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Arte culi ‘n aria, la ricetta n. 9 di Umberto Riva: la crema, l’importanza della crosta tutta da “ciuciare”

Lettore di "Arte culi 'n aria", ricette e biografia di Umberto Riva
Lettore di “Arte culi ‘n aria”, ricette e biografia di Umberto Riva

“Arte culi ‘n aria“ è il titolo di una serie di.. articuli così come li ha scritti (l’ultima pubblicazione di quello che ripubblichiamo oggi è del 3 novembre 2019, ndr) Umberto Riva per te che nel piacere della tavola, vedi qualcosa di più: gli articoli sono raccolti insieme alla “biografia” tutta particolare del “maestro” vicentino Umberto Riva nel libro “Arte culi ‘n aria”, le cui ultime copie sono acquistabili anche comodamente nel nostro shop di e-commerce o su Amazon.

Prima di “gustarti” la nuova ricetta fuori dal normale di Umberto Riva rileggi la Prefazione e il glossario di “arte culi ‘n aria“, una nuova serie di.. articuli così come li ha scritti il “nostro” Umberto per te che nel piacere della tavola, vedi qualcosa di più.


Se te fe ‘l bon te porto a vardare i siori che i magna ‘e paste“. Più un modo di dire, che una realtà.

Lettore di "Arte culi 'n aria", ricette e biografia di Umberto Riva
Lettore di “Arte culi ‘n aria”, ricette e biografia di Umberto Riva

Di reale c’era solo quel piccolo mondo di piccole cose di cui ci si accontentava e di cui si godeva. La modestia in ogni espressione, era accettata senza drammi o traumi. Così era. Il domani sarebbe potuto essere diverso, il domani era costruito sulle aspirazioni sui sogni, pertanto non poteva che essere diverso. Sognare é sempre bello é sempre importante, quando si sogna ad occhi aperti. La vita é traguardi per le grandi cose, per le cose che si credono grandi, ed anche per le piccole cose e, forse, le piccole cose sono più importanti perché quotidiane. Si sogna di poter scegliere, si sogna di essere scelti. John Lennon disse che importanti sono i sogni non i ricordi. Si e no! I sogni, quelli importanti, vivono di ricordi, perché anche dai ricordi nascono sogni. I ricordi sono maestri di nuovi sogni.

Uova, latte, burro pochissimo, farina bianca, buccia di limone grattugiata (ricordarsi poi di lavare ed asciugare bene la grattugia ché altrimenti “la se irusinise“). Una casseruola e rimestare lentamente ed incessantemente fino a cottura, fuoco basso tanto che la crema “la fasa blum”, ogni tanto”. Il tutto versato in una teglia (quella che sarebbe nata per l’arrosto) e raffreddato. Infine, solidificato e rovesciato sulla tavola, tagliato a parallelepipedi. Gialla, lucida, liscia, profumata, la crema era pronta.

Aspiravi, sognavi “speremo che i la frisa“. Se il sogno si realizzava, ti sentivi miracolato.

Le creme, della misura delle paste di pasticceria, venivano passate nel pane grattugiato, battute ben bene da tutte le parti col piatto delle dita, così che il pane penetrasse nella soffice crema. Il burro si scioglieva nella “farsora” e, quando cominciava a “sfritegare” si ponevano con somma gentilezza i pezzi di crema.

Diventavano dorati. La crosta assumeva consistenza e croccantezza. Il profumo, esilarante.

La crema avida per gli avidi tuoi occhi era li, sul piatto. Era il momento della gioia.

Si scorticava col coltello. Una scarificazione in piena regola. Quelle croste, quei “golosesi” venivano accantonati, godendo per primo della parte morbida di quella bontà. La bocca trasmetteva gioia alla mente ed al cuore. Piano lentamente, anche se qualcuno ti diceva “movete che deventa tuto fredo e no xe più bon“. Era sempre buono, buonissimo, fantastico.

Finita la parte morbida, si passava alle sei croste. La gioia era esaltazione.

Andavi ancora più piano, volevi illuderti che durasse in eterno. “Ciucion“.

Distilleria Schiavo, la grappa di Costabissara con solide fondamenta classiche

La piccola distilleria Schiavo è presente a Costabissara da 5 generazioni, dal 1887 per la precisione, tra le più antiche d’Italia.

Qui si fondono storia e visione, tradizione e innovazione. Il passato e il futuro sono elementi imprescindibili che si intrecciano come una trama “ad alta gradazione”.

L’amore per i distillati è nel Dna di Marco Schiavo, cresciuto in distilleria dove sin da piccolo ha imparato sul campo quello che nessuna scuola può insegnare, ma solo la sapiente esperienza di una famiglia sa tramandare.

Nel 2007 papà Beppe viene a mancare improvvisamente e Marco giocoforza deve prendere in mano le redini della Distilleria con tutte le difficoltà che comporta un passaggio generazionale “forzato” dalle circostanze. Ma questo non lo mette in difficoltà, anzi, è uno stimolo, una sfida da affrontare con la sua grinta e la benevola incoscienza della nuova generazione.

Marco mette in discussione la produzione, non in linea con i consumi dei superalcolici del momento che si sono lentamente frazionati, spostandosi dal dopocena verso la miscelazione pre e post dinner e ha l’idea: diversifichiamo il core business!

Il lato gagliardo e spiritoso di un distillato

La nuova linea Schiavo si chiama Gagliardo, come Marco del resto, pensata e realizzata proprio nel momento giusto del boom dell’aperitivo e del cocktail. Gagliardo nasce dall’infusione per 18 giorni di erbe, radici e spezie, rimescolate a mano con la tecnica del bâtonnage, con un risultato che ben si presta alla costruzione dell’aperitivo italiano. Una linea che comprende il Bitter Radicale, che si è aggiudicato il World Best Bitter 2019 al Liquors Competition in Inghilterra, il Fernet Radicale che sempre al Liquors Competition ha conquistato il riconoscimento Gold, il Bitter Radicale Extra e il Gagliardo Triple sec Radicale.

I love Loison

Gagliardo Triple sec Radicale è stato calibrato anche con l’intervento di Dario Loison. La sua idea è stata quella di inserire tra gli ingredienti il Mandarino Tardivo di Ciaculli (presidio Slow Food) ingrediente top dei suoi panettoni e me ne sono innamorato – racconta Marco. Non ho preparato quindi un liquore classico dolce, ho utilizzato le bucce candite del mandarino di Ciaculli che ho messo in infusione per 7 giorni per dare il tocco finale al Triple Sec realizzato con arancia dolce, arancia amara, lime, limone e bergamotto“.

Il punto di vista di Dario

Marco è un one man show, il lato pazzo del suo carattere lo porta ad essere sempre sul pezzo, di sperimentare e rischiare. Il suo carattere così espansivo, e anche generoso, gli dà la carica per esporsi in prima battuta; se a questo ci mettiamo accanto la sua fame di fare cose differenti, Marco riesce ad anticipare i tempi e realizzare qualcosa fuori dall’ordinario, talvolta controcorrente ma sicuro che prima o poi le soddisfazioni arriveranno. Soprattutto con il suo Gagliardo, vero segno di innovazione: un Americano con il Gagliardo oggi a Vicenza è un MUST a Vicenza!”.

Info

Distilleria Schiavo

Via Giuseppe Mazzini, 39

36030 Costabissara VI

Tel 0444 971025

https://www.schiavograppa.com/

https://www.gagliardobitter.com/

L’articolo Schiavo, la grappa di Costabissara con solide fondamenta classiche proviene da L’altra Vicenza.

Alessandro Rossi: l’industriale vicentino filantropo e pioniere dell’industria italiana

Alessandro Rossi nasce a Schio il 21 novembre 1819, quinto di sette figli della coppia formata da Francesco Rossi e Teresa Beretta. Così lui stesso descrive la sua famiglia, originaria della contrada Rossi di Santa Caterina di Lusina: «Mio bisavolo era pastore nei Sette Comuni, mio avolo ne scese mercante di lane e fittuario, mio padre fondò nel 1817 quell’industria che io continuai e continueranno i miei figli senz’altro blasone che l’onestà, spero, e l’amor del prossimo».

La sua famiglia, già affermata nell’ambito di lavorazione e vendita della lana che caratterizzava da secoli l’economia scledense, lo educò amorevolmente e con fermezza nel segno della fede cattolica. La madre apparteneva a una delle più importanti dinastie di lanaioli della zona di Schio ed era nipote di Sebastiano Bologna, senatore e notabile del Regno d’Italia; donna energica e attiva, fu molto presente nella formazione morale e religiosa dei figli, due dei quali, Giovanni e Gaetano, scelsero il sacerdozio.

Nel 1809 il padre di Rossi era passato dall’attività commerciale e agricola a quella industriale; nel 1839 il suo opificio, con circa 160 operai, poteva contare su una rete commerciale estesa all’Italia settentrionale. Alessandro intraprende gli studi nel seminario vescovile di Vicenza, dove ha come precettore il gesuita Andrea Sandri, con il quale condivide sentimenti patriottici contro la dominazione austriaca che prosegue dal trattato di Campoformio del 17 ottobre 1797 con cui Napoleone aveva ceduto i territori della Serenissima all’Austria. Alessandro non si iscrive all’università, ma nel 1836 entra nella fabbrica paterna come operaio e dopo tre anni viene chiamato a condividere la direzione dell’azienda.

Si distingue per l’attitudine a coltivare studi economici ma anche storici, sociologici, filologici e letterari, che conduce assiduamente per tutta la vita, così come ama dedicarsi alla composizione di versi e poemetti. Si avvicina al pensiero degli illuministi inglesi e francesi anche attraverso la frequentazione dell’abate Pietro Maraschin, insigne geologo e studioso in contatto con gli ambienti più qualificati della cultura europea. Il suo fidanzamento con Maria Maddalena Maraschin (1825-1905), figlia di Giovanni, possidente e amministratore di cospicui beni finanziari e nipote dell’abate Pietro, gli consente di frequentare la biblioteca di quest’ultimo, dove studia opere di politica economica di autori come Adam Smith, Joseph Priesley, Jeremy Bentham, John Stuart- Mill, Edmund Burke, David Ricardo e altri. Alessandro mette così a fuoco il tema dei rapporti tra agricoltura e indstria. Fra il 1841 e il 1842 Alessandro intraprende un lungo viaggio in Gran Bretagna, Francia, Belgio e Lussemburgo: «Partii con un doppio proposito, di ammirare quante più opere del genio umano fossero state create nelle arti, e di vedere quante più macchine lo stesso genio dell’uomo andava inventando […] tre forze mi attraevano, di cui noi eravamo scarsi e mancanti: quella dell’acciaio, del vapore e dell’elettricità» (Cappi Bentivegna, 1955, p. 73

Grazie anche alle commesse per conto della ditta visita fabbriche, fond rie, tintorie e miniere nelle principali città industriali britanniche: Manchester, Oldham, Birmingham, Sheffield. Durante quel periodo invia sistematicamente dettagliati resoconti al padre sugli affari in corso e si interessa sia agli aspetti tecnici della produzione sia allo stato del lavoro operaio e particolarmente al degrado delle condizioni di vita nelle grandi concentrazioni industriali. A Parigi entra in contatto con i sansimoniani, che professavano una fiducia incondizionata nella scienza. Secondo la loro ideologia le scoperte scientifiche e lo sviluppo industriale possono dare vita ad una società in grado di fornire migliori condizioni di vita ai proletari. Alessandro si abbona alla loro rivista, “Le Globe”. I suoi rapporti con il mondo industriale europeo si consolidarono nel tempo e si concretizzarono attraverso l’importazione di macchinari, tecnici, impiegati e dirigenti, con il concorso dei quali trasformò radicalmente l’assetto produttivo dei suoi stabilimenti. La costruzione di una rete informativa e relazionale diventa uno dei principali fattori del suo successo imprenditoriale e politico, sostenuta, come dimostra il ricchissimo carteggio, da un’eccezionale vena epistolare. In particolare, strinse rapporti e amicizie personali a Verviers, capitale laniera del Belgio, un ambiente per lui fondamentale sotto il profilo dell’aggiornamento tecnologico e intellettuale. Nel 1845 muore il padre Francesco e Alessandro gli succede nella direzione dell’azienda, procedendo al rinnovamento degli impianti con l’acquisto della filatrice meccanica Mull-Jenni, l’introduzione della prima macchina a vapore e dei primi telai meccanici. Il 3 novembre 1846, dopo sei anni di fidanzamento, sposa Maria Maddalena Maraschin, dalla quale ebbe undici figli (Francesco, Giovanni, Teresa, Giuseppe, Gaetano, Luigi, Caterina, Maddalena, Luigia, Antonio e Anna Maria).

Viene arrestato per un breve periodo durante le agitazioni quarantottesche e in seguito sorvegliato dalle autorità austriache, che gli ritirarono il passaporto. Tra il 1852 e il 1857 acquista altri lanifici di Schio, allargando l’area dell’azienda verso la zona collinare. Nel 1859 cominciano i lavori di ampliamento dell’opificio scledense, affidati ad Antonio Caregaro Negrin, celebre architetto vicentino e patriota. Nel contempo Alessandro avvia il progetto di costruzione del giardino Jacquard, che si sviluppava come un teatro all’aperto di fronte alla fabbrica principale ed esprimeva in embrione la concezione insieme ricreativa e allegorica poi applicata nella progettazione del nuovo quartiere operaio. Nel 1865 acquistò a Santorso l’antica villa Bonifacio-Velo, con la chiesa di S. Spirito e gran parte dei terreni circostanti, la ristrutturò nel solco della tradizione secolare che aveva popolato il Veneto di ville padronali e ne fece la dimora di famiglia.Nel 1861 Alessandro Rossi vuole ampliare la Lanerossi ispirandosi ai lanifici che ha visitato all’estero. Si rivolge così all’architetto Auguste Vivroux di Verviers, città laniera belga con cui Rossi ha molti rapporti d’affari e importanti amicizie. Vivroux viene invitato a Schio per dieci giorni, durante i quali ha modo di farsi un’idea precisa, prendendo le misure del nuovo sito. Ritornato poi in patria, l’architetto belga disegna una fabbrica moderna, basata sul modello multipiano europeo e dotata di moderne tecnologie e macchinari. La costruzione dell’edificio viene affidata ad Antonio Caregaro Negrin. Nasce così la Fabbrica Alta, eretta nell’arco di nove mesi nel 1862. Non viene però realizzato (forse per questioni di budget) l’edificio gemello previsto sul lato est. Negli anni a seguire verranno comunque costruiti altri edifici che andranno a formare un quadrilatero con un cortile al centro.

Alessandro Rossi
Alessandro Rossi. la Fabbrica Alta di Schio e l’Asilo infantile per i figli degli operai

La Fabbrica Alta è imponente: lunga 80 m, larga oltre 13 m, conta cinque piani più seminterrato e sottotetto. Ogni piano ospita una diversa fase della lavorazione della lana ed è composto da un grande salone diviso in tre campate sorrette da colonnine di ghisa. La forza motrice per il funzionamento dei macchinari era prodotta, prima dell’avvento dell’energia elettrica, da una macchina a vapore importata dall’Inghilterra; il materiale usato per la costruzione è principalmente laterizio e pietrame ricavati dal territorio. Nell’autunno del 1866, a seguito della 3a guerra d’indipendenza, il Veneto si congiunge al Regno d’Italia e Alessandro Rossi viene eletto deputato nel collegio di Schio. L’anno successivo la partecipazione del Lanificio all’Esposizione internazionale di Parigi contribuisce a stimolare ulteriori iniziative imprenditoriali.

Tra queste c’è la creazione ex novo di un impianto dotato delle tecniche più avanzate nella produzione di filati pettinati, inaugurato a Rocchette-Piovene nel 1869 insieme alla costruzione di un impianto idraulico, per la produzione della necessaria forza motrice (per il cui finanziamento Rossi si rivolge a capitalisti veneti, lombardi, belgi e svizzeri). Nel 1868 viene costituita una nuova società in accomandita semplice, la Alessandro Rossi e C., con il coinvolgimento dell’ingegnere Ernesto Stumm. L’azienda si allarga nell’Alto Vicentino con la costruzione di altri stabilimenti. Nel 1870 Rossi venne nominato senatore del Regno d’Italia, diventando così un ponte tra ambiente politico e mondo imprenditoriale. Il suo apporto è guidato da un forte spirito pragmatico senza guardare all’appartenenza agli schieramenti. Il principale obiettivo della sua politica è il potenziamento dell’Italia industriale, a partire dalle condizioni economiche reali e dalla valorizzazione delle tradizioni umane e sociali tipiche di un Paese a vocazione manifatturiera. Rossi esalta la nazione e le sue risorse, denunciandone al contempo i profili di arretratezza (nelle infrastrutture, nella scarsa disponibilità di capitali).

Politicamente avversa l’eccessivo rigore di Silvio Spaventa e di Quintino Sella, e sostiene il suffragio universale maschile e i propositi di riforme sociali di Agostino Depretis. Nel 1872, insieme a Leopoldo Franchetti e Sidney Sonnino, fà parte della commissione Jacini per l’inchiesta agraria.mNel 1873 l’azienda viene trasformata in una società per azioni, il Lanificio Rossi s.p.a., quotata alla borsa di Milano. Alessandro Rossi si occupa costantemente della formazione professionale della nuova generazione operaia, sradicata dalle antiche consuetudini e costretta ai tempi e alla disciplina di fabbrica. Però Rossi non si ferma a ciò e si prende a cuore anche l’educazione dei più piccoli. Nel 1867 fonda a Schio un primo asilo per bambini dai 3 ai 7 anni, aperto ai figli di operai anche non dipendenti del Lanificio e fornito di palestre, servizio sanitario, sale da bagno e di giochi, con un parco di tremila metri quadrati. Un’altra importante istituzione che viene creata è la Scuola serale per adulti, con premi di profitto, orari speciali e rendimento scolastico paragonato a quello lavorativo. Dal 1873 il Regolamento del Lanificio impone l’obbligo d’istruzione per essere assunti. Esemplare è il nuovo Asilo Infantile (1872), che arriverà ad ospitare 500 figli di operai, vantando “la maggior luce, la maggior aria, le maggiori comodità possibili”, pasti nutrienti, infermeria e un auditorium per la musica.

A completare il programma educativo sono le scuole elementari del lanificio (1873), dove si impartisce anche un’istruzione pratica su tessitura, igiene ed economia domestica e le scuole comunali (1876). L’Asilo di Maternità (1878), accoglie i bambini fino ai 3 anni, agevolando il lavoro delle operaie, che ad ore prestabilite possono allattarli. Alessandro Rossi rilancia inoltre l’istruzione tecnica, creando la Scuola Industriale di Vicenza(1878), con Officina e Convitto, per la formazione teorico-pratica di tecnici per l’industria. Istituto che ora porta il suo nome: il celebre ITIS A. Rossi, che ha avuto tra i suoi illustri allievi anche Federico Fag- gin, l’inventore del microchip. Persino alla morte, il suo ultimo pensiero va alle generazioni future. Alessandro Rossi lasciò in eredità tutto il complesso della sua villa di Santorso alle Opere Pie di Schio, oggi denominate la C.A.S.A., con la clausola che dovesse essere in futuro abitata da bambini ed adolescenti.

La villa divenne prima orfanotrofio fino al 1950-1960 e poi fu ceduta in comodato all’ANFFAS per ospitarvi le sue prime strutture riabilitative. Dal 1872 comincia la grande opera di ammodernamento della città, secondo un piano che prevede la costruzione di una “Nuova Schio” con scuole, biblioteche, bagni pubblici, teatro, chiesa e ospedale: una «città sociale» come «strumento di salvaguardia e riscrittura al tempo stesso della cultura contadina nell’età della produzione di massa e del lavoro salariato» Il progetto, basato sulle più importanti esperienze europee, si ispira al modello delle città-giardino. La realizzazione viene affidata all’architetto Antonio Caregaro Negrin. Nello stesso periodo Alessandro Rossi promuove la realizzazione di vie di comunicazione stradali e ferroviarie nell’area alto vicentina. Si inizia con una ferrovia economica Vicenza-Schio, inaugurata nel 1876 alla presenza del Principe Umberto. Seguiranno i tratti Schio-Piovene (1884), Schio- Torrebelvicino e Piovene-Arsiero (1885); qui, nel 1873, era nata la Cartiera del figlio Francesco, che sarà collegata a Schio da una linea telefonica di oltre 20 km. Così in una lettera di A. Rossi datata 1 Novembre 1884 Alessandro Rossi descrive i villaggi operai: «A Schio il mio sistema è applicato sovra 16 ettari (…) Son case che costano da £ 2100 l’una da 4/ m, da 6/m, da 8/m e fino a 12/m l’una. Le minori hanno cantina e 4 stanze e 1 soffitta, corticella di dietro e 15 m² di orto tra la casa e la strada, divisa da ringhiera d’un metro. (…) I contratti sono uniformi, non si concede la rivendita se non in casi determinati, né spacci di vino e liquori che già abbondano nella vecchia Schio. E’ la popolazione più sana e più morale questa della città – adulti e bambini fanno sinora 1000 proprietari nuovi. Questo sistema misto esclude l’apparenza casermale e giova a fondere le classi sociali».

Negli anni Settanta dell’Ottocento una crisi economica investe l’industria italiana. Ales- sandro Rossi coglie l’occasione per avviare ristrutturazione finanziaria e organizzativa dell’azienda. Nel 1873 il Lanificio Rossi fa quotare le sue azioni nella borsa a Milano. Questo permette di realizzare una consistente raccolta di capitali che a sua volta permette alle azioni stesse di aumentare il loro valore. Ma è la contemporanea scelta di costituire una società anonima a rendere l’imprenditore protagonista di una svolta storica. Nella visione rossiana questa forma societaria ha il pregio di affrancare l’impresa dalla dipendenza dagli istituti bancari. Il riassetto aziendale è basato sul sistema cosiddette “Gerenze Autonome”, che consiste nella suddivisione dell’azienda in quattro ambiti produttivi guidati ognuno da un diverso manager, completamente indipendenti dal punto di vista organizzativo ma sottoposte al divieto di reciproca concorrenza e al controllo finanziario dell’Amministrazione Generale e del Consiglio di amministrazione. L’anonima, con un capitale di 30 milioni di lire diviso in 120.000 azioni, ha come principale azionista l’industriale cotoniero Eugenio Cantoni, mentre Alessandro Rossi ricopre le cariche di direttore generale tecnico e di presidente. Il titolo VI dello statuto della nuova società è dedicato alle istituzioni operaie: il 10% degli utili netti dell’anonima veniva diviso a metà tra le istituzioni operaie e Alessandro Rossi, che poi rinuncia alla sua spettanza.

Questo riassetto aziendale permette a Rossi di dedicarsi maggiormente all’impegno parlamentare e pubblicistico, continuando a realizzare articoli che mirano a realizzare una nuova politica economica e industriale italiana e a promuovere la nascita di uno schieramento favorevole al protezionismo. ”L’avvenire è dei popoli lavoratori”. Questa è una delle frasi che si può leggere sul basamento dell’Omo, la statua voluta da Alessandro Rossi per celebrare i suoi operai. La puntata del 1° maggio non poteva che essere dedicata a lui: il tessitore che è diventato uno dei simboli di Schio. Il tessitore tiene in mano una navetta, l’innovativo strumento per il telaio da tessitura inventata dall’inglese John Kay nel 1733. Questo strumento contiene una spoletta di filato che serve a comporre la trama e consente di semplificare il lavoro del tessitore, accrescendo così la produzione di panni. Per l’impatto che ha avuto nelle fabbriche, viene considerata un simbolo della Rivoluzione industriale. L’opera viene solennemente inaugurata il 21 settembre 1879. La sua posizione originale è nel crocevia dei viali Pietro Maraschin e Alessandro Rossi, di fronte all’ingresso della Lanerossi. Qui vi resta fino alla seconda metà degli anni Trenta del Novecento, quando viene spostata nei limitrofi giardini pubblici per liberare il viale al transito dei mezzi. Nel 1945 il monumento viene trasferito nella sua ubicazione attuale: Piazza Alessandro Rossi, nel cuore del centro storico.

Dal 1873, cioè dopo la trasformazione del Lanificio in società anonima, Alessandro Rossi inizia a dedicare sempre più tempo alla politica. In contemporanea pianifica l’inserimento della terza generazione imprenditoriale dei Rossi e segue con affetto l’educazione dei figli con frequenti viaggi all’estero di studio e lavoro. L’educazione che ricevono è sia di natura tecnica che umanistica. Per il figlio maggiore Francesco, nel 1878 acquista la cartiera di Arsiero, rilanciandone l’attività. Rossi è molto attivo anche nel rinnovamento del settore industriale nazionale. Nel 1877 a Roma, assieme ad altri imprenditori tra cui Gaetano Marzotto Senior, fonda l’Associazione Laniera Italiana. Questa associazione di categoria rimarrà attiva fino al 1993, quando le industrie tessili italiane si raggruppano sotto un’unica sigla, che ora prende il nome di Settore Moda Italia. Nel 1884 Rossi inaugura la scuola convitto di Pomologia e Orticoltura con l’obiettivo di dare un sostanzioso contributo alla modernizzazione dell’agricoltura italiana, ancora legata a modelli feudali, arretrata e poco efficiente.

L’istituto ha due sedi: una a Santorso per la parte pratica e l’altra nel Quartiere Operaio, dove avviene la formazione teorica e dove gli studenti alloggiano. Il progetto tuttavia non riscuote il successo sperato e viene interrotto sul finire dell’Ottocento. Dal 1889 al 1891 Alessandro Rossi ricopre l’incarico di sindaco di Schio, promuovendo importanti opere pubbliche come: il macello, i bagni, il lavatoi, il lazzaretto, l’orfanotrofio, l’acquedotto, l’Istituto di Nazaret per le figlie abbandonate (ora Istituto Canossiano) e la Chiesa di S. Antonio Abate. Inoltre è fautore dell’ampliamento del Duomo con la costruzione della canonica. Rossi si dimette dalla presidenza del Lanificio nel 1892, ma continua l’attività finanziaria, politica e pubblicistica. Nei suoi ultimi anni di vita, il Lanificio continua a crescere, impiegando alla fine del secolo 5000 operai e aumentando le quotazioni in Borsa. Dopo una breve malattia, Alessandro Rossi muore il 28 febbraio 1898 nella sua tenuta di Santorso. La scomparsa di Alessandro Rossi lascia un grande vuoto, ma anche un’enorme eredità. Infatti sono innumerevoli le infrastrutture e le organizzazioni sociali da lui volute, che resteranno al servizio della cittadinanza. Come la sua villa di Santorso lasciata in eredità alle opere pie. Inoltre con le sua attività ha saputo stimolare la nascita di un tessuto produttivo che continuerà a prosperare anche negli anni a seguire.

Subito dopo la sua morte, in maniera spontanea si costituisce un comitato di cittadini intenzionato a rendergli omaggio. Il comitato, coinvolgendo l’amministrazione comunale, commissiona un’opera celebrativa a Giulio Monteverdi, lo scultore piemontese che aveva realizzato il monumento al tessitore. Il luogo scelto per il posizionamento della statua è l’ampio crocevia posto tra la chiesa di Sant’Antonio Abate, le scuole elementari, il quartiere operaio e la ferrovia, tutte opere realizzate grazie alla volontà e sostegno finanziario del senatore Rossi. Il monumento viene inaugurato il 12 ottobre 1902. La statua bronzea raffigura Alessandro Rossi in età matura con lo sguardo rivolto verso il centro cittadino. Il Senatore è in posizione fiera, in piedi su una ruota dentata, mentre una appoggia una mano su dei libri depositati su un tavolino.

Questi elementi simbolici richiamano i valori cardine che hanno sempre ispirato il suo operato: il lavoro e lo studio. A completare la composizione è un bambino che si solleva sulle ginocchia di una giovane donna per offrire un fiore al senatore; la donna probabilmente rappresenta la Città di Schio che intende proporre alle generazioni future (il bambino) l’ideale di vita rossiano, basato sul binomio cultura- lavoro. Sul basamento è presente inoltre una targa che ricorda l’anniversario di fondazione (1883) dell’Istituto tecnico industriale “Rossi “ di Vicenza, nato per volontà dello stesso industriale. Il problema scolastico educativo appassiona e impegna l’intera vita di Alessandro Rossi, a conferma del suo profondo desiderio di miglioramento del sistema e della politica scolastica del tempo. Alessandro Rossi è il primo industriale italiano ad occuparsi in modo organico degli operai, impegnandosi per la loro crescita umana, morale ed intellettuale e creando istituzioni previdenziali ed assistenziali a compensazione dei bassi salari.

Il suo sistema, legato a convinzioni ideologiche e religiose, incarna quell’armonia tra capitale e lavoro celebrata dal Monumento al Tessitore e solo raramente turbata da scioperi. La costruzione del Giardino Jacquard (1859-1878), per il tempo libero degli operai, e la Società di Mutuo Soccorso (1861), che fornisce assistenza medica in caso di malattia o infortunio, segnano l’inizio di questo percorso. Il problema della casa è affrontato dapprima con la Cassa fitti (1864) e con gli alloggi del Palazzón (1865). Sorgono inoltre dormitori, una cucina economica (1871) che distribuisce minestra a bassi prezzi e una casa-convitto per operaie (1873). Infine viene creato un quartiere dedicato interamente ai dipendenti. Centro di attività culturali è il Teatro Jacquard (1869), coi suoi 600 posti: vi sono rappresentati drammi popolari ed è sede di riunioni, feste, biblioteca, banda, orchestra, corsi di ginnastica, teatro e canto. Altro tema centrale è l’educazione a cui Rossi dedica molte energie. Tra le opere più esemplari c’è l’asilo Infantile pensato per i figli di operai. Nel 1872, con la costruzione della nuova sede, questa istituzione può vantare pasti nutrienti, un’infermeria dedicata e un auditorium per la musica. Nel 1873 quando il Lanificio diventa una Società Anonima, nel nuovo statuto viene indicato che il 5% degli utili deve essere destinato alle istituzioni operaie e apre agli operai la sottoscrizione di azioni. Ulteriori iniziative intraprese da Rossi per i suoi operai sono: i libretti di risparmio (1876), il Magazzino cooperativo (1873) per la vendita di generi alimentari a prezzo di costo, il magazzino merci (1875) per lo smercio di scampoli fallati, il circolo operaio (1877), il fondo pensione (1880), la Cassa-prestiti (1883). Nel 1889, in occasione del Giubileo operaio di Alessandro Rossi, si contano a Schio 21 istituzioni operaie, 13 a Piovene, 8 a Pieve e 7 a Torre.

Da Storie Vicentine n. 1 2020


In uscita il prossimo numero di Marzo 2023
distribuito nelle edicole del centro e prima periferia e agli Abbonati
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Neri Pozza: lo scrittore dei luoghi della vera identità di Vicenza

La scrittura di Neri Pozza ci porta a conoscere i palazzi e le contrade che custodiscono il genius loci, la vera identità di Vicenza ben oltre la facciata palladiana.

“L’uomo dovrebbe vivere in una città che gli somiglia…eppure vi sono uomini di intelligenza non volgare che vivono tutta una vita in una città senza averla mai guardata in faccia. Non conoscono il tessuto delle piazze, il percorso dei fiumi, la struttura e la bellezza delle case e delle piazze, il disegno dei giardini”. (Neri Pozza)

Neri Pozza (Vicenza 1912 – 1988) nasce come artista: si dedica alla scultura, presso la bottega del padre, e apprende le tecniche dell’artigianato artistico alla scuola d’ Arte e Mestieri di Vicenza. Deve in seguito la sua fama all’arte incisoria; infatti è considerato come uno degli acquafortisti più importanti del Novecento italiano, le sue opere sono state esposte alla Biennale di Venezia e alla Quadriennale di Roma. Giunge alla letteratura in un secondo momento, con articoli e racconti; l’atto della scrittura in Pozza è finalizzato alla trasmissione della memoria civile e politica, di vicende private e intime che divengono

esempio per la collettività. Ma è probabilmente l’esperienza di editore chiave di volta che sostiene e conchiude tutti i suoi intenti. Ossia, attraverso un’editoria di alta qualità, riesce a coniugare l’arte, l’attività imprenditoriale e la scrittura. Pozza investe tutte le sue competenze e le sue attenzioni nel seguire il processo di pubblicazione dei libri: interviene direttamente sui testi, sceglie in prima persona l’impostazione grafica, ovvero cura il progetto editoriale da diverse prospettive e con la passione dell’artigiano. Il libro per Pozza è al contempo opera d’arte e documento di vita civile. 

“Dietro lo straordinario affetto di Pozza per la sua città, c’è un porgetto di maturazione artistica. Pozza vuole raccontarsi attraverso la conoscenza ravvicinata di un ambiente che sente congeniale perchè ha limiti precisi, dei contorni netti, riconoscibili.

Non si può fuggire da ciò che si è. Il piccolo mondo contiene la radice primaria, il senso stesso del nostro esistere, la ragione di una ispirazione che ha bisogno di quel taglio di luce o di quell’angolo di strada per toccare terra e chiudere il cerchio della sua ricerca” (Marco Cavalli, curatore del Diario di Neri Pozza)

Di Giulia Basso da Storie Vicentine n. 1 2020


In uscita il prossimo numero di Marzo 2023
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Ultrabericus 2023, l’organizzazione svela i top atleti al via

In conferenza stampa nella prestigiosa Sala Stucchi di Palazzo Trissino a Vicenza la presentazione della Ultrabericus edizione 2023.

Ultrabericus Integrale

Per la gara maestra Ultrabericus Integrale (65 km 2500mD+) si ripresentano al via due atleti che già fanno parte dell’albo d’oro. Ci ritenta infatti l’ultramaratoneta bergamasco Marco Menegardi, recordman nel 2017 con il tempo di 5:31:55, ruolo poi soffiatogli da Cristian Modena che, proprio in quell’anno, “il Menega” era riuscito a lasciarsi alle spalle. In buona forma, nel 2022 si è laureato campione Italiano sulla 100 km ed è l’ultimo ad aver vinto la 100 km del Passatore.

L’anno prima, nel 2016, Menegardi era stato però bruciato dal trentino Simone Wegher che, quest’anno, potrebbe tentare il bis.

Ultrabericus 2023
Ultrabericus Wegher (in testa al gruppo)

In gara ben 4 gli uomini con un profilo di oltre 800 punti ITRA: Diego Angella, Ivan Favretto (a parimerito con 828 punti), Galen Reynolds e Carlo Salvetti (rispettivamente 824 e 820). Sono tutti atleti che spingono e che saranno al via con l’intento di piazzarsi sul podio. Angella, che ha aperto il 2023 con un quarto posto al Trail del Marchesato, vanta anche una vittoria nel 2022 alla TDH Recoaro Marathon; con risultati di prestigio sulle distanze sui 50-60K, non disdegna le gare più lunghe e lo scorso anno si è piazzato 66simo su 1727 atleti alla CCC (101 km, circuito di gare UTMB). Favretto, che nell’Ultrabericus 2022 si è piazzato nei primi 20, quest’anno tenterà la scalata al vertice; grandi aspettative per questo runner capace di riservare sempre sorprese e che ha scelto la corsa dei Berici per aprire la stagione. Al via anche il campione Galen Reynolds; a parlare, per lui, il palmarès 2022: primo alla Swiss Peaks, alla Cervino Matterhorn e alla Dolomiti Extreme Trail, oltre che due volte secondo al Tor des Gèants nel 2018 e nel 2019. Potrebbe riservare qualche bella sorpresa anche il giovane e promettente Simone Vigolo (799 punti ITRA per lui), classe 93, che corre “solamente” dal 2018; dopo la prima vittoria nel 2019 al Durona Trail Speed, si è mantenuto sulle medie distanze ottenendo altri primi piazzamenti alla Lessinia Legend Run 30km e all’UltraKtrail nel 2021; dal 2022 ha allungato ulteriormente le distanze e siamo quindi curiosi di vederlo sui 65km di Ultrabericus. Grande assente Cristian Modena, da poco atleta Salomon e recordman di Ultrabericus (in entrambi i sensi di marcia), unico ad aver chiuso la gara sotto le 5 ore e 30 minuti: in ripresa da un grosso infortunio alla schiena, sarà solo al via della 21km in andatura “turistica”.

In campo femminile le donne che si daranno maggiore battaglia non hanno bisogno di presentazioni. Si parla di Francesca Canepa e Alessandra Boifava, entrambe al via della 65 km, i risultati parlano per loro.  La valdostana con indice ITRA 705 vanta un primo posto ad UTMB 2018; nella scorsa stagione ha trionfato alla DoppiaW Ultra 100km, un primo posto al vertical della Thuile e all’Ultra trail dei castelli bruciati 120 km; sicuramente da sottolineare il secondo posto alla prima edizione del Cervino Matterhorn 160 km; atleta poliedrica, in grado di sopportare e gestire al meglio ogni tipo di distanza, che sia su sterrato o asfalto. La vicentina (745 punti ITRA), inutile dirlo, gioca in casa; ha partecipato agli ultimi Campionati Mondiali di Trail Running long distance portando l’Italia femminile a squadre, insieme a Giuditta Turini e Camilla Spagnol, al bronzo del terzo gradino del podio; sempre nel 2022 l’abbiamo vista vittoriosa ad Ultrabericus 100km e al TOT DRET 130 km.

A cercar di infastidire questa lotta per il podio troveremo l’atleta di casa Veronica Maran (681 ITRA), vincitrice nel 2022 dell’Ultrabericus 65km. Tornerà inoltre anche quest’anno l’austriaca Cornelia Oswald (683 ITRA), che l’anno scorso ha chiuso in seconda piazza l’Ultrabericus Integrale, proprio dietro Veronica Maran; sempre nel 2022 si è presa il primo posto ad Obala Ultra trail 100km ed ha partecipato e ottenuto un ottimo piazzamento ad UTMB (31esima donna); ad inizio stagione ha giá conquistato un secondo posto alla S1 Night Trail – Corsa della Bora 80 km.

Chiudiamo le top atlete della 65 km con una runner talentuosa e in continua crescita: Alessandra Olivi (ITRA 679), che la scorsa stagione ha confermato la sua grande forma fisica vincendo Trans d’Havet 80 km, due 100 miglia (Monviso e Adamello Ultra Trail) e gareggiando su ogni tipo di distanza con ottimi piazzamenti; nel 2021 ha partecipato alla Swiss Peak 360 km piazzandosi 3 donna assoluta.

Ultrabericus Marathon

Si preannuncia grande battaglia anche sulla nuova distanza di Ultrabericus Marathon, dove tra gli uomini in gara spiccano l’azzurro della FISky Luca Arrigoni e Giacomo Forconi, che ha inaugurato il 2023 con una vittoria alla Brunello Crossing lo scorso febbraio. Sembra però partita molto bene anche la stagione di Arrigoni, che ha già collezionato due primi posti (al Trail della Bora e al Valmaremola Trail) e un argento al Trail del Marchesato due settimane fa. Due mostri da 871 punti ITRA per Arrigoni e 860 per Forconi. Tra le donne favoritissima l’azzurra e ultraberica Irene Saggin, che sui sentieri che fanno da cornice a Vicenza gioca in casa; nel 2022 la Saggin si è messa sul capo la corona di regina della Trans d’Havet Recoaro Marathon. Potrebbe darle del filo da torcere, proveniente dal mondo della corsa su strada, la campionessa di maratona 2019 Sara Giomi, che a Ravenna ha conquistato il titolo stabilendo anche il record personale sulla distanza in 2h 40’10”.

Ultrabericus Urban

Sulla distanza piú breve di 21 km in campo maschile la sfida sarà tra il bergamasco Alex Baldaccini e l’atleta vicentino Gabriele Bagattin. Con un indice ITRA di 866, Baldaccini nel 2022 ha conquistato il terzo posto al Garda Trentino Trail – Tenno Trail e partecipato agli Europei ad El Paso nella distanza di solo Uphill chiudendo nella top ten. Per quanto riguarda l’altleta di casa (713 punti ITRA) appena 20enne, menzioniamo un secondo posto nel 2022 a StrafeXpedition 21km su 157 partenti; sicuramente una giovane promessa del trailrunning italiano. Tra le donne non ci sono grandi pronostici da fare: si preannuncia una gara in solitaria per Elisa Sortini, azzurra della corsa in montagna che è stata in grado di conquistare un bellissimo settimo posto ai mondiali in Thailandia questo autunno.

Come vuole la tradizione della manifestazione, l’edizione 2023 impone la percorrenza del tracciato in senso antiorario, immersi nel fascino dei Colli Berici tra single track, mulattiere e carrarecce che si snoderanno da Vicenza toccando i territori di Arcugnano, Perarolo, San Gottardo, Pederiva di Grancona, Pozzolo, Villaga, Barbarano, Mossano, Nanto, Villabalzana, Torri di Arcugnano.

Il percorso Marathon seguirà il tracciato Integrale fino a Perarolo, per poi deviare su Villa di Fimon e Soghe e ricollegarsi alla “gara lunga” all’altezza di Villabalzana da cui procederà spedita fino al rientro a Vicenza.

Il percorso Urban segue invece il percorso maestro fino ad Arcugnano per poi effettuare un breve taglio e innestarsi sul tracciato che rientra su Piazza dei Signori.

Sponsor 2023

Craft, Compressport, iRun, Oliviero, Masters, Why Sport, birra Menabrea, Sambo Servizi, Manaly Standeventi, Elleerre, Studio Dentistico, Santi Serblin, AGSM AIM, Da Schio azienda agricola e pasticceria Loison.

I Nobili Thiene: breve storia di una illustre famiglia vicentina

I Nobili Thiene. Contrà San Gaetano Thiene. Laterale corso Palladio. Un certo Vincenzo, proveniente da Arsiero che svolgeva l’attività di usuraio fu il primo membro della famiglia che a fine duecento è presente in Thiene.

I figli incrementano il patrimonio di famiglia e nei primi anni del trecento arrivano a Vicenza alleandosi con gli Scaligeri.

Alcuni membri della famiglia ricoprirono cariche importanti come Simone giudice, Uguccione ecclesiastico, Giovanni nominato cavaliere e vice Re d’Abruzzo. Giangaleazzo Visconti favorì i nobili Thiene confermando il loro feudo.

Nel 1387, Iacopo figlio di Clemente nel passaggio dalla signoria Scaligera alla Viscontea ebbe un ruolo importante, nel 1404 con lo zio Giampietro de’ Proti fu protagonista della dedizione della città alla Repubblica Serenissima.

Nel 1439 il Doge Foscari manda a Rovereto 200 soldati vicentini comandati da Clemente di Thiene e poi Giacomo di Thiene capitano della città entra a Rovereto issando sul castello il vessillo della Serenissima.

Nel 1469, l’imperatore Federico III° concesse alla famiglia Thiene il titolo di conti palatini cioè potevano amministrare la giustizia. I Thiene estesero le loro proprietà in tutto il vicentino, sino a Camisano, dove nella frazione di Rampazzo, San Gaetano Thiene fece costruire una cappella.

Ottavio I° Thiene sposa la figlia di Giulio Boiardo, Laura di Scandiano. Nel 1566, il Duca Alfonso d’Este, designa Ottavio Thiene marchese di Scandiano con titolo trasmissibile di primogenitura maschile, il governo di Ottavio II° dura sino al 1623 quando, non essendoci eredi maschi, il feudo ritorna agli Estensi.

I più noti:

Nel 1542 I fratelli Marcantonio e Adriano Thiene affidano ad Andrea Palladio la progettazione di due residenze: Palazzo Thiene in Corso Palladio e la Villa Thiene a Quinto e godendo di molte amicizie riescono ad introdurre Palladio tra i nobili veneziani. San Gaetano Thiene è l’esponente più famoso della famiglia. A lui è dedicato la Chiesa di San Gaetano in Corso Palladio.

Castelli, ville e palazzi

Nella provincia, ma soprattutto a Vicenza, sono diversi i palazzi che a vario titolo i conti si fecero costruire, i più famosi tra i quali sono certamente gli edifici progettati da Andrea Palladio.

Castello Porto Colleoni Thiene (Thiene)

Villa Thiene (Quinto Vicentino) diAndrea Palladio

Barchessa di Villa Thiene (Cicogna di Villafranca Padovana), unica parte realizzata di una villa per Francesco Thiene e i suoi figli Odo- ardo e Teodoro, progettata da Andrea Palladio (circa 1556).

Palazzi di Vicenza

Palazzo Thiene, in contrà Porti 12, per Marcantonio e Adriano Thiene, ristrutturato da Andrea Palladio

Palazzo Thiene (Ludovico), in contrà Porti 8, edificio in stile gotico fiorito del Quattrocento.

Palazzo Thiene Bonin Longare, in piazza Castello, per Francesco Thiene, progettato da Andrea Palladio (1572) ed edificato da Vincenzo Scamozzi

Palazzo Thiene in corso Palladio, edificio tardo gotico di metà Quattrocento.

Di Luciano Parolin da Storie Vicentine n. 5 Novembre-Dicembre 2021


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Blank Generation, a Vicenza una mostra fotografica sul Punk di New York

Si potrà visitare a partire dal 31 marzo, alle Gallerie di Palazzo Thiene, la mostra fotografica “Blank Generation – il Punk di New York all’ombra del Palladio”.

La mostra esporrà le fotografie originali di Roberta Bayley e David Godlis, fotografi professionisti newyorkesi, che hanno immortalato molte delle scene underground della New York degli anni ‘70 e ‘80.

Molte di quelle foto furono scattate al CBGB’s, famoso locale sulla Bowery, fondato nel 1973,  e che è considerato senza alcun dubbio il luogo di nascita del punk rock. Ci sono voluti quattro anni, a causa anche delle difficoltà dovute al Covid, per realizzare questa rassegna fotografica di aura internazionale, che fuoriesce dal mero ambito cittadino e provinciale.

La mostra è stata curata e ideata da Andrea Compagnin, vicentino di Montegalda, e fotografo freelance che ha tre passioni: la fotografia, la musica e New York.

La sua nascita in una terra di provincia che, oltre alla noia offriva poco, gli ha permesso di sviluppare idee e sogni, che lo hanno portato fino a New York.

Una sincera amicizia lo lega a Roberta Bayley e a David Godlis. I due fotografi del Punk, molto quotati, si sono anche resi disponibili gratuitamente per vari appuntamenti in città; la Bayley e Godlis saranno infatti presenti in mostra durante il primo fine settimana di apertura, dal 31 marzo al 2 aprile, per dialogare col pubblico, illustrare le fotografie e narrare le esperienze vissute in quegli anni.

Racconteranno sicuramente storie e aneddoti curiosi e interessanti, dal momento che erano amici di molti degli artisti colti dall’obiettivo della loro fotocamera. 

Il titolo della mostra, “Blank Generation”, cioè generazione vuota, è il titolo di una canzone del bad boy Richard Hell ed è un vero e proprio inno generazionale.

Blank Generation non è nichilismo, ma è da intendersi in un’accezione positiva e costruttiva, e se, come afferma la fisica, ogni vuoto sarà riempito, questo vuoto allora rappresenta la vera libertà perché si può riempire con ciò che più ci aggrada. Ecco che allora si può parlare, senza timore, di una vera e propria “Art Punk”.

Si tratta sicuramente di un’esposizione da visitare, non solo per il valore intrinseco delle fotografie, che ricordiamo, sono originali tanto da aver avuto difficoltà alla dogana, ma anche per vedere il rigore rinascimentale di Palazzo Thiene, accostato al disordine artistico della subcultura giovanile, rappresentata dal Punk

Sono opere che sono apparse nelle riviste più importanti e nelle copertine dei dischi dell’epoca e che sono state esposte in città famose come New York, Parigi, Sydney, Tokyo, Londra..

Matteo Bussi ha curato l’allestimento della mostra prevedendo un monolito centrale e una base neutra per creare il movimento e la dinamicità.

In questo modo si potranno apprezzare ancora meglio le foto della Bayley, che ha ritratto artisti del calibro di Iggy Pop, i Ramones, Debbie Harry e Blondie, Richard Hell, Elvis Costello, i Sex Pistols, Brian Eno, The Clash e molti altri, e le foto di Godlis, che si contraddistinguono per la sua particolare tecnica, Godlis infatti tende a scattare prevalentemente di notte, in bianco e nero, sfruttando esclusivamente la luce naturale; armato della sua fotocamera cattura il mondo così come gli appare in realtà ed era famoso per camminare per New York e fotografare tutto ciò che captava il suo occhio.

Il successo delle foto di Roberta Bayley si deve soprattutto al fatto che c’era molta spontaneità tra gli artisti che ritraeva, nessuno si metteva in posa, perché la conoscevano e non facevano caso a lei, cosicché  poteva scattare indisturbata, a differenza di oggi dove invece gli artisti vogliono avere un controllo quasi maniacale sulla propria immagine.

Creare e costruire questo progetto artistico è molto rilevante perché quando si decide a cosa dare visibilità in una  mostra si contribuisce un po’a plasmare l’immaginario collettivo. La grafica è stata curata da Osvaldo Casanova. La mostra, patrocinata dal Comune di Vicenza, rimarrà aperta fino al 14 maggio dal giovedì alla domenica, dalle 9 alle 17, con ingresso gratuito.

Estasi di San Gaetano, un capolavoro della pittura napoletana a Vicenza

La figura di San Gaetano, santo titolare della chiesa vicentina nonché fondatore dell’Ordine dei Teatini, campeggia all’interno della Chiesa di San Gaetano Thiene di Vicenza. Lo splendido dipinto, opera di Francesco Solimena, straordinario esponente della pittura tardo-barocca napoletana tra la fine del 600’ e il primo quarto del secolo successivo, si scorge guardando in direzione della parete sinistra dell’unica navata e corrispondente al secondo altare.

La figura di San Gaetano è caratterizzata da un moto ascensionale che lo fa librare in cielo inginocchiato sopra una nube dalle tonalità grigio-azzurrognole che mostra una consistenza materica ed un peso tale da apparire palpabile e tangibile.

san gestano thiene
Fotografia di Paolo Martini

Il santo veste l’abito talare nero sul quale è indossata una cotta bianca con la stola color oro. Il grande dipinto, un olio su tela centinata, è racchiuso da una complessa struttura architettonica di impianto barocco con due coppie di colonne di marmo rosso di Francia sormontate da capitelli corinzi.

Di forma concava ed impreziosito da elementi decorativi quali angioletti e vasi in marmo bianco,il bellissimo altare che racchiude la pala del Solimena venne commissionato dalla nobile famiglia Thiene presumibilmente nel 1725. Il dipinto mostra una straordinaria sintesi pittorica di luci ed ombre ben calibrate e distribuite partendo dal basso dove prevale uno spazio vuoto dominato da una tonalità cupa; la grande nuvola sulla quale è inginocchiato il santo si stacca da terra e sospinge quest’ultimo verso il trascendente ed il divino. Bisogna essere in presenza davanti al dipinto per cogliere questo effetto d’ innaturale sospensione verso il cielo che solamente Francesco Solimena poteva esprimere con un effetto illusionistico che lo colloca a pieno nell’alveo della pittura barocca napoletana.

San Gaetano distende le braccia formando una diagonale che non soltanto accresce la tridimensionalità della composizione ma opera una netta separazione tra il mondo terreno e quello ultraterreno, accentuando maggiormente il carattere mistico ed ascetico della raffigurazione sacra. Accompagnano la salita verso la dimensione ultraterrena tre angioletti alati che sembrano compiere delle ardite acrobazie con il loro gesto di librarsi in cielo come se volteggiassero in maniera disinvolta e diafana attorno alla figura monumentale del santo il cui sguardo è rivolto all’insù. L’angelo in basso a destra funge da leggio sostenendo un libro aperto che segue la stessa diagonale delle braccia del santo, enfatizzando maggiormente l’effetto ascensionale impresso alla composizione.

Un vibrante fascio di luce penetra da sinistra verso destra lasciando in ombra la porzione del dipinto corrispondente al braccio destro del santo mentre in alto a destra appaiono, completamente avvolti dalle nuvolette, dei cori angelici che concludono il moto ascendente di tutta la composizione. La diagonale delle braccia del santo è ben equilibrata dalle linee sinuose e curvilinee disegnate dalle nuvole che sfumano delicatamente con dei toni trasparenti e nitidi mentre l’unico tocco di colore vivace è dato dallo svolazzo del mantello del santo di un rosso vibrante e tendente all’arancio. Questo celebre dipinto del Solimena sopravvisse al bombardamento avvenuto nel 1944 poiché venne trasferito in un luogo sicuro dalle Belle Arti. La pala si data al 1730 circa.

Di Francesco Caracciolo da Storie Vicentine n. 5 Novembre-Dicembre 2021


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Ultrabericus, a Vicenza tutto pronto per la corsa sui sentieri dei Colli Berici

Meno di una settimana a Ultrabericus e Vicenza è già pronta ad accogliere gli atleti che, sabato prossimo, partiranno dalla centralissima Piazza dei Signori per correre sui sentieri dei Colli Berici.

L’edizione 2023 sarà la più partecipata di sempre: gli iscritti sono 1.750 in totale, di cui 730 sulla distanza più lunga, 420 sulla nuovissima Marathon e 480 sulla Urban, 40 coppie sulla Twin Lui&Lei e 40 sulla neo-nata Nordic. Tanti concorrenti di sesso maschile, di età compresa tra i 20 anni del più giovane e i 78 anni del più anziano, ma anche tantissime donne, che hanno superato il 21% degli iscritti. Confermata anche la valenza nazionale dell’evento con il 31% degli iscritti provenienti dalla provincia di Vicenza, il 35% dalle altre provincie del Veneto, 32% dalle altre regioni d’Italia e 2% dall’estero.

Nel fine settimana appena trascorso il team organizzatore di Ultrabericus, coadiuvato da un gruppo di ragazzi e ragazze della base americana di Vicenza, si sono dati da fare per rifinire la pulizia dei sentieri e soprattutto balisare l’intero tracciato, per un totale di quasi 80 km di sentieri. Ricordiamo che l’organizzazione dell’intero evento coinvolge ogni anno più di 450 volontari e professionisti che garantiscono la sicurezza degli atleti in gara. Tra questi vogliamo citare i gruppi di volontari dell’A.N.A. e delle varie associazioni territoriali che presidieranno gli oltre settanta check point lungo tutto il tracciato, Croce Rossa, Soccorso Alpino e la squadra Trasmissioni della protezione civile A.N.A. .

La conferenza stampa di presentazione dell’evento è stata indetta giovedì 16 marzo alle ore 12.00, presso la prestigiosa Sala Stucchi di Palazzo Trissino a Vicenza. Presenti il direttore di gara Enrico Pollini, il presidente di Ultrabericus Team A.S.D. Matteo Meggiolaro e l’atleta vicentina Alessandra Boifava, grande amica di Ultrabericus, nazionale azzurra ai mondiali di Trail nel 2019 e nel 2022, vincitrice della gara celebrativa di 100k dello scorso anno. In conferenza saranno presentati i top atleti dell’edizione 2023 e dati gli ultimi dettagli organizzativi.

I Comuni coinvolti, oltre alla città di Vicenza sono Arcugnano, Brendola, Zovencedo, Val Liona, Barbarano Mossano, Villaga, Nanto, Castegnero. Sponsor 2023:
Craft, Compressport, iRun, Oliviero, Masters, Why Sport, birra Menabrea, Sambo Servizi, Manaly Standeventi, Elleerre, AGSM AIM, Da Schio azienda agricola e pasticceria Loison.

Paolo Lioy e le Valli di Fimon nel Vicentino

Paolo Lioy, pur avendo effettuato studi in legge a Padova senza peraltro conseguire la laurea, fu sempre attratto dalle scienze naturali pubblicando svariate opere sull’argomento, oltre ad essere autore di svariate conferenze scientifiche.

Nel 1853, a seguito di lavori eseguiti per un abbassamento di acque a Meilen sul lago di Zurigo fu per la prima volta annunciata al mondo scientifico da Ferdinand Keller, archeologo svizzero e direttore dell Antiquarischen Gesellschaft, la notizia di un importante ritrovamento: durante gli scavi erano venuti alla luce i resti di villaggi palafitticoli risalenti alla tarda età della pietra e del bronzo; tale fortuita scoperta ebbe una larghissima risonanza nel mondo accademico dell’epoca e diede il via a ulteriori esplorazioni nei bassi fondali di altri laghi elvetici.

Da allora e per tutto l’Ottocento rimase altissimo l’interesse di studiosi ed archeologi per gli insediamenti palafitticoli preistorici, interesse alimentato da continue e importanti scoperte sia sui laghi italiani che esteri, tanto da essere definita un’autentica “febbre da palafitte”; la ricerca era favorita anche dalla massiccia attività di estrazione della torba allora in atto nei giacimenti lacustri.

Paolo Lioy ebbe fin da subito la certezza che tale notizia rappresentasse un importante strumento di indagine e ricerca per il mondo scientifico tanto da affermare con entusiasmo: “Avevo davanti a me un campo quasi vergine e inesplorato”.

Sull’onda dei ritrovamenti elvetici, e successivamente anche nei laghi lombardi, egli ebbe subito la lungimiranza di intuire che tra i siti con potenziale analogia ambientale, in ambito lacustre poteva figurare una particolare area nostrana: il bacino naturale tre le valli di Fimon dove un lago di antichissima formazione, un tempo dotato di esteso bacino, era stato nei secoli progressivamente ridimensionato ed era oggetto di importanti opere di bonifica protrattasi fino ai primi decenni del novecento (Un decreto Reale del 16 dicembre 1926 firmato da Vittorio Emanuele III classificava di prima categoria le opere di bonifica del bacino di Fimon assicurando quindi assoluta priorità nella loro esecuzione).

Il merito di Lioy è proprio quello di essere stato un pioniere nella ricerca e un divulgatore scientifico; si dedicò in maniera approfondita alla Paleontologia, conducendo ricerche sistematiche in Italia e in Europa e diede inizio a vere e proprie campagne di scavo sia nei siti lacustri di Fimon sia nelle grotte di Lumignano.

Da allora, oltre all’amicizia con il Keller, intrattenne copiosi e continui rapporti con altri studiosi dell’epoca, in Italia e all’estero, per continui confronti e dibattiti in materia. Nei territori di Fimon il Lioy iniziò le sue esplorazioni nel 1864 e fu un vero precursore. Accompagnato dal medico del paese (tale Ludovico De Favari) si recò di casa in casa presso i contadini del luogo per chiedere se coltivando le terre limitrofe al lago si fossero mai imbattuti in pali sotterrati, in cumuli di stoviglie o di ossa o in armi antiche, ma da loro ricevette solo risposte sconsolanti e meravigliate “come se parlasse di favole”.

I piccoli proprietari del posto non avevano alcun interesse che venissero deturpate le loro povere colture per imprese di cui non comprendevano l’utilità, se non forse dietro il compenso economico che egli era disposto a elargire.

Senza alcun indizio che ne incoraggiamo le indagini, senza alcuna indicazione da parte di contadini e pescatori del luogo, il Lioy intraprese alcuni scavi nelle aree che riteneva le antiche rive del lago vincendo la resistenza dei proprietari e con l’aiuto della guida alpina Giovanni Meneguzzo.

Dopo aver speso inutilmente tempo e denaro stava rinunciando alla sua impresa quando nel prato chiamato Pascolone dissotterrò finalmente i resti di una palafitta che si estendeva per parecchi metri quadrati con pali di quercia del diametro dai 20 ai 30 centimetri. L’area si presentava stratificata, con torba e limo lacustre che coprivano il livello archeologico vero e proprio dello spessore di circa trenta centimetri contenente grandi quantità di ossa, cocci di vasellame, selci e attrezzi che giacevano su quello che un tempo era stato il fondo del lago.

L’entusiasmo della scoperta gli fece scrivere: “Non credevo ai miei occhi quando, dopo avere per alcuni giorni fatto scavare nelle antiche rive del lago di Fimon presso Vicenza, cominciarono ad apparire palafitte, e intonaci di casolari, e punte di lance di selce, e fionde, noccioli, ossa, carboni.”

E procedendo con l’attività di scavo riuscì a individuare e descrivere quelle “abitazioni” che formavano un piccolo, antichissimo villaggio lacustre: “La disposizione dei pali, che per quanto irregolare accenna a raggruppamenti circolari, le curve interne con argille che servivano di intonaco alle pareti, mostrano che codesti piccoli tuguri erano ovali, oblunghi o rotondi, stipati insieme. Avevano probabilmente conico il tetto e tessuto di canne e di frasche. Certo il pavimento doveva essere cosparso di fori o di botole, per i quali cadevano nell’acqua i rimasugli dei pasti, i cocci, gli utensili.

Gli utensili e le armi erano rozzi: di legno, di pietra calcare, di selce o di osso. L’aspetto delle stoviglie è singolare, hanno una certa rozzezza elegante, una semplicità misera ma superba. Le ossa formano un così vasto ossario che se ne potrebbe raccogliere a carri … Non si potè scorgere traccia di ponti per i quali il villaggio si collegasse alle rive; pare che sorgesse isolato sul lago; presso alle rovine trovai sepolto nel fango un frammento di una piccola piroga scavata in un tronco con l’aiuto del fuoco di cui serba ancora le vestigia”.Travi incendiati, mucchi di carbone e di cenere che ingombrano il fondo gli fecero ipotizzare che il villaggio fosse stato distrutto dal fuoco.

Le zone archeologiche erano caratterizzate da strati riferiti ad epoche più e meno arcaiche e Lioy nelle sue pubblicazioni evidenzia la diversità dei ritrovamenti di uno strato rispetto ad un altro, inoltre descrive minutamente gli utensili e i cocci di vasellame nelle loro varie forme ed ornamenti (molto interessante la presenza di vasi “a bocca quadrata”); poi le ossa e le corna ritrovate attribuendole alle specie animali a cui erano appartenute.

Lioy confrontò le varie specie di flora e di fauna presenti in loco al suo tempo con quelle rinvenute negli scavi (segnala un enorme abbondanza di gusci di tartaruga); riferiva di avere trovato un dente di carnivoro e una mandibola che era in dubbio se appartenesse a una volpe o a un cane, studi successivi hanno dimostrato che apparteneva a un tasso.

Tra i mammiferi domestici il primo la cui assenza appariva notevole era quella del cane, amico dell’uomo da remota data, la cui immagine compare nei monumenti egizi più antichi o coevi alle palafitte, ma questa lacuna non è sufficiente a dimostrare la mancanza di cani nelle palafitte tuttalpiù, afferma Lioy, essendo presenti nello strato archeologico solo le ossa dei resti alimentari si potrebbe affermare che “gli abitatori delle palafitte non erano cinofili come gli antichi Danesi”.

La campagna di scavi proseguì anche nel 1865 ed i risultati di queste indagini vennero pubblicati in una prima relazione che risale allo stesso anno. Notevoli le osservazioni del Lioy sui resti della fauna. “Molti denti di maiali di Fimon sono piatti e smussati; gli individui a cui appartenevano devono essere stati uccisi vecchissimi, e questa longevità potrebbe parere improbabile in animali domestici.

Nei crani di maiali trovati nelle palafitte svizzere più recenti si riscontrano alcune differenze derivanti dalla domesticità.” Rileva la mancanza di ossa di lontre, di ricci e di volpi. “Mancano a Fimon non solo le ossa ma anche le impronte di rosicchiamenti di topi.”

Cervi e cinghiali sono i mammiferi i cui resti sono più abbondanti, cervi a Fimon appartenuti per lo più a giovani esemplari, forse perché i più vecchi erano astuti nell’evitare gli agguati. Erano abbondantissimi i cervi comuni, seguiti dai cinghiali (la cui statura “superava senza paragone quelli di Sardegna e di Calabria”), meno frequenti i resti di buoi con piccolissime corna, caprioli, montoni e tassi, con il predominio quindi di razze selvatiche. L’esame dei resti di cibi vegetali, negli strati archeologici più remoti, indusse il Lioy a ritenere che gli abitanti del villaggio non praticassero l’agricoltura.

In pochissime ossa trovò traccia di fuoco, come se fosse consuetudine cibarsi di carni crude. E l’osservazione dei ritrovamenti animali e vegetali gli dette elementi per ipotizzare una sommaria descrizione del territorio vicentino in quell’epoca: era selvoso e incolto, circondato da una grande foresta dalla quale erano stati prelevati i tronchi delle piante infissi nel fondo del lago. In “Escursione sotterra”, pubblicato nel 1868, Paolo Lioy tra altri saggi naturalistici e di paleontologia fa il punto sulla sua attività di archeologo ed in particolare illustra ancora una volta i ritrovamenti di Fimon, corredando il testo con un bel disegno di una ricostruzione ideale del villaggio palafitticolo.

Paolo Lioy

Nel 1871 il Lioy condusse un’ulteriore fruttuosa campagna di scavo a nord del Ponte della Debba, detto anche Ponte di Legno, sempre nelle Valli di Fimon. Negli anni ottanta dell’Ottocento le successive indagini si allargarono alle valli limitrofe: la Valdemarca e la Fontega, quest’ultima si presentava come un laghetto situato nella conca più settentrionale delle Valli, congiunto in epoche remote con il lago di Fimon. Nella zona della Fontega i ritrovamenti più importanti erano costituiti da parecchie piroghe, ovvero barche scavate con l’aiuto del fuoco in grossi tronchi di quercia, tutte d’un pezzo; purtroppo – afferma il Lioy – esse andarono distrutte per imperizia e negligenza dei recuperanti in quanto il legno, antico e delicatissimo, si sgretolò all’aria aperta.

Ma la torbiera della Fontega doveva riservare altre sorprese ancora più importanti: alcuni “ordigni” (così li definì Lioy) in legno di quercia lunghi circa 70 centimetri e larghi circa 20, che a prima vista avevano l’aspetto di barchette pigmee o di modellini di barche; vennero infatti chiamate “le barchette della Fontega”. Erano costruite per formare “complicati congegni, con fori laterali, con una grande apertura centrale chiusa da due ribaltelle mobili che si aprivano dal basso all’alto, imperniate alle sponde, e con altri perni e assicelle a ruota e vermene ricurve, evidentemente destinate con la elasticità a dare scatto ai battenti”. Questi misteriosi attrezzi furono studiati anche da Luigi Meschinelli, dottore in scienze naturali vicentino, che partecipò agli scavi della Fontega negli anni 1884-1885. Gli studiosi stimarono che di questi strani strumenti ve ne fossero in tutta Europa solo diciassette esemplari. E sul loro utilizzo si aprirono dotte disquisizioni, anche se l’utilizzo più probabile pareva quello di essere trappole per la caccia; ma per quali animali? e perché nella loro rarità erano state rinvenute a distanze così lontane? Il Lioy espose la descrizione di questo enigmatico ritrovamento (l’ultimo esemplare lo rinvenne sempre alla Fontega nel 1895 a una profondità di metri 2,60) e gli interrogativi che comportava in una relazione pubblicata tra gli atti del Regio Istituto di Scienze negli ultimi anni dell’Ottocento.

Mentre la prima pubblicazione sugli scavi di Fimon del 1865 è un saggio succinto di una cinquantina di pagine, con l’edizione del 1876 il Lioy fornisce un resoconto dettagliato della sua attività di archeologo; il libro è corredato da numerose tavole (i cui disegni particolareggiati furono commissionati a tre professori) che illustrano le aree oggetto di scavo, la sezione dei terreni e una ricca casistica dei reperti rinvenuti nelle Valli nonché particolari esemplari rinvenuti in altre zone europee ed extra europee. I ritrovamenti di Fimon dettero al Lioy una vasta notorietà tra gli studiosi anche fuori Italia, tale da fargli affermare: “Questi ritrovamenti ebbero una rinomanza superiore a ogni mia aspettativa, non vi è opera di paleoetnologia italiana ove non si citino per confronti e spesso come fondamento di deduzioni etnografiche, e sono moltissimi i dotti di altre nazioni che vi posero la loro attenzione”. Le sue relazioni venivano presentate ai congressi di antropologia e pubblicate tra gli atti del Regio Istituto di Scienze Lettere e Arti, venivano tradotte e pubblicate anche all’estero. Proseguì le campagne di scavo nella zona di Fimon a più riprese con buoni risultati e successivamente lo seguirono altri ricercatori tra i quali: Luigi Meschinelli che concentrò la sua attività nelle torbiere della Valdemarca e della Fontega negli anni ottanta dell’Ottocento, Gastone Trevisiol che scavò nelle torbiere delle valli di Fimon dal 1942 al 1944; il prof. Broglio dell’Università di Ferrara e il prof. Barfieid dell’Università di Birmingham che negli anni 1969-1972 ripresero le ricerche nell’area individuata da Trevisiol; una campagna di scavo è stata effettuata anche nel 2011.

Il Lioy eseguì scavi archeologici anche nelle grotte di Lumignano, alcune delle quali erano fino allora del tutto insondate. In particolare cita il Colle di Guerra, una tra le più belle e maestose, dove rinvenne una stratificazione archeologica nell’area di ingresso e ne descrisse i ritrovamenti, i cui più interessanti sono stati riprodotti in disegno, nella pubblicazione del 1876. Nel 1884 il Lioy dette alle stampe “Sui laghi”, altro libro che ha come tema l’archeologia lacustre. Quest’opera ha però un taglio insolito, tra il romanzo e il saggio scientifico, e racconta di un viaggio dell’autore presso un borgo montano sulle rive di un lago non meglio precisato, a cui egli perviene con lo scopo di cercare “nuove rivelazioni sui misteri dei villaggi lacustri scomparsi da tanti secoli e dei quali più non restano che rovine accumulate tra i pali nel fondo dei laghi”.

Nel mezzo delle sue escursioni su questo lago montano, circondato da una seducente natura, Lioy riporta spezzoni di discorsi e di conferenze con i quali intrattiene un pubblico eterogeneo di autorità, di studiosi, di accademici e di curiosi che interviene con vivo interesse attirato da tali scoperte e con i quali non manca un vivace contradditorio. Il Lioy, nel definire queste zone archeologiche le “Pompei sott’acqua”, è in grado di sviluppare un resoconto con estesi confronti supportati delle sue conoscenze in materia di archeologia palafitticola frutto di circa un trentennio di studi, facendo ripetuti cenni ai rinvenimenti in analoghi siti sia in Italia che all’estero.

Anche in questo libro dedica largo spazio alla disamina naturalistica, sul catalogare i resti di vegetali e di ossa animali rinvenuti nei fondali e fu in grado di stabilire quali specie fossero allora presenti in natura dai resti dei pasti, in un sito rispetto ad un altro. Un motivo di interesse del Lioy è l’indagine sulle cronologie degli animali che dopo essere vissuti contemporanei all’uomo in alcune regioni vi si estinsero o emigrarono altrove. Tutto ciò perché l’uomo “con la sua azione è più veloce delle cause lente che hanno modificato la flora e la fauna nelle epoche passate”. Riflessione valida, attualissima ai giorni nostri in cui la velocità delle modifiche all’ambiente ha assunto ormai eccessi catastrofici.

E porta un esempio: “Cinque pecore e tre montoni condotti in Australia dal capitano Mac Arthur nel 1779, furono antenati dei cento milioni di pecore le cui lane sono trasportate ora in Europa da centinaia di navi.” Ma il libro è anche intessuto di un racconto misterioso, appena accennato: l’incontro e la conoscenza “di una piccola bruna con gli occhi lampeggianti di fata…” che su di una piccola barca si accosta alla riva al chiarore delle stelle; con lei intesse una relazione amorosa che deve rimanere segreta perché la donna è sorvegliata tenacemente da qualcuno nel gruppo degli ascoltatori.

Non è forse da riconoscere un grado di veridicità a questa storia che diventa un contorno sfumato alla materia scientifica e ne fa quasi da contrappunto e da intreccio romanzato. Potrebbe essere un pretesto, una fantasia per ingentilire una materia di per sé troppo specifica e funerea e romanzarla, così come scrisse Matilde Serao circa lo stile del Lioy, la quale gli riconobbe l’arte di scrivere “tutta questa storia naturale, che pare un romanzo”… Come ha osservato qualche critico Lioy tende a conciliare il lavoro scientifico con le fantasie e le suggestioni del letterato. Fin da piccolo Lioy si era dedicato allo scrivere (e proprio in questo libro egli rammenta gli episodi di quand’era bambino ed esponeva i suoi scritti all’audizione dei famigliari); con gli anni ha incrociato la sua innata passione letteraria con un’altrettanto viva passione per la storia naturale e gli studi scientifici.

Con le sue campagne di scavo Lioy aveva messo insieme una importante collezione di reperti, di cui una parte, fin dal 1876, era stata donata al Museo Naturalistico e Archeologico di Vicenza, a cui si aggiunsero successivamente i lasciti del Trevisiol e di altri. Giova ricordare che alcuni interessanti e rari reperti rinvenuti proprio nelle valli di Fimon, quali piroghe monossili e le trappole a battenti della Fontega, andarono purtroppo completamente distrutti con il bombardamento e il disastroso incendio del Museo nel 1945, all’epoca allestito all’interno del palazzo Chiericati. Lioy portò avanti i suoi studi e le sue ricerche sempre con la consapevolezza che il campo della ricerca sia un terreno oltremodo sconfinato da sondare e lo afferma con una immagine suggestiva: “Scrutando l’antichità dell’uomo sulla terra si prova il sentimento di vertigine, come abbassando lo sguardo verso il fondo di un pozzo del quale non di conosce la fine.”

 

Fonti di riferimento:

Le abitazioni lacustri della età della età della pietra nel lago di Fimon nel Vicentino di Paolo Lioy – Tipografia Giuseppe Antonelli – Venezia, 1865

Escursione sotterra di Paolo Lioy Treves & C. Editori Milano 1868

Le abitazioni lacustri di Fimon di Paolo Lioy –

Tipografia Giuseppe Antonelli Venezia 1876

Le abitazioni lacustri in “Conferenze scientifiche” di Paolo Lioy UTET Torino 1877

Sui laghi di Paolo Lioy Zanichelli Bologna 1888

Di Luciano Cestonaro da Storie Vicentine n. 5 Novembre-Dicembre 2021


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