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Fedele Lampertico, un grande vicentino da rivalutare

Strano davvero il destino di Fedele Lampertico. Nato a Vicenza nel 1833, profuse il suo impegno nelle più importanti istituzioni culturali, economiche e sociali del tempo e, quale uomo politico, ricoprì, fin da giovanissimo e per moltissimi anni, le cariche di consigliere comunale e di consigliere e presidente della provincia di Vicenza, nonché di deputato e senatore del Regno dal 1873 al 1906, anno della morte.

Divenne presto un «personaggio di carattere europeo, interno al dibattito scientifico e politico della seconda metà del XIX secolo fino agli albori dell’età giolittiana» (R. Martucci, 2011), circondato da fama e stima universalmente riconosciutegli.

Ciononostante, egli è stato sostanzialmente «marginalizzato dalla storiografia italiana» (ibidem), e dimenticato anche nella sua stessa patria. Spesso, infatti, la manzoniana domanda Fedele Lampertico: chi era costui? echeggia davanti al monumento in suo onore, eretto in piazza Matteotti e inaugurato il 23 settembre del 1924.

Eppure Vicenza gli deve molto: fondamentale il suo contributo nella fondazione della Società Generale di Mutuo Soccorso e della Banca Popolare di Vicenza, così come si adoperò fattivamente a favore della Scuola industriale, dell’Istituto tecnico, dell’Accademia Olimpica e di numerosissime altre istituzioni, anche benefiche, che sarebbe noioso elencare. Nutrita la sua bibliografia, ricca di 251 pubblicazioni, che abbracciano i più disparati argomenti, tra i quali saggi di storia e cultura locale.

Senza contare i ben 145 interventi e relazioni parlamentari. Una pubblicazione, promossa dagli Amici dei Monumenti in occasione del restauro del monumento, affidato all’Engim Veneto Professioni del Restauro di Vicenza e finanziato dalla generosità dei Lions del Club Vicenza Host e della Fondazione Di Club Lions Distretto 108 TA–1 ONLUS, tenterà di rivalutare – anche sulla scorta di documenti tratti dall’archivio privato della famiglia e di testimonianze dell’epoca – il profilo di statista, economista e oratore di questo personaggio, spesso ristretto entro giudizi stereotipati, che non fanno giustizia della sua lungimiranza politica, anticipatrice di fatti verificatisi decenni più tardi, e nemmeno della sua visione economica, fondata su principi e valori che proprio in questi anni si stanno riscoprendo.

Un’occasione per indagare pure l’uomo privato, che confessa nei diari la fragilità del suo essere, ma dai quali traspaiono tutta la sua integrità morale e il suo retto operare in ogni manifestazione della vita.

Di Giorgio Ceraso da Storie Vicentine n. 11 novembre-dicembre 2022


In uscita il numero di Maggio 2023
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Storie di vita a Villa Valmarana Morosini in Altavilla

Probabilmente con il consenso della madre Annina, che ha quarantasei anni ed è nel pieno del suo fulgore, nel 1910, la giovanissima Morosina Morosini, che ha ereditato Villa Valmarana dal padre Michele, vende le proprietà in Altavilla a Giacomo Roan, Carlo Pellegrini Malfatti e Agostino Muttoni proprietari dei mulini a Ponte Pusterla a Vicenza.

Annina Morosini

Questo avviene in giugno e già in agosto la villa è acquistata da Aristide Emiliani, piemontese, direttore della Banca Popolare di Vicenza. In quegli anni, che adesso paiono beati, Piave e Brenta non erano fiumi, almeno all’interno della villa. Nei racconti del nonno, al tempo della mia prima infanzia, Piave e Brenta erano due pastori tedeschi. Nel 1910 nonno Ettore viveva, come custode- maggiordomo, in villa Valmarana-Morosini nelle stanze al pianterreno e al piano primo sotto l’emiciclo del portico a ovest. Allora aveva ventinove anni, nonna Teresa d’anni ne contava ventisette. Di lì a poco avrebbe cominciato ad attendere la nascita del primo figlio Arrigo. Negli stessi giorni di quell’anno 1911 nasceva nelle stanze nobili della villa, la figlia di Aristide Emiliani, Rina.

Due anni dopo nasceva la sorella di Arrigo, Elvia. Ettore aveva capelli neri, lisci, lunghi, scriminatura a destra. Di solito portava un vestito di grisaglia e camicia bianca a righe col colletto tenuto chiuso da uno spillone, cravatta larga, nera. Teresa teneva corti i capelli castani ricci, orecchini verdi, una corta collanina d’oro con medaglietta, il vestito nero lungo appena aperto sul collo. I primi due figli nascono nelle camere al piano primo che hanno finestre aperte a sud sotto le ariose arcate del portico e verso la collina della Rocca a nord. Aristide Emiliani, nuovo proprietario, aveva riattata la villa e lussuosamente ripristinata per un periodo di felicità che coincide, appunto, con la sua breve presenza.

Questa breve felicità inizia con i primi giorni di agosto del 1910 e durerà solo qualche anno. Voglio pensare che le stanze di servizio fossero ancora arredate con i mobili che sono elencati nell’antico inventario del 1776. In particolare la cucina, con i suoi attrezzi e utensili che adesso paiono romanticherie: stagnola piccola, caldiera grande, secchi di rame, padelle di rame, spiedo di ferro per arrosti, cavedoni e catene da fuoco, gradelle, lumi, mastello dell’acqua, tre careghe de salgaro, cogoma grande, mortaro de bronzo con sua mazza, candelieri de otton e altro ancora.

Teresa, nel poco tempo libero, siede sotto il portico col riflesso del sole sul viso incorniciato dai capelli castani: cuce e ricorda di quando, ragazza, era infermiera all’ospedale di Padova. Di sera,Ettore andava a trovarla, nella casa di contrà Ponticello, in bicicletta, aprendo al massimo il rubinetto del fanale a carburo ch’era la novità del tempo. A lei sembrava arrivasse un sole notturno. Teresa lavora a maglia e attende alla cucina, mentre i figli giocano lungo i vialetti del grande giardino che si apre davanti alla villa, con i cani Piave e Brenta più grandi di loro. Corrono beati attorno ai due pozzi ornamentali tra i rododendri e il rosso spino. La padroncina Rina, chiamata Rinetta, è loro campagna di giochi.

Ettore si divide tra le cure della villa e quelle dell’oratorio Morosini a Tavernelle. A volte aiuta i suoi fratelli a coltivare le poche pertiche di terra alle Boj appena fuori del paese dover inizia la Perara. In fondo al giardino del palazzo l’alto muro di sasso e mattoni si apre con un cancello che dà sul barco immenso che finisce laggiù verso il Cul del Mastelo e il torrente Riello.

Si avverte il riposo inesauribile e apparente della campagna che chiude sull’impennata della collina. L’ oratorio, luogo di preghiera della villa, è situato sul lato ovest dell’emiciclo sotto il portico, estremo spazio per il raccoglimento e la preghiera davanti a dispensatori di consolazione. L’altare è ricco di movimenti di pietra di Vicenza con castoni marmorei e poggia su una lavorata predella di marmo rosso di Verona.

Al sommo della pala figurano due visi d’angelo. In alto, sulle parti curve che si guardano, si adagiano due angeli con le ali aperte. Due teste d’angelo anche ai lati, tutti dal sorriso triste. Su massicci piedistalli poggiano le statue di San Francesco e di Sant’Agnese. Nella pala al centro dell’altare, Gesù è raffigurato seduto su un sedile di pietra, alle sue spalle un albero frondoso esce da un cespuglio fiorito. Più in basso s’intravede il lago di Tiberiade coperto da un cielo di nuvole con poco azzurro. Gesù ha i capelli castani lunghi, divisi nel mezzo, la barba fluente.

E’ vestito con un mantello celeste su una premonitrice tunica rossa.  “Lasciate che i parvoli vengano a Me”, è la scritta esatta riportata in lettere di bronzo sul paliotto di marmo. Arrigo e Rinetta, spiano dalla porta dell’oratorio. Teresa è assorta in preghiera, fra poco, in cucina, accenderà il camino. Giocano ancora nel crepuscolo dorato mentre il sole cala dietro i castelli di Giulietta e Romeo. Rinetta sale di corsa le scale che dall’emiciclo salgono al piano nobile. Arrigo non dovrebbe farlo, è solo il figlio del custode, ma la segue.

villa Valmarana Morosini Altavilla
villa Valmarana Morosini negli Anni ’20

Passano le quattro stanze principali arredate con mobili antichi. Tappeti orientali coprono la veneziana dei pavimenti, quadri alle pareti, statue, argenterie. Nell’ultima stanza si trovano in un salotto studio con una grande scrivania e poltrone di cuoio consunto. Attraversano di corsa il gran salone centrale indifferenti alle figure allegoriche dipinte in giallo sulle alte pareti. Via, via di corsa. Non c’è tempo per ammirare la Pittura, la Giustizia, l’Architettura, la Musica, la Poesia, L’Astronomia.

Corrono davanti alle vetrate che danno sul giardino sfiorando appena nella corsa lo stemma gentilizio disegnato in mosaico sul pavimento. Corrono e s’immergono nel mondo fatato dell’ala a mattina della villa arredata all’orientale con mobili di bambù. Non si sono accorti nemmeno dei putti sorridenti, delle aquile gigantesche, dei trionfi di fiori in gesso al sommo delle porte. Qui passa sola le sue giornate la giovanissima moglie di Aristide. Attraversare il salone delle feste e passare dall’ala a tramontana all’ala a mattina è come attraversare l’oceano o avere percorso per intero la via della seta assieme a Marco Polo.

Qui ogni cosa ricorda l’oriente: gli arredi di bambù e giunco, i mobili laccati, le cineserie, i tappeti colorati, i tendaggi, il profumo d’incenso che satura l’aria. Come un fantasma, la Signora trascorre le stanze vestita con lunghi abiti di seta stampata, isolata nel suo mondo che si ferma lì, contro le pareti, contro i vetri, contro i suoi pensieri mai del tutto liberati in parole che giustifichino il suo modello di vita.

La Signora ritornerà ad Altavilla quarant’anni dopo per rivivere ricordi lasciati sbadatamente qui. Ritorna avvolta in un gran scialle viola, misteriosa ancora. Ettore la accompagna, gli sembra per un poco di avere ancora trent’anni, gli occhi velati appena di lacrime. La carrozza del padrone, che parte per Venezia, è già pronta sotto la barchessa.

Ettore attacca al timone i quattro cavalli migliori, apre il massiccio portone. I cavalli per il cambio sono già a Mestrino, sulla strada per Padova. Li ha avviati che annottava ancora. Piave e Brenta rincorrono abbaiando la carrozza fin dove finisce la mura che cinge il brolo della Rocca, poi tornano lentamente indietro.

Ettore li aspetta tenendo aperta la piccola porta al centro del portone. Davanti alla villa, fino alla strada Postumia per Vicenza, non c’è che campagna coltivata. Le campane della chiesa di Sant’Urbano suonano l’Angelus del mattino. Teresa, sulla soglia della cucina, si fa il segno della croce.

Di Giorgio Rigotto da Storie Vicentine n. 11 novembre-dicembre 2022


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Luminous Terrain, mostra collettiva alla galleria di Arzignano a cura di Atipografia

Atipografia giunge alla sua sesta esposizione e presenta Luminous Terrain, mostra collettiva delle giovani artiste Yulia Iosilzon (Israele, 1992), Grace Mattingly (Chicago, USA, 1991) e Guendalina Cerruti (Milano, 1992). Da sabato 27 maggio a giovedì 27 luglio 2023, negli spazi della galleria ad Arzignano , la mostra affianca le opere delle tre artiste, trovando un minimo comune denominatore, sia estetico che concettuale, nel mondo fiabesco e fantastico, presente nelle poetiche di Iosilzon, Mattingly e Cerruti.

Le opere presentate dialogano tra loro nello spazio della galleria, attraverso alcune tematiche trattate che le artiste condividono e che affrontano ciascuna con il proprio linguaggio: immagini legate al mondo delle fiabe, il fantastico, l’incanto, l’infanzia, l’invenzione di storie e quindi la finzione.

Puntello in polietilene traslucido, bottoni a pressione in plastica
Allo stesso momento, la mostra vuole allargare lo sguardo dell’osservatore portando la narrazione oltre l’aspetto puramente fiabesco rappresentato nelle opere, conferendo alle singole ricerche individuali delle artiste un respiro interpretativo e visionario più ampio. Il grado immaginativo presente nelle opere riesce a ricondurre il visitatore a esperienze vissute nella “realtà”?

Le installazioni di Guendalina Cerruti rappresentano monologhi interiori, microuniversi carichi di sentimento e sarcasmo, situati tra realtà, rappresentazione e immaginazione. La soggettività dell’artista e la cultura popolare si fondono, restituendo una narrazione profondamente personale, espressa attraverso un’estetica enigmatica, in cui i soggetti esprimono un malessere esistenziale e sociale, prodotto della società contemporanea legata al consumismo e a stili di vita glamour.

I dipinti di Grace Mattingly sono luminosi e giocosi, popolati da figure femminili e di genere neutro che si mescolano ad animali e creature in un universo fantastico. Le opere emanano calore e intimità attraverso una palette luminosa, che attira l’attenzione, in scala naturale. L’artista riflette sui temi del genere e della sessualità, del gioco e dell’improvvisazione, della fantasia e dell’inconscio.

Yulia Iosilzon si ispira alle illustrazioni per bambini, alla moda e al teatro per proporre narrazioni frammentarie in opere di grandi dimensioni. La leggibilità iniziale del suo lavoro è messa in discussione dall’uso persistente di tecniche che interrompono l’immagine, rompendo le precedenti impressioni che si hanno dell’opera nella sua pienezza visiva. L’artista, per la creazione dei suoi scenari, utilizza scene di vita quotidiana per poi ricorrere al burlesco, al grottesco, all’ironia e all’umorismo.

La mostra è accompagnata da un catalogo e da un testo curatoriale di Irene Sofia Comi.

Franco Barbieri: un commosso ricordo di un apprezzato insegnante vicentino

Il ricordo di Franco Barbieri e dei suoi appassionati insegnamenti è più vivo che mai. L’ho apprezzato da insegnante insieme con i compagni di classe, negli ultimi due anni al liceo classico Pigafetta (1957 -’59).

In seguito in lui ho sempre trovato un amico affettuoso e generoso che non nascondeva la soddisfazione di aver ritrovato un ex allievo liceale da aiutare nel difficile ruolo di amministratore.

Con lui, infatti, docente universitario alle soglie della pensione, mi sono ritrovato nei primi anni ‘90 da assessore alla Cultura nella giunta Variati (1991-1995), a gestire anche i Musei Civici, nel vuoto creato dalle dimissioni di Fernando Rigon. Fu la consulenza artistica del prof. Barbieri a consentire una corretta gestione del patrimonio artistico museale: suo fu il completamento della ricognizione delle opere del problematico lascito Neri Pozza – Lea Quaretti, interrotta con il venire meno della Fondazione Ragghianti di Lucca.

Determinante la sua qualificata collaborazione alle molteplici attività dell’assessorato e dei Musei, soprattutto per le attività didattiche e la programmazione di mostre in Basilica, a S. Giacomo e in altri spazi comunali. Collaborammo nel mio secondo mandato da assessore alla Cultura (fine 1998 – 2003), impegnato a livello nazionale come fondatore dell’Associazione dei siti Unesco italiani. Mi trovai poi a coordinare, con l’editore Angelo Colla, anche la ripresa della collaborazione di Barbieri con Renato Cevese, come nella prima edizione del 1953 (Guida di Vicenza, coautore anche il prof. Licisco Magagnato), per una nuova Guida di Vicenza, pubblicata nel 2004 con il titolo Vicenza Ritratto di una città.

Da presidente degli Amici dei monumenti, dei musei e del paesaggio, Barbieri è sempre stato un collaboratore privilegiato, entusiasmante accompagnatore di varie visite culturali, relatore apprezzatissimo, fin dall’inizio anche degli annuali Corsi di Formazione, promossi dal suo allievo prof. Luca Trevisan.

A quest’ultimo si deve il merito di aver proseguito le ricerche, già avviate da Barbieri su Vincenzo Scamozzi, giungendo all’attribuzione proprio a Scamozzi del Portale d’ingresso al giardino del Teatro Olimpico, restaurato dagli Amici dei monumenti nel 2019.

Franco Barbieri fu presente spesso anche alle manifestazioni della Biblioteca Internazionale “La Vigna” durante la mia presidenza (dal 2006 al 2018), soprattutto quando si trattava di particolari colture, come quella dell’ulivicoltura di cui è protagonista la figlia Francesca.

Abbiamo così potuto scoprire che era appassionato ed esperto orticoltore e sempre entusiasta dei momenti conviviali. Barbieri ha lasciato una ricchissima Biblioteca privata e un interessante archivio documentario e fotografico.

Di Mario Bagnara da Storie Vicentine n. 11 novembre-dicembre 2022


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Il professor Lino Zio: insegnante e amministratore di Vicenza

Lino Zio ( 24 gennaio 1922-22 maggio 2011) è stato insegnante di lettere nelle scuole medie e superiori e contemporaneamente è stato per trent’anni amministratore della città: dal 1951, come consigliere con sindaco Zampieri, poi come assessore (anche ai Lavori pubblici) e vicesindaco nelle Amministrazioni Dal Sasso, Sala (la stagione più felice, dal 1962 al 1975) e Chiesa (fino al 1980).

Il suo percorso politico è integerrimo e specchiato, mai macchiato neanche dalla più piccola ombra: perfetto galantuomo al servizio delle istituzioni, autentico democratico. Nel triennio 1959/62 sono stato suo alunno alla scuola media Scamozzi.

Il mio rapporto con lui è durato esattamente 52 anni: dal primo ottobre 1959 a giovedì 19 maggio 2011, a tre giorni dalla sua scomparsa, ultima volta che lo andai a trovare. A Lino Zio devo la conoscenza, meglio, l’iniziazione, al latino, visto che la materia è diventata base della mia professione; dell’Iliade e dell’Odissea di cui si capiva quanto fosse appassionato e che ci ha fatto conoscere ed apprezzare: poemi eterni che, se ora non sono caduti nel dimenticatoio, poco ci manca. La grammatica mica l’ho imparata alle elementari (Sergio Pastorello, mio grandissimo maestro per cinque anni, glissava…) né al liceo, tanto meno all’università: se la conosco, è perché il prof me l’ha insegnata.

Lino Zio è stato un insegnante colto ed illuminato Aveva la mania dei 5/6, 6 meno meno, della media matematica dei voti. Non era un rivoluzionario: così andava in quella scuola e in quel tempo. Era però la chiarezza in persona: le sue spiegazioni erano esaurienti e meticolose.

Professore, che voto ho preso?

I voti non si prendono, si meritano.

Ho fatto la versione.

Ho tradotto la versione.

Faccio i compiti.

Eseguo i compiti.

Facciamo la Scamozzi.

Frequentiamo la Scamozzi.

Ma bensì.

Inutile ripetizione.

Allora, adesso (insopportabile ancor oggi).

No, o allora o adesso.

La cartellina apposita per gli appunti.

La cartellina per gli appunti, apposita è in più.

Volevo dire.

Voglio, vorrei dire …volevo era ieri

Sterili pedanterie di un antiquato professore? Macchè! Certo, l’uso del linguaggio fa regola; esistono le metafore e i modi di dire, ma allora, che eravamo davvero pulcini ignoranti, con la dovizia dei sinonimi, la precisione del lessico, lui arricchiva il nostro modesto bagaglio espressivo e ci faceva crescere.

La sua esemplare grafia, davvero il caso di chiamarla calligrafia, era lo specchio  della sua anima: chiarezza espressiva, pulizia interiore. Zio, con il suo carisma, emanava autorevolezza, sprizzava rigore morale, spronava al senso del dovere e di responsabilità, formava coscienza civica: era l’onestà in persona; e nel contempo di una semplicità e sobrietà disarmanti. E

noi tutto ciò lo respiravamo. Per questo Lino è diventato il prof. per eccellenza, educatore e insegnante indimenticabile, punto di riferimento di vita. Quando andai in Comune a comunicargli le mie intenzioni sulla scelta universitaria e per un consiglio, mi diede del matto, ma si vedeva che era compiaciuto.

Per andare sul pratico ecco due episodi accaduti in prima media. Allora la domenica era scandita da tre imperativi categorici: messa-dottrina-stadio. Ma se sui primi due riti non c’è nulla da dire, sul terzo un problema esisteva. Mio padre, che era un baskettaro da cima a fondo, mai avrebbe potuto sovvenzionare il figlio appassionato, anzi perso, dietro a uno sport plebeo come il calcio.

Così il figlio si doveva ingegnare. Avevo trovato modo di fare il cameriere durante le partite: le vedevo gratis, ci guadagnavo qualcosa; non male. Con una cassetta a tracolla piena di bibite e caramelle ero stato destinato alla gradinata. Una domenica mi spedirono però in tribuna. Durante l’intervallo mi imbattei nel prof, pure lui patito del Lanerossi (ne fu anche vicepresidente). Diventai di pietra, rosso rosso: mi vergognavo da morire. Lino se ne accorse immediatamente, capì tutto, mi fece cenno di avanzare e mi disse: “Guarda che mio padre faceva il ferroviere”.

Nell’estate il garzone del panificio vicino a casa mia in Porton del Luzzo andò in ferie ed io lo sostituii. Tutti, chissà perché, si facevano portare il pane, che non pesava niente, a domicilio. In bici, con una gerla colma di pane più alta di me sopra il portapacchi davanti, nei pressi del crocevia di S. Chiara all’altezza dell’edicola su chi vado a sbattere, ancora una volta fortemente imbarazzato?

Proprio sul professor Zio in bici che quasi lo faccio cadere e: “Bravo! Anch’io alla tua età mi davo da fare per tirar su qualche soldarello!” Dimostrazione di modestia e di signorilità da parte sua, di soggezione da parte mia. Sì, il prof mi metteva soggezione e c’è voluto tempo per superarla. Una volta in un tema scrissi che lui era una figura paterna, me la sottolineò in rosso: lo ribadisco ora. Col tempo ho superato il problema scoprendo la sua affabilità, la sua fine ironia e il suo lato spiritoso. Tra di noi nacque la massima confidenza. Al liceo gli telefonai per gli auguri di Natale. “Prof, come regalo non potrebbe far mettere il riscaldamento in Basilica?” Io ci giocavo a pallacanestro in Basilica Palladiana, e in inverno era un supplizio: si batteva i denti anche correndo! Rise: la cosa logicamente era impossibile, ma lui, che in quel momento era sia vicesindaco che presidente della Pallacanestro Araceli, mi preannunciò: “Vi facciamo il Palasport”.

Nel 1972 la promessa fu mantenuta. Per i casi strani della vita, proprio in quello che sarebbe stato il suo ulimo anno di vita, lo frequentai con assiduità. Stavo scrivendo un libro sulla Resistenza e sui Piccoli Maestri quando scoprii durante le mie ricerche la figura del partigiano Lino Zio, veste che mi era totalmente sconosciuta.

Scriveva su un giornaletto clandestino del 1944: “La nostra voce (si esce quando si può)” assieme a “S.Tomaso” Riccardo Vicari, “Flagellum” Lorenzo Romanato, Igino Fanton, Guido Revoloni, Carlo Beltrame. Ne avevo trovato gli originali e gli portai le fotocopie. Al vederle si illuminò di ammirazione e orgoglio. “Vedi? Ecco la mia firma: L. Facevo il partigiano scrivendo: che pretendere di meglio?” Studente al Patronato e poi in Seminario, passò al Pigafetta per il triennio dove nel 1941 si diplomò. Ebbe come insegnanti Renato Treu, Gino Giaretta, Dal Pozzo, Roberto Poli, Andrea Volpato e soprattutto i docenti in filosofia Mario Dal Pra e Giuseppe Faggin che gli instillarono i germi dell’antifascismo.

Contribuì in questo senso anche don Antonio Frigo, insegnante di Scienze e Chimica al Seminario, autore di “Ricordi”, 1991, libro nel quale il sacerdote confessa tutta la sua avversione al fascismo, attestata dall’arresto nel carcere di S. Michele e dalle conseguenti torture a cui lì fu sottoposto. Militare in aeronautica, Lino l’8 settembre del 1943 si dette alla latitanza, facendo gruppo con i compagni sopracitati.

“Discutevamo di libertà, di democrazia, di repubblica, della nuova scuola, di programmi, di costituzione: temi non scontati dopo 20 anni di dittatura”. Si laureò nell’autunno del 1945 e cominciò la sua feconda carriera con una supplenza proprio al Pigafetta. Poi alla scuola delle Dami Inglesi, Rossi, Scamozzi, Muttoni e Quadri. Esiste a suo ricordo una rubrica speciale, di cui sono in possesso per dono della famiglia.

In questa rubrica il prof ci faceva trascrivere i temi nostri che lui riteneva migliori: una perla deliziosa che conservo come una reliquia sopra la scrivania nello studio. Presso sua figlia Cristiana c’è un quaderno che riporta i nomi di tutte le sue scolaresche: così si esprimeva la sua passione maniacale per la scuola e per i suoi ragazzi. Caro prof, i nostri vincoli sono di quelli che non si spezzano. Honeste vivere, neminem laedere, unicuique suum tribuere: vivere onestamente, non far danno a nessuno, dare a ciascuno quello che merita. Con questa frase, estrapolata da una intervista del prof alla Nuova Vicenza del 15 gennaio 1989, Lino Zio riassume la sua vita. Il prof l’attribuisce a Seneca, erroneamente (suvvia, errare humanum est, anche i grandi possono sbagliare); l’affermazione, conosciuta anche perché è stampata sopra l’entrata del Palazzo di Giustizia di Milano, è di Domizio Ulpiano, retore romano di un secolo successivo a Seneca: non fa niente chi l’abbia scritto perché è la sostanza che conta. Leggendo Plutarco, l’autore delle celeberrime Vite parallele, si incontra un’opera cosiddetta minore: “L’arte di ascoltare”.

Verso la fine si trova scritto: la mente non ha bisogno, come un vaso, di essere riempita, ma piuttosto, come legna, di una scintilla che l’accenda e vi infonda l’impulso della ricerca e un amore ardente per la verità. Il grande Montaigne, 1500 anni dopo negli “Essais”, riprendendo lo scrittore greco, sintetizza: insegnare non significa riempire un vaso, ma accendere un fuoco. Lino Zio certamente di fuochi ne ha accesi molti.

Su uno degli ultimi biglietti natalizi il prof mi scrisse: «Sto bene, anche se senectus ipsa morbus est – Tempus ruit!». Se sul ruit – scorrere – del tempo non c’è nulla da fare, per una volta non sono d’accordo con lui: sul fatto che la vecchiaia sia di per se stessa una malattia, affermo che vorrei tanto invecchiare come te, Lino, dispensatore di saggezza fino all’ultimo.

Di Roberto Pellizzaro da Storie Vicentine n. 11 novembre-dicembre 2022


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I Magnasoète il testo in cui Scapin ha testimoniato in maniera più profonda l’anima della sua terra

Singolare e divertente, è una delle prove migliori di Virgilio Scapin il libro che raccoglie sei racconti pubblicati da Bertani nel 1976 con il titolo “I Magnasoète” e sottotitolo “I mangiatori di civette – racconti della zona di Breganze”.

All’epoca Virgilio Scapin (Vicenza, 1932-2006) aveva già al suo attivo due prove significative: Il chierico provvisorio, edito nel 1962 e Supermarket provinciale, del 1969, entrambi pubblicati da Longanesi.

La Bertani è stata una casa editrice attenta alle tematiche di politica economica e di sociologia e presentò l’opera in una collana particolare, che voleva proporre una letteratura di testimonianza “dimenticata, mai tradotta, una letteratura nascosta o che non si vuole pubblicare, ideologicamente censurata, testi che sarebbe stato difficile rivedere in circolazione” (racconti, memorie, testimonianze, ballate, poesie e interviste”: dalle “Memorie di Garibaldi” alla “Guerriglia Tupamara” a “Testimonianze su Pietro Valpreda”, per citare alcuni titoli).

Ma come mai il lavoro letterario di Scapin si inseriva in questo contesto, in questa particolare nicchia letteraria? La sua è una rappresentazione della realtà quanto mai veritiera e genuina, non ha nulla di irriguardoso, né di sovversivo. Racconta le vicende di Firmino, un contadino piccolo proprietario, tratteggiate “in successive monografie o variazioni sul tema”, come sottolinea nell’introduzione Fernando Bandini.

Lo fa “con profonda cordialità e simpatia” e alla maniera di un “antico mariazo pavano” ovvero quel tipo di farsa popolare in dialetto, in uso nel repertorio dei saltimbanchi del XV e XVI secolo, che aveva per argomento amori, matrimoni e scene di vita coniugale d’ambiente villereccio.

Firmino è un personaggio chiave nella memoria storica di Scapin, un contadino che affonda le sue radici tenacissime nella cultura della terra, nei riti di un paese agricolo, in un’epoca dominata dalla povertà e anche dalla fame. È una letteratura di testimonianza di un’epoca e di un’area geografica precisa, la vecchia Breganze con le sue colline coltivate a vigneti e frutteti, raccontata in forma diretta, quasi autobiografica. Non è una nostalgica rievocazione della civiltà contadina.

Il primo racconto, “La fiora”, descrive il fidanzamento, il matrimonio e le prodezze amorose di Firmino, giovane contadino purosangue e alpino, detto “testa de panocia” perché biondo di capelli, con la sua Pina. “La prete” racconta di una vitellina nata da un incrocio sperimentale ma promettente, con il pelame scuro come la tonaca del prete e perciò è chiamata “la prete”.

Il “Vedàto” – ovvero la botticella per il vino di casa – narra storie di viti, vendemmie e di un arciprete (realmente esistito, mons. Scotton, che costruì un prototipo di cannoncino anti- grandine presentato al popolo durante la visita del patriarca di Venezia).

E ancora “Storiette di caccia” (attività praticata anche nei periodi in cui era proibita, per necessità di sopravvivenza e con tutti i mezzi, compresa la fionda e il vischio) e storiette di “naia”, la leva militare obbligatoria, che era un vero rito di iniziazione alla maturità per la “maschia gioventù” (per citare un altro libro di Scapin edito nel 1998).

All’epoca dei racconti è in atto il cambiamento epocale per i proprietari dei piccoli poderi agricoli: la mezzadria sta scomparendo e nascono le cantine sociali. È una razza in via di estinzione, negli anni in cui il benessere economico sta modificando i riti sociali e soppiantando le antiche tradizioni contadine e paesane.

Singolare è il linguaggio, intercalato con termini dialettali propri della zona di Breganze, il dialetto che si inserisce come lingua e risponde a una “immediata esigenza di fisicità”. Scapin è uno scrittore ruspante, così lo definisce Bandini, che racconta del contadino veneto il cui dato portante è “la coprolalia e il tratto osceno, un mondo che vede nel sesso un momento di sotterfugio e di riso, proprio perché educato in un clima religioso repressivo”.

È una civiltà agricola dalla vita grama e difficile, elementare e povera, come anche la rievoca Ermanno Olmi nel film “L’albero degli zoccoli”, fatta per vivere con la terra e per la terra, un’umanità sana e genuina, vista dall’autore con uno spirito goliardico, alla maniera di Ruzzante, non priva di sollazzi e ilarità. Il libro è stato successivamente ripubblicato nel 1996 da Neri Pozza con il titolo infelicemente italianizzato ne “I mangiatori di civette”. Per questi uomini Scapin ha coniato il nomignolo “magnasoète” come una categoria sociale con i suoi riti speciali (e in effetti l’andar per nidi di civette, fin da ragazzini, era uno degli aspetti della caccia di frodo, non per divertimento ma per fame: in quell’epoca “la caccia era il raccolto più lungo dell’anno”).

Lo ha fatto perché ha voluto traslare in un termine lo spirito vivo contenuto nella parlata locale, come coniando un nome proprio per quei tipi irregolari ma di sani valori, e lo fa scherzosamente, così come nel basso vicentino si chiamano in tono canzonatorio “pinciaoche” i tipi strani e burloni protagonisti dei più folcloristici e genuini racconti dell’ambiente di campagna.

“I Magnasoète” resta nella produzione di Virgilio Scapin il testo in cui ha testimoniato in maniera più profonda l’anima della sua terra.

Di Lucio Cestonaro da Storie Vicentine n. 11 novembre-dicembre 2022


In uscita il numero di Maggio 2023
distribuito nelle edicole del centro e prima periferia e agli Abbonati
Prezzo di copertina euro 5
Abbonamento 5 numeri euro 20
Over 65 euro 20 (due abbonamenti)

Hamid Drake e Rachel Eckroth: concerti al Teatro Comunale di Vicenza chiudono New Conversations – Vicenza Jazz 2023

Hamid Drake + Rachel Eckroth: Sabato 20 maggio 2023 sarà l’ultima giornata ufficiale per l’edizione 2023 del festival New Conversations – Vicenza Jazz, a cui farà seguito l’epilogo di domenica 21 in collaborazione con le Settimane Musicali al Teatro Olimpico).

Il momento culminante della serata di sabato sarà al Teatro Comunale (ore 21), con un doppio set. L’apertura sarà con la tastierista Rachel Eckroth, il cui trio con Anna Butterss al basso e John Hadfield batteria immerge in un bagno di elettronica l’intera storia del jazz. Nel secondo set, il batterista Hamid Drake dirigerà un progetto in un tributo ad Alice Coltrane dal cast multidisciplinare: Ndoho Ange (danza), Sheila Maurice Grey (tromba, voce), Jan Bang (elettronica), Jamie Saft (pianoforte, tastiere) e Bradley Jones (contrabbasso).

Hamid Drake + Rachel Eckroth
Hamid Drake e Rachel Eckroth

Concerto di chiusura anche per il Jazz Café Trivellato nel Giardino del Teatro Astra: alle ore 22:15 si esibirà la cantante Elena Paparusso, nel cui quintetto figurano Domenico Sanna (pianoforte), Francesco Poeti (chitarra), Giuseppe Romagnoli (contrabbasso) e Matteo Bultrini (batteria).

In questa giornata di festival dalle numerose presenze artistiche femminili si distingue anche quella di Irene Bianco, impegnata in un solo di percussioni ed elettronica a Palazzo Thiene (ore 18).

Hamid Drake, nato nel 1955 in Louisiana e cresciuto a Chicago, è entrato nel mondo musicale passando per la porta del rock e l’R&B, prima di trovare la sua vera vocazione nel giro dell’avant-jazz degli anni Settanta: Fred Anderson, George Lewis e altri membri dell’AACM. Formative e significative le sue successive esperienze con Don Cherry, Peter Brötzmann, William Parker, Herbie Hancock, Pharoah Sanders, Wayne Shorter, Archie Shepp. Negli anni più recenti si è dedicato particolarmente ai suoi progetti, come l’Indigo Trio e le collaborazioni con Napoleon Maddox, Antonello Salis e Pasquale Mirra.

A Vicenza Jazz si presenterà alla guida di un gruppo dalla variegata strumentazione, con tanto di parte coreografica, per il quale si può ben spendere il termine di all-stars, considerando le importanti carriere solistiche dei suoi membri (da Jan Bang a Jamie Saft e Pasquale Mirra). Un cast importante riunito per un progetto altamente significativo: un omaggio ad Alice Coltrane, pianista, arpista, band leader, compositrice. E moglie di John Coltrane. La carriera musicale di Alice, già ben avviata prima dell’incontro con John, raggiunse l’apice dopo la prematura scomparsa del sassofonista. Nel corso degli anni Settanta portò i contenuti spirituali, meditativi e trascendentali al massimo sviluppo sonoro, in una stagione di irripetibili sperimentazioni musicali ben documentata dall’etichetta Impulse!.

“Ho conosciuto Alice Coltrane quando avevo 16 anni, a un concerto a Ravinia Park, fuori Chicago”, ricorda Hamid Drake. “Ci siamo scambiati gli indirizzi e poi ci siamo scritti. Mi ha regalato un’apertura spirituale ed estetica che non ho mai smesso di coltivare. Questo progetto è il mio modo di onorare quella grande personalità che ha permesso a un adolescente di continuare sulla strada della scoperta, dello stupore e della ricerca della propria voce”.

Nata nel Dakota del Nord, Rachel Eckroth è cresciuta a Phoenix (Arizona), entrando a far parte della locale scena jazzistica sin dall’adolescenza. Nel 2001 si trasferisce a New York (dove studia anche con Stanley Cowell) e nel 2005 arriva il debutto discografico (Mind). Da allora la sua attività è andata in crescendo, raggiungendo una particolare intensità negli ultimi anni anche grazie alle collaborazioni con Tim Lefebvre, Derek Trucks, Chris Botti, Donny McCaslin e al ruolo di tastierista della house band del Meredith Vieira Show. A partire dalla pubblicazione dell’album Let Go (2014), si propone anche come cantautrice.

Il suo più recente progetto, The Garden (Rainy Days Records, 2021), è un tuffo nella fanta-avanguardia: onirico, esplorativo, capace di immerge in un bagno di elettronica l’intera storia del jazz. Per la registrazione discografica si è avvalsa di un cast di specialisti delle avventure elettro-jazz: Tim Lefebvre, Donny McCaslin, Nir Felder.

La cantante e compositrice pugliese Elena Paparusso, oltre alla preparazione vocale, ha studiato anche recitazione e danza classica e contemporanea. Nel 2006 si trasferisce a Roma. Qui inizia un percorso didattico seguita da Maria Pia De Vito presso il Conservatorio di Santa Cecilia, dove studia anche con Paolo Damiani, Danilo Rea, Roberto Gatto.

Nel 2015 ha vinto il premio come Miglior Compositrice alla Women in Jazz Competition. A seguire, nel 2016, pubblica il suo disco d’esordio come solista (Inner Nature), nel quale trovano spazio sia le capacità autoriali della Paparusso sia interessanti dediche ad alcune delle sue variegate fonti d’ispirazione (Björk, Wayne Shorter, Kurt Weill). Inizia poi a collaborare con il Burnogualà Large Vocal Ensemble diretto da Maria Pia De Vito (la si ascolta sull’album Moresche e altre invenzioni, 2018, Parco della Musica Records).

Il festival New Conversations – Vicenza Jazz 2023 è promosso dal Comune di Vicenza in collaborazione con la Fondazione Teatro Comunale Città di Vicenza, in coproduzione con Trivellato Mercedes Benz, con AGSM AIM come sponsor principale e Acqua Recoaro come sponsor tecnico.

Palladio e gli altri: l’inimicizia tra Vicenza e la memoria

Nella Bibbia si narra che il peccato originale creò inimicizia tra la donna ed il serpente. Anche a Vicenza si commise il peccato originale, contro la cultura: a metà 1800 fu riesumato a S. Corona il corpo (o ritenuto tale) di Palladio ma non gli fu costruito un degno monumento funebre in un sito prestigioso quale la cripta di S. Corona o S. Lorenzo, o il Duomo.

Fu confinato invece al Cimitero e laggiù ignorato da tutti i forestieri e dai concittadini. Pose parziale rimedio anni dopo il sindaco Bressan che capì quanto inadeguata alla memoria fosse la tomba periferica e fece erigere a sue spese il monumento a Palladio che ben lo ricorda in fianco alla Basilica.

Monumento di Andrea Palladio Vicenza wetourguide
Monumento di Andrea Palladio Vicenza (foto da Wetourguide)

In seguito a quel peccato originale, altri storici personaggi testimoniano l’inimicizia tra i vicentini e la loro memoria. Hanno avuto meritoria pulizia e manutenzione tre statue cittadine: Garibaldi, Zanella e Vittorio Emanuele.

Ma i restauri sono incompiuti: Garibaldi è ancora disarmato, con la spada spezzata (e sparita da decenni) subito sotto l’elsa; Zanella ha la scritta completamente sbiadita sul piedestallo ed i viandanti non possono riconoscere il poeta; Vittorio Emanuele II è da sempre privo di lapide che lo identifichi ed i passanti continuano

a chiedersi chi sia quel misterioso generale. Né miglior sorte ebbe Pigafetta; il suo monumento è defilato tra il verde davanti alla stazione FFSS ed i passeggeri che lo osservano non riescono a capacitarsi come il navigatore vicentino abbia potuto attraversare gli oceani spinto da una vela rigida e spessa come un materasso ed ergendosi su una prua curva e tozza come un lavandino. Neri Pozza è ricordato con un busto bronzeo di Quagliato, bello ma collocato nel luogo sbagliato; Il letterato visse infatti vicino a ponte S. Michele e non a ponte S. Paolo.

La statua del giovane patriota vicentino a Monte Berico sembra un matto che gesticola a vuoto: mancano da sempre nelle sue mani la fiaccola ed il pugnale originari. Certamente, sempre in accordo con i precedenti biblici, le anime beate dei grandi sopracitati sono apparse corrucciate in sogno ai giudici della Commissione per la Città Capitale della Cultura 2024 e Vicenza fu bocciata.

Di Ing. Fabio Gasparini da Vicenza In Centro (Gennaio 2023)

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“VICENZA IN CENTRO” APS
Associazione di promozione sociale-culturale
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La Chiesa romanica di Santa Maria Etiopissa a Polegge sulla Strada Marosticana

La chiesa di Santa Maria Etiopissa è un edificio sacro la cui prima costruzione risale all’età altomedievale, situato a Vicenza lungo la strada statale Marosticana in località Polegge.

A partire dal XII secolo fu proprietà dell’abbazia di Pomposa e dal 1484 del monastero di san Bartolomeo in Vicenza. Nel 1771, in seguito alla soppressione del monastero, fu venduta a privati e adibita ad usi profani; nel XX secolo fu restaurata e attualmente appartiene alla parrocchia di Polegge ed è aperta al culto. Probabilmente il nome Etiopissa non rappresenta un appellativo della Vergine, ma deriva dal toponimo della vicina località che le fonti medievali indicano come Teupexe o Teupissae.

Il titolo solleva comunque ancora discussioni. Altre ipotesi, nessuna di queste realmente documentata ma soltanto di carattere storico- deduttivo, lo riferiscono a una possibile fondazione della chiesa ad opera di missionari orientali venuti in Italia a combattere l’arianesimo longobardo e lo scisma dei tre capitoli, oppure alla dedicazione ad una santa di origine africana, oppure ancora ad una “madonna nera”.

Alcuni studiosi del XIX secolo hanno ipotizzato una fondazione della chiesa in età longobarda, così come per altre chiesette, tutte entro un raggio di pochi chilometri dal centro storico della città, che sarebbero state costruite nei punti strategici in cui i guerrieri longobardi avevano i posti di guardia per il controllo del territorio.

Ciò sulla base di pochi e incerti elementi, come il celebre pluteo con i pavoni affrontati, conservato in copia all’interno dell’aula e riconducibile al VI-VII secolo; l’ipotesi però non trova sicuro fondamento. Uno studio del manufatto fa ritenere comunque che vi sia stato “un primo parziale rifacimento sulle fondamenta primitive, databile al secolo X o XI dopo le invasioni ungare”, dimostrato dalla “poverissima muratura di ciottoli di fiume” e forse anche dai resti di un affresco “romanico” a sinistra della porta che si apre sulla parete meridionale. Prima del 1000, la zona in cui è posta la chiesa era in gran parte disabitata e occupata da una vasta selva, che dalla città di Vicenza si estendeva fino alla villa di Cavazzale, i cui abitanti, assieme a quelli di Povolaro, usavano per le sepolture il cimitero di Santa Maria di Chiupese.

La prima testimonianza scritta dell’esistenza della chiesa risale al 27 marzo 1107, quando Gumberto, Arprando, Ambrosio e Uguccione della famiglia da Vivaro, feudataria del vescovo di Vicenza, donarono all’abbazia benedettina di Santa Maria di Pomposa “capella una aedificata in honorem sanctae Mariae quae est posita in villa nomine Teupese …”. Nel 1153 una bolla papale confermò a Pomposa i suoi diritti su S. Mariae in Teupisse, anche se nei decenni successivi vi furono conflitti di giurisdizione tra Pomposa e il vescovo, poi il Comune, di Vicenza; gli stessi da Vivaro fino al 1290, anno in cui furono banditi dal territorio vicentino, mantennero legami con la chiesa. Insieme con questa chiesa furono donate e assoggettate a Pomposa anche quelle di Santa Perpetua, di Santa Croce e di Santa Fosca di Dueville, che quindi furono staccate dalla vita benedettina di Vicenza, imperniata sul monastero di San Felice. Secondo un documento del secolo XIII pare che a quest’epoca la comunità benedettina fosse già estinta e forse sostituita da una comunità religiosa laica.

Chiesa romanica di Santa Maria Etiopissa a Polegge
Chiesa romanica di Santa Maria Etiopissa a Polegge

Nei documenti vaticani delle Rationes Decimarum degli anni 1297-98 la chiesa è ancora ricordata e appare come data in commenda al cardinale Pietro Colonna e dipendente dalla plebes duabus villis (la pieve di Dueville); non è però più citata nel 1303 e questo lascia pensare che vi sia stata una progressiva decadenza sino a giungere a uno stato di quasi completo abbandono intorno al 1370.

Nel 1377 il vescovo di Padova Raimondo, in qualità di Nunzio pontificio, scriveva all’abate di Pomposa deplorando fortemente le tristi condizioni del monastero vicentino – vacante da lungo tempo, diminuito nei redditi e senza che più venissero celebrati gli uffici divini – e ordinava un pronto intervento, con lo scopo di materiale restauro della chiesa e del chiostro per rendere possibile la vita ai religiosi.

Questa ebbe così, negli ultimi anni del XIV secolo, una certa ripresa e nel 1393 si attesta di un certo Pietro abbas et rector sanctae Mariae de Thiupexe. Agli inizi del XV secolo Santa Maria Etiopissa era sotto la giurisdizione del capitolo della cattedrale di Vicenza che, nel 1403, la affittò con tutti i suoi beni a un certo Pierpaolo, che avrebbe dovuto effettuare la manutenzione della chiesa con tutti i suoi annessi e mantenere a proprie spese un prete cappellano che vi risiedesse notte e giorno.

Essa diventò allora una specie di chiesa curata per la contracta (contrada) di Chiupese, piccolo nucleo posto lungo la strada che andava verso Marostica e dove vi era anche un’osteria. La chiesa durante tutto il XV secolo servì da parrocchiale per le famiglie sparse tra Vivaro e Cavazzale; diversi testamenti ordinano che il testatore venga sepolto nel suo cimitero. Formalmente nel 1405 fu Pandolfo Malatesta, abate commendatario di Pomposa, che affidò a frate Biagio Vitriani da Vicenza la gestione dell’abbazia, gestione che passò da lui al figlio Marco, che la resse fino al 1484.

Probabilmente i Vitriani, padre e figlio, considerarono l’abbazia una loro proprietà, vivendovi come signorotti di campagna: da tempo infatti essa non accoglieva monaci e questo probabilmente spiega l’assenza di un chiostro annesso. Intorno al 1480 Marco Vitriani fece radicalmente restaurare ed affrescare al suo interno la chiesa. Tra questi lavori un bel portale lombardesco, anche se non è possibile un’attribuzione fra i tanti maestri lombardi allora operosi in Vicenza. Dello stesso periodo il fregio floreale che gira attorno alla chiesa e alcuni preziosi affreschi ancora esistenti: la Vergine in trono e i santi Cristoforo e Lucia, la Vergine sotto un baldacchino con Gesù sulle ginocchia, i monaci Marco Vitriani e Barnaba, l’annunciazione della Vergine; affreschi forse attribuibili al pittore Taddeo d’Ascoli, figlio di Villano. Nel 1484 l’antica abbazia benedettina fu incorporata nel monastero di san Bartolomeo di Vicenza, retto dai canonici regolari di Santa Maria di Frigionaia presso Lucca

che seguivano la regola agostiniana. Essi si impegnarono a ristrutturare gli edifici e a mantenere il sacerdote secolare che vi risiedeva. Nello stesso tempo concessero in affitto a Marco Vitriani e ai suoi familiari certe terre dell’abbazia, riconoscendo che, mentre prima erano paludose, boschive e incolte, con molto lavoro e spese essi le avevano coltivate e migliorate. Un documento del 22 febbraio 1502 riporta la licenza, accordata da papa Alessandro VI ai canonici, di demolire la vicina chiesetta di Santa Croce, proprietà dell’abbazia, e di utilizzare il materiale ricavato per costruire un nuovo altare nella chiesa di Santa Maria de Chepexi (Ethiopisse), da dedicare alla Santa Croce in ricordo della chiesa demolita.

L’abbazia rimase comunque in stato di semi abbandono; forse il clima umido (vicino esisteva una risaia e quindi campi allagati) ne rendeva malsana l’abitabilità. Benché diminuito, il suo prestigio non si estinse tra la gente del contado, tanto che nel 1640 la comunità di Polegge ne effettuò il restauro. Nel 1771 il monastero di San Bartolomeo venne soppresso dallo Stato veneziano e i suoi beni venduti. L’abbazia e le sue proprietà furono dapprima vendute alla famiglia Cordellina e poi, durante l’epoca napoleonica, passarono ai Milan che vi costruirono la grandiosa barchessa  e infine ai Gonzati, che in epoca austriaca vi costruirono il corpo principale della villa. La chiesa cadde in stato di abbandono, tanto che il vescovo Farina lasciò che l’edificio venisse adibito ad usi profani. Nel 1933, per interessamento di don Federico Maria Mistrorigo, che si pose a capo di un apposito comitato, iniziò una fase di restauro che si protrasse per un decennio. 

La chiesa presenta pianta rettangolare, ad unica navata, abside che si stacca direttamente dall’arco di trionfo, senza ausilio del presbiterio, tramite un arco a doppia ghiera, caratteristico di altre costruzioni veneto-ravennati. La muratura portante è a spina di pesce e risulta usata in molti edifici dell’Italia settentrionale, ma perlopiù da costruttori veronesi.

Allo stato attuale la Chiesa di Santa Maria Etiopissa versa nuovamente in uno stato conservativo non buono. Le murature storiche in pietra e mattoni manifestano un degrado diffuso imputabile all’azione disgregante e dilavante esercitata dagli agenti atmosferici, i materiali lapidei si presentano erosi e decoesi mentre gli intonaci antichi sono disgregati e staccati dal supporto. Il pluteo di marmo con le figure di due pavoni affrontati che si dissetano in un simbolico giardino, ricco di piante e fiori (VIII secolo) è conservato nella terza sala del Museo Diocesano di Vicenza. Anche l’interno versa in stato di degrado, nonostante gli interventi di manutenzione effettuati negli ultimi decenni: le infiltrazioni d’acqua attraverso il manto di copertura stanno producendo sia la marcescenza delle strutture lignee che il dilavamento degli affreschi che adornano tutte le pareti. La conservazione di questi ultimi oltre che dall’acqua di tipo meteorico è minacciata altresì dall’umidità di risalita e dalla vicinanza di intonaci cementizi di epoca recente, i cui sali potrebbero danneggiare gli affreschi irrimediabilmente. Il campanile delimita verticalmente l’angolo destro della facciata, ed è sostenuto all’interno dell’edificio da due archi retti da un pilastro con capitello e abaco. Possiede due campane di piccole dimensioni fuse nel XX secolo.

Da Storie Vicentine n. 11 novembre-dicembre 2022


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“Partecipazioni esperienziali”, alle Gallerie di Palazzo Thiene i lavori del Boscardin

Venerdì 19 maggio alle 17 alle Gallerie di Palazzo Thiene aprirà la mostra “Partecipazioni esperienziali” con i lavori dei ragazzi del triennio dell’Istituto Boscardin.

Nell’ambito del progetto Percorsi per le competenze trasversali e l’orientamento (Pcto) “Adotta un’opera” gli studenti hanno individuato alcune opere esposte o alcuni elementi architettonici o decorativi del palazzo, rielaborandone proprie versioni. Sono state ideate, pertanto, opere figurative, pittoriche e scultoree, e video promozionali del patrimonio museale.

Le classi coinvolte – 3 BLA e 5 BLA dell’indirizzo Arte figurativa, la 4DLA dell’indirizzo Audiovisivo e multimediale e la 3ALA dell’indirizzo Architettura e scenografia – sono state guidate nelle varie fasi di realizzazione delle opere dai docenti e hanno visitato più volte il palazzo.

L’iniziativa rientra nel progetto di inclusione museale dell’amministrazione e dei Musei civici che sempre più dialogano con il pubblico. Il Pcto nei musei ha consentito ai ragazzi di fare un’esperienza di valorizzazione e promozione dei beni storici, artistici e culturali.

I lavori verranno esposti lungo il percorso museale e al piano terra nell’allestimento concesso dai curatori della mostra fotografica “Blank generation – il punk di New York all’ombra del Palladio” che si è appena conclusa.

Il giorno dell’apertura, venerdì 19 maggio alle 17, la mostra si potrà visitare liberamente. Fino al 4 giugno è aperta dal giovedì alla domenica dalle 9 alle 17 (ultimo ingresso 16.30): l’ingresso è libero al piano terra.

Informazioni: https://www.museicivicivicenza.it/it/

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Fonte: Comune di Vicenza