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Musei, anche a Vicenza celebrata la Giornata Internazionale

Vicenza festeggia la Giornata Internazionale dei Musei (International Museum Day) che ricorre il 18 maggio. Dal 1977 la manifestazione, patrocinata dal Ministero della Cultura, è promossa e organizzata da Icom (International Council of Museum) a livello mondiale ed è dedicata quest’anno al tema “Musei, Sostenibilità e Benessere”. I musei possono contribuire al raggiungimento degli obiettivi di sviluppo sostenibile con diverse modalità, dalla lotta contro il cambiamento climatico alla promozione dell’inclusività, dalla lotta contro l’isolamento sociale al miglioramento della salute mentale.

Come evidenziato nella Risoluzione ICOM “Sulla sostenibilità e l’attuazione dell’Agenda 2030, trasformare il nostro mondo” (Kyoto, 2019), “tutti i musei svolgono un ruolo nel modellare e realizzare futuri sostenibili e possono farlo tramite programmi educativi, mostre, sensibilizzazione della comunità e ricerca”.

I Musei civici di Vicenza giovedì 18 maggio promuovono una serie di iniziative.

Nell’area davanti al Museo civico di Palazzo Chiericati, con eventuale spostamento anche nel vicino giardino del Teatro Olimpico, dalle 15.30 alle 17.30 si potrà partecipare liberamente ad una lezione aperta del gruppo di danza “I dance the way I feel” con il ballerino Thierry Parmentier (abbigliamento comodo e scarpe da ginnastica; in caso di pioggia l’iniziativa si svolgerà all’interno di Palazzo Chiericati). L’iniziativa rientra nel progetto promosso dagli Amici del 5° Piano, nato per donare benessere, gioia, forza e voglia di esprimersi a chi affronta e convive con la malattia oncologica attraverso. Gli incontri di danza contemporanea, rivolti a pazienti ed ex pazienti oncologici e loro familiari, sono programmati all’interno dei Musei civici.

Alle 17.30 al Museo civico di Palazzo Chiericati si potrà partecipare a “Bartolomeo Montagna e i pittori del Rinascimento vicentino. La chiesa di San Bartolomeo”, passeggiata con il conservatore del Museo Civico di Palazzo Chiericati e delle Gallerie di Palazzo Thiene, Alessandro Martoni. Il percorso, che durerà un’ora e 30 circa per un massimo di 30 partecipanti, dopo l’introduzione alle collezioni permanenti e al museo, prevede la passeggiata nell’ala del Novecento e nella sezione del Rinascimento, con focus sui capolavori di Bartolomeo Montagna e degli artisti più importanti che hanno caratterizzato la stagione del Rinascimento. Infine un approfondimento sarà dedicato alle pale d’altare della distrutta chiesa di San Bartolomeo e ora esposte nel museo. La partecipazione e l’ingresso al museo sono gratuiti. E’ necessaria la prenotazione contattando l’Ufficio informazioni e accoglienza turistica in piazza Matteotti rimarrà, 0444320854, [email protected].

Nei sotterranei delle Gallerie di Palazzo Thiene alle 18 si terrà il concerto “Rite” con Zoe Pia (clarinetto, launeddas) e Mats-Olof Gustaffson (flauto, sassofoni, elettronica), che fa parte del festival Vicenza Jazz e della sezione “Proxima: giovani stelle a palazzo” dedicata ai giovani musicisti jazz realizzata in collaborazione con l’associazione culturale Bacàn. Biglietti a 3 euro (https://bit.ly/biglietti_Rite).

In serata, alle 20.30, al Museo Naturalistico Archeologico, nella sala dei Chiostri di Santa Corona, verrà presentato l’ultimo numero di Natura Vicentina – Quaderni del Museo Naturalistico Archeologico. Ingresso libero e gratuito fino ad esaurimento posti disponibili.Sono previsti gli interventi degli autori della rivista.

Silvano Biondi e Giulio Montanaro apriranno la serata con “Note su alcune specie di Meloidae (Insecta, Coleoptera) trovate nel Vicentino”. Seguiranno Silvia Bollettin con “Avvio della digitalizzazione della collezione entomologica Faustino Cussigh e studio della biodiversità dei coleotteri dei Colli Berici”, Francesco Mezzalira con “L’illustrazione botanica al tempo di Prospero Alpini”.

Gli ultimi due interventi saranno entrambi di Silvio Scortegagna: “Rinvenimento di Buxbaumia viridis (Moug. ex Lam. & Dc.) Brid. ex Moug. & Nestl. (Buxbaumiaceae, Bryophyta) sull’Altopiano di Asiago (Provincia di Vicenza, Veneto, Italia nordorientale)” e “La distribuzione delle specie del genere Leucobryum (Bryophyta, Leucobryaceae) nel Veneto (Italia nord-orientale)”.

Ogni anno, dal 1997, il museo pubblica la rivista scientifica Natura Vicentina-Quaderni del Museo Naturalistico-Archeologico di Vicenza che raccoglie contributi di natura mineralogica, paleontologica, faunistica, floristica riguardanti principalmente il Veneto ed in particolare il Vicentino. La rivista, giunta al n.23, testimonia la vivace attività di ricerca che viene svolta in collaborazione con il museo. Questa importante attività di ricerca, spesso svolta “dietro le quinte”, concorre a migliorare la conoscenza del territorio, della biodiversità locale e contribuisce alla sua valorizzazione.

La rivista si può consultare dal sito dei musei civici al link https://www.museicivicivicenza.it/file/doc1-13452.pdf
Informazioni: 0444222815 [email protected].

Per approfondimenti sulla Giornata Internazionale dei Musei:  https://www.icom-italia.org/international-museum-day-2023-musei-sostenibilita-e-benessere/

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Fonte: Comune di Vicenza

“L’amore dall’altra parte del mondo”, a Vicenza presentazione del libro di Laura Primon e Angelo Baron

“L’amore dall’altra parte del mondo”, libro di Laura Primon e Angelo Baron (Attilio Fraccaro Editore) sarà presentato giovedì 18 maggio 2023, alle 17 e 30 nella sede di Palazzo Cordellina della Biblioteca civica Bertoliana. L’ingresso è libero fino a esaurimento posti.

Proposto dall’associazione Vicentini nel mondo, con la collaborazione della biblioteca civica di Vicenza, l’appuntamento vedrà la partecipazione, oltre che degli autori, anche del presidente dell’associazione Vicentini nel mondo, e di Roberto Luca, studioso del pensiero antico.

Il libro, partendo da una lunga lettera d’amore del 1909, quando Maria Gnoato di Camazzole rientra in Italia dal Brasile, tratta di un viaggio personale e spirituale dall’Italia al Brasile e ritorno, trattando temi come il dolore del distacco, la paura, l’ignoto e il valore della famiglia, che tante famiglie vicentine e venete hanno conosciuto a cavallo tra Otto e Novecento, attraverso strade contorte e sotterranee del destino, su cui spesso l’amore viaggia.

Il disegno in copertina, del maestro Toni Zarpellon, sta ad indicare come in queste migrazioni le donne abbiano pagato spesso il prezzo più alto rimanendo sospese tra due mondi. Quello che avevano lasciato, dove i legami famigliari erano profondi, e quello nuovo, dove si trovavano sole ad affrontare gravidanze, parti, aborti e lavori quasi disumani. Le donne sono quelle che in mezzo a tante difficoltà hanno saputo tessere, attraverso le lettere, un lungo filo, che ha tenuto insieme questi mondi lacerati. La storia narrata è nata proprio grazie alle lettere di una donna.

Roberto Luca studioso del pensiero antico, ha pubblicato per i tipi de La Nuova Italia le edizioni commentate del Simposio (14 ristampe) e del Fedro di Platone. Del 2001 è il libro “Eros e Epos. Il lessico d’amore nei poemi omerici”. Nel 2014 ha pubblicato per Marsilio “Platone e la sapienza antica. Matematica, filosofia e armonia” (2014). Ha al suo attivo saggi di filosofia apparsi nelle principali riviste universitarie del settore.

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Fonte: Comune di Vicenza

Teatro e Vicenza: i palchi luoghi di fervori patriottici dei vicentini

l teatro Eretenio era considerato la Fenice di Vicenza ed era stato inaugurato nel 1784. Venne colpito da un’incursione aerea notturna il 2 aprile 1944 durante l’ultimo conflitto mondiale e venne definitivamente abbattuto dopo la fine della guerra.

teatro
Teatro Eretenio di Vicenza

Lo spirito ribelle e battagliero dei patrioti vicentini perdurò vivo e impaziente per tutto il periodo della dominazione austriaca, anche se inizialmente, dall’autunno 1813 e per alcuni anni, gli austriaci erano visti benevolmente. A seguito dei moti a Vicenza del 1848 fino alla fine della dominazione straniera nel 1866, in vari modi veniva espressa una sempre maggiore insofferenza nei confronti della corona d’Austria.

Per esempio, tratto dalla mia Tesi: “L’opposizione al governo austriaco si manifestava pubblicamente durante gli spettacoli teatrali, come avvenne il 5 gennaio del 1857, in occasione della visita in città dell’imperatore Francesco Giuseppe e della consorte Elisabetta di Baviera (Sissi), invitati ad assistere ad uno spettacolo al Teatro Eretenio appositamente organizzato per loro. Nel teatro veniva eseguita l’opera I Lombardi alla prima crociata del patriota Giuseppe Verdi. Nel momento in cui il coro intonava ‘O Signore dal tetto natìo…’, esplose un interminabile applauso con insistenti richieste di bis da parte dei vicentini. Nel palco dell’imperatore e tra le autorità austriache si notò una certa agitazione, placatasi solo quando l’opera riprese il suo tranquillo andamento”.

Per evitare il ripetersi di queste situazioni, le autorità austriache censuravano spesso le proposte di rappresentazioni teatrali che potessero evocare un sentimento nazionale. Le autorità austriache controllavano anche gli stessi attori teatrali. Ad esempio successivamente ad uno spettacolo tenutosi al Teatro Olimpico, in occasione dell’ Edipo re di Sofocle, il celebre artista Gustavo Modena, veniva allontanato in quanto temuto dai dominatori quale pericoloso patriota e agitatore.

Spesso gli austriaci facevano modificare anche il testo delle opere teatrali come nel caso dell’opera-tragedia Parisina di Antonio Somma dove la famosa frase “Addio sole d’Italia” veniva di fatto sostituita con “Addio sole cocente”. Anche l’opera – tragedia di Vittorio Alfieri il Bruto IIC venne scartata dalle autorità in quanto evocatrice di gesta eroiche e di fiero sentimento nazionale.

Di Loris Liotto da Storie Vicentine n. 8 giugno-luglio 2022


In uscita il numero di Maggio 2023
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Chiesa e convento di San Bartolomeo nel borgo di Pusterla

Anno 1217, 26 giugno: alcuni frati e monache dell’ordine di San Marco di Mantova fondarono la chiesa e il convento di San Bartolomeo nel borgo di Pusterla. A questa famiglia religiosa subentrarono, nel 1446, i Canonici Regolari di Sant’Agostino, che l’anno successivo rinnovarono il sito. Nel 1771 la comunità fu soppressa per l’esiguo numero di religiosi.

Sfortuna volle che il 10 ottobre 1772 la Serenissima emanasse un provvedimento in forza del quale dovevano essere concentrate in un unico luogo tutte le quattro strutture sanitarie sparse per la città: più precisamente, i «pii luoghi» di Sant’Antonio Abate e di San Lazzaro, la Pia opera di Carità e l’ospedale di San Pietro e Paolo. Si pensò subito a San Bortolo, rimasto vuoto l’anno prima: e così il complesso, con terminazione della Serenissima in data 26 novembre successivo, fu trasformato nell’Ospital Grande degli Infermi, e Poveri della Città di Vicenza, oggi Ospedale Civile, chiamato dai vicentini san Bortolo. La riconversione seguì due fasi.

Prima toccò al convento, e poi, dimostratosi insufficiente, nel 1833 anche la chiesa e parte del chiostro furono sacrificati a tale servizio, tra lo sconcerto e lo sdegno di quanti amavano l’arte e che invano si opposero allo scempio. Progettista dell’improvvido intervento fu l’architetto Bartolomeo Malacarne, una sorta di archistar dell’epoca. Poche sono le immagini della chiesa pervenuteci. Una delle più note è quella riprodotta nella pianta della città, eseguita da Giandomenico Dall’Acqua nel 1711.

Vi si scorge una tipica facciata gotica, caratterizzata da due lunghe finestre laterali, dagli archetti pensili, dal rosone centrale, dall’archiacuto portale d’ingresso con sovrastante oculo e dai pinnacoli a conclusione della parte superiore. L’intervento del Malacarne consistette, anzitutto, nell’abbattere il campanile e nel dividere orizzontalmente la chiesa in due livelli, per ricavare, in quello superiore, delle grandi camerate e, in quello inferiore, dei vani di servizio e una piccola cappella: a questa si accede attraverso la porta che si apre sul fronte nord dell’attuale chiostro dorico. Non  tutto  è  andato,  fortunatamente, perduto. Anzitutto è ricoverata presso la Pinacoteca di palazzo Chiericati buona parte dei dipinti quattro-cinquecenteschi che adornavano la chiesa, fra i quali spiccano lavori di Bartolomeo Montagna, di Cima da Conegliano, di Giovanni Speranza, del Buonconsiglio e di Marcello Fogolino.

San Bortolomeo
Acquerello di Bartolomeo Bongiovanni – interno della Chiesa

Il nuovo allestimento del Museo Civico offre una rievocazione dell’interno della chiesa di San Bortolo, sulla scorta dell’acquarello di Bartolomeo Bongiovanni, che lo riprendeva nel 1834, poco prima dello smantellamento. Esso servì anche da modello all’architetto viennese Friedrich von Schmidt nel rifare – tra il 1862 e il 1867 – la chiesa dei Carmini, al cui interno sono stati provvidamente impiegati molti dei raffinatissimi apparati lapidei provenienti dalla chiesa di san Bortolo, che si erano salvati dalla distruzione. Ma qualche cosa si è salvata anche della struttura muraria della chiesa di San Bortolo.

È infatti esternamente visibile l’abside, ricostruita nel 1484 per l’intervento finanziario della famiglia Trento, forse con la collaborazione progettuale di Lorenzo da Bologna (Barbieri 1981). All’interno si trovano ancora malconci lacerti di affreschi che decoravano l’abside e il presbiterio, eseguiti da ignoto autore nel 1678 subito dopo l’intervento del 1677 sulla struttura da parte di «magistro Cristoforo Verde murar» (De Cal 1999).

Sussistono pure interessanti elementi lapidei. non apprezzabili in tutta la loro raffinatezza perché ricoperti da pesante vernice. Si tratta di manufatti usciti probabilmente dalla bottega o dalla cerchia di Tommaso da Lugano e Bernardino da Como nel corso della ristrutturazione della chiesa, seguita all’ingresso, a metà Quattrocento, dei Canonici Regolari Lateranensi, come già ricordato.

Spesso ricorre la protome leonina, a ricordo del fatto che, inizialmente, il sito era stato officiato dai Canonici Regolari di San Marco di Mantova, protome richiamata anche in capitelli di colonne, ora all’interno di una sala adibita a biblioteca dell’Ospedale e di altra affiancata a nord, e databili anch’essi al XV sec.

Sono pure pervenuti, manomessi, alcuni stalli del coro di San Bortolo che «dal 1833 [furono] trasferiti a Monte Berico [per rimpiazzare] nel nuovo coro sotto il campanile i precedenti di Pierantonio dell’Abbate, dispersi e in buona parte perduti quando, nel 1824, il coro di Lorenzo da Bologna venne abbattuto» (Dani 1965) per costruire, su progetto di Antonio Piovene, l’attuale campanile, terminato nel 1853. Del chiostro, che vien datato al 1486 e per il quale «risulterebbe ormai accettata, per le crociere e i porticati annessi ad un edificio di poco precedente, la paternità di Lorenzo da Bologna…» (Barbieri 1981), si sono salvati, ancorché oppressi da un’infelice costruzione soprastante, i bracci a sud e a est: «la sopravvivenza … non è dovuta ad una precisa volontà del Malacarne, ma solo ad una sopravvenuta [provvidenziale] mancanza di fondi…». (De Cal 1999).

Di Giorgio Ceraso da Storie Vicentine n. 8 giugno-luglio 2022


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Anni Cinquanta a Vicenza, i luoghi della memoria

Infanzia e giovinezza di una vicentina negli Anni Cinquanta e nei luoghi che sembrano oggi appartenere a un’ altra epoca, ma che sono ancora vivi nei ricordi come teatro di esperienze e conoscenze.

Il cinema Patronato

Da bambina, al cinema Patronato, cinema parrocchiale, andavo con la mia amichetta Giusi, da adolescente con la mia compagnia di amici. Ci eravamo iscritti tutti al Cineforum, che si teneva il sabato pomeriggio. Era tenuto da un sacerdote, mi pare si chiamasse don Mario, un tipo moderno, molto aperto di idee. Prima del film, ce lo presentava, alla fine gestiva il dibattito. Ammiravo molto chi interveniva, sempre i maschi a dire il vero, noi ragazze insicure ascoltavano analisi complicate. Il Cineforum era seguito soprattutto da ragazzi di sinistra proprio per le scelte che faceva don Mario. Spesso interveniva Alberto Gallo, figlio del Presidente della Corte costituzionale. Non era ancora il segretario della Fgci. Quando anch’io, qualche anno più tardi, mi iscrissi alla Fgci, presi una cotta per lui, ricambiata. Così avemmo una storia, malvista dalla madre di lui che aspirava a ben altro per suo figlio primogenito, una storia che durò quasi un anno e che troncai io, perchè Alberto parlava di matrimonio, di figli, e io mi sentivo soffocare Quando lo lasciai, lui rimase malissimo. La lettera che mi scrisse, e che ho conservato, a rileggerla e` raggelante, ma a me, allora, non importò. Ogni anno, don Mario proponeva una tematica diversa, il Terzo mondo, le lotte anticolonialiste, i problemi esistenziali e religiosi. Conobbi, così, Glauber Rocha Bergman, Pasolini, Tarkoskji, Bellicchio… e vidi film bellissimi, Il Vangelo secondo Matteo, Edipo re, Medea, La guerra di Ivan, Quando volano le cicogne, Il settimo sigillo, La Cina e` vicina, I pugni in tasca e anche il famoso La corazzata Potiomkin. Troppo progressista per la bigotta Vicenza, a don Mario il Cineforum fu tolto. Se ne aprì un altro, al cinema Odeon. Provai un anno, ma non mi piacque perchè c’era solo la visione del film, senza presentazione ne` dibattito, la differenza tra consumare e guardare un film in modo consapevole. A scuola ogni anno io organizzavo il Cineforum, molto amato dagli alunni. Si dovrebbe riprendere a aprire cineforum e a far dibattere i giovani E` un modo eccellente per educarli al gusto e allo spirito critico. Mi viene in mente la scena di “Amarcord” di Fellini in cui i ragazzi guardano un film tutti in un lettone. Una meravigliosa rappresentazione del piacere di condividere.

anni cinquanta vicenza
Celeste che vende camei in Piazza dei Signori e il Cinema Patronato

La scuola media Scamozzi

Negli anni cinquanta la scuola era classista e operava una rigida selezione sociale. Per i figli dei benestanti c’era la scuola media, cui si accedeva con l’esame di ammissione dopo gli esami di quinta, la scuola commerciale per chi pensava di fare l’impiegata, e l’avviamento professionale per chi doveva dopo tre anni, andare a svolgere un lavoro più umile. Superato l’esame di ammissione, mi ero iscritta alla media Scamozzi, anche se lontana da casa, perche “lì andava la mia amica Adriana.” Sezione E, una insegnante di Lettere, figlia di Scipio Slataper, che andava per la maggiore, ma che in me non suscitò entusiasmi. Le medie non mi entusiasmarono. Dopo cinque anni di scuola partecipata, la mia maestra faceva lezioni di tirocinio alle future maestre una volta alla settimana, le medie mi apparvero terribilmente noiose. Grandissima noia l’Epica e i lunghi esercizi di versione in prosa, terribili le lezioni di matematica, con una insegnante rossa di capelli e fredda come il ghiaccio, ridicole le lezioni di Economia domestica, nelle quali avremmo dovuto imparare a lavorare a maglia!.

Ciononostante, i miei voti erano buoni. Gli unici momenti piacevoli erano quelli dei temi e delle ore di disegno, due attività che amavo e che mi facevano andare in una sorta di trance. I miei temi alle elementari, prendevano quasi sempre dieci, erano letti a tutta la classe e alle altre sezioni e venivo anche mandata alle Magistrali, come esempio. Alle medie erano piu`”tirati” nei voti e il massimo era otto. Io ero, però, anche un po’ cialtrona. Quando ci dettero come tema ‘Un libro che mi e`piaciuto”, io inventai di sana pianta, solo per il sentito dire perche` non lo avevo letto, “Il diario di Anna Frank” e meritai un voto molto alto. Alla Scamozzi le migliori allieve, a fine anno, venivano premiate con libri dalla preside, un’algida e elegante signora dai capelli bianchi.. Io li conservo ancora, libri di Geografia, Veneto e Lombardia, e, inoltre, venivano citate sul diario scolastico della scuola. La rivalità tra me e Adriana continuava, nonostante l’amicizia e, agli esami, grazie all’italiano, io la superai. All’uscita della scuola ci aspettavano le delizie di Celeste dei caramei, frutta secca caramellata, noci, fichi, uvetta, prugne. Riuscivo a comprarmene due. C’era poi il gioco del sorteggio, se ti andava bene, Celeste te ne regalava un altro. Il giorno degli esami orali di terza media nel ricordo mi vedo in piedi davanti al comò nella camera dei miei genitori, con il libro di latino posato sul ripiano, che ripasso la favola di Fedro “Lupus et agnus”, “Il lupo e l’agnello”. “Superior stabat lupus…” . La mamma quel giorno era nervosa, probabilmente aveva litigato con il nonno Michele. Quando uscii di casa per recarmi a scuola, non mi dette un bacio e neppure mi fece gli auguri per l’esame. Ci rimasi male. Sostenni l’esame, mi chiesero della volpe e l’ uva, mi imbrogliai un pò con il verbo videor, mi fecero i complimenti per il tema che, come altre volte, avevo inventato di sana pianta. Quando uscii, pensierosa, ebbi la bella sorpresa di vedere, ad attendermi, la mamma e la mia bellissima sorella bionda, la Maurizia, in un abitino blu molto elegante che le donava moltissimo. Fui accolta con un bacio e premiata con un bel cono gelato. Uscii dalle medie con una media molto alta e tutte le insegnanti consigliarono i miei genitori di mandarmi al Liceo classico. Non si usava, a quei tempi, chiedere cosa volessero i figli, decidevano i genitori e basta. Io, infatti, avrei voluto andare al Liceo artistico ma, sfortunatamente c’era solo a Padova e, con quella scusa, i miei mi mandarono al Classico, condannandomi a cinque anni di dissociazione perchè troppo lontani erano i due mondi sociali, quello dei miei compagni tutti benestanti, c’era perfino un conte, il nipote di Guido Piovere, e il mio, figlia di un operaio magazziniere e di una casalinga. Anche l’’amicizia con Adriana al Liceo sarebbe finita, lasciandomi con l’amaro in bocca. Delle medie non mi sono rimasti ricordi particolari. Come dicevo, molta noia e la sensazione di non imparare nulla di interessante, come, invece, era avvenuto alle elementari. Solo in prima Liceo ritrovai il piacere di studiare, soprattutto grazie alla Filosofia e alla Storia dell’arte.

Di Emanuela Mariotto da Storie Vicentine n. 8 giugno-luglio 2022


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La Chiesa romanica di San Giorgio a Vicenza: una storia millenaria poco studiata

La chiesa romanica di San Giorgio costituisce uno dei più importanti luoghi di culto del medioevo vicentino giunti fino a noi. A dispetto della sua storia millenaria, tuttavia, essa non è mai stata oggetto di specifici studi storici, soffre di scarsissime citazioni bibliografiche e di una ancor più difficile reperibilità di documentazione iconografica d’epoca, e ciò probabilmente a causa delle vicende storiche a cui fu soggetta.

L’edificio sorge in una località immediatamente a sud-ovest del centro cittadino di Vicenza, in una strettoia tra il fiume Retrone e il colle di Monte Berico denominata “Gogna”. Il termine venne dagli studiosi variamente interpretato, anche riferendolo a prigioni ivi presenti in passato, ma l’etimologia sembra piuttosto portare al latino cuneus, cioè cuneo, strettoia, in relazione appunto al restringimento del percorso, limitato dal colle a sud, e dal fiume a nord. Per Gogna passava infatti, ad avvalorare l’importanza della località, una strada romana che nell’epoca classica ospitava anche, in questa zona, parte della necropoli cittadina: le murature stesse della chiesa inglobano cippi e lapidi funerarie romane, una delle quali venne acquistata, alla fine del Settecento, dal Conte Arnaldo Tornieri, erudito collezionista di antichità, che ne murò in loco una copia (oggi deturpata a causa dei bombardamenti bellici; l’originale è tuttavia conservato ai chiostri del Museo di S. Corona); un altro cippo, emerso probabilmente durante i lavori di costruzione della Casa Parrocchiale, negli anni ’60, è osservabile nell’area verde all’esterno della chiesa.

Inoltre numerosi, benché microscopici reperti fittili, vitrei e ossei sono rinvenibili, anche superficialmente, lungo il pendio tra la chiesa e la strada e nell’antistante campo sportivo. Secondo gli studi, due percorsi stradali si volgevano a meridione congiungendosi all’attuale Piazzola dei Gualdi in Vicenza. Il primo di questi si dirigeva a Lonigo per le località di Gogna e S. Agostino (il percorso sarebbe comprovato da alcuni ritrovamenti presso il Porton del Luzzo). Il secondo proveniva invece da Costozza e Longare. L’ipotesi che sul luogo di San Giorgio, posto quindi sull’importante asse romano che conduceva da Vicenza a Lonigo, fosse presente nell’antichità un tempio dedicato a Diana, è una notizia tramandata solamente da qualche scrittore vicentino, ma non è da escludersi, in quanto è comunque noto come il primo Cristianesimo impiegasse insediamenti pagani per l’erezione dei propri luoghi di culto.

Chiesa di San Giorgio
Chiesa di San Giorgio, fronte

Le prime testimonianze riferibili ad un edificio religioso cristiano in questo luogo sono costituite da alcuni elementi architettonici (in seguito reimpiegati e in parte ancora presenti nelle murature perimetrali e all’interno), e in particolare da una serie di frammenti decorativi lapidei con intagli a intrecci e matasse, tipicamente riconducibili al VII-VIII secolo, che, insieme alla dedicazione della Chiesa a San Giorgio, lasciano ipotizzare una manodopera longobarda per un primo sacello, poi parzialmente demolito per la costruzione di un edificio di maggiori dimensioni. Anche la forma stessa dell’abside, per la sua parte esterna, ha indotto alcuni studiosi a compararlo con le architetture ravennati (di cui riprenderebbe anche il coronamento laterizio con il doppio fregio a denti di sega), e a datarlo al VII secolo. Va tuttavia ricordato che la figura poligonale dell’abside richiama direttamente anche quella del sacello di S. Maria Mater Domini della vicina Basilica dei SS. Felice e Fortunato, costruzione attribuita al VI secolo, che può quindi avere influenzato i costruttori della Chiesa di San Giorgio anche oltre il secolo successivo.

Il più antico documento conosciuto che si riferisce a questa chiesa è databile invece, secondo gli studi del Mantese (Giovanni Mantese, Memorie storiche della Chiesa Vicentina, vol. II – Dal Mille al Milletrecento, Istituto S. Gaetano, Vicenza 1954), al 983, ed è costituito da un atto di privilegio con cui il Vescovo vicentino Rodolfo, nel riconoscere ai Benedettini del Monastero dei SS. Felice e Fortunato la proprietà di estesi territori nella Diocesi, restituiva loro il «vantium sancti Georgii cum capella» («… cum ecclesia», secondo altre fonti), ovverosia un terreno paludoso (vantium) con la Cappella dedicata a San Giorgio, distante appena alcune centinaia di metri dal Monastero stesso. A questo atto seguì l’insediamento di una comunità di Benedettini, probabili artefici della definitiva bonifica della zona tra il Retrone e Monte Berico. Secondo gli studi del Barbarano (Francesco Barbarano, Historia ecclesiastica di Vicenza – Libri I, II e III, Rosio, Vicenza 1649/1652), già nel 1259 presso la chiesa sarebbe stato edificato il Lazzaretto per gli appestati, ma si tratta di una datazione che non trova riscontro né nei testamenti dell’epoca, né nella documentazione relativa alle pestilenze, che non riportano il susseguirsi di eventi calamitosi di questo genere nel corso del XIII secolo. Appare più probabile che, tra il Due e il Trecento, il luogo fosse piuttosto destinato ad ospitare campi di raccolta provvisori (forse delle semplici costruzioni in legno) per fare fronte alle epidemie, e che la costruzione di un vero e proprio edificio in muratura con finalità ospedaliere risalga ai decenni intermedi del XV secolo: da un testamento del 1456 si rileva infatti come fosse desiderio del testatore lasciare una parte dei suoi beni per contribuire all’erezione dell’«hospitali Nazareth” (o come si disse in seguito, del Lazzaretto), fuori Borgo Berga, e una nota del De Mori (Giuseppe De Mori, Chiese e chiostri di Vicenza, Galla, Vicenza 1928) fa risalire, pur senza citare alcuna fonte, la costruzione del complesso al 1454.

Si ritiene tuttavia, da parte di chi scrive, che la prima vera importante ristrutturazione dell’edificio, che trasformò il sacello longobardo nel fabbricato delle dimensioni attuali, sia ascrivibile al periodo dell’insediamento (o reinsediamento) benedettino a cavallo del Millennio: ne farebbero fede le tessiture murarie presenti nella parte sinistra del prospetto settentrionale e alla base della controfacciata, dove si leggono superfici miste in pietrame e mattoni posati a spina di pesce, con una tecnica tipicamente riferibile al X-XI secolo, nonché il reimpiego di elementi decorativi longobardi, quali semplici elementi lapidei da costruzione, distribuiti in diversi punti lungo le attuali murature perimetrali: uno di essi (un frammento di ambone finemente decorato con una cornice a motivi vegetali e la porzione di una coda di pavone), casualmente rinvenuto, nel corso dei recenti lavori di restauro della chiesa, nel paramento interno della facciata a circa due metri d’altezza, è attualmente esposto in chiesa.

Risulterebbero invece da  ricondurre alla ristrutturazione Quattrocentesca le porzioni murarie in cui si riscontra un “opus incertum” alternato a tre liste sovrapposte di mattoni a intervalli regolari, secondo uno schema che richiama le murature di tipo difensivo caratteristiche di quell’epoca, tanto da far pensare che intorno alla metà del XV secolo si fosse provveduto non ad un ampliamento, bensì ad una ristrutturazione dell’edificio, forse a causa di cedimenti dovuti alla sua posizione, parzialmente in pendio ai piedi del colle.

Già alla fine del Trecento sembra comunque che la chiesa di San Giorgio fosse stata abbandonata dai Benedettini, forse proprio per lasciare spazio al nascente Lazzaretto gestito dalle autorità cittadine: una funzione che sarebbe stata svolta anche per i secoli successivi, tanto che il luogo viene rappresentato come “Lazzaretto” (costituito da due fabbricati, uno dei quali – probabilmente la chiesa – identificato come “S. Lazaro”, ai lati di una corte cintata) nella Pianta di Vicenza detta “Angelica” del 1580 (la più antica raffigurazione completa della città di Vicenza) e nelle successive mappe cittadine del Seicento e Settecento, nelle quali tuttavia non si riconoscono per nulla gli elementi architettonici della chiesa, limitandosi le incisioni, che spesso si esaurivano nella rielaborazione di edizioni precedenti, a riprodurre due semplici fabbricati accostati a “L”, con porte e finestre vagamente distribuite: chiaramente l’utilizzo del sito non rendeva necessari all’epoca particolari approfondimenti grafici.

Solo nelle mappe catastali che si sviluppano all’inizio dell’Ottocento la struttura del complesso (sempre identificato come “Lazzaretto”) trova una corretta rappresentazione, con la chiesa affiancata dal chiostro nella sua parte meridionale, e accompagnata da un edificio stretto e lungo posto dietro all’abside, perpendicolarmente alla strada (probabilmente le camerate dell’ospedale), di cui rimane oggi, unica preziosa testimonianza, il tratto inferiore della facciata verso Viale Fusinato.

Chiesa di San Giorgio
Chiesa di San Giorgio, interno

Quando non in uso con finalità sanitarie, il Lazzaretto, evidentemente per la sua disponibilità di fabbricati coperti con ampie stanza ad uso dormitorio, poteva secondo le cronache essere impiegato per gestire diverse situazioni di emergenza; ne dà testimonianza il Castellini quando riporta come nella primavera del 1616, in occasione del conflitto che oppose la Repubblica Veneta all’Austria, giunsero a Vicenza, di passaggio verso il Friuli, «700 Grigioni [truppe mercenarie svizzere] guidati dal Capitano Giacomo de Bergai, ai quali dai Vicentini fu provveduto l’alloggiamento a San Giorgio fuori delle mura, dov’è concorsa gran moltitudine di popolo, non tanto per osservare la non più veduta milizia in questi paesi, quanto per ammirare il lor vestito, e le semplici loro maniere. Stettero essi in Vicenza per tutto il mese di giugno» (Silvestro Castellini, Storia della citta di Vicenza […], Libro XVIII, p. 174).

Non è dato sapere con precisione quando il Lazzaretto, secolarizzato nel 1810, cessò questa destinazione d’uso (che nei decenni del dominio austriaco si affiancò a quella di luogo per le esecuzioni capitali), per divenire deposito comunale (ospitando, tra le altre cose, anche la “Rua”) e, infine, assumere una funzione ancora più svilente: negli anni Trenta del ’900 il complesso era infatti indicato come sede del Canile Municipale. Negli anni della seconda guerra mondiale la chiesa fu prossima, in diverse occasioni, alla completa distruzione: con una sua delibera del 19 ottobre 1941 infatti, nell’ambito di un piano di espansione residenziale in atto già da qualche anno, il Comune di Vicenza stabilì l’alienazione di alcuni immobili di proprietà pubblica, tra i quali «il vecchio lazzaretto di Gogna, con annessa chiesetta», destinato alla demolizione per la realizzazione di nuove case d’abitazione.

La vicenda che ne seguì appare quasi paradossale: richiesto dal Comune di un proprio parere e relativo nulla osta all’operazione, il Soprintendente dell’epoca, l’architetto Ferdinando Forlati, dalla sua sede di Venezia chiese a sua volta una nota informativa all’ispettore onorario competente per la città di Vicenza, il quale, consultato un libricino dell’epoca, confermò lo scarso valore del complesso, raccomandando solamente, all’atto dell’abbattimento, la conservazione di «qualche elemento decorativo». La Soprintendenza ai Monumenti dava quindi sollecitamente al Comune, già l’8 novembre, la sua autorizzazione alla demolizione della chiesetta in quanto «cosa di nessun interesse artistico». Si poteva chiudere così, con quelle poche righe, la storia millenaria di San Giorgio; senonché, per buona sorte, nella stessa giornata dell’8 novembre un’altra lettera partiva da Vicenza diretta all’ufficio dell’architetto Forlati: la firmava il sacerdote Giuseppe Lorenzon, appassionato medievalista e, all’epoca, parroco dei SS. Felice e Fortunato (incarico che mantenne per quasi mezzo secolo, dal 1920 al 1968).

Con parole piuttosto dure («Mi giunge ora notizia d’una minaccia di demolizione…»), il sacerdote rimarcava l’importanza del sito elencandone le particolarità, e suggerendone al contempo un possibile futuro impiego pastorale per la comunità di Gogna, allora in rapida espansione demografica. A padre Lorenzon va senz’altro riconosciuta la salvezza di San Giorgio. Nel trascorrere di pochi giorni, infatti, seguì un frenetico scambio di corrispondenza tra la Soprintendenza, il suo soprintendente onorario, la parrocchia di S. Felice e il Comune di Vicenza (che pur avendo ricevuto il nulla osta alla demolizione non aveva ancora, fortunatamente, provveduto alla vendita degli immobili), conclusasi per una volta con un “lieto fine”: «Riconosciamo l’involontario errore incorso a proposito della Chiesetta di San Giorgio – scriveva l’architetto Forlati al Podestà di Vicenza il 5 dicembre – e siamo lieti di quanto ci scrivete in merito alla sua conservazione per la quale la Soprintendenza interverrà a suo tempo anche con opportuni contributi».

Forlati non avrebbe però mai immaginato, nell’avanzare questo proposito, in che circostanza sarebbero stati necessari qualche anno dopo i suoi contributi. La notte del 18 marzo 1945 infatti, durante uno degli ultimi bombardamenti aerei alleati che colpirono duramente la città, il complesso, a causa della sua vicinanza alla Stazione Ferroviaria, fu ripetutamente centrato e subì la distruzione del chiostro, della copertura dell’aula e di ampie porzioni di muratura. Le poche fotografie dell’immediato dopoguerra conservate presso l’archivio della Soprintendenza di Verona sono sconfortanti: ad eccezione dell’area absidale, pressoché integra, la struttura era ridotta ad alcuni precari brandelli di murature, ampiamente lesionati, che si elevavano da un mare di macerie. Un’immensa opera di ricostruzione postbellica attendeva l’intera città, e la chiesa di S. Giorgio, perdipiù in tali condizioni, non poteva rappresentare una priorità.

Eppure già nel marzo 1946 lo stesso architetto Forlati, riprendendo le istanze di cinque anni prima, ne proponeva il completo recupero, mediante la ricostruzione delle murature e della copertura, per una spesa che venne preventivata in 2.500.000 Lire (divenute poi, al termine dei lavori, quasi 4 milioni, interamente a carico del Ministero della Pubblica Istruzione). Nell’opera di recupero, avviata nel 1947/48 e conclusa nell’arco di un biennio, era intenzione della Soprintendenza rifare il tetto con legname «vecchio», reimpiegando in particolare le travature della copertura del Duomo, in via di rifacimento nello stesso periodo; senonché esse erano già state riutilizzate in quel cantiere per la realizzazione di centine e ponteggi, tanto che a S. Giorgio si dovette porre in opera materiale nuovo, nemmeno opportunamente stagionato. Dalla Cattedrale vennero bensì recuperate le lastre in marmo bianco e rosso che attualmente costituiscono la pavimentazione della chiesa di Gogna.

Da una lettera del Forlati al Comune di Vicenza dell’ottobre 1948 si rileva altresì che la chiesa era «attorniata da altri edifici medievali che è bene non abbiano a perdere il loro carattere. Così esiste lungo la strada un muro medievale avente vecchie aperture, muro che deve venire conservato e diligentemente restaurato. Anche la casa vicina ha elementi medievali che bisogna siano pure conservati: abbiamo però constatato che parte di essa è stata ricostruita e anche innalzata. Prima di proseguire in quest’opera è bene che vengano presi accordi precisi, per evitare stonature o perdite di parti importanti della vecchia costruzione».

Tali propositi rimasero però, di fatto, vanificati dalle successive necessità. All’inizio degli anni Cinquanta la chiesa era stata finalmente, dopo centoquaranta anni, riaperta al culto, anche se solamente ad uso dei ragazzi del quartiere, per le attività della dottrina; nel 1961 la chiesa venne messa a disposizione della Parrocchia di S. Caterina, cui il Comune di Vicenza la donò insieme al fabbricato adiacente, e nel 1963 ebbe riconosciuta la dignità di chiesa parrocchiale autonoma.

Entro pochi anni, in luogo dei fabbricati preesistenti intorno alla chiesa, ormai fatiscenti ma, come si è visto, forse ancora degni di conservazione e restauro, venne eretto il nuovo edificio delle opere parrocchiali, in stile moderno. Delle antiche strutture si salvò solamente la breve cortina muraria verso Viale Fusinato, tuttora quanto mai bisognosa di interventi di consolidamento e restauro (non è tuttavia chiaro quando, e per quali ragioni, quell’edificio sia stato demolito, giacché compare, ancora apparentemente integro, nelle fotografie aeree dell’aprile 1945, mentre alla fine del 1948, come si ricava dalla lettera del Forlati, era evidentemente già scomparso). Nel 2011, a sessant’anni dai lavori di ricostruzione postbellica, diverse necessità di carattere statico e conservativo hanno imposto l’esecuzione di un nuovo cantiere di restauro che, nella valorizzazione degli elementi originali del monumento, ha restituito alla comunità un edificio di primaria importanza per la storia del medioevo vicentino.

Di Angela Blandini e Gabriele Zorzetto da Storie Vicentine n. 8 giugno-luglio 2022


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Stella Artois Draught Masters Italia, a Lonigo la gara degli spillatori

La sfida di Draught Masters Italia, il contest organizzato da Stella Artois – marchio di eccellenza AB InBev – che ha l’obiettivo di eleggere il miglior spillatore di birra in Italia del 2023, entra nel vivo della competizione. Dopo la chiusura delle iscrizioni e il termine della digital challenge, sono state annunciate le località che saranno sedi delle semifinali: Napoli, Torino, Bagnolo di Lonigo (VI) e Bologna ospiteranno la nuova fase del concorso. 

Per essere dei veri spillatori non basta solo il talento: servono anche competenze tecniche e la giusta preparazione, e i concorrenti di Stella Artois Draught Masters Italia hanno già avuto modo di dimostrarlo anche in questa terza edizione. Dopo il termine delle iscrizioni, che hanno visto la partecipazione di 499 spillatori provenienti da tutta Italia, il contest ha ufficialmente preso il via con la prima fase – aperta dal 15 marzo al 16 aprile – dedicata alla Digital Challenge. Tra questi, 120 sfidanti sono stati selezionati da una giuria di esperti, e hanno avuto accesso alla fase delle semifinali che, a differenza delle scorse edizioni, si terrà per la prima volta dal vivo. In questi ultimi tre anni, Stella Artois Draught Masters Italia ha coinvolto, con il suo programma, oltre 1500 locali.

La penultima fase di Stella Artois Draught Masters Italia sarà un’occasione unica per gli aspiranti vincitori che hanno in questo modo la possibilità di incontrarsi e condividere la passione che li accomuna e li ha spinti a prendere parte al contest, creando una sinergia mai sperimentata prima d’ora. Il tutto, ovviamente, a colpi di spillatura.

Il calendario delle semifinali di Stella Artois Draught Masters Italia 2023, che si terranno in quattro location d’onore disseminate in tutta la Penisola, è il seguente: 

  • 23 maggio: Napoli – Hotel San Francesco al Monte (C.so Vittorio Emanuele, 328, 80135)
  • 30 maggio: Torino – Cascina Fossata (Via Ala di Stura, 5, 10147)
  • 6 giugno: Bagnolo di Lonigo (VI) – La Barchessa di Villa Pisani (Via Risaie, 1/3, 36045) 
  • 13 giugno: Bologna – DumBo (Via Camillo Casarini, 19, 40131) 

Al termine delle semifinali, soltanto una rosa di 10 concorrenti arriverà al grande appuntamento finale, che avrà luogo in autunno ed eleggerà il miglior spillatore d’Italia. In palio, oltre al titolo di Draught Masters Italia Stella Artois 2023, una fornitura di birra omaggio e la “Belgian Experience” per visitare il Birrificio di Stella Artois.

Tutti gli aggiornamenti e i dettagli Draught Masters Italia Stella Artois 2023 sono disponibili sui canali social ufficiali (Facebook, Instagram) del contest.  

Stella Artois Draught Masters Italia

About AB InBev

AB InBev è la società leader mondiale della birra, quotata in borsa e con sede a Leuven, in Belgio. Sogniamo in grande per creare un futuro con più “cheers”.  Lavoriamo ogni giorno per guidare e crescere la categoria ed avere un impatto positivo nelle comunità in cui operiamo. Ci impegniamo a produrre le migliori birre – utilizzando gli ingredienti naturali più pregiati – da gustare in modo responsabile. Dalle nostre radici europee nel birrificio di Den Hoorn a Leuven, in Belgio, siamo ora un produttore geograficamente diversificato, con una presenza bilanciata nei mercati sviluppati e in quelli in via di sviluppo. Abbiamo un portfolio diversificato di oltre 500 brand, che comprende marchi globali come Bud®, Corona® e Stella Artois®; marchi multi-paese come Leffe®, Beck’s® e Hoegaarden®, nonché marchi locali. Possiamo contare sul talento di circa 169.000 dipendenti. La sede di Milano in piazza Gae Aulenti conta 240 dipendenti di 18 nazionalità diverse con un’età media di appena 35 anni, e la città è stata scelta anche come quartier generale della Business Unit Europa Centrale, un hub internazionale che opera verso più di 40 Paesi. Seguici su Twitter a @ABInBev_EU e su Linkedin https://www.linkedin.com/company/ab-inbev. 

“Il grido di Andromaca. Voci di donne contro la guerra”, presentazione del libro a Vicenza

Arrivano a Vicenza le giovani donne del Laboratorio di ricerca Aletheia Ca’ Foscari per riflettere sul presente con i grandi classici antichi. L’appuntamento è per martedì 16 maggio alle 18 nella sede della Biblioteca Bertoliana di Palazzo Cordellina (contra’ Riale 12) sul tema della violenza della guerra. E se ne parla intorno a un nuovo libro, Il grido di Andromaca. Voci di donne contro la guerra”, a cura di Alberto Camerotto, Katia Barbaresco e Valeria Melis (De Bastiani Editore, 2022), con le parole di Omero e con le voci di Andromaca e delle donne della città sotto l’assedio dei nemici: sono proprio le donne che affrontano i dolori più grandi della guerra per diventare testimonianza e parola critica.

Introducono la discussione Dino Piovan (Accademia Olimpica Vicenza) e gli interventi dedicati al significato della “voce delle donne oggi” di Anna Trevisan (giornalista) e Antonella Carullo (liceo Brocchi di Bassano).

Con le parole del mito e della poesia greca, saranno in azione Katia Barbaresco, Anna Baldo, Chiara Mingotti, Silvia Bigai, Costanza Uncini. Spiegheranno attraverso gli occhi di una donna del racconto epico della guerra di Troia, tra Andromaca, Ecuba, Cassandra, Pentesilea, Tecmessa e Nausicaa, il significato di questo nuovo libro, di cui sono le autrici, per capire e immaginare che cosa si può fare per trovare le vie della pace.

Informazioni

http://virgo.unive.it/flgreca/ClassiciContro.htm – http://virgo.unive.it/flgreca/Andromaca2023Vicenza.htm

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Fonte: Presentazione del libro “Il grido di Andromaca. Voci di donne contro la guerra” , Comune di Vicenza

Abbazia di Sant’Agostino a Vicenza: la più grande superficie medioevale affrescata di tutta la provincia

La piccola Abbazia dedicata a Sant’Agostino sorge non lontano da Vicenza, ai piedi della collina di Valmarana, nel Balsego (da Bassicum, toponimo che indica chiaramente la natura del luogo, bassa e ricca di acque). Dal Santo ha preso nome anche la località.

In questa terra attraversata dal Retrone e dal Dioma, corsi d’acqua capricciosi e soggetti ad esondazioni, fino dall’epoca longobardica-carolingia esisteva una chiesetta dedicata allora a San Desiderio. Non sappiamo quale dei santi, che la Chiesa venera con tale nome, ne fosse il titolare: forse San Desiderio vescovo di Langres, martirizzato in Gallia nei primi anni del V secolo. Il Saccello di San Desiderio con annessa abitazione fu affidato dal 1188 al 1236 ad una congregazione laica e rimase poi per motivi ignoti abbandonato.

Qui nasce una grossa discussione storica se la Badia è sorta sopra il Saccello o come sostiene lo storico vicentino Giovanni Mantese “iuxta S. Desiderium” basandosi su documenti che ancora nel 1429 nominano espressamente detto Saccello. Nel 1236 passò ai frati di S. Bartolomeo ma date le ingenti spese necessarie per il mantenimento nel 1288 venne chiesta la facoltà di inviarci alcuni laici penitenti che fronteggiassero la situazione. Nel 1319 Fra’ Giacomo di Ser Cado di Borgo San Felice, facendo professione dinnanzi al Vescovo di Vicenza della regola di S. Agostino si impegnò a restaurare la Chiesa e convento dedicandoli a Sant’Agostino: Agostiniani, Vicentini e Veronesi (tra i quali Cangrande) permisero la totale ricostruzione tra il 1322 e il 1357, in tale anno venne concluso anche il Chiostro, dello stesso anno probabilmente gli affreschi interni.

Abbazia di Sant'Agostino Vicenza
Abbazia di Sant’Agostino Vicenza

Nel 1399 la Badia fu contesa tra l’ordine di San Giovanni di Gerusalemme e l’Episcopio Vicentino, nel frattempo gli Agostiniani non c’erano più e il vescovo affidò il complesso al riformatore Bartolomeo da Roma; nel 1401 era priore del monastero Gabriele Condulmer (poi noto come Papa Eugenio IV) che cedette poi il beneficio a Lorenzo Giustiniani, altro grande riformatore, che si trasferì con i dodici canonici secolari di San Lorenzo in Alga, qui il Santo compose le sue opere mistiche si dice dinnanzi al Crocifisso, e l’ordine continuò ad operare fino al suo scioglimento nel 1668.

Di nuovo il complesso subisce un grosso abbandono, acquistato dal patrizio veneziano Antonio Pasta nel 1671 per farne un patronato laico, dopo grosse diatribe con l’Abate di san Felice risolta con una convenzione del 1718 che mal venne rispettata fino al 1786 quando fu cessata la proprietà del Pasta. Nel 1899 viene chiusa per ragioni di sicurezza. Tra il 1900 e il 1905 su iniziativa di Valentina Zamboni e del Notaio Giacomo Bedin in ricordo di Tiziana come commemorato da una targa nel chiostro, si provvede ad un restauro generale della Chiesa. Il 13 settembre 1925 è eretta Parrocchia. Il 1 settembre 1935 Sant’Agostino viene affidata al parroco Don Federico Mistrorigo, che compie grandi opere di ripristino, togliendo le sovrastrutture accumulatesi e mettendo alla luce le decorazioni ad affresco, rendendo l’Abbazia la più grande superficie medioevale affrescata di tutta la provincia di Vicenza.

Questo luogo è stato fonte di ispirazione per le opere mistiche di San Lorenzo Giustiniani, l’accademico Padre Meersseman o.p. che tra le varie opere scrive un articolo sui penitenti rurali comunitari della valle di S. Agostino (sec. XI); l’Abbazia è oggetto anche di molti componimenti del poeta Adolfo Giuriato. La Chiesa oggi è inserita nell’Unità Pastorale di Sant’Agostino, Sant’Antonio e San Giorgio in Gogna è sede dell’Ordine Equestre dei Cavalieri del Santo Sepolcro e sede di un Centro Studi Medioevale.

Panoramica del complesso

Abbazia di Sant'Agostino Vicenza interno
Abbazia di Sant’Agostino Vicenza interno

La facciata nella parte inferiore della muratura è a conci di pietra dei Colli Berici, probabili avanzi del primitivo saccello di S. Desiderio, sormontati da strati di materiale rozzo e mattoni, le fondamenta di un altro muro perimetrale sono stati trovati all’interno durante i lavori di pavimentazione svolti attorno agli anni ‘50, l’ubicazione di questo muro è ricordata da un segno appositamente tracciato sull’intonaco, tra la seconda e la terza finestra del lato a mezzogiorno. La struttura a capanna si corona di archetti ciechi, ritmati da due lesene che individuano una fascia centrale, in corrispondenza della porta, sopra il rosone con vetri rotondi legati a piombo.

Sull’architrave della porta sta incista in caratteri gotici la storia della costruzione dal 1322 al 1357, nelle tre nicchie superiori dovevano esserci degli affreschi di cui ora rimangono solo sbiaditissime tracce. Dagli angoli si protendevano in avanti due muraglie, a recingere il sagrato della chiesa, usato anticamente come cimitero e pavimentato in trachite nel 1941-42. Avanzi di mura si notano ancora vicino alla parte inferiore della lesena angolare destra, sulla sinistra rimangono delle travi che reggevano un portico, il quale doveva essere simile a quello opposto. L’interno dell’Abbazia si presenta a navata unica rettangolare con soffitto a capriate scoperte, le vaste chiari pareti spezzano solo nel fondo la loro continuità, per aprirsi in tre cappelle quadrangolari non absidate.

Al vano centrale più ampio e quadrato, in funzione di presbiterio, se ne affiancano due minori rettangolari, tutte e tre le cappelle sono ricoperte da volta a crociera ed inquadrate da archi a sesto acuto e finestre gotiche sormontate nelle laterali da un oculo. Partendo dall’ingresso principale, troviamo a destra una fonte battesimale del ‘600 con un Battista opera di Neri Pozza originariamente costruito per un altro battistero che era posto dal lato opposto ma non venne portato a termine da Don Federico Mistrorigo; Accanto alla fonte battesimale due formelle marmoree della seconda metà del ‘500 probabili ex voto che rappresentano Natività ed Annunciazione, in una nicchia immediatamente successiva c’è un iscrizione che narra la storia dell’Abbazia dove è stata collocata una statua della Madonna col bambino che prima era posta nel chiostro, segue una fascia affrescata, probabilmente opera di Tommaso da Modena ed altri a generiche maestranze romagnole del ‘300. La prima porta a destra si apre sul chiostro, accanto alla porta si nota una scultura in sasso del ‘400 con l’Eterno Padre benedicente.

La Sacrestia è un piccolo ambiente, cui si accede dalla porta in fondo al lato destro della chiesa; tra le finestre sta adossato un altare settecentesco, alcune foto del restauro della chiesa e due tele di maniera bassanesca. Infondo alla navata, entrati nella cappella destra troviamo un altare settecentesco che dopo il restauro del 1941\42 conserva solo mensa e tabernacolo. La parete a mezzogiorno è tutta decorata ad affresco; nella fascia in alto, a destra, quattro figure di Santi, sotto la Madonna in trono tra il Battista e San Giacomo del XIV secolo; a sinistra Cristo sulla croce, non in atteggiamento di sofferenza, ma di regalità trionfante, indossa una tunica e sotto ai piedi stanno calice e patena simbolo di ressurrezione, un’iconografia suggerita dalla famosa immagine del “Volto del Santo” di Lucca, voluta nella chiesa di Sant’Agostino con ogni probabilità dai successori di Mastino II della Scala signore di Lucca.

Nel presbiterio domina, sull’altare il Polittico eseguito espressamente per la chiesa da Battista di Vicenza nel 1404 su commissione di Ludovico Chiericati per celebrare l’unione di Vicenza alla Serenissima decisa quell’anno. L’autore che attraverso gli influssi emiliani risente del grande insegnamento giottesco rimane attardato in un prezioso goticismo. Il Polittico è diviso in ventiquattro scomparti con pitture disposte su tre ordini.

Al centro sta la Madonna col Bambino. Da sinistra, sullo stesso piano, entro nicchie gotiche e compiti su fondo oro, si succedono in piedi diversi Santi: Agnese, Girolamo, Paolo, Caterina d’Alessandria. Al centro dell’ordine superiore un trittico con l’Ecce Homo e ai lati Maria e S. Maria Maddalena, sopra il Padre. Ai lati da sinistra sono S. Quirico, gli evangelisti e S. Giorgio. Sul Basamento al centro, S. Giovanni Battista con ai lati S. Fermo, S. Giovanni Crisostomo, S. Gregorio Papa, S. Cipriano, S. Ambrogio, S. Rustico.

Risulta così evidenziata e preminente la fascia centrale verticale incentrata sul Cristo: dalla scritta in basso “Ecco l’Agnello di Dio”. Il Polittico poggia su un basamento in pietra tenera ed ha davanti una semplice mensa donata dalla Cave Dalle Ore e lavorata dallo scultore Zanetti. Il Polittico fu oggetto di traslochi e deperimento, il 25 ottobre 1946 il Consiglio Comunale di Vicenza lo legò perpetuamente alla Chiesa di Sant’Agostino. L’opera fu oggetto di furto e trafugazioni, solo il 31 agosto 1974 fu messo sotto allarme.

La volta del presbiterio è affrescata, e qui si trova il complesso decorativo più importante della Chiesa: nelle vele stanno i quattro evangelisti alternati a quattro dottori della Chiesa (adiacenti all’arco d’ingresso e proseguendo in senso antiorario, osserviamo: il Leone di S. Marco e l’Angelo di S. Matteo. S. Agostino e S. Ambrogio, il bue di S. Luca e l’aquila di S. Giovanni, S. Gregorio Magno e S. Girolamo) secondo l’iconografia emiliana guardano alla Gloria consigliati da angeli e dalle virtù teologali e cardinali, nella chiave di volta l’Eterno Padre in gloria; nelle lunette laterali scene evangeliche: sulla parete nord, Annunciazione, Nascita di Cristo, Adorazione dei Magi; sulla parete Sud, altre quattro scene della vita di Cristo, l’Ultima Cena, Lavanda dei Piatti, Cristo nell’orto degli ulivi e la cattura di Cristo. La lunetta sopra all’altare presenta la Crocifissione sovrapposta all’Ascensione di Cristo.

Dietro l’altare, nella parete tra le finestre a sinistra la Messa, a destra il Sacrificio dell’Antica Legge, sotto una pietà. Nel pilastro di destra è presente un affresco di S. Agostino e a sinistra Madonna con il Bambino e S. Caterina Martire. Completa la sistemazione del presbiterio due panconi seicenteschi. A sinistra del presbiterio, si trova la Cappella della Madonna, adornata di un altare seicentesco, guardando alla parete sinistra si trova un organo acquistato negli anni ‘90 a trasmissione meccanica del 1830.

Sopra la porta che da accesso al campanile, un orologio con quadrante quattrocentesco; la parte centrale della parete reca affreschi votivi entro una squadratura regolare di cornici; le fasce sono interrotte dalla gigantesca figura di San Cristoforo, ora mutila inferiormente ma che doveva arrivare al pavimento. In due riquadri della fascia superiore c’è una piccola figura inginocchiata identificata con Dante. Addossato alla parete un crocifisso ligneo del’ 400 dinnanzi al quale pregava San Lorenzo Giustiniani e scelto tra i vari crocifissi vicentini in occasione della visita di Papa Giovanni Paolo II. A sinistra degli affreschi è presente un sarcofago senza epigrafe.

Il Chiostro ha accesso dalla porta sulla parete destra, sui ruderi dell’antico convento, nel 1905 venne costruito un edificio scolastico, nel 1951 seguendo il colonnato venne ripristinato il portico e posto al centro una vera da pozzo dedicato alla memoria dei caduti di guerra; recentemente è stata posta una statua di Sant’Agostino opera dello scultore Decembrini, sotto al porticato è presente una nicchia con le vecchie campane la maggiore delle campane reca la data 1462 ed un’iscrizione gotica invitante alla preghiera, l’altra è pregevole fonditura di Francesco De Maria sulla sinistra il monumento a don Federico Mistrorigo, opera di Mirko Vucetich collocato nel 1955.

Il Campanile contemporaneo al rifacimento trecentesco con pareti in cotto rosso innervato da due lesene angolari e da un’altra che corre al centro. Una fascia di archetti ciechi spezza in due lo sviluppo in altezza. Agili bifore si aprono su tutti i lati. Tre nuove campane volute dall’allora parroco Don Giuseppe Baggio formano un concerto di do diesis maggiore, una vuole ricordare i defunti della parrocchia, un’altra i caduti e dispersi delle ultime due guerre mondiali, la terza il restauro della Badia e il ritorno del Polittico.

Di Agata Keran da Storie Vicentine n. 8 giugno-luglio 2022


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Alessandro Maganza, a Vicenza i capolavori del pittore vicentino

Alessandro Maganza ebbe il primato in campo artistico nella città di Vicenza a partire dalla seconda metà del Cinquecento, in pieno clima controriformista e di pieno rinnovamento della chiesa cattolica.

All’interno della sua fiorente bottega, Alessandro operò per i nuovi cantieri religiosi della città di Vicenza caratterizzati dal pieno fervore edilizio in concomitanza con le nuove prescrizioni dell’arte sacra che doveva apparire chiara e persuasiva affinché il popolo fosse in grado di comprendere sia i profondi misteri della passione di Cristo che le vite dei santi martiri, costituendo fondamentalmente un modello di insegnamento etico per tutti i fedeli.

Una pittura estremamente chiara ed edulcorata in cui prevaleva decisamente una composizione calibrata e serena ma nello stesso tempo priva di tutte le artificiosità e ampollosità tipiche dell’arte manierista fiorentina.

Tra la fine del Cinquecento e gli inizi del Seicento Vicenza divenne un importante cantiere architettonico in cui i nuovi edifici religiosi compresi oratori e confraternite modificarono profondamente il volto della città: per citarne alcuni, vennero fondate le chiese di San Valentino (1584), San Filippo e Giacomo (inizi del 600’) e l’oratorio del Gonfalone (1599).

Alessandro Maganza si distinse in città per la grande mole di pale d’altare e di cicli pittorici di una grande forza espressiva ed innovativa che durò fino alla prima metà del Seicento per lasciare il posto al pittore più aggiornato del momento cioè Francesco Maffei e subito dopo al grande Giulio Carpioni, tra i maggiori protagonisti del Barocco vicentino. Durante la Controriforma l’opera di Alessandro Maganza divenne un punto di riferimento per l’arte sacra in città e si può parlare anche di un rinnovamento dell’iconografia religiosa dopo la fase rinascimentale in cui si guardava alle novità di Giovanni Bellini e di Veronese.

Ma la pittura di Alessandro, altresì, si carica di una certa forza e di un evidente pathos e drammaticità che la pittura vicentina non aveva mai conosciuto prima d’ora: le figure appaiono possenti e monumentali e in modo particolare i gesti diventano evidenti e concitati; non si dovrebbe parlare solamente di un artista minore, il quale ha attinto in modo poco originale da numerose fonti artistiche quali Paolo Veronese, Palma il Giovane e Tintoretto ma a mio avviso il vero Alessandro Maganza, svincolato dai modi ripetitivi e retorici della bottega, è abbastanza riconoscibile per la forza espressiva resa evidente nelle opere di soggetto sacro di notevole impostazione sia nel modellato che nel forte chiaroscuro con la finalità di enfatizzare il pathos nella scena religiosa.

Sicuramente il contributo maggiore di questo artista lo abbiamo nel cantiere del Duomo, nella chiesa di Santa Corona (cappella del Rosario), nell’oratorio del Gonfalone e in San Domenico. Addirittura un suo dipinto lo possiamo ammirare presso la Galleria Palatina a Firenze. Tuttavia, troviamo i suoi numerosi dipinti nelle varie chiese di Vicenza e di Padova e persino a Palazzo Chiericati.

Alessandro nacque a Vicenza nel quartiere di San Pietro nel 1548. La madre era Thia Dal Bianco. Dopo un primo apprendistato presso la bottega paterna, Alessandro riceve l’insegnamento dal pittore locale Giovanni Antonio Fasolo, allievo probabilmente di Paolo Veronese. Nel 1572 si sposò ed ebbe 5 figli : quattro maschi (tutti pittori) e una femmina. Successivamente, Alessandro si trasferì a Venezia, su consiglio dello scultore Alessandro Vittoria, dove si trattenne fino al 1576.

Il suo linguaggio pittorico progredì decisamente dopo il soggiorno presso la città lagunare nella quale i numerosi stimoli artistici e culturali, tra i quali la visione diretta della pittura del Tintoretto e soprattutto della maniera aggiornata di Palma il Giovane, poterono provocare in lui numerose suggestioni e stimoli fino a farlo maturare definitivamente. Una volta tornato a Vicenza, sollecitato dagli esponenti dell’Accademia Olimpica, egli diresse per quasi mezzo secolo una fortunatissima bottega con l’ausilio dei suoi quattro figli maschi dando vita ad una vera azienda familiare che dispensava pale d’altare non soltanto nel territorio vicentino ma anche in centri più lontani del Veneto e della Lombardia.

I biografi di Alessandro Maganza, cioè il Ridolfi e il Boschini, motivarono il particolare successo della bottega maganzesca, che risiedeva innanzitutto nella mancanza di una concorrenza diretta oltre che nell’adozione di un linguaggio chiaro e perfettamente aderente ai dettami della Controriforma.

Alessandro Maganza
Opere di Alessandro Maganza

La prima opera nota di Alessandro è la Madonna con il Bambino e i quattro Evangelisti del Santuario di Monte Berico, realizzata nel 1580: la pala, che riprende l’impostazione compositiva di un’opera dello Zelotti a San Rocco, venne commissionata dal Collegio dei Notai di Vicenza; inizialmente ubicata all’interno del santuario mariano, ora si trova nel refettorio-pinacoteca di Monte Berico, all’interno del quale si può ammirare anche il Convito di San Gregorio Magno di Paolo Veronese. Originariamente il Maganza firmava nel 1579 un contratto con il Collegio dei Notai per una pala che raffigurava i quattro evangelisti, lo Spirito Santo e la Madonna con il Cristo morto in braccio e figure angeliche ma Alessandro si discostò leggermente dalla committenza apportando alcune modifiche all’idea iniziale.

L’iscrizione sull’altare ancora presente in loco documenta che l’opera è stata realizzata per ringraziare la Vergine dopo aver liberato Vicenza dalla peste del 1577-1578. I santi Marco e Luca sono i patroni dei notai, il che spiega la loro presenza nella pala. Il fulcro della composizione corrisponde al volto santo di Maria, al centro del dipinto, dove convergono le linee prospettiche che allargano illusionisticamente lo spazio creando una notevole profondità in cui le figure però sono inserite in pose lambiccate e contorte, uno stile figurativo che è debitore del Manierismo pittorico di matrice fiorentina. La luce sovrannaturale fa risaltare le stoffe e i mantelli degli evangelisti trasfigurando l’ambientazione sacra che appare ieratica e senza una consistenza terrena; inoltre, i quattro evangelisti sono abbigliati come dei filosofi dell’antichità non diversamente da quello che si può ammirare entrando nelle chiese paleocristiane di Roma.

Nel 1584 il Maganza progettò la piccola chiesa vicentina di San Valentino, una grande opportunità per Alessandro di dimostrare anche le sue doti di architetto. Secondo lo studioso Franco Barbieri, l’architettura della chiesa, annessa in origine ad un ospedale ora scomparso, venne progettata proprio da Alessandro Maganza, autore anche degli affreschi nella fascia superiore della facciata raffiguranti San Valentino e la Pietà, entrambi del 1584.

Carlo Ridolfi nelle sue Maraviglie dell’Arte del 1648 parla esplicitamente degli affreschi della facciata di non eccelsa fattura e ascritti ad Alessandro Maganza mentre Marco Boschini loda oltre modo sia le pitture ad affresco della facciata che la pala di San Valentino che risana gli infermi,un olio su tela del 1585, attualmente esposta all’interno della Basilica dei SS. Felice e Fortunato. A proposito della pala di San Valentino, così la descrive Marco Boschini: «La tavola dell’altare maggiore contiene la B.V. col Bambino sopra le nubi, e à basso S.Valentino, con una quantità d’Infermi, che lo pregano di salute: huomini, donne e Bambini, opera delle singolari di Alessandro Maganza».

Edoardo Arslan, nel suo volume delle chiese di Vicenza, vi riconosce una delle migliori fatiche di Alessandro visibili a Vicenza, nonché un linguaggio figurativo molto vicino a Jacopo Tintoretto; Franco Barbieri giudica la pala di San Valentino un’opera animata da un soffio di commossa e grandiosa oratoria. Tuttavia , il dipinto pur risentendo dello stile di Tintoretto il Miracolo di Sant’Agostino del 1550, mostra una sua originalità compositiva ravvisabile in modo particolare nelle figure plastiche e vigorose degli infermi nonché nella resa spaziale messa in evidenza dal profondo pronao che taglia trasversalmente la fascia mediana del dipinto unendosi all’imponente figura di San Valentino che porta la mano sinistra sul petto mentre rivolge il braccio destro verso gli infermi.

I colori sono smaglianti e la luminosità diffusa, che mette in risalto le stoffe degli abiti dei personaggi, è memore della lezione di Paolo Veronese a cui guarderà spesso Alessandro Maganza.

In alto, si affaccia la Vergine Maria con in braccio Gesù Bambino, scosso quest’ultimo da un anelito di vitalità.

La diagonale disegnata dal basamento su cui poggiano le colonne (plinti) suddivide lo spazio in due settori, mettendo in evidenza la realtà terrena in primo piano e la trascendenza nelle sfere più alte: si spalancano le porte del Paradiso e domina una visione sovrannaturale che dona speranza e riscatto ai poveri derelitti presenti nel margine inferiore del dipinto.

Di Francesco Caracciolo da Storie Vicentine n. 7 marzo-aprile 2022


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