Contrà Francesco Canneti. Già Contrà Oratorio del Duomo, dietro le Poste (qui la mappa, rubrica “Toponimi vicentini narrati da Luciano Parolin”, qui tutti gli articoli, ndr).
Deliberazione comunale 17 ottobre 1888. Il musicista Francesco Canneti nacque a Vicenza 29 agosto 1807, morto il 4 agosto 1884. Compositore assai lodato di musica sacra e profana, scrisse numerose opere tra cui: l’Emilia, La Francesca da Rimini, Il Saul. La casa Ricordi di Milano pubblicò un “Trattato di contrappunto” che ebbe un certo successo.
Contrà Fedele Lampertico. Già contrà Calonega, è lunga 80 metri. Laterale al Duomo. Calonega in dialetto significa Canonica, la casa dove vivevano i sacerdoti della cattedrale, iscritti nella matricola o canone, da cui canonica (qui la mappa, rubrica “Toponimi vicentini narrati da Luciano Parolin”, qui tutti gli articoli, ndr). Il giorno dopo la sua morte, il consiglio Comunale 7 aprile 1906 intitola a Fedele Lampertico, la strada del centro storico. Nato a Vicenza il 3 giugno 1833, morto a Vicenza, 6 aprile 1906.
Statista ed economista, laureato in giurisprudenza a ventidue anni, si dedica subito alla cosa pubblica. È eletto deputato quando il Veneto entra a far parte del Regno d’Italia, rinuncia nel 1870 per motivi familiari. Viene nominato Senatore del regno il 6 novembre 1873. Fondatore della Società Mutuo Soccorso degli artigiani. Presidente dell’Istituto Veneto delle scienze. Promosse con Alessandro Rossi la costruzione della linea ferroviaria Vicenza Thiene Schio.
Contrà do Rode o Due Rode. Laterale Corso Palladio. Lunga 115 metri. La denominazione trae origine dal nome di una osteria segnalata nel 1665 in cui si cita “casa dell’Hosta delle due rode di proprietà della signora Lucia Nieva” (qui la mappa, rubrica “Toponimi vicentini narrati da Luciano Parolin”, qui tutti gli articoli, ndr).
La via ebbe nei secoli diversi nomi, era chiamata anche stradella della roda, dei notai, di Sant’Omobono per un oratorio che sorgeva vicino, contrà dei Muzan, nobili vicentini che vi avevano un Palazzo e numerose botteghe.
Contrà delle Morette. Laterale di Corso Palladio. Era detta anche Stradella della Malvasia per la presenza di un’Osteria che vendeva un vino bianco di qualità proveniente dalla Grecia.
Successivamente, nel XVII secolo, il nome cambiò in Morette dal nome della famiglia Moretto che gestiva l’esercizio (qui la mappa, rubrica “Toponimi vicentini narrati da Luciano Parolin”, qui tutti gli articoli, ndr)..
Contrà delle Grazie. La chiesetta, che dà il nome alla via, fu costruita nel 1494. Fu prima dei Gerolimini, dal nome del Patrono S. Girolamo.
Nel 1688 passa agli Eremiti sempre Gerolimini i quali, nel 1772, con i monaci di Maddalene, furono trasferiti a Santa Maria del Monte Summano. Nel 1812 il benemerito cittadino Francesco Nado fonda il collegio convitto per l’educazione religiosa e civile delle femmine (qui la mappa, rubrica “Toponimi vicentini narrati da Luciano Parolin”, qui tutti gli articoli, ndr).
“Arte culi ‘n aria“ è il titolo di una serie di.. articuli così come li ha scritti (l’ultima pubblicazione di quello che ripubblichiamo oggi è del 31 dicembre 2019, ndr) Umberto Riva per te che nel piacere della tavola, vedi qualcosa di più: gli articoli sono raccolti insieme alla “biografia” tutta particolare del “maestro” vicentino Umberto Riva nel libro “Arte culi ‘n aria”, le cui ultime copie sono acquistabili anche comodamente nel nostro shop di e-commerce o su Amazon.
Parlare dei veneti, parlare dei vicentini e non parlare “de minestron”, é eresia. “Pesto de lardo, un spigeto de ajo, un rameto de rosmarin, fasoi apena scaola, o mesi in moja co ‘na punta de bicarbonato la sera prima, poke patate, ‘n poca de seoa, e, voendo, anca ‘na gamba de sejno”.
“Beo, bon e fiso”. Che “’l cuciaro staga in pie da solo”.
Arte culi ‘n aria
“El pesto de lardo”. La mamma era attrezzata e procedeva come segue. “Nel pignaton”, per i francesi era la “marmite”, andavano le verdure. Patate, fagioli, quel pò di sedano e cipolla. Mentre cominciavano a bollire, tra i coperchio e la pentola, si infilava la “cortea”. Un coltello grosso, alto, con la punta mezza tonda (quello che si usava per mettere sotto la tavola delle tagliatelle, che si usava per raschiare la tavola delle tagliatelle, quello che si usava moltissimo e, forse, mai per l’uso per cui era nato). “’l panaro”, un tagliere alto circa quattro centimetri. Il tagliere nel tempo s’era morfologicamente deformato. A furia di battere il lardo sempre nello stesso punto, s’era formato uno scavo talmente profondo che si poteva, guardando controluce, vedere il sole. La parte mancante faceva ormai parte di noi stessi. Mangiata e digerita! A fronte del vecchio adagio “queo ke no strangoa, ingrasa”.
Il pezzo di lardo trovava locazione sul “panaro”, ovvero nello scavo del tagliere. Poteva così essere battuto con la parte arrotondata della “cortea” , il lardo non si attaccava alla lama poiché il caldo dell’acqua ove bollivano le verdure, aveva riscaldato il coltellaccio. Nel buco del tagliere finivano, lo spicco d’aglio, ed il rosmarino “ben lavà che non se sa mai”. A pesto pronto, la “cortea” serviva per raschiare “’l panaro” ed anche “nel buso, no dovea restare gnente” e veniva riinfilata tra coperchio e pignatta. Tutto si scioglieva e condiva “el minestron” e niente rimaneva sulla lama. Prima di infilare il lardo nella pentola, si toglieva una certa quantità di fagioli, erano buoni usati come secondo, “co ‘na foieta de salvia, ‘n gioso de ojo e na sculierà de aseo”. Si provvedeva, altresì, a passare nello schiacciapate, le patate, la cipolla, il sedano e buona parte dei fagioli. Ricordarsi “la coesa”. La cotica del lardo, di quel pezzo di lardo che si utilizzava per il pesto, veniva raschiata con la solita “cortea”, e buttata nella “pignata”. Il fortunato era quello che se la trovava nel piatto. Il ritrovamento era l’unica gioia perché doveva essere divisa “dagene un toco anca a to sorea”. Non sempre la cotica era privata di tutte le setole. Pazienza! “El spunciava, ma el xera bon, e pò, come se dixe, magna ke xe tuto bon e te deventi grando.
Si cuoceva. Si cuoceva. Si cuoceva.
La consistenza indicava il giusto punto di cottura. “Quando ‘l xe fiso, ‘l xe coto”.
Se si attaccava, un pò, non molto però, andava bene. Così “’l sa da brusin”.
Si poteva arricchire con un pò di lasagne. Era allora “’na goduria”.
Con i fagioli tolti dal minestrone, si potevano preparare i “fasoi in salsa”. “’n paro de aciuge, ‘na sculiera de conserva, quatro cinque foiete de salvia e desfrito de zeoa, tanta zeoa”. Doveva cuocere fin che “i fasoi i scomisiava a dresfarse”.
“El minestron de fasoi” con soli fagioli di cui alcuni passati, era un altro piatto. Bisognava cuocerlo coi “garibaldini”.
Versato in scodelle veniva collocato sullo sporto della nappa del camino (“va ben anca su ‘l armaro in camara, ricordandose de meterge soto ‘na strasa se no se vede ‘l stampo de ‘l culo de ‘e scuee su ‘a vernisa”). Bisognava aspettare, meglio il giorno dopo. Doveva raffreddare, indurire, “fare ‘a grosta”. Servito con “‘na crose de ojo” era “da lecarse i mostaci e da ciuciare la scoea”.
“Minestron e minestron de fasoi”: minestre “da mastegare, se te voi ke ‘e sia bone”.
Contrada delle Chioare. In dialetto cioare erano chiamati così quei piccoli uncini fissati nei telai delle fabbriche di lana che servivano a distendere i tessuti appena usciti dai lavaggi (qui la mappa, rubrica “Toponimi vicentini narrati da Luciano Parolin”, qui tutti gli articoli, ndr). L’arte della lana, molto diffusa a Vicenza, aveva il suo centro al Bacchiglione che azionava le ruote idrauliche e le macchine degli opifici. Il grande bacino di Ponte Pusterla fu costruito nel 1854.
Contrada o Contrà delle Fontanelle. Denominazione con delibera podestarile del 16 aprile 1927 (qui la mappa, ndr). Il nome Fontanelle è rimasto nel tempo. Scrive il Barbarano che esiste una Contrada «che ora si chiama delle Fontanelle perché vi furono anticamente i bagni pubblici, detti le Terme, ai quali da Caldogno si conduceva l’acqua per mezzo di alcuni canali, de quali ancora restano in Lobia molti vestigi». In loco l’osteria “Ai Gati Mori”.
Contrada o contrà delle Fontanelle (Vicenza-Francesco Dalla Pozza-Colorfoto per ViPiù)
“Arte culi ‘n aria“ è il titolo di una serie di.. articuli così come li ha scritti (l’ultima pubblicazione di quello che ripubblichiamo oggi è del 28 dicembre 2019, ndr) Umberto Riva per te che nel piacere della tavola, vedi qualcosa di più: gli articoli sono raccolti insieme alla “biografia” tutta particolare del “maestro” vicentino Umberto Riva nel libro “Arte culi ‘n aria”, le cui ultime copie sono acquistabili anche comodamente nel nostro shop di e-commerce o su Amazon.
Le interiora degli animali sono i generatori della vita. Forse per quello si offrivano sugli altari agli dei. Fegato, polmoni, cuore. Intestini, pancreas, stomaco. Anche il cervello. Gli dei gradivano perché gli dei erano dei buongustai e volevano il meglio.
Lettore di “Arte culi ‘n aria”, ricette e biografia di Umberto Riva
Certo, quando si andava dal macellaio i sacrifici agli dei non suscitavano attenzione alcuna. “Signor Francesco, due chili di trippa mista, anche i doppioni, mi raccomando”. “Mi salva del polmone signor Francesco!” era la raffinata figlia della moglie del direttore didattico.
A Vivaro di Dueville c’è ancora una strada che si chiama “via Buseca”. In fondo a quella via c’era un’osteria in una vecchia casa colonica, con campi da bocce al posto dell’aia. Si chiamava, indovina un po’, “Alla Buseca”. Il piatto forte, credo l’unico, era la “coradea in umido” con “poenta fresca”. Come dire polmone di vitello in umido con polenta appena fatta. Pensare che a Milano “buseca” significa trippa, mentre il polmone cotto è chiamato “curada”.
A proposito di trippa. La trippa, che passione. Doppione, sfogliata o mille foglie. Il misto.
Trippe in brodo. “Oggi trippe” si leggeva sulla porta delle osterie del centro città. Su tabelle di smalto bianco e scritta nera o bleu “OGGI TRIPPE”, era il giorno di mercato. Alla Vecchia Guardia od alla Bella Vicenza e tante altre. Era il giorno dei ”sensari”. “Le tripe buje ‘e fa bel a la fame e le smaca el vin”.
Da “Toni dal Spin” alle “becherie” a Treviso le trovavi mantecate. La ricetta era del “sior Remo de Vicensa”. Predevi delle trippe bollite al punto giusto e scolate, le mettevi tra due piatti fondi con uno ed anche due spicchi d’aglio, ti accomodavi su una sedia e, per non sporcarti mettivi un canovaccio su una coscia, giusto quella coscia sulla quale ritmicamente sbattevi quei due piatti fondi con contenuto. Quando si era formato il latte, lo si scolava e si condiva con “parsemolo, ojo, e magari un gioso de aseo de queo co ‘a mara”.
Ma la morte delle trippe era l’umido. “Trippe in umido con polenta e “vin bacò”.
La mamma preparava. tutto ben spezzettato, cipolla, carota, sedano in grande abbondanza. Quando le verdure erano ammorbidite buttava “ne ‘a tecia de tera cota”: trippe e conserva Muti, “Do broche de garofano e ‘na scianta de peare”. La trippa fatta “pipare soto el covercio par un saco de tempo, co poenta servia co ‘l cuciaro e un mucio de lensa”.
Che gioia.
Raffinatezza, il fegato alla veneziana.
Il fegato di vitellone “’na montagna de ceoa e na scianta de salvia, ‘na crose de ojo ma miga tanto ”. La variante era il “fegato a la barcarola” un po’ più povero perché bastava “el fegato de vaca meso biciere de vin, de più ceoa e farge vedere solo l’ojo che ‘l costa”, ma altrettanto “bon”.
Il cuore era per chi aveva la “brasolara” e “xera ‘na roba da siori”. Però, “volendo, ogni tanto, fare un strapo” bastava anche la “farsora”. “La farsora” era particolarmente usata “ par fasenare el colo de l’oco” e non solo dell’oca.
Quando si tirava il collo a pennuti preferibilmente grossi, anche “caponi” tanto per capirci, li si metteva appesi ad una trave con la testa all’ingiù cosicché il sangue fluiva tutto nel collo e nella testa della bestia. Non appena si fosse rappreso, il sangue, si tagliava il collo alla base del corpo procedendo come segue: si incideva la pelle tutto attorno raso al corpo, si spingeva in giù la pelle stessa, quindi si recideva la parte ossea ad un paio di centimetri più in sotto; si aveva così la pelle più lunga della parte ossea e la possibilità di chiudere il collo con lo spago come se fosse un cotechino, niente così poteva uscire quando si metteva il collo a bollire con tutte quelle parti di carni bianche e rosse con relative ossa. Il sangue crea schiuma e questa non è buona cosa.
Il collo lessato non veniva servito col bollito. Lo si metteva a raffreddare e quando lo si voleva mangiare lo si “fasenava”. Ovvero: con un buon coltello lo si apriva in due per lungo, testa compresa, lo si metteva “in composta con sae peare e ojo” dopo qualche ora si prendeva la “farsora de fero nero” la si portava a temperatura notevole e quindi vi si stendeva le due parti del collo. Si ricuoceva. “Colo de oco fasenà” ottimo con “poenta freda e verse boie”.
Cosa pretendevano ancora gli dei? Il cervello.
Era un piatto che con il pancreas era apprezzato dai consumatori non più giovani, sì perché sapeva da “freschin” anche se lo si faceva fiorire con il limone “imbaosà con ovo sbatù e pan gratà” dopo averlo tagliato a pezzettoni. A me piacevano le polpette che si facevano con l’uovo e il pane avanzato dall’operazione “imbaosamento”.
Bisogna proprio dirlo: gli dei la sapevano lunga.
I francesi le chiamano ratatouille noi regalie, ma, “xe mejo, “buee, dureo, figà e queo che ge sta torno”.
“Arte culi ‘n aria“ è il titolo di una serie di.. articuli così come li ha scritti (l’ultima pubblicazione di quello che ripubblichiamo oggi è del 26 dicembre 2019, ndr) Umberto Riva per te che nel piacere della tavola, vedi qualcosa di più: gli articoli sono raccolti insieme alla “biografia” tutta particolare del “maestro” vicentino Umberto Riva nel libro “Arte culi ‘n aria”, le cui ultime copie sono acquistabili anche comodamente nel nostro shop di e-commerce o su Amazon
Venivano cotti in “tecia” (tegame solitamente in terracotta). Così ce n’era per tutti e di più.
Arte culi ‘n aria
Normalmente erano passeri comperati già pelati in Piazza delle Erbe, in autunno. All’interno veniva lasciato il “dureo” (stomaco detto anche per i volatili, durello) così acquisivano quel gusto amarognolo che tanto doveva piacere. Il durello (lo stomaco), però, non si doveva masticare, ma solo “ciuciare” (succhiare) se non volevi impestarti la bocca. Le dosature: tre uccellini per il papà, due a testa per madre e figli. Tanta “poenta onta” (polenta fritta).
Era un piatto serale.
Nella mattinata veniva perfezionato l’acquisto da quel banchetto, tra i quattro o cinque esistenti in Piazza delle Erbe, in autunno nel periodo di caccia. Così si faceva da anni tutti gli anni. La “siora” (signora), venditrice e pelatrice, con lungo vestito nero dai fiorellini stampati, grembiale grigio scuro, fazzoletto nero a racchiudere una chioma che da quanto dava ad intendere qualche ciuffo ribelle, era pepe e sale, salutava come se ti fossi visto il giorno prima e non l’anno prima,. Sapeva che li volevi pelati tutti di taglia media e tutti della stessa grossezza, “così i se cusina gualivi” (la cottura risulterà omogenea). Quando i soldi finivano nella scatola di latta da cioccolatini di Majani, ti ignorava e riappoggiava le immense natiche sulla sedia impagliata con lo schienale intagliato e ricominciava a “peare” (pelare) uccelli per tutti coloro che li volevano pelati.
Importante era preparare in mattinata la polenta. Doveva essere morbida, bassa. Veniva ricoperta da un tovagliolo perché non facesse crosta a contatto con l’aria mentre si raffreddava. Anche gli uccelli subivano il dovuto trattamento. Si schiacciava loro la pancia per la fuoriuscita degli escrementi e di quella parte di intestino che li conteneva. Attenti al “dureo”. Per pulirli si usava uno straccetto umido dopo averli ripassati uno ad uno per levare quel pò di “spiumoti” (peluria tipica dei volatili) che la “siora” nel far le cose veloci, aveva lasciato. Importante era non lavarli sotto il rubinetto ché si poteva perdere il sapore tipico della cacciagione. Il lardo tagliato fino e preparato a quadratini “’e lardee” (lardo tagliato fine ed a pezzetti) e poi la salvia ben mondata ed asciugata. Lo stuzzicadenti univa due uccelletti separati da due foglie di salvia e da tre lardelle intercalate di modo che a contatto con la carne fosse il lardo, alle estremità due lardelle per parte con in mezzo l’immancabile fogliolina di salvia. Il tegame, in smalto, ma assai meglio, in terracotta, veniva messo al fuoco all’inizio col coperchio ché, quando quelle fettine di lardo messe sul fondo avevano rilasciato il grasso, doveva quasi sparire. Cominciava solo allora, una lenta cottura nell’angolo della “stua” (cucina economica). Gli uccelli trovavano così giusta fine per la loro storia.
Quasi in contemporanea iniziava, per un’unica preparazione, il rito “poenta onta”. Quella gloriosa crema di mais che dalla mattinata riposava, ben coperta dal tovagliolo di cotone, sul panaro (tagliere), veniva tagliata a fette e fatta riposare, sempre ben coperta, e per qualche tempo. Questo perché l’acqua che si formava nel taglio, potesse evaporare, si doveva evitare che l’acqua a contatto con il condimento bollente “el sfritegase sciansando la cusina” (friggesse schizzando la cucina). Al giusto momento la padella era pronta con un pò, pochissimo per la sua preziosità, d’olio, con i ritagli delle lardelle e le cotiche, veniva posta al centro della stufa “sora i serci” (sopra i cerchi) con coperchio per permettere al lardo di sciogliersi senza bruciare. E via! La polenta si impreziosiva di una crosta così saporita da fare ampiamente concorrenza al gusto degli uccelletti. “Varda ‘a se gonfia come ‘n grostolo” (guarda si gonfia come un crostolo, dolce carnascialesco).
Il paradiso era volato in terra.
Alla fine sui piatti trovavi solo “beki e durei ciucia” (becchi e durelli succhiati).
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Contrà delle Barche. La strada si chiamava anticamente dei Piancoli e serviva ad identificare non una via ma un’intera zona (qui la mappa, rubrica “Toponimi vicentini narrati da Luciano Parolin”, qui tutti gli articoli, ndr). Esisteva un piccolo porto che sorgeva alla confluenza del Retrone col Bacchiglione, dove giungevano i natanti che scaricavano le merci d’ogni genere, in particolare “l’oglio che veniva da Venesia”. Nel 1802 la Dogana costruì un porto in Borgo Berga, per controllare il contrabbando. Le barche cariche di materiale erano chiamate al traino, perché tirate da cavalli che camminavano lungo l’argine.
Contrà delle Beccariette. Il nome caratteristico è dovuto all’esistenza di botteghe di macelleria (qui la mappa), “i becari”. La delibera è del consiglio comunale datata 8 marzo 1911.
Stradella delle Beccariette (Vicenza-Francesco Dalla Pozza-Colorfoto per ViPiù.it)