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Federico Marchioro, è uscito “Amore e guerra a Berlino”: nuovo album per il cantautore vicentino

In occasione dell’uscita del nuovo album dal titolo “Amore e guerra a Berlino,” abbiamo incontrato l’eclettico cantautore vicentino Federico Marchioro, che ci ha raccontato le sue esperienze e le emozioni legate alla sua ultima fatica discografica.

Quando è nata la tua passione per la musica?

Intorno ai 18 anni ho scritto le prime canzoni, aventi come contenuto gli stessi temi di attualità che affronto anche oggi, solo con una diversa evoluzione del linguaggio”.

L’ascolto delle tue canzoni rimanda a quel cantautorato italiano poetico, artistico e intellettuale che ha accompagnato le generazioni in un linguaggio condiviso di denuncia delle iniquità e delle disuguaglianze. Ti ritrovi in questa analisi?

Sì, ho scoperto un mondo poetico, quale quello di Guccini, De André, Dalla e in particolare Francesco De Gregori grazie soprattutto a mio padre, che ora non c’è più, che mi regalò un suo disco, Miramare 19.04.89, nel giugno dell’89. Devo dire grazie alla parrocchia dove imparai a suonare la chitarra, che poi perfezionai, e ai campi scuola che organizzava. Si suonava la chitarra e si cantava intorno al fuoco. La chiave di volta è stato un viaggio ad Assisi dove ho assaporato il primo vero senso di libertà e di abbraccio al mondo”.

Come è nato “Amore e guerra a Berlino”?

È nato dopo un viaggio nella capitale tedesca, che presenta ancora oggi le tracce di un passato doloroso. È la foto artistica della globalizzazione e della sua doppia anima fatta di luci ed ombre, perché se da una parte il progresso tecnologico può e deve essere visto come qualcosa di positivo, che ha migliorato e semplificato le nostre esistenze, dall’altra ci sono molti dubbi per le conseguenze negative che ha generato: immigrazione, perdita di identità culturale, affievolimento dei diritti sociali, impatti sul clima”.

Federico Marchioro
Federico Marchioro

Federico Marchioro è un artista versatile, che oltre alla musica abbraccia altre forme d’arte, una di queste è la pittura. In quale ti identifichi di più?

Per me prima di tutto viene il divertimento. Ho imparato a dipingere all’istituto Boscardin di Vicenza, che ho frequentato durante l’adolescenza e la pittura acrilica è quella a me più congeniale, perché risulta più istintiva”.

Progetti futuri?

Finita la fase di promozione social, è in arrivo un live il prossimo autunno e spero che si concretizzi da parte dell’amministrazione comunale anche l’idea di un caffè letterario, nel centro storico da rivitalizzare, che permetta agli artisti di esprimersi”.

Federico MarchioroAmore e guerra a Berlino è prodotto da Stefano Florio per etichetta AIDA MUSIC

Questa è la tracklist completa dell’album:

  1. È la globalizzazione bellezza!
  2. Che Guevara sta suonando l’armonica
  3. I professionisti della pace
  4. L’abbigliamento di un fuochista
  5. Kurfurtenstraße
  6. La canzone del grande fuoco

Vicenza Jazz, pronti al via: al Cinema Odeon verrà proiettato il film The Beat Bomb

Il festival New Conversations – Vicenza Jazz si prepara al suo battesimo ufficiale, previsto per il 10 maggio, con una serata di prologo. Martedì 9 maggio alle ore 20:45, al Cinema Odeon verrà proiettato il film The Beat Bomb (Italia-Argentina, 2022), diretto da Ferdinando Vicentini Orgnani e con le musiche di Paolo Fresu. Alla fine del film il direttore artistico del festival Riccardo Brazzale dialogherà con il regista. La proiezione è in lingua originale con sottotitoli in italiano.

Il festival New Conversations – Vicenza Jazz 2023 è promosso dal Comune di Vicenza in collaborazione con la Fondazione Teatro Comunale Città di Vicenza, in coproduzione con Trivellato Mercedes Benz, con AGSM AIM come sponsor principale e Acqua Recoaro come sponsor tecnico.


Presentato fuori concorso nella sezione “Ritratti e paesaggi” del Torino Film Festival 2022, The Beat Bomb è un viaggio iniziato nel 2007 con la casualità̀ di un incontro tra un regista e un grande poeta. Da lì sono nate una collaborazione e un’amicizia andate avanti, tra Roma e San Francisco, fino alla fine della lunga vita di Lawrence Ferlinghetti (1919-2021).

Oltre a essere stato il catalizzatore, il talent scout e l’editore della Beat Generation, Ferlinghetti ha portato avanti una sua visione, un progetto politico e culturale rigoroso, coerente. Questo documentario vuole essere anche una eco della sua voce: The Beat Bomb, una bomba Beat contro “the military industrial complex”, quella potentissima lobby che anche il presidente Eisenhower (da ex generale) in un suo storico discorso aveva tentato invano di contrastare.

In una sua poesia Lawrence auspica che con il potere delle parole i poeti possano essere “reporter dello spazio” per rispondere alla sfida di questi tempi apocalittici. 

L’acquedotto romano a Vicenza: le indagini dall’Ottocento a oggi

Dell’acquedotto romano di Vicenza rimangono attualmente poche seppur interessanti testimonianze, visibili a fianco della strada omonima in località Lobia. Della parte rimanente del suo percorso effettivo, dalla presa di sorgente al punto di erogazione, poco si sapeva in quanto mancano completamente manufatti visibili o comunque non si trovavano tracce certe.

Pertanto nel tentativo di ricostruire l’esatto percorso dell’acquedotto, abbiamo cercato di utilizzare vari metodi e tecniche, al fine di avere più notizie possibili, che confrontate tra di loro, potessero confermarci le ipotesi che via via formulavamo. Innanzi tutto, ci siamo documentati su precedenti rilievi ed in particolare sull’atlante di Giuseppe Burri del 1884.

È questa una preziosa raccolta di 26 tavole, più una pagina esplicativa, nelle quali l’autore ha segnato in planimetria tutti i ritrovamenti da lui fatti. Purtroppo i riferimenti topografici segnati nelle tavole del Burri sono oggi difficilmente identificabili sul terreno, cosicché non è sempre possibile riferire alle planimetrie attuali il luogo esatto dei numerosi ritrovamenti di piloni dell’acquedotto (circa 150) descritti dal Burri.

In ogni caso la documentazione del Burri ci ha permesso di restringere il campo delle ricerche lungo la linea viale del Brotton, viale Ferrarin, Ponte del Bò, Lobia, Motta di Costabissara. Dato per certo l’ingresso il «città» dell’acquedotto a fianco dell’attuale viale del Brotton, abbiamo cercato di individuare la probabile presa di sorgente, tenendo come punto di riferimento intermedio, gli archi di Lobia.

acquedotto romano a vicenza

Sono state utilizzate a questo scopo, planimetrie IGM 1:25.000, planimetrie aereofotogrammetriche 1:10.000 e foto aeree. Con questi strumenti tecnici, si sono potute individuare alcune tracce rettilinee sul terreno, che continuavano in direzione nord-est la linea dell’acquedotto prima citata.

Questa linea, con un a leggera curva verso destra, portava alla località Villaraspa (attuale via S. Cristoforo) in quel di Motta di Costabissara. Qui esiste tuttora un’ampia zona di risorgive naturali caratterizzate dalla erogazione di acqua con portata costante, temperatura e chimismo ottimi.

A questo punto si trattava di trovare in loco delle testimonianze che potessero indicarci il percorso esatto dell’acquedotto. Appena a sud delle risorgive, inglobati nei muri della stalla e del fienile di una vecchia villa di campagna, abbiamo rinvenuto circa una decina di mattoni romani. A questo punto la fiducia sulla linea prima teorizzata, cominciava ad aumentare, anche perché ci portava a passare a ponente del cimitero di Rettorgole (oggi di Motta), dove il Burri diceva di aver rinvenuto delle tubazioni in cotto del diametro pari a quello di un cannone da 86 (calibri?).

La linea proseguiva poi a fianco di una fattoria in località Cadinotte dove, sempre secondo il Burri, fu rinvenuto un pilone dell’acquedotto. A questo punto, la linea è interrotta dal corso del torrente Orolo. Ma proprio a su, sull’estradosso dell’ansa che piega a destra, all’altezza della villa Gaedellina, durante una recentissima aratura profonda, sono venute alla luce numerose pietre calcaree di grosse dimensioni, con tracce di malta, tutte circoscritte nel raggio di un paio di metri, segno evidente che appartenevano ad un manufatto ora interrato, anche perché tale tipo di pietra non è presente naturalmente in zona.

Qui la linea si interrompe nuovamente, in quanto in tempi recenti è stata attivata una cava di argilla che ha fatto sparire ogni traccia possibile. A circa cinquecento metri a monte degli archi di Lobia, su terreno arato, abbiamo rinvenuto lunghe tracce lineari di pietre calcaree, alcuni pezzi di conglomerato del tipo di quello degli archi esistenti ed un pezzo di tegola romana.

A detta dei proprietari del terreno, la fila di pietre riemerge ad ogni aratura. Appena a monte degli archi di Lobia, rovesciati sugli argini dell’Orolo, abbiamo rinvenuto due pilastri abbattuti, ancora completi di rivestimento, segno evidente che il torrente, negli spostamenti tipici di questi corsi d’acqua, ne ha prima eroso le fondamenta e quindi li ha fatti crollare.

acquedotto romano vicenza cartina

A sud di Lobia, in località Ponte del Bò, sul greto dell’Orolo, è visibile un pezzo di pilone, mentre il proprietario di una casa ci ha confermato che durante l’escavazione di una fossa per l’interramento di una cisterna, si sono imbattuti in un pilastro, e sono stati recuperati anche alcuni mattoni e tegole romane. Circa 150 mt a sud di questa casa, nei campi emergono continuamente pietre calcaree. Nell’intersezione tra la linea dell’acquedotto ed il fiume Bacchiglione, sulla sponda del fiume, a livello dell’acqua si intravedono numerosi manufatti in pietra che gli anziani del luogo chiamano «rudere romano».

Un’anziana diceva anche che un tempo vi era un ponticello in legno che collegava la località Ponte del Bò con l’attuale viale Ferrarin e che questo ponte è stato distrutto con la costruzione dell’aeroporto militare. Inoltre, sia a fianco degli archi esistenti in Lobia, sia in località Ponte del Bò, a lato della linea dell’acquedotto, ci è stato riferito dagli abitanti che emergono continuamente tracce di vecchie fondazioni non meglio identificate.

Riprendendo la linea dell’acquedotto al di qua del Bacchiglione, subito prima dell’ingresso dell’Aeroporto, venendo da Vicenza, nel terreno arato ricompaiono lunghe fila di pietre calcaree. Qualche centinaio di metri più avanti, verso Vicenza, il Burri avrebbe ritrovato alcune teste di piloni. Per concludere le testimonianze, ricordiamo ancora che il Burri parla dell’esistenza di un pilone all’inizio del viale del Brotton e la testimonianza di abitanti della zona, che asseriscono di rinvenire con frequenza pietre e cocci di laterizio, durante le escavazioni del terreno.

Del percorso che va dal viale del Brotton, fino al punto di erogazione in città, non abbiamo potuto trovare trac- ce probanti. Possiamo solo indicare come probabile, date le caratteristiche del terreno, un percorso che, attraverso il Bacchiglione a Santa Croce, seguisse l’attuale corso Fogazzaro fino al punto di erogazione in centro. A questo punto, annotate le testimonianze raccolte e trasferiti su planimetria i luoghi di rinvenimento dei reperti, abbiamo potuto constatare l’esattezza della linea prima teorizzata e trovare inoltre conforto dagli andamenti del terreno e dalle caratteristiche idrodinamiche, necessarie all’acquedotto per fornire l’acqua a Vicenza.

A questo scopo abbiamo anche disegnato un profilo longitudinale che dovrebbe ripere con notevole verosimiglianza quello dell’originale. È da far presente che si è posta la quota di erogazione a 36 metri s.l.m. che è quella del punto più alto della città in epoca romana (attuale (40 mt.), mentre per quella di sorgente, si è calcolata una quota posta a 48 metri s.l.m. (46 attuali). L’abbassamento del terreno alla sorgente, si spiega con due fenomeni, uno di carattere tettonico e l’altro erosivo.

La zona è infatti interessata da un progressivo abbassa mento dovuto al piegamento della sinclinale sottostante, mentre la sorgente tende ad infossarsi a causa dell’erosione, seppur lieve, che creano le acque che vi sgorgano. La validità di queste ipotesi è data dal fatto che, collegati i due punti di partenza e arrivo con una retta, questa tange gli archi di Lobia esattamente nella linea di scorrimento dell’acqua.

Pertanto le caratteristiche tecniche dell’acquedotto possono essere così riassunte:

Lunghezza totale dalle sorgenti al centro città: ml 6.700
Quota originale alla sorgente: m.s.l.m. 48
Quota originale all’erogazione: m.s.l.m. 36
Dislivello totale: mt. 12
Pendenza media: mt. 1,7%
Portata media per una cabaletta in cotto delle dimen- sioni di cm. 75 di larghezza e spalle alte cm. 60 con pen- denza e lunghezza sopra definite: c.a. 20 lt/sec.
Utenti probabili all’epoca: c.a. 5.000

Infine sembra interessante annotare alcune cause che hanno portato alla distruzione delle arcate mancanti. Per la parte a nord di Lobia, la causa è certamente da imputarsi al torrente Orolo che con le variazioni del suo corso ha eroso le basi dei piloni, quindi li ha fatti crollare ed infine sepolti sotto le sue ghiaie. Per la parte più prossima alla sorgente, costruita in tubi di cotto su terrapieno, è più probabile ipotizzare un intervento umano. L’ultimo tratto delle arcate, da Lobia alla città, è stato con tutta probabilità interrato dalla progressiva azione di riporto delle alluvioni dell’Astico – Bacchiglione, fino a che, rimasta esposta la sola parte superiore in cotto, quest’ultima è stata utilizzata come cava di materiale da costruzione.

Per il tratto intercittadino, oltre ad una azione naturale di interramento che si crea attorno alle costruzioni in disuso, sembra evidente l’utilizzazione dei piloni quale fondazione di nuove case in epoche successive o l’uso come cava di materiale da costruzione. 

Biografia fondamentale:

Burri G., Acquedotto romano di Vicenza, Rilievi (ms Biblioteca Bertoliana di Vicenza, Racc. Gonzati)

Marchini G.P., Vicenza romana, Verona 1979, pagg. 140 – 144.

Relazione di Mariano Arcaro e Adolfo Trevisan da Storie Vicentine n. 7 marzo-aprile 2022


In uscita il numero di Maggio 2023
distribuito nelle edicole del centro e prima periferia e agli Abbonati
Prezzo di copertina euro 5
Abbonamento 5 numeri euro 20
Over 65 euro 20 (due abbonamenti)

Antonio Giuriolo: un grande esempio di cultura e vita morale

In questa fase della vita civile del Paese desertificata di valori e povera di passioni, la figura di Antonio Giuriolo continua ad irradiare luce. Proverò a delineare alcuni tratti della personalità di Giuriolo attraverso il contributo alla ricostruzione della sua figura che ne hanno fatto Luigi Meneghello ne “I piccoli Maestri” e ne “Fiori Italiani” e Norberto Bobbio nelle due commemorazioni di Vicenza del 26 settembre 1948 e di Bologna del 13 dicembre 1964, facendo parlare essenzialmente loro, che conobbero Giuriolo e lo frequentarono.

L’eccezionalità, direi l’unicità della figura di Giuriolo non vive solo nella consapevolezza dei posteri, ma risalta innanzitutto dalle valutazioni dei suoi contemporanei. Nel crogiuolo della solitudine degli antifascisti prima e della partecipazione corale dei partigiani alla guerra di liberazione poi si formarono personalità grandi e uniche, ma Giuriolo spicca tra queste in quanto scrive Bobbio “rappresentò l’incarnazione più perfetta che mai io abbia visto  realizzata in un giovane della nostra generazione dell’unione di cultura e vita morale”: i valori etici di Giuriolo, in parte ereditati dalla famiglia, ma costretti a maturare e a dispiegarsi nel contesto vincolativo della dittatura e nel connesso dilagare di comportamenti opportunistici e/o acritici trovavano nella cultura un alimento fondante della costruzione della propria spiritualità.

Dunque una moralità non ripiegata nella contemplazione di sé stessa, una cultura non disincarnata né avulsa dagli accadimenti e dai processi storici, ma una fusione perfetta di etica e intelletto e di pensiero e azione che trova approdo, senso, compimento nella lotta politica finalizzata ad emancipare il popolo italiano dalla cattività della tirannide, a ritrovare un sentiero di dignità e a generare un destino di libertà. Di vera e propria “religione della libertà”, per utilizzare una espressione crociana, è giusto parlare a proposito di Toni Giuriolo perché la libertà “era l’alimento stesso della vita intellettuale e morale” scrive Luigi Meneghello ne “I fiori italiani”. Libertà come nucleo esistenziale, libertà come fondamento della comunità umana, libertà come base originaria e nello stesso tempo frutto delle istituzioni politiche, valore supremo senza il quale nulla ha senso.

E fu poi per “ubbidire alla legge morale” che Toni Giuriolo cadde colpito a morte il 12 dicembre 1944 sui monti dell’Appennino emiliano; ogni uomo è probabilmente avvinto al suo destino e il destino di Toni era il sacrificio della vita né si può dire che questo esito fosse stato da lui escluso perché – come ha bene chiarito Claudio Pavone ne “Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità della Resistenza” – a spingere quegli uomini sulle montagne fu una “scelta” deliberata, una decisione tragica e irreversibile, un atto di volontà consapevole.

Antonio Giuriolo
Antonio Giuriolo

In questo c’è la grandezza: nel passaggio da una moralità concepita come faticosa edificazione della propria personalità, come coerenza e come perfezionamento interiore ad una moralità storicamente significante in quanto concretizzata nel dono della propria vita all’umanità per emanciparla dalla oppressione e riscattarla alla libertà. Toni Giuriolo – scrive Meneghello  – era “una personalità straordinaria animata da forze miracolose”. Aggiunge sempre Meneghello: “Esteriormente era restato un uomo schivo e poco appariscente, ma conoscendolo ci si trovava davanti a un prodigioso e misterioso maestro. Ciò che toccava tornava vivo. Una tranquilla potenza si generava in ogni cosa che il suo animo accoglieva”.

L’evocare i concetti di miracolo, di prodigio richiama qualità quasi magiche: tale era la forza e l’irriducibilità unica della sua personalità che sembrava astrarsi dalla pochezza della normale umanità. Nel duro disciplinamento intellettuale e politico dell’epoca fascista l’estraniazione di Giuriolo ha dunque qualcosa di magico, la sua singolarità come individuo si staglia nel grigiore dell’uniformità coatta ed è una unicità talmente potente da apparire quasi avvolta nell’alone di un mondo totalmente altro, espressivo di una radicale alterità.

Di carattere era pacato e riflessivo, era – dice Norberto Bobbio – una “presenza insieme così solida e tranquilla, così forte e serena” e in lui era riconoscibile uno “schivo candore”, unitamente alla “sobrietà di gesti e di atteggiamenti”. Giuriolo – aggiunge Meneghello – “aveva un senso schietto e cordiale dell’amicizia, stava volentieri con gli amici, gli piaceva ridere con loro”, pur se talvolta si intravedeva un’eco di lontana e inespressa sofferenza, una sorta di “malinconia remota”.

È sempre Meneghello a spiegare la formidabile influenza che lui esercitava sui suoi discepoli: “era essenzialmente un esempio”. Su di lui si imperniava il piccolo gruppo di studenti che gli si raccolse attorno nella primavera del 1944. Scrive Meneghello ne “I piccoli maestri”: “Senza di lui non avevamo veramente senso, eravamo solo un gruppo di studenti alla macchia, scrupolosi e malcontenti; con lui diventavamo tutt’altra cosa: Antonio era un italiano in un senso in cui nessun altro nostro conoscente lo era; stando vicino a lui ci sentivamo entrare anche noi in questa tradizione. Sapevamo appena ripetere qualche nome, Salvemini, Gobetti, Rosselli, Gramsci, ma la virtù della cosa ci investiva: eravamo catecumeni, apprendisti italiani”.

Il rapporto tra Giuriolo e i suoi amici discenti, “educatore senza cattedra” – secondo la bella espressione di Bobbio – il cui insegnamento si svolgeva non nelle aule scolastiche ma negli spazi aperti di Vicenza e nel corso di conversazioni informali e anche casuali era una relazione che non lasciava indifferenti, ma generava un cambiamento, che però non veniva imposto né suggerito forzosamente (“Antonio ci lasciava cambiare per conto nostro, senza intervenire a sollecitarci dall’esterno” osserva Meneghello), ma scaturiva dallo spessore di cultura e di sostanza etica delle idee in sé, ma soprattutto potremmo dire che Giuriolo era ciò che insegnava e il contenuto del suo dire era Giuriolo: in realtà lui disvelava sé stesso e a costituire il contenuto dei suoi insegnamenti era più che altro la sua spiritualità, una spiritualità di natura religiosa.

L’attitudine antiretorica di Giuriolo, il suo adottare un registro morale e comportamentale lontano da ogni lezioso autocompiacimento, il suo consapevole rigetto di un universo epopeico sono state icasticamente disegnate ne “I piccoli maestri” nell’episodio dell’incontro nel Bellunese località denominata California tra i partigiani guidati da Giuriolo con un efficiente e bene armato reparto garibaldino formato da partigiani “laceri, sbracati, sbrigativi, mobili, franchi, incarnazione concreta delle idee – dice Meneghello – che noi cerchiamo di contemplare”. Guidava questo reparto di partigiani comunisti un uomo “piuttosto giovane, robusto, disinvolto” che “aveva scritto sul viso: comandante, aveva calzoni da ufficiale, il cinturone di cuoio, il fazzoletto rosso. Era ben pettinato, riposato, sportivo cordiale”. Antonio Giuriolo aveva invece vesti dimesse e “sembrava un escursionista”. Il comandante garibaldino si avvicina con fare lieto, alza il pugno chiuso e dice con forza e gioia “Morte al fascismo”. “Vibrava di salute, fierezza ed energia” scrive Meneghello. Ebbene Toni Giuriolo avanza e con imbarazzo tende la mano e dice “Piacere, Giuriolo”. L’episodio realizza plasticamente la scelta netta di Toni di rifiutare la retorica, quella retorica che era attributo tipico del regime fascista, quella retorica che risultava tanto più pericolosa quanto più aveva esercitato una seduzione su tanta parte del popolo italiano.

Il recente, imperdibile lavoro di Renato Camurri “Pensare la libertà. I quaderni di Antonio Giuriolo”, un libro che tutti dovrebbero leggere, si presenta come uno snodo ineludibile nella conoscenza del pensiero di Giuriolo, dello svisceramento del suo percorso umano, morale, e intellettuale e merita di essere veicolato e promosso ben oltre la comunità scientifica degli storici, degli addetti ai lavori, degli studiosi dell’antifascismo e della Resistenza proprio perché Giuriolo assume il valore etico-politico di una figura in qualche modo collettiva capace di parlare – per l’attualità delle sue riflessioni oltre che per l’esemplarità della sua vita e della sua morte – anche alla generazione dei c.d. “millenials” così privi di punti alti di riferimento nel presente e così assetati dunque di risorse etiche; occorre oggi ricreare una cultura politica, mobilitare una riflessione comune ma complessa ed estesa, costruire una riflessione sui postulati fondamentali dell’agire politico senza sradicamenti dalle concrete dinamiche storiche e quindi con un forte ancoramento al principio di realtà.

Il libro di Camurri si presta ottimamente a questa operazione di civilizzazione e di eticizzazione perché si configura come un lungo viaggio alla riscoperta dell’uomo e dell’intellettuale Antonio Giuriolo nella contestualizzazione di quei tempi difficili. Giuriolo è stato per lunghi anni considerato un “corpo estraneo” nel Vicentino anche per la rimozione del contributo politico e militare del “giellismo” alla guerra di liberazione e dell’apporto culturale dello stesso all’elaborazione della Carta Costituzionale e alla costruzione dell’Italia repubblicana. In seguito Giuriolo è stato gradualmente avvolto in una aureola mitica e quasi sacrale in una visione destoricizzata a partire dalla commemorazione di Bobbio e attraverso la tappa fondamentale del “canone” meneghelliano.

Il Giuriolo che Camurri dipinge non è proiettato in una dimensione metastorica, ma appare legato ad un preciso contesto – il dominio fascista nella fase matura e declinante del regime – e ad una precisa scelta: quella di farsi “esule in patria” per immaginare prima e realizzare poi un fu- turo di radicale discontinuità. La formazione di Giuriolo è un processo ampio e stratificato, un “viaggio interiore” che lo porta a far scaturire l’azione del pensiero, un dipanarsi della persona che dall’intreccio di morale e cultura fa sgorgare la sensibilità civica, l’impegno politico e la lotta armata quale premessa necessaria del riscatto (“Noi abbiamo non solo il diritto, ma anche il dovere di prendere le armi contro questa patria presente, per realizzarne una migliore nell’avvenire” scrive Giuriolo).

E tutto ciò nella solitudine imposta dalla durezza della repressione, dal dilagare dell’assoggettamento psicologico al regime, dalla stessa difficoltà di crearsi una autonoma cultura critica nelle temperie di quegli anni. Ma è soprattutto l’analisi del corpus dei Quaderni dove Giuriolo annota le sue riflessioni e appunti su letture e suggestioni intellettuali da lui frequentati che evidenzia un percorso di interpretazione della tirannia e di innamoramento della libertà. Una “officina” – come argutamente è definita da Camurri – in cui trovano spazio classici greci e latini (si vedano ad esempio gli appunti su Tucidide, Demostene e Tacito) e che ha nella rilettura dell’opera del Machiavelli in chiave di attualizzazione politica un pilastro fondamentale.

Camurri inoltre indaga con grande capacità di approfondimento, ma anche di scomposizione e distinzione sull’influenza sul pensiero di Giuriolo dei contemporanei per giungere a dimostrare le forti assonanze tra le riflessioni di Giuriolo e l’ariosa e innovativa elaborazione contenuta “Il socialismo liberale” di Carlo Rosselli a partire dal concetto di libertà: una libertà come divenire e sviluppo, come educazione perpetua al suo esercizio, come valore avente un fondamento sociale, come premessa di cui l’uguaglianza è compimento, come autogoverno e promozione del pluralismo, delle autonomie e dei diritti dell’individuo rispetto alla statualità.

Più problematico invece appare il rapporto con le tesi di Aldo Capitini (da cui lo separava da un lato l’approccio alla nonviolenza, dall’altro una attitudine pragmatica e una apertura alla concretezza delle dinamiche sociali tipiche dell’azionismo e lontane dall’utopismo di Capitini) e con la filosofia di Guido Calogero su cui Giuriolo esprime valutazioni prevalentemente critiche. L’incursione del viaggio di Giuriolo nel pensiero di alcuni autori stranieri legati all’umanesimo socialista ma lontani dal rigido dogmatismo marxista ed espressione dell’innovazione culturale dello “Spirito degli anni Trenta” quali Henri de Man e Hyacinthe Dubreuil proiettano il giovane intellettuale vicentino nel vivo di una ricerca inedita di soluzione ai problemi sociali ed economici aperta alle suggestioni più innovative della cultura europea del tempo.

Espressione di un umanesimo di estrazione rosselliana socialista e liberale, “eretico”, libertario e antitotalitario, Antonio Giuriolo – esponente del Partito d’Azione – ha ancora molto da raccontare a noi che viviamo in un’epoca così impoverita di personalità capaci di esercitare un elevato magistero morale e così sradicata da orizzonti di senso politico. Ecco perché Giuriolo non è una figura confinata nel passato, ma cammina con noi, ci è accanto, ci interpella, ci contesta, ci indica un futuro, ci impegna e ci costringe e vuole bene anche al nostro tempo come ha voluto bene al tempo suo. 

Di Gigi Poletto da Storie Vicentine n. 7 marzo-aprile 2022


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Musei civici di Vicenza, biglietti ridotti per organizzatori e congressisti degli eventi Ieg

Per favorire la conoscenza dei musei civici di Vicenza e monumenti del circuito museale, la giunta comunale ha introdotto la tariffa agevolata per gli organizzatori e i congressisti di alcuni eventi che si svolgono all’interno degli spazi del Vicenza Convention Centre e della Fiera di Vicenza gestito da Italian Exhibition Group, da maggio a ottobre.

Denominata “Vicenza museum badge”, l’iniziativa ha lo scopo di avvicinare gli ospiti al sistema museale civico di Vicenza con la proposta di una tariffa speciale, quella riservata ai residenti di città e provincia.

La proposta è prevista all’interno degli impegni sottoscritti nel Protocollo d’intesa tra Comune e IEG, al fine di massimizzare le potenzialità di sviluppo culturale ed il significativo impatto economico per il territorio che generano l’attività congressuale e fieristica.

Si tratta di un’ulteriore opportunità per valorizzare la città e le risorse di elevato valore storico artistico, architettonico, naturalistico, archeologico presenti nel circuito museale e monumentale di Vicenza.

Come strategia promozionale per mantenere vivo l’interesse pubblico e la valorizzazione dei siti presenti in città, a favore di organizzatori e congressisti verrà applicata la tariffa agevolata corrispondente al biglietto unico per residenti in città e provincia a 9 euro che consente di vedere tutti i sette siti dei Musei civici: Teatro Olimpico, Basilica Palladiana, Museo civico di Palazzo Chiericati, Gallerie di Palazzo Thiene, Chiesa di Santa Corona, Museo Naturalistico Archeologico, Museo del Risorgimento e della Resistenza.

Gli eventi interessati dalla promozione sono Enoforum congresso scientifico nazionale in programma dal 15 al 17 maggio; Focus on PCB, manifestazione fieristica sui circuiti stampati organizzata da Fiera di Norimberga il 17 e il 18 maggio; 7^ conferenza SIMTI (Società Italiana di Medicina Trasfusionale e Immunoematologia), congresso medico scientifico nazionale dal 24 al 26 maggio; 41^ Vicenza Course on AKI & CRRT, congresso medico scientifico internazionale dal 12 al 14 giugno; 60° Congresso Nazionale ADOI (Associazione Italiana Dermatologi Ospedalieri Italiani), congresso medico scientifico nazionale, dal 27 al 30 settembre; Congresso Nazionale IRC (Italian Resuscitation Council), congresso medico scientifico nazionale del 20 e 21 ottobre 2023.

Sarà sufficiente presentarsi alla biglietteria dell’Ufficio Informazioni e accoglienza turistica in piazza Matteotti con il badge relativo ad uno degli eventi indicati.

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Fonte: Comune di Vicenza

Villa La Rotonda del Palladio, viaggio in un armonico microcosmo rinascimentale

Appena fuori Vicenza si trova un capolavoro mozzafiato dell’architetto Andrea Palladio: è Villa Almerico Capra detta “La Rotonda”. Appena si entra dal cancello si viene colti da un brivido. Tanta è la meraviglia che questa villa trasmette. Avvolta in un fresco giardino, la villa è patrimonio dell’Unesco dal 1994 ed è probabilmente l’edificio palladiano più celebre. Attualmente la villa è di proprietà della famiglia Valmarana, originaria di Venezia, fin dal 1912. Non si tratta però della stessa famiglia Valmarana proprietaria di Villa Valmarana ai Nani.

L’esterno della villa

Visitata da poeti ed artisti, regnanti e uomini di stato, studiosi e amanti dell’arte, viaggiatori e turisti da tutto il mondo, dopo 500 anni, la Rotonda progettata da Andrea Palladio per Paolo Almerico, rimane un luogo di pura bellezza che trasmette ispirazione, cultura, gioia ai visitatori.

villa la rotonda
All’entrata la villa appare così. Foto: Marta Cardini

La Rotonda è un edificio a pianta centrale, un volume cubico che ruota attorno a una sala circolare con cupola. Le quattro facciate sono identiche: ognuna è dotata di pronao, con timpano sorretto da sei colonne ioniche e imponente gradinata che conduce direttamente al piano nobile.

La villa è priva di fondamenta. Si autosostiene grazie al sistema di archi e di volte a crociera in mattoni del pianterreno, che costituiscono la griglia strutturale di assi tra loro perpendicolari su cui si appoggiano i piani superiori. Se si guarda attentamente il prospetto della villa, infatti, si noterà che il piano nobile e l’attico rientrano ognuno di pochi centimetri rispetto al livello sottostante, come una sorta di “piramide a gradoni” su tre livelli che rende solida l’intera struttura. Le quattro logge molto sporgenti, oltre ad avere una funzione scenografica, servono anche da enormi contrafforti per contenere saldamente la spinta delle facciate.

sala centrale
Parte della sala centrale circolare. Foto: Marta Cardini

L’interno

Appena si giunge all’interno, viene quasi da raggiungere subito la sala centrale circolare, che dà il nome alla Rotonda: comprende in altezza il piano nobile e l’attico, fino alla volta a cupola conclusa da una lanterna. La cupola altissima, vista dall’interno, è mozzafiato. Lì vi sono raffigurate le virtù.

cupola
La cupola vista dall’interno. Foto: m.c.

La cupola esterna, completata da Vincenzo Scamozzi, si presenta molto diversa da quella disegnata da Palladio nei Quattro Libri: lì si tratta di una cupola perfettamente emisferica, che avrebbe slanciato molto l’edificio, mentre oggi si presenta come una calotta ribassata su un tamburo simile alla copertura del Pantheon di Roma. Come questo, alla sommità vi è un oculo che, anziché essere lasciato aperto, è stato coronato da una lanterna da cui filtra una luce diffusa.

Mentre sul pavimento del salone compare un volto grottesco a bassorilievo, che simboleggia i vizi. I fori che lo attraversano permettono all’aria fresca del piano sottostante di salire al piano nobile, rinfrescando così la villa durante i mesi più caldi.

pavimento
Il volto grottesco sul pavimento. Foto: m.c.

Il significato della geometria della villa

Vista dall’alto la villa è un quadrato con un cerchio al centro. Il cerchio e il quadrato sono infatti forme geometriche perfette, simboleggianti il cielo e la terra e sono definite dal Palladio “le più belle, e più regolate”. La Rotonda diventa così un microcosmo regolato da leggi universali, specchio dell’armonia celeste al cui centro, secondo la concezione antropocentrica del Rinascimento, c’è l’Uomo.

modellino villa
Il modellino della villa che si trova sotto alla Rotonda, per entrare nel giardino. Foto: m.c.

Il giardino

Il giardino trasmette pace e serenità. Se visitato di maggio, si trovano molte rose fiorite. Nel giardino sono presenti anche un piccolo pozzo, con sopra un arco di rose rosse e un plastico-modellino della villa. C’è poi un grande parco, dove si può passeggiare e ammirare piante e fiori.

giardino
Il piccolo pozzo presente nel giardino. Foto: m.c.

La storia della villa

La Rotonda nacque dell’incontro tra il genio di Andrea Palladio, architetto all’apice della carriera, e il nobile vicentino Paolo Almerico (1514-1589), uomo colto, ambizioso e altero. Questi era un ecclesiastico che, dopo l’incarico a Roma come referendario apostolico dei papi Pio IV e Pio V, si ritirò a vita privata nella sua città natale. Nel 1565 affidò a Palladio il progetto per la sua nuova dimora sopra un colle alle porte di Vicenza, un rifugio bucolico dove trascorrere gli ultimi anni della propria vita lontano dall’ostilità dell’aristocrazia cittadina, ma allo stesso tempo un luogo di rappresentanza in posizione ben visibile.

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Un soffitto all’interno della villa. Foto: m.c.

Gli spazi interni furono organizzati in funzione di una persona sola. Né Palladio né Almerico videro però la Rotonda completata. Alla morte dell’architetto nel 1580 subentrò nella direzione del cantiere Vincenzo Scamozzi (1548-1616), suo discepolo e progettista raffinato. Sua è l’aggiunta della lunga barchessa lungo il viale di accesso alla villa e il completamento della cupola, non più semisferica come nel progetto palladiano, bensì con una volta ribassata con oculo centrale ispirata al Pantheon di Roma.

Alla morte di Paolo Almerico nel 1589 la villa passò al figlio naturale Virginio, che la tenne solo per due anni prima di cederla ai fratelli Odorico e Mario Capra. Nel 1605 si conclusero i lavori di costruzione. La famiglia Capra fu proprietaria della villa per due secoli. Poi, dal 1818 Villa Almerico Capra subì diversi cambi di proprietà, venne danneggiata durante gli assalti austriaci del 1848 a Vicenza e più volte restaurata, fino all’acquisto da parte della famiglia Valmarana nel 1912.

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Un salotto all’interno della villa. Foto: m.c.

 

Enoforum 2023, a Vicenza torna l’evento sull’innovazione del mondo vitivinicolo

Dal 16 al 18 maggio, Enoforum torna per la quarta volta al Vicenza Convention Centre di Italian Exhibition Group. Organizzato da Vinidea, in collaborazione con SIVE (Società Italiana di Viticoltura ed Enologia), Assoenologi e Unione Italiana Vini, Enoforum negli anni è diventato il maggior congresso tecnico-scientifico a livello europeo dedicato all’innovazione in campo viticolo ed enologico, nel cui ambito vengono presentate tutte le novità provenienti dalla ricerca pubblica e privata a livello mondiale.

Peculiarità della manifestazione è riunire in un unico contesto i tre pilastri della filiera vitivinicola: i produttori di vino, il mondo della ricerca e le aziende fornitrici. L’evento è rivolto ai professionisti del settore (enologi, agronomi, produttori di vino, fornitori, ricercatori, studenti, stampa specializzata). Nel corso dei tre giorni del convegno opereranno contemporaneamente due sale convegni (una dedicata alla ricerca internazionale, con traduzione simultanea, l’altra a quella italiana), una sala degustazioni, una sala “demo”, uno spazio poster e uno spazio espositivo dove incontrare le principali aziende del settore.

Enoforum 2023 è stato presentato in Sala Stucchi a Palazzo Trissino dall’amministrazione comunale, da Giuliano Boni per Vinidea, società organizzatrice dell’evento e da Federica Lucini Event & Conference Marketing Manager di Italian Exhibition Group. Sarà una edizione senza precedenti in termini di quantità e qualità delle informazioni presentate.

110 relazioni sulle più recenti innovazioni per il vigneto e per la cantina saranno presentate da 60 relatori indipendenti, da Università o Centri di Ricerca pubblici; 30 relatori stranieri, da 10 paesi vitivinicoli del mondo, grazie alla modalità videoconferenza; 40 relatori dal Premio Enoforum (i ricercatori che hanno concorso al Premio Enoforum sono stati selezionati da un Comitato Scientifico Internazionale tra oltre 100 candidati; i lavori giudicati di maggiore impatto pratico potenziale, secondo i partecipanti a Enoforum Web 2023, sono oggetto di presentazione orale).

Saranno presentati, inoltre, 7 progetti di ricerca regionali, nazionali ed europei; 40 poster su nuove tecnologie e conoscenze, in aggiunta a quelli esposti oralmente. 70 aziende che proporranno le innovazioni risultanti dalla loro attività di Ricerca & Sviluppo. Verranno organizzate 10 sessioni di degustazione, per comprendere gli effetti sensoriali delle innovazioni con 10 demo per sapere come si usano in pratica le innovazioni. Saranno presenti 25 stand dove approfondire le informazioni con gli esperti delle aziende. Inoltre saranno innumerevoli le occasioni di networking per confrontarsi con centinaia di colleghi da tutta Italia.

Nato nel 2000 a Montesilvano (PE) su iniziativa di Vinidea e SIVE, Enoforum negli anni è cresciuto di importanza e si è arricchito di edizioni internazionali in Portogallo (Infowine Forum), Spagna, Stati Uniti e prossimamente in Cile e Francia (Sparkling Wine Forum). È stato anche il primo congresso interamente on line a causa del Covid-19 nella primavera 2020, sostituendo l’edizione spagnola prevista a Saragozza. L’ultima edizione italiana in presenza, tenutasi sempre a Vicenza nel maggio 2019, ha visto la partecipazione di circa 1.200 congressisti.

Sul sito della manifestazione www.enoforum.eu è possibile trovare tutti gli aggiornamenti sull’evento.

È possibile accreditarsi a Enoforum 2023 a questo link: https://forms.gle/HVM4SprkmrByxom69
(inserire nel campo “Entity of affiliation” la testata e in quello “Invited by/notes” la dicitura “Ufficio Stampa Vinidea”).

Enoforum è il primo evento interessato dall’iniziativa prevista all’interno del Protocollo d’intesa tra il Comune di Vicenza e Italian Exhibition Group per lo sviluppo del congressuale sul territorio. I partecipanti a Enoforum – semplicemente esibendo il loro badge alle biglietterie – potranno beneficiare della tariffa agevolata riservata ai residenti di Vicenza e provincia per l’accesso nei Musei civici di Vicenza. Il biglietto unico consente l’accesso a: Teatro Olimpico, Basilica Palladiana, Museo civico di Palazzo Chiericati, Gallerie di Palazzo Thiene, Chiesa di Santa Corona, Museo Naturalistico Archeologico, Museo del Risorgimento e della Resistenza.

Organizzatori dell’evento

Vinidea è una società di servizi con sede a Ponte dell’Olio, Italia, che si occupa di sviluppo d’innovazioni tecnologiche e divulgazione d’informazione tecnica al settore vitivinicolo mondiale. Fondata nel 1998 dall’attuale Presidente Dott. Gianni Trioli, ha sviluppato negli anni svariati canali di comunicazione tra ricerca e produzione e tra regioni vinicole del mondo. Ha organizzato oltre 500 seminari e corsi, più di 100 congressi, 90 viaggi studio in tutti i paesi vitivinicoli. Dal 2011 propone webinar al settore vitivinicolo (www.vinidea.it). Vinidea ha partecipato a 12 progetti europei, principalmente nel programma Horizon 2020, ed è coinvolta in 11 progetti regionali EARDF (gruppi operativi del PSR). Nel 2000 ha inaugurato la formula congressuale Enoforum, che ha celebrato 12 edizioni in Italia, 8 in Portogallo, 3 in Spagna, 1 in California, divenendo il circuito congressuale più importante d’Europa (www.enoforum.eu). Dal 2002 edita in 6 lingue la Rivista Internet di Viticoltura ed Enologia Infowine, letta da oltre 350.000 utenti in tutto il mondo (www.infowine.com).

La SIVE (Società Italiana di Viticoltura ed Enologia) è un’associazione senza fini di lucro a cui aderiscono tecnici vitivinicoli e aziende di tutta Italia. Dal 1996 è attiva nel campo della formazione e dell’aggiornamento tecnico; ha al suo attivo l’organizzazione di oltre 100 tra convegni, seminari, incontri tecnici e viaggi studio in Italia e all’estero. Svolge funzioni di segreteria operativa la società VINIDEA, assieme alla quale SIVE organizza ogni due anni il convegno Enoforum con sede itinerante.

Dal 2005 la SIVE si è data l’obiettivo di “Sostenere una maggiore collaborazione tra le aziende produttive e il mondo della ricerca enologica e viticola”, aiutando il mondo della produzione nella formulazione della domanda ed il mondo della ricerca nella definizione della propria offerta di conoscenze utili alla produzione; con questo obiettivo sono stati istituiti i premi SIVE “Ricerca per lo Sviluppo”, a cui dal 2007 al 2019 si sono candidati ben 293 lavori di ricerca italiani e stranieri, che rappresentano una rassegna molto ampia della produzione scientifica vitivinicola dell’ultimo decennio così portata a conoscenza del mondo della produzione. Tali premi sono poi confluiti nel premio Enoforum.

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Fonte: Comune di Vicenza

Corinna Rossi a Palazzo Chiericati di Vicenza per “L’egittologo risponde?”

Corinna Rossi, curatrice della mostra “I creatori dell’Egitto eterno. Scribi, artigiani e operai al servizio del faraone” sarà a disposizione per rispondere alle domande e curiosità del pubblico nel corso di un evento in programma sabato 13 maggio 2023, dalle 15 e 30 alle 17 e 30, a Palazzo Chiericati di Vicenza.

Si tratta di un nuovo appuntamento collaterale all’esposizione che si può visitare in Basilica Palladiana fino al 28 maggio. Nei mesi di apertura sono stati programmati appuntamenti tematici che hanno visto coinvolti i quattro curatori della mostra: oltre a Rossi, il direttore del Museo Egizio Christian Greco, Cédric Gobeil e Paolo Marini, egittologi e curatori del Museo Egizio.

Corinna Rossi, professoressa di Egittologia del Politecnico di Milano, Unità EIDOLONLab, Sistema Laboratori ABCLab, Dipartimento ABC, darà risposte in merito a curiosità relative all’antico Egitto emerse a seguito della visita alla mostra, osservando gli oggetti esposti. Sarà disponibile anche per approfondimenti su altri temi come per esempio sulla costruzione delle piramidi o su come scrivevano e contavano gli antichi egizi.

L’evento è pensato anche per un pubblico giovane, per bambini e ragazzini che rimangono solitamente affascinati da questa lontana civiltà.

Ingresso libero fino ad esaurimento dei posti disponibili.

La mostra “I creatori dell’Egitto eterno. Scribi, artigiani e operai al servizio del Faraone” si può visitare da martedì a giovedì dalle 10 alle 18, venerdì sabato e domenica dalle 10 alle 19. Sabato 13 maggio la mostra chiuderà alle 18.

Ultimo accesso un’ora prima della chiusura. Informazioni: https://www.mostreinbasilica.it/it/

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Fonte: Comune di Vicenza

La Chiesa di San Pietro e le monache benedettine a Vicenza

Capita spesso che più o meno anonime facciate nascondano capolavori inaspettati. È il caso di quello che era il convento delle Benedettine, che si sviluppava a sud della chiesa di San Pietro e che ora ospita la Residenza Ottavio Trento, una struttura per anziani gestita dall’Ipab.

Vediamone, anzitutto, la storia. A prestar fede alla lapide fatta affiggere nel 1337 dalla badessa Fiore Porcastri nella controfacciata della chiesa di San Pietro, l’insediamento religioso sarebbe stato fondato nell’anno 827 da Elica di nazione alemanna, cioè tedesca.

In realtà, a dispetto dell’appena ricordata iscrizione, molte ombre aleggiano sull’origine e sull’anno di fondazione di questa comunità. Si ritiene, infatti, che qui si sarebbe inizialmente insediato, tra l’VIII e il IX sec., un monastero benedettino maschile, pressoché distrutto dagli Ungari, calati a Vicenza nell’899.

È stata poi una comunità di benedettine, con a capo la ricordata badessa Elica, a prendere nel 1061 il posto dei confratelli, e a (ri)fondare, il monastero, recuperandolo da grave decadenza: non dunque nell’anno 827, bensì all’inizio del secondo millennio (A. Morsoletto, Chiesa di San Pietro in Vicenza, 1997). Le religiose seppero, infatti, ben presto mettere a frutto il vasto latifondo – assegnato al monastero fin dal 1004 da un privilegio del vescovo Liudigerio I° ed esteso ai territori di Grumolo, Camisano, Lerino e Sarmego – grazie a importanti interventi fondiari, quali bonifiche, disboscamenti e opere idrauliche. In particolare, va ricordata la costruzione, a partire dal 1618, di un lungo canale di irrigazione, la cosiddetta roza Moneghina, utilizzata anche per il trasporto di materiali e derrate.

Celebre la coltivazione del riso, iniziata nel XVI secolo nel territorio di Grumolo e fiorente anche ai nostri giorni. L’omonimo Comune, non a caso, ha aggiunto l’appellativo “delle Abbadesse” a ricordo della presenza benedettina, riportando anche, nello stemma, le chiavi di san Pietro, sormontate dal Triregno: emblema del papato, ma anche delle nostre monache. Le quali costituiscono un esempio di imprenditoria femminile avanti lettera, che aveva naturalmente il suo riferimento nel monastero di san Pietro.

La possessione si trasformò ben presto in un centro di potere assoluto, un vero e proprio feudo, una contea, sulla quale la badessa esercitava, con pugno di ferro, il potere non solamente religioso, ma anche civile, amministrando addirittura la giustizia, forte della protezione imperiale e papale, non senza scontri con gli stessi vescovi, con gli altri feudatari e vassalli locali e con qualche recalcitrante sotto- posto, come riportano le cronache del tempo. Nel 1499, dopo un periodo di malgoverno, il monastero confluì nella Congregazione benedettina di santa Giustina di Padova (A. Morsoletto, cit.). Ma esso rimase comunque un saldo punto di riferimento per la città. Tanto che a san Pietro si monacarono le figlie della più alta nobiltà locale.

Lo testimoniano gli stemmi delle casate di ventiquattro badesse, circondati da una fascia con il nome di ciascuna e l’anno del suo insediamento. Furono affrescati nel 1887, secondo il gusto neogotico, nell’andito che introduce alla chiesa annessa al monastero, detto Coro delle monache. Questa sorta di blasonario inizia, naturalmente, dalla più volte memorata Elica, affiancata dalla sua sponsor Fiore Porcastri (1329).Sono poi ricordate Maria Verde Repeta (1419), Eufrosina Verlato (1522), Serafina Thiene (1619), Isabella Gualdo (1676), Maria Isabella Godi (1702) ed altre ancora. L’ultima badessa risulta eletta nel 1806. Proprio il 28 luglio di quell’anno un decreto napoleonico ordinò alle benedettine di lasciare il convento e di ritirarsi in quello di san Tommaso, nel quartiere di Berga. La disposizione fu eseguita solamente il 25 aprile 1810, giorno di soppressione del monastero.

E così calò il sipario su secoli di storia. Sotto l’aspetto architettonico merita particolare attenzione l’ampio chiostro. All’originaria struttura quattrocentesca si aggiunse, nel Settecento, il loggiato superiore, che interpreta disinvoltamente il motivo della serliana, chiuso nel secolo successivo da vetrate. Il radicale restauro del 1895 ha, forse, maldestramente collegato la parte inferiore dei pilastri, inglobandoli nella muratura, ancor più così sacrificando lo slancio verticale della struttura, già compromesso dalla ricordata superfetazione settecentesca.

Questi pilastri in cotto, quadrati e ad angolo smussato, reggono sottili abachi in pietra, dai quali si diparte la sequenza di archi a tutto sesto, i cui profili sono sottolineati da formelle, pure in cotto, a motivi vegetali, racchiuse entro cornici tardo- gotiche a scacchiera. Quasi tangente la sommità degli archi, corre una fascia a torciglioni, anch’essa racchiudente formelle a motivi vegetali.

Ancor più sopra, si dispongono altre formelle, a intervalli regolari. Sul fronte nord campeggiano due stemmi: a sinistra, quello dell’abbazia delle bene- dettine proprietarie e, a destra, quello di Maria Verde Repeta, badessa dal 1418 al 1444-1445, promotrice della realizzazione del chiostro, che si ritiene compiuto tra il 1450 e il 1460. Si stacca completamente dal resto della iconografia degli archi la decorazione di quello che si sviluppa nel fronte orientale.

I già ricordati motivi vegetali delle formelle lasciano qui il campo, a sinistra, a sei leoni alati e, a destra, a sette personaggi a cavallo, dei quali, purtroppo, è appena visibile il primo a destra. Non si tratta delle badesse-amazzoni di san Pietro, come folcloristicamente già creduto, quanto, piuttosto, di agghindati falconieri reggenti con la destra il falcone.

Questo ragguardevole apparato di formelle fittili, unico a Vicenza e tra i più rilevanti in ambito veneto, è, all’evidenza, apparentato con la ghiera, anch’essa a formelle in terracotta, che adorna la porta del vicino Oratorio dei Boccalotti, uscita nel 1414 dalla fornace di Zanino dei Boccali, che aveva bottega proprio in contrà San Pietro. Ma, essendo Zanino defunto già nel 1419, sarà intervenuto nell’impresa il nipote Gerardo, erede dello zio e continuatore della sua attività. C’è, però, una sorta di enigma. Sul fronte settentrionale, a formelle che recano indefiniti motivi vegetali stilizzati, si alternano formelle che sembrerebbero, invece, riprodurre pannocchie di granoturco (Barioli, Il chiostro di San Pietro, preziosa testimonianza del ‘400 vicentino, Vicenza 1968).

Si tratta, verosimilmente, di errata interpretazione, poiché la coltivazione del granoturco o mais si diffonde nella Repubblica di Venezia solamente a partire dai decenni centrali del Cinquecento: è, infatti, tra il 1550 e il 1560 che G.B. Zelotti affresca, tra i primi, pannocchie in villa Emo a Fanzolo. Non pannocchie, dunque, ma, piuttosto, piante di acànto, i cui fiori, raggruppandosi in lunghe inflorescenze, assumono la forma di pannocchia. Se così non fosse, i tempi di esecuzione delle formelle si dilaterebbero – e di molto – e, per di più, esse sarebbero state realizzate in tempi nei quali sarebbero state del tutto “fuori moda”.

Salvo si tratti di improbabile, e comunque non documentato, intervento posteriore rispetto alla primitiva decorazione del chiostro. Il quale ospita nell’ala nord anche altre pregevoli testimonianze storiche e artistiche. A sinistra è collocato un sarcofago altomedievale in pietra, forse del VII secolo, da altri (Arslan, Vicenza. Le chiese, Roma 1956) ritenuto, invece, longobardo, che mostra, nella faccia anteriore, una targa anepigrafe ovvero senza scritte, fiancheggiata da una croce sotto un’arcata. Proprio attaccata al fronte est del chiostro è sistemata la tomba della già ricordata Fiore Porcastri. Sul lato corto della sepoltura è ben visibile l’altorilievo raffigurante un maialino stilizzato, simbolo nello stemma della famiglia.

Sopra quest’arca si stende un affresco, databile tra la fine del Trecento e l’inizio del Quattrocento, che riproduce una Crocifissione con la Madonna e san Giovanni Battista. Forse è l’ultima scena di una Via crucis, che si snodava lungo la parete. L’opera, ritrovata sotto uno strato di intonaco ridipinto e offuscato, è stata attribuita a un ignoto epigono giottesco. Il sito avrebbe urgente necessità di un generale intervento di accurato, per salvaguardare, in particolare, le decorazioni fittili, che corrono il rischio di corrompersi irrimediabilmente.

Di Giorgio Ceraso da Storie Vicentine n. 7 marzo-aprile 2022


In uscita il numero di Maggio 2023
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Chiesa delle Dimesse di Thiene: uno scrigno storico

La Chiesa delle Dimesse di Thiene è un prezioso scrigno storico, una splendida facciata barocca incastonata nel Collegio delle suore Dimesse. La Compagnia delle Dimesse si occupava della visita periodica agli ammalati, della catechesi e soprattutto dell’accoglienza di giovani donne.

La chiesa della Concezione di Maria Vergine nota come chiesa delle Dimesse della Conca, fu edificata nel 1720 sulle strutture della primitiva cappella del 1673. La chiesa è incorporata nel settecentesco palazzo, fondato dalle figlie del Conte Antonio Porto, che fu in origine sede del Collegio delle suore Dimesse e che, dopo la soppressione della corporazione religiosa nel 1810 divenne di proprietà della congregazione di Carità, ospitando in seguito l’Istituto Medico Pedagogico Nordera e la sede dell’ULSS.

La facciata in stile barocco si compone si quattro lesene su alti basamenti che sorreggono la trabeazione sormontata, nella parte centrale, da un piccolo timpano adorno di statue lapidee.

La rotazione delle lesene laterali crea il movimento della facciata e completa il raccordo con le costruzioni adiacenti. Ampi finestroni muniti di inferiate in ferro battuto e un bel portone in legno completano la facciata. Da tempo ormai la preziosa chiesetta mostrava segni di degrado, dove le sculture in pietra tenera di Vicenza erano prossime al collasso.

Questo storico edificio ora si rivela in tutta la sua bellezza a conclusione di alcuni lavori di restauro che hanno interessato le statue sommitali, le lavorate grate in ferro battuto, il ripristino degli intonaci a marmorino ed infine il bellissimo portale ligneo. L’intervento è stato realizzato dalla Ditta Athena srl di Thiene su progetto e Direzione Lavori dell’Architetto Franco Toniolo con la supervisione della Soprintendenza Archeologica, Belle Arti e Paesaggio di Verona e la collaborazione dell’Ufficio Tecnico del Comune di Thiene.

Di Elena Zironda da Storie Vicentine n. 7 marzo-aprile 2022


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