un non meglio precisato Antonio Muttoni per il semplice fatto che questa famiglia di architetti si trasferì a Vicenza da Cima di Porlezza nel 1696 e, quindi, diciannove anni dopo l’esecuzione della facciata (1677), non rimane che ricorrere al criterio della comparazione. Ovvero, non rimane che confrontare edifici simili di paternità certa con questo edificio di paternità ignota, al fine di individuare elementi comuni. Assonanze si riscontrano con le facciate dell’oratorio di San Nicola, attribuito a Carlo Buttiron (1676) e della chiesa di Santa Caterina, progetto di Antonio Pizzocaro (1672). Vi sono, però, dei particolari che non si ritrovano nelle due chiese prese a riferimento e non rientrano nemmeno nella usuale sintassi locale: le colonne di ordine dorico in luogo di quello corinzio – che connota (retaggio palladiano) gli edifici sacri vicentini tra Cinque e Seicento – e l’arco che sovrasta la porta di ingresso, elemento non tipico negli edifici della specie eretti in quell’epoca nel vicentino. L’edificio è quindi da assegnarsi – verosimilmente – al progetto di architetto foresto, da ricercarsi in ambito veneziano, frequentato dal Bertolo.

Due fatti avallano questa ipotesi. Quando Bertolo, nel 1665, decide di ampliare la villa che possedeva a Monte, si affida ad un architetto veneziano, Giuseppe Sardi, così come si rivolge ad uno scultore pure veneziano, operante nell’orbita di Baldassarre Longhena, allorché fece erigere, tra il 1679 e il 1682, il magnifico altare maggiore nell’altra chiesa di Santa Caterina in Borgo Berga. Se poi si accetta l’attribuzione alla cerchia dei Bonazza delle tre statue in facciata, il cerchio si chiude. Giovanni Bonazza (1654-1736), infatti, capostipite di una famiglia di scultori, operò a Venezia fino agli ultimi anni del Seicento, per trasferirsi poi a Padova.

Quanto all’interno, l’unico vano conserva l’impronta originaria del Quattrocento, con copertura a tipiche capriate lignee, rifatte in occasione del restauro del 2000, e tradizionali tavelle sotto coppo. Scomparsi i due altari laterali dedicati alla Beata Vergine e a santa Maria Maddalena, rimane solamente quello maggiore, fiancheggiato da due porte. Si frappone tra l’aula, dove si raccolgono i fedeli, e un piccolo retrostante spazio, che funge da coro e da deposito dei paramenti e degli oggetti liturgici. Una iscrizione sibillina, di difficile interpretazione, riporta l’anno 1680, che è probabilmente quello di esecuzione. In effetti, si tratta di un lavoro di impronta tipicamente barocca, consistente in una struttura lignea dipinta a simulare il marmo e la pietra. È caratterizzato da quattro colonne corinzie scanalate, poggianti su solidi plinti. I capitelli reggono un robusto architrave con dentelli a grana fine e a grana grossa, che accentuano l’imponenza del manufatto. Sopra l’arco centrale sono collocati due angeli in preghiera. Sopra il frontoncino se ne stagliano altri due, con le mani al petto in segno di adorazione, addossati ad una sorta di parete, sormontata da un elemento a volute che si conclude con una croce. Ai lati, due angeli sono adagiati su di una struttura dentellata curvilinea, parte di un arco spezzato. Si tratta di un complesso che richiama schemi ripresi in quegli anni da scultori che si rifanno ai modelli degli Albanese, attivi a Vicenza fino alla metà del Seicento e che avevano lasciato non pochi imitatori e seguaci. Interessante anche il paliotto, che mostra tre figure dall’incerta iconografia. Impreziosito da marmi intarsiati, risale all’epoca dell’intervento del Bertolo e, quindi, agli ultimi decenni del Seicento. È opera di valente ignoto specialista nei cosiddetti commessi in pietre dure. Il lavoro non sfigura – fatte naturalmente le debite proporzioni – al confronto con il magnificente altare che troneggia nella chiesa di Santa Corona, opera dei fiorentini Antonio, Benedetto, Francesco e Domenico Corberelli, che vi lavorarono dal 1669 al 1686: un intervallo di tempo che comprende anche l’intervento di Bertolo del 1677. Proveniente dal precedente oratorio è il gruppo scultoreo che orna l’altare, databile intorno al 1420-1430, lavoro in pietra tenera policroma dei Berici attribuito a Nicolò da Cornedo (Rigoni 1999; contra Menato 1976).

Più precisamente, ai lati, sopra le porte che conducono al coro, si ergono due statue, che rappresentano i santi Silvestro e Caterina d’Alessandria. La presenza di queste figure si riconducono al fatto che anticamente Borgo Berga era sotto la giurisdizione della chiesa di San Silvestro, mentre Santa Caterina è la titolare della chiesa. Il vescovo Silvestro, raffigurato stante, con la mitria e un bastone (mancante) stretto nella sinistra, è ritratto nell’atto di benedire. Santa Caterina, incoronata, indica con la mano destra un libro (il Vangelo?), tenuto nella sinistra. Al centro dell’altare domina la statua raffigurante la Madonna in trono col Bambino, seduto sulla sua gamba destra. È avvolta da una veste rosa e da un manto verde, con un velo bianco sul capo. Nella mano destra stringe una mela, simbolo del peccato originale, riscattato dal figlio di Dio, benedicente e vestito di una tunichetta rossa che prefigura la sua passione.

Di Giorgio Ceraso da Storie Vicentine n. 7 marzo-aprile 2022


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Luigi Meneghello, grandissimo scrittore vicentino nato a Malo

Luigi Meneghello. Nato a Malo (Vicenza) il 16 febbraio 1922. Nel 1939 si iscrive alla Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Padova e nel 1940, a Bologna, partecipa come rappresentante dei GUF di Padova ai Littoriali nel campo degli studi di dottrina fascista vincendo il concorso; fra il 1940 e il 1942, collabora al quotidiano padovano «Il Veneto» con la funzione di «prosatore anonimo di prima e di terza» oltre che di redattore.

L’incontro con il professore Antonio Giuriolo, intorno al quale si riuniscono giovani intellettuali vicentini avversi al regime, segna il passaggio di Meneghello all’antifascismo e la sua partecipazione attiva alla Resistenza.

Nel 1945 si laurea con una tesi sul «Problema della filosofia e della cultura moderna in “La critica”» e comincia a dedicarsi ad attività di propaganda politica e culturale collaborando con il Partito d’Azione e scrivendo sui giornali «Il Lunedí» e «Il Giornale di Vicenza». Nel 1947, vinto un concorso del British Council, lascia l’Italia per trasferirsi in Inghilterra dove frequenterà l’Università di Reading: «L’incontro con la cultura degli inglesi, afferma l’autore, e lo shock della loro lingua, hanno avuto per me un’importanza determinante». Comincia un «periodo di ripensamento sull’Italia, l’Inghilterra, la guerra, la pace, gli studi, la società moderna, la civiltà di massa e altro ancora».

Nel 1948 sposa Katia Bleier. Negli anni Cinquanta collabora alla rivista di Adriano Olivetti «Comunità » e traduce testi di filosofia e storia per l’editore Neri Pozza e per le Edizioni di Comunità, con lo pseudonimo Ugo Varnai. Nel 1961 fonda nell’Università di Reading il Dipartimento di Studi Italiani da lui diretto, e dal 1964 gli viene offerta la cattedra d’italiano.

All’attività accademica affianca una costante produzione narrativa, di impianto fortemente autobiografico: Libera nos a Malo (1963 e in una nuova edizione nel 1975) definita da Giorgio Bassani «un’opera di grandissima bellezza»; l’anno successivo esce I piccoli maestri (riedito nel 1976). Contestualmente alle riedizioni delle due prime opere, negli anni Settanta Meneghello scrive in modo «impetuoso» Pomo pero.

Paralipomeni d’un libro di famiglia (1974) e Fiori italiani (1976), l’opera che rievoca l’esperienza scolastica negli anni del fascismo. Attento indagatore della realtà italiana osservata da lontano, Meneghello analizza le trasformazioni sociali e linguistiche e, nella sua scrittura, dà vita ad una singolare sperimentazione che, per rendere la pluridiscorsività sociale e per dare un senso di coralità al narrato, prevede la compresenza di dialetto, italiano e lingua inglese.

Collabora sporadicamente a testate italiane (Corriere della Sera, La Stampa, Il Mondo, Epoca, L’Europeo, Il Gazzettino, Il Giornale di Vicenza) e inglesi (The Guardian).

Nel 1980 lascia Reading e l’università per trasferirsi a Londra e trascorrere lunghi periodi a Thiene, nel vicentino. Pubblica i saggi atipici: Jura. Ricerche sulla natura delle forme scritte (1987, premio Sirmione); Bau-sète (1988, Pre- mio Bagutta), una rievocazione di «ventinove mesi, una decina di stagioni» del dopoguerra, dal 1945 al 1947; Maredè, maredè… Sondaggi nel campo della volgare eloquenza vicentina (1991), «un’immersione nel mare profondo» del dialetto vicentino; Il dispatrio (1993, Premio Mondello), dedicato al trasferimento in Inghilterra e all’esperienza accademica a Reading; Trapianti (2002), una scelta di traduzioni dall’inglese al vicentino; Quaggiú nella biosfera (2004) che raccoglie due lezioni magistrali e un intervento su Fenoglio.

A questa intensa attività letteraria e saggistica si affianca la stesura, fra il 1963 e il 1989, di un complesso diario intimo che registra «di giorno in giorno su fogli e foglietti […] aforismi, appunti, note di diario, abbozzi di cose incompiute, progetti o barlumi di progetti […] esperimenti, fantasie e sgorbi». Questo vasto materiale è stato raccolto nei tre volumi Le Carte. Materiali manoscritti inediti 1963-1989 trascritti e ripuliti nei tardi anni Novanta usciti rispettivamente nel 1999 (sugli anni Sessanta), nel 2000 (sugli anni Settanta) e nel 2001 (sugli anni Ottanta). Fra il 2004 e il 2006 collabora con Il Sole-24 Ore pubblicando articoli con il titolo di Nuove Carte.

Luigi Meneghello muore a Thiene il 26 giugno 2007.

Da Storie Vicentine n. 7 marzo-aprile 2022


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Palazzo Vecchia Thiene Romanelli in contrà Cantarane a Vicenza. Passeggiare nella storia (puntata 7)

Secondo gli storici palazzo Vecchia era “forse il più raffinato del secolo”. All’interno esistevano affreschi del Tiepolo, varie stanze con stucchi, caminetti, splendido pavimento. Il tutto fu alterato dal nuovo proprietario il conte Ercole Thiene che lo acquistò nel 1840.

Lunedì 28 maggio 1838, morì Francesco Vecchia di anni 66 che abitava nel Palazzo di famiglia alle Cantarane senza lasciare testamento causando la fine del casato e la dispersione del patrimonio: quadreria, opere d’arte, mobili. Alcuni mesi dopo il 1° e 13 novembre 1838, il patrimonio della famiglia Vecchia andò all’asta, alienando quindi tutti i beni. Due anni dopo, il bellissimo palazzo di Contrà Cantarane, fu acquisito da Ercole Thiene, che aveva sposato Teresa Vecchia di Pietro, nipote di Francesco, cambiando proprietà il Palazzo cambiò nome diventando Palazzo Thiene.

Ercole Thiene era nato a Vicenza, il 20 marzo 1803 da Giangiacomo e Lucia Porto. Il 13 febbraio 1825, sposò a Bergamo, la contessa Elena Vailetti da cui, il 4 luglio 1826, ebbe un figlio Giangiacomo morto il 26 luglio 1851. Il 26 agosto del 1830 la moglie Elena a soli 23 anni, morì. Il conte Thiene passò a seconde nozze con Teresa Vecchia, donna virtuosa e caritatevole, nata il 14 gennaio 1811 morta il 17 maggio 1889. Teresa, aveva una sorella Claudia sposata al nobile Luigi Porto eroe del 10 giugno 1848, morta il 15 dicembre 1895 e con lei si esaurì la famiglia Vecchia.

Le cronache di Giovanni Da Schio e altri raccontano degli amori del nobile, innamorato della sorella della prima moglie maritata a Bergamo, suscitando scene di gelosia e dolori nella moglie Elena che fu persino picchiata, “tanto da far venire la febbre” e morire.

Il rapporto con la cognata suscitò scandalo e dubbi sulla morte della contessa. Infatti con la morte dei parenti di Elena Vailetti, il Thiene entrò in possesso di un cospicuo patrimonio. Gonzati racconta che Ercole Thiene fu arrestato ad Orgiano e tradotto sotto scorta a Vicenza in Contrà Santi Apostoli con l’accusa di omicidio, ma poi fu rilasciato per assenza di prove.

Palazzo Vecchia Thiene Romanelli
Palazzo Vecchia Thiene Romanelli (Foto di Emanuele Calegaro)

Le vicende storiche

Famiglia vicentina, che non appartenne a quel ceto nobile pur avendo avuto il titolo di nobile bavarese concesso dal duca di Baviera Giovanni Guglielmo con diploma 8 marzo 1693 a Stefano, di Benedetto, e a tutti i suoi discendenti legittimi d’ambo i sessi, titolo che non fu confermato dalla Repubblica Veneta. Re Vittorio Emanuele II con RR.LL.PP 28 agosto1900 riconobbe e confermò ad Achille Silvio e a tutti i suoi discendenti maschi il titolo di barone.

In data 15 maggio 1750 un fratello di Angelo Vecchia, aveva presentato domanda per “ottenere otto piedi di terreno della pubblica strada (Contrada Motton San Lorenzo) per costruire una scalinata del palazzo” . Sul deposito in £ire ci sono cifre contrastanti, secondo le quali i fratelli Angelo, Marcantonio, Gioacchino avrebbero versato 8258 ducati a testa. La scalinata è di otto gradini, balaustra e parapetto ancora visibili. L’avvocato Angelo probabilmente a Venezia avrebbe conosciuto il famoso architetto Giorgio Massari cui si rivolse grazie anche ai consigli di Carlo Cordellina per il palazzo di città alle Cantarane per uso Villa o Palazzo di famiglia. La costruzione della residenza famigliare è datata 1748.

Di Luciano Parolin da Storie Vicentine n. 6 gennaio-febbraio 2022


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In piazza dei Signori la finale della gara di lettura VIva chi legge!

In piazza dei Signori, nello spazio davanti alla Loggia del Capitaniato, si è svolta, dalle 15 alle 16.30, la finale di VIva chi legge!, gara di lettura tra gli istituti superiori ispirata alla trasmissione televisiva “Per un pugno di libri”. La dodicesima edizione è tornata quest’anno nel cuore cittadino dopo il periodo della pandemia, quando l’iniziativa è stata svolta online.

VIva chi legge! è stata promossa dalla Rete territoriale dei servizi e dal Coordinamento insegnanti delle scuole superiori di Vicenza per la promozione della lettura.

A sfidarsi in piazza, sul livello di conoscenza e approfondimento del libro di Italo Calvino “Il sentiero dei nidi di ragno”, sono state13 classi per altrettantiistituti della provincia di Vicenza più uno padovano, ospite speciale della manifestazione,in rappresentanza delle106 classi totali che hanno partecipato. La gara è stata vinta dalla 2AA dell’istituto tecnico commerciale statale Einaudi Gramsci di Padova, che ottenuto in premio 300 euro in buoni libri. Seconda classificata la 2AS del liceo scientifico Jacopo da Ponte di Bassanoe terza la 2BC del liceo Pigafetta di Vicenza.

Nel corso della finale si sono svolti cinque giochi: “Se lo sai rispondi”, “Autori resistenti”, “Lessico”, “Chi è? Chi l’ha detto?” e “Vero o falso?”.

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Fonte: Comune di Vicenza

Arianna e Massimo raccontano l’amore per la viticoltura che rispetta la biodiversità dell’ambiente. Ecco la storia della Cantina Masari

La Cantina Masari è un’azienda vitivinicola a conduzione famigliare che si trova a Valdagno, nella strada che va al Santuario di Santa Maria di Panisacco. Si tratta di un’impresa conosciuta a livello internazionale e molto attenta all’ambiente circostante e alla sua biodiversità. Da viticoltori artigiani, i titolari Arianna Tessari e Massimo Dal Lago, si sono fatti interpreti e custodi del territorio della Valle dell’Agno, coltivando 10 ettari di terreno con regime biologico.

Chi sono Arianna e Massimo

Nel 1998 i due coniugi decisero di unire la loro passione per la viticoltura e ricercarono i vecchi vigneti nella Valle dell’Agno e le varietà locali per coltivarli con grande attenzione e rispetto. Da qui iniziarono a creare vini d’eccellenza, aprendo la cantina Masari, che si chiama così proprio dall’unione dei due nome di Massimo e Arianna.

cantina masari
Alcuni vigneti dell’azienda Masari

Arianna proviene da una storica famiglia di viticoltori nella zona del Soave Classico e ha trovato nella Valle d’Agno un territorio  unico e stimolante. Massimo è nato invece nella Valle d’Agno. Enologo per passione, si è formato nelle migliori università europee. Dopo varie importanti esperienze lavorative ha coinvolto Arianna nella avvincente riscoperta della sua terra attraverso il vino. I vigneti si trovano principalmente nelle zone di Montepulgo di Cornedo e Quagnenta di Brogliano. “Si tratta di terreni integri, che non hanno mai conosciuto l’agricoltura intensiva- spiega Arianna-. Nella Valle dell’Agno ci sono le condizioni ideali per produrre vini ricchi di personalità ed eleganza oltre che per le caratteristiche uniche del suolo, anche per il particolare microclima che si crea. Ci si trova tra l’aria fresca che discende dalle montagne, che rende la zona sempre ben ventilata, e l’azione mitigante del torrente Agno che ottimizza le escursioni termiche”.

Com’è diviso il territorio della Valle dell’Agno?

“Il nostro territorio è diviso in due- spiega Arianna- c’è una parte vulcanica, detta la Costa Nera, dove si coltivano i vigneti da cui si ricavano i vini rossi e una parte calcareo-marina, detta la Costa Bianca, da cui si ricavano i vini bianchi freschi, eleganti, ricchi di minerali e alcuni vini rossi. La Costa Nera identifica il versante vulcanico della Valle d’Agno che si trova alla destra orografica. I terreni ricchi di basalto e tufo furono originati dall’antico vulcano Monte Faldo che creò la più estesa area vulcanica del Triveneto. Il terreno è ricco di preziosi minerali e dona al vino mineralità e grande espressività.

vigneti masari
I vigneti di Arianna e Massimo

La Costa Bianca identifica il versante sinistro della Valle d’Agno. I suoli di origine calcarea sono costituiti da calcareniti e marne di tipo marino molto ricche di fossili. L’origine geologica di questi suoli prende il nome di Priaboniano proprio dal piccolo paese di Priabona che si trova al centro di questa area. Questi terreni rocciosi sono molto ricchi in argilla elemento prezioso per la coltivazione della vite su queste colline”.

Quali regole rispettano la biodiversità?

Arianna e Massimo hanno sempre cercato di attuare un’agricoltura consapevole, nel rispetto dell’ambiente e della biodiversità del territorio. “I nostri vigneti- racconta Arianna- sono come isole in mezzo a prati e boschi, di cui abbiamo cercato di salvaguardare le caratteristiche. La grande presenza di insetti predatori e impollinatori, di microrganismi indigeni che vivono in simbiosi con le piante, costituiscono elementi altamente qualificanti in termini di qualità della vita del vigneto che si traduce in qualità del vino prodotto. Ci sentiamo quindi custodi della Valle d’Agno e le nostre pratiche agricole sono rispettose e sostenibili”.

foto barriques
Le botti in cantina

“Rispettiamo quindi alcune fondamentali regole. La regola del terreno ci dice di non concimare. Non facciamo uso di concimi sintetici, erbicidi, insetticidi di qualsiasi tipo, che recano grave danno alla microflora e alle falde acquifere, oltre ad eliminare indistintamente insetti utili e dannosi. La regola della coltivazione ci dice di non irrigare. Le lavorazioni meccaniche hanno il fine di controllare la crescita del manto erboso e di accentuare l’approfondimento delle radici per aumentare la mineralità e l’espressività dei vini oltre alla vitalità e resistenza delle piante. Per la stessa ragione non facciamo uso dell’irrigazione.

La regola dell’ambiente ci dice che esso va curato nel suo insieme, rispettandone la flora e la fauna. Per conservarne l’habitat naturale non più dell’80% della superficie può essere destinata a una qualsiasi forma di coltivazione specializzata, mantenendo così almeno il 20% di aree a prato o bosco. E infine la regola dell’uomo ci dice che con le nostre conoscenze ed esperienze abbiamo la responsabilità di rispettare nella totalità della sua produzione questi principi di agricoltura consapevole”.

Arianna e Massimo vendono metà della loro produzione in Italia e metà all’estero, in Europa, Stati Uniti e Canada.

I riconoscimenti

L’azienda Masari ha ricevuto vari riconoscimenti, come ad esempio il vino “Montepulgo 2013” ha ottenuto il premio “Miglior Vino rosso veneto per l’AIS (Associazione Italiana Sommelier) nel 2021 e, sempre per lo stesso vino ha ottenuto le “Quattro Viti”, massimo riconoscimento da parte dell’Associazione Italiana Sommelier nella Guida VITAE 2021. Molti vini sono poi comparsi in numerose riviste straniere e recensiti da guide enogastronomiche internazionali.

vino
Il vino “Agnobianco” davanti a Villa La Rotonda. Foto: pag. facebook Masari Wine Art

I vini della Valle dell’Agno

Dalla Costa Bianca, il versante sinistro della valle dell’Agno, provengono il pinot nero San Lorenzo e il MM Montepulgo, in cui le due iniziali stanno per Merlot e Montepulgo, il cru dove avviene la selezione nelle annate migliori.
Dalla Costa Nera invece hanno origine i vini “vulcanici” dell’azienda. Qui nascono il Leon (nome dedicato al Leone di San Marco simbolo di Venezia) metodo classico pas dosè da uva Durella, affinato tre anni sui lieviti, l’Agnobianco (dal nome del torrente), da uve Riesling per il 75% e il restante Durella, il pinot Costa Nera e il San Martino, eccezionale blend di Cabernet Sauvignon e Merlot.

 

 

 

Palazzo Repeta in Piazza San Lorenzo a Vicenza. Passeggiare nella storia (puntata 6)

La famiglia Repeta chiamata anche Manfredi originaria della Germania, trapiantatasi in Vicenza nel 1070. Nel 1217 acquistò essa dai Canonici di Vicenza per 10000 lire veronesi il castello e la villa di Campiglia con piena giurisdizione, cui erano annessi i titoli di conte e di marchese.

Can Grande della Scala affidò a Mucio Repeta per alcuni giorni la guardia e la difesa della città di Vicenza nel 1312, contro i Padovani che furono respinti, e vi morì da prode un Trevisolo di questa famiglia. Il Senato Veneto nel 1700 confermò ai Repeta i titoli di conti e di marchesi di Campiglia, che all’estinzione della famiglia passarono ai Sale di Vicenza. Alla fine del seicento Enea e Scipione Repeta ricostruirono la Villa di Campiglia distrutta da un incendio. Scipione Repeta, su progetto di Francesco Muttoni (fu la sua prima opera a Vicenza) costruì lo splendido Palazzo di Piazza San Lorenzo datato 1711. I Mocenigo entrarono in possesso del palazzo e nel 1867 lo vendettero alla Banca d’Italia che restò proprietaria sino all’anno 2009. Per costruire il palazzo, Muttoni demolì vecchie case, tra cui quella del pittore Bartolomeo Montagna. La fabbrica, ha pareti affrescate, sculture di putti. Lo scalone è il più vasto della città, gruppi scultorei del Marinali. Il salone grandioso misura 20×10 metri, ospitava feste e balli. 

Palazzo Repeta
Palazzo Repeta (Foto di Emanuele Calegaro)

ENEA REPETA Nella facciata di San Lorenzo tra le quattro arche (sarcofagi) presenti vi è quello di Perdono Repeta, antenato di Enea e Scipione Repeta. Enea Repeta (1634-1704) militò in Germania, Spagna, Regno di Napoli per poi trascorrere buona parte della sua carriera militare sotto le insegne della Serenissima. Governatore di Palma (Palma la Nova = Palmanova) nel 1678, Sergente Maggiore di Battaglia nel 1684 durante la guerra contro i turchi, promosso a Sergente Generale di Battaglia nel 1689 col stipendio annuo di duemila ducati. Si imparentarono con i Sale che ereditarono il palazzo.

SALE La famiglia Sale arrivò a Vicenza da Treviso nel 1414. Il cognome forse deriva dall’incarico che ebbe il suo primo rappresentante, Donato, a Vicenza ovvero addetto all’ufficio del sale. Nel Cinquecento Vincenzo Sale fu governatore in Albania, poi in Dulcigno (dominio veneziano dal 1420 al 1573) e in Antivari (dominio veneziano dal 1443 al 1571). Nel 1699 Ferdinando Carlo Duca di Mantova dava a Livio, Filippo Antonio e Ottaviano Sale il titolo di Marchese di San Damiano. Un ramo ereditò i beni dei Repeta e anni dopo Cornelia Sale sposò Alvise Mocenigo. L’altro ramo aveva case in Vicenza ai Carmini e a San Michele. Un ulteriore ramo familiare da tempo era a Bassano (ora Bassano del Grappa).

MOCENIGO Un ramo della famiglia veneziana dei Mocenigo si spostò a Vicenza nel 1814 quando Giovanni Alvise I Mocenigo sposò la marchesa Cornelia Sale. 

Tempo dopo questo ramo dei Mocenigo si trasferì a Romano presso Bassano (ora Romano d’Ezzelino).

Di Luciano Parolin da Storie Vicentine n. 6 gennaio-febbraio 2022


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Palazzo Caldogno in Corso Fogazzaro a Vicenza. Passeggiare nella storia (puntata 5)

Mercoledì 28 febbraio 1945: su Vicenza piovono quattro furiosi bombardamenti diurni, che distruggono, fra gli altri, anche palazzo Caldogno, che sorgeva in corso Fogazzaro, all’imbocco di contrà Riale.

Un maestoso e imponente edificio, del quale rimane l’immagine della facciata, grazie alla fedele incisione di Ottavio Bertotti Scamozzi, contenuta ne Il Forestiere istruito, (tav. XXXV), una guida della città edita nel 1761. Vi si legge scolpito, nella fascia del primo marcapiano, il nome di Angelo Caldogno, figlio di Lucio, cui va il merito di aver portato a compimento l’impresa nel 1575, anno parimenti ivi riportato.

Il prospetto, di austera gravità, è scandito, nel settore mediano leggermente aggettante, da sei lesene di ordine corinzio, mentre il massiccio sottostante corpo bugnato è alleggerito da otto pannelli scolpiti, che si dispiegano nei riquadri collocati sopra le finestre, richiamo, ad evidenza, di quelli presenti nel vicino palladiano palazzo Valmarana. Quanto all’architetto, autorevoli studiosi (F. Barbieri-R. Cevese, Vicenza. Ritratto di una città, 2004, p. 321) avanzano l’ipotesi che si tratti di opera riconducibile all’esordiente Vincenzo Scamozzi, che  indubbiamente si rifà a matrice tardocinquecentesca. L’edificio è lodato nel Forestiere «per la

sua comoda distribuzione [interna], da noi … considerata una delle migliori, che vi siano in Vicenza». Fa eco il Baldarini, che, nella Descrizione delle architetture (1779), sottolinea che vi «sono Sale, e Scale, e Stanze magnifiche, oltre gli altri luoghi domestici: dal che si comprende che l’Architetto ha avuto in mira anche il comodo, che è una delle qualità essenziali che si riecheggiano in ogni fabbrica nobile».

Palazzo Caldogno, dunque, sembra celebrato dagli storici del Settecento più per la sua comodità che per le qualità architettoniche e strutturali: d’altronde si è in piena temperie illuministica e neoclassica, che prediligeva forme più semplici e leggere. L’edificio, ceduto nel 1838 dal «conte Pier Angelo Caldogno, ultimo di sua famiglia … ai Bortolan che lo fecero ampiamente restaurare dall’architetto Malacarne» (D. Bortolan-S. Rumor, Guida di Vicenza, 1919), passò, da ultimo, alla famiglia Tecchio.

Inizialmente sede della ditta Tecchio e Festa che vi gestiva un vasto e fornito magazzino all’ingrosso di tessuti e manifatture. Ospitava, all’epoca del bombardamento, gli uffici dell’Associazione industriali. La distruzione del palazzo è stata un grave danno per la città: oltre alla struttura architettonica, sono andati perduti i grandiosi saloni di gusto prettamente seicentesco, ricchi di statue e stucchi, probabilmente dovuti ad artisti provenienti dalla Valsolda, sulla falsariga di quanto si può vedere a palazzo Leoni Montanari, come testimonia una cartolina degli ultimi anni ‘10 del secolo scorso, che riproduce quello centrale.

Perduti anche i grandi lampadari lignei dorati, il mobilio, in prevalenza settecentesco, gli affreschi e gran parte della suntuosa quadreria, ricca di dipinti di Giovanni Battista Minorelli, Francesco Maffei, Giovanni Antonio Fasolo, Giovanni Cozza e di altri ancora. Ci sono, invece, fortunatamente pervenute alcune grandi tele di Giulio Carpioni, tutte di soggetto mitologico, tratto dalle Metamorfosi di Ovidio, oggi in collezione privata, ad eccezione di quella raffigurante Le ninfe [che] raccolgono il corpo di Leandro, ora collocata nel salone d’onore del Museo Civico di palazzo Chiericati.

Il distrutto palazzo Caldogno fu ricostruito nel 1955 (attuali civ. 33-43 di corso Fogazzaro), per essere sede, fino a una decina di anni fa, degli uffici della Camera di Commercio. L’attuale prospetto presenta, però, variazioni significative rispetto alla situazione originaria, quale ci è pervenuta dalla ricordata incisione di Bertotti Scamozzi, come le vetrine di esercizi commerciali che si aprono nella facciata.

Di Giorgio Ceraso da Storie Vicentine n. 6 gennaio-febbraio 2022


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Palazzo Braschi in corso Palladio a Vicenza. Passeggiare nella storia (puntata 4)

Palazzo Braschi, è ubicato sul Corso. Per secoli è stato sede della Società de Casino che accoglieva il fior fiore della nobiltà vicentina invidiata dalle città Venete. In data 22 giugno 1786, nel Capitolare del Casino è scritto: oggetti di decoro, di comodo e di divertimento con universale compiacenza determinarono nel passato secolo la lodevole istituzione di questa società, col titolo di Compagnia nobile del Casino, diretta da provvide leggi che la conservarono nella sua primitiva costituzione rendendola sempre applaudita.

La società si rinnovava ogni dieci anni, con delibera del 24 luglio 1786 è confermata la rinnovazione a tutto 11 novembre 1796, con la determinazione di prendere in affitto dai Conti Braschi la solita casa per servire alla nobile compagnia. Sulla base delle capitolazioni del 1745, era formato uno Statuto recante disposizioni per quelli che oggidì hanno interesse ad adunanze e annuali intrattenimenti. Secondo lo Statuto potevano essere iscritte alla Società tutte le famiglie nobili della città, non esercenti offici notarili.

Con scrittura del 26 marzo 1746, fu prescritto a ciascun cittadino nobile di presentare in avvenire il certificato di nozze e le fedi di battesimo dei propri figli per essere registrati in apposito libro ch’era tenuto dai Ragionieri del comune, e ciò perchè potesse provarsi la capacità legale ad appartenere al Consiglio dei 150. Questo perchè era ammesso anche il forestiero di qualunque città, così pure gli ufficiali di truppa regolare, ed i segretari della cancelleria ducale.

Era potere dei presidenti introdurre soggetti meritevoli di essere ammessi per merito. L’ingresso da pagarsi era stabilito in Lire venete 31, il contributo annuo lire 88. Era impegno della Presidenza tenere sempre aperto il Casino e di promuovere, secondo le circostanze dei tempi e della cassa, nobili trattenimenti, come una festa da ballo nel giorno del Corpus Domini e così pure la domenica susseguente essendovi il Pallio, sempre però al Casino. Ammogliandosi alcuno dei soci e desiderando una festa da ballo per una sol volta in un giorno gradito previo l’esborso di 20 Ducati effettivi, a spese della Compagnia. L’organizzazione della Società prevedeva due presidenti, di cui uno cassiere, da due cavalieri, assistiti da tre consiglieri detti di Banca.

Aveva a stipendio un segretario, tre inservienti col titolo di custode, sotto custode e maschera. Colla caduta del Governo Veneto la Società si sciolse. Le idee democratiche non si conciliavano con l’esistenza di sodalizi nei quali non poteva essere un solo ordine di cittadini (nobili). Dopo Campoformio con il ritorno dell’Austria, i Soci del Casino ricostruirono la Società con un nuovo Statuto addì 30 gennaio 1798, fissando le regole preliminari della Compagnia purchè: non siano sovversive, né alteranti le regole fondamentali scritte.

Palazzo Braschi
Palazzo Braschi (Foto di Emanuele Calegaro)

Il palazzo risale al 1480 circa, ed è un significativo esempio di stile gotico-veneziano. Notevoli il portico e la quadrifora (apertura divisa in quattro spazi) centrale con ricca decorazione a rilievo (medaglioni con teste virili e putti). L’edificio tardogotico veneziano venne in parte ricostruito dopo i bombardamenti della seconda guerra mondiale. Nella facciata presenta un portico ottocentesco con colonne rialzate su alti piedistalli al pian terreno, realizzato in sostituzione dell’originario setto murario unico. Decorano i pennacchi tre medaglioni e due semicerchi in pietra con due profili maschili, uno stemma e due puttini scolpiti, attribuiti ad Angelo da Verona. 

Di Luciano Parolin da Storie Vicentine n. 6 gennaio-febbraio 2022


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Il Torrione di Porta Castello tra i 12 musei visitabili con la Vicenza Card

Il Torrione di Porta Castello dall’1 giugno entrerà a far parte dei musei cittadini visitabili con la Vicenza Card. La decisione è stata presa dall’amministrazione comunale, che ha la nuda proprietà del monumento, insieme alla Fondazione Coppola, usufruttuaria per trent’anni dell’immobile dove propone mostre di arte contemporanea.

Senza costi aggiuntivi, chi acquisterà per 20 euro (ridotto 15 euro, scuole 6 euro, family 24 euro) la Vicenza Card potrà dunque visitare anche il Torrione di Porta Castello, oltre a Teatro Olimpico, Basilica Palladiana, Museo civico di Palazzo Chiericati, Chiesa di Santa Corona, Museo Naturalistico Archeologico, Museo del Risorgimento e della Resistenza, Gallerie di Palazzo Thiene, Gallerie d’Italia Vicenza di Palazzo Leoni Montanari, Palladio Museum, Museo Diocesano e Museo del Gioiello.

“Con questa iniziativa – dichiara l’amministrazione – diventano 12 le sedi del circuito museale cittadino visitabili con un unico biglietto, il cui costo non subirà aumenti. Con questa iniziativa puntiamo a incentivare la visita di questa eccezionale testimonianza di architettura militare del Medioevo, da cui si gode di una straordinaria vista sulla città, e delle mostre di arte contemporanea che la Fondazione Coppola vi allestisce, sempre molto stimolanti e di respiro internazionale. La Fondazione, peraltro, non percepirà quote dalla vendita della card”.

Proprio in questi giorni al Torrione viene inaugurata la mostra “Stanze” dei pittori Matthias Weischer e Flavio De Marco, entrambi attivi in Germania, che sarà visitabile fino al 30 luglio.

La mostra “Stanze”, presentata dal critico d’arte e Davide Ferri, raccoglie una trentina di dipinti dei due artisti lungo i cinque piani del Torrione che rappresentano interni – stanze, appunto – a cui corrispondono paesaggi interiori.

Sabato 6 maggio alle 18, in occasione dell’apertura della mostra che gode del patrocinio del Comune e del consolato italiano della Repubblica Federale di Germania, la Fondazione Coppola ha deciso di consegnare al sindaco di Vicenza una targa che ne celebra l’inserimento nell’albo dei suoi benemeriti “per l’impegno profuso a favore della valorizzazione del Torrione di Porta Castello e dell’Arte contemporanea a Vicenza”.

Il monumento è visitabile venerdì, sabato e domenica dalle 14 alle 18 (ultimo ingresso alle 17.30) con la Vicenza Card (attiva dall’1 giugno) oppure con biglietto singolo (ingresso Torrione con mostra 5 euro; ingresso Torrione senza mostra 4 euro; ingresso ridotto over65 4 euro; ingresso gratuito under 18 e Vi-University card).

Per informazioni
https://www.fondazionecoppola.org/

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Fonte: Comune di Vicenza