Nel 2024, i Musei Civici di Vicenza hanno registrato un notevole afflusso di visitatori, con un totale di 442.973 ingressi, segnando un incremento del 14% rispetto all’anno precedente. Questo aumento è stato favorito dall’apertura della mostra “Tre Capolavori” nella Basilica Palladiana e dall’inaugurazione della nuova Ala Roi a Palazzo Chiericati. L’assessore alla cultura, Ilaria Fantin, ha espresso entusiasmo per questi risultati, sottolineando l’importanza di attrarre sia turisti che cittadini. Solo nel mese di novembre, sono state vendute oltre 400 Platinum Card, che consentono l’accesso illimitato ai musei per un anno, evidenziando l’interesse crescente per l’offerta culturale della città.
Nel dettaglio, la Basilica Palladiana ha accolto 162.003 visitatori, seguita dal Teatro Olimpico con 154.732 ingressi, mentre Palazzo Chiericati ha registrato 44.815 visitatori e Santa Corona 44.748. Le Gallerie di Palazzo Thiene hanno visto 17.318 ospiti, il Museo Naturalistico Archeologico 11.332 e il Museo del Risorgimento e della Resistenza 8.025 visitatori. I maggiori incrementi sono stati notati nella Basilica Palladiana (+50,9%), nel Museo del Risorgimento e della Resistenza (+29,5%) e a Palazzo Chiericati (+7,2%).
L’ottimo riscontro di pubblico, in particolare dal 20 dicembre con l’apertura della nuova Ala Roi, promette di attrarre ulteriori visitatori anche nel prossimo futuro. I Musei Civici rimarranno aperti anche durante il ponte dell’Epifania, continuando a promuovere attivamente il ricco patrimonio culturale di Vicenza. Per ulteriori informazioni, è possibile visitare il sito ufficiale dei Musei Civici di Vicenza.
In vista dell’Epifania vi consigliamo l’escursione degli originali presepi all’aperto in collina a Cereda di Cornedo Vicentino. Il percorso si snoda per circa 9 km e i presepi artigianali, fatti con materiali di riciclo, sono visibili fino al 31 gennaio 2025. Si tratta di una bella passeggiata all’aria aperta, godendo della fantasia che hanno avuto i residenti.
Presepi a Cereda. Il presepe della scuola materna. Foto: m.c.
Lungo il percorso ad anello si possono trovare anche alcuni scritti che aiutano a ritrovare il senso del Natale e i suoi valori essenziali. In piazza S. Andrea, davanti alla chiesa, si trova l’albero con sotto il presepe stilizzato costruito dalla scuola materna Sacro Cuore di Cereda. Sempre in piazza (davanti alle scuole elementari) c’è una bella e grande costruzione fatta dai bambini delle scuole elementari.
Il presepe delle scuole elementari. Foto: m.c.
Mentre davanti all’oratorio c’è un presepe fatto di scatole realizzato dai ragazzi del catechismo. Proseguendo lungo le vie, si trovano presepi in legno in prossimità delle fontane con tante pecore. C’è poi un presepe in legno che richiama il paesaggio di Bethlemme.
Il presepe che richiama Bethlemme. Foto: m.c.
Mentre a “Cereda bassa” si trova una grossa botte rovesciata con dentro un originale presepe in legno. Tutti i presepi di Cereda meritano di essere visti, destano stupore a grandi e piccini. Camminate e ammirate!
(Articolo di Massimo Parolin su oratori e boomers da VicenzaPiù Viva n. 294, sul web per gli abbonati).
Don, Don quando xe ghel organiza el torneo de calcet». Non era certo Don Bosco, il giullare di Dio, il buon Don Gabriele, cappellano della parrocchia dei Servi di Vicenza, ma era un grandissimo organizzatore di competizioni sportive dei ragazzi. La tunica nera alzata con le mani fino alle ginocchia, mocassini e via con le pallonate. La vita pomeridiana dei ragazzi boomers si svolgeva quasi interamente all’interno degli oratori. Ce n’erano moltissimi a Vicenza, a San Nicola, al Duomo, al Patronato, l’Araceli, ai Carmini e molti altri.
Punti di riferimento, centri di aggregazione giovanili che consentivano a mamma e papà di poter svolgere il proprio lavoro serenamente, certi che i loro figli erano in un luogo sicuro. Lo stesso veniva vigilato, infatti, da un genitore a turno che rimaneva presente per tutto il tempo, dall’apertura alla chiusura, affinché al suo interno non accadesse nulla né potessero entrare persone poco affidabili, per usare un eufemismo. E non mancavano nemmeno le sospensioni dall’accesso. Chi si comportava male (magari per episodi di nonnismo che a dir la verità non mancavano) veniva annotato in un libricino, portato alla conoscenza del Parroco, che poi determinava per quanto tempo non si sarebbe potuto entrare: una sorta di (buon) ostracismo bosconiano.
Oratori frequentati però, perlopiù, da maschi. Le ragazze latitavano con nostro grande rammarico. Se non una splendida piccola biondina che trattava il pallone con così tanta grazia e talento da essere appellata da tutti noi ‘Platini’. Quando si facevano le squadre e si dovevano scegliere i giocatori, mediante il criterio del pari e dispari «alle bombe del cannon che fa bim bum bam» (onomatopea dalla quale, poi, prese origine il famoso programma televisivo condotto da Bonolis dal 1981), lei era sempre la prima tra le opzioni. E se l’area esterna dell’oratorio non fosse stata adatta per il gioco del calcio, per assenza di porte, si
sfruttavano i pali dei canestri; ossia chi colpiva il palo faceva goal. La nostra precisione balistica diventava così sempre maggiore. Eravamo bravi. Non c’erano le scuole di calcio da pagarsi profumatamente. Noi, ci imparavamo (:0)) da soli. E forse qualche domandina dovremmo farcela sul fatto che abbiamo vinto il Campionato del Mondo nel 1982 e oggi sono due edizioni alle quali non partecipiamo.
Non solo calcio, ovviamente, ma pure basket, pallavolo e all’interno ping pong, biliardo, giochi di società; il bengodi dell’attività ludica adolescenziale. Addirittura una sala musicale con batteria e pianoforte dove poter sognare di diventare dei Duran Duran o degli Spandau Ballet.
Tutto ciò però aveva un prezzo (gnanca el can move la coa par gnente) da pagarsi: un costo religioso evidentemente. L’obbligo della dottrina cristiana al sabato pomeriggio e della messa domenicale (tutti seduti assieme nelle ultime fila dove potevamo sghignazzare
per tutto il tempo). E si doveva frequentare fino ad età avanzata ossia fino alla terza, quarta superiore, mica fino alle elementari.
Eh già! Cosa si sarebbe fatto per giocare a pallone, ma per stare con gli amici questo e altro. E non finiva mica qui, per dirla alla Corrado Mantovani. Ulteriori ‘gabelle’ si profilavano all’orizzonte. La partecipazione ai cosiddetti ritiri spirituali, che solitamente si tenevano al San Gaetano o a Monte Berico, dove si doveva affrontare la confessione, ulteriori messe, discussioni cattoliche. Il tutto era però ripagato con partite nei bellissimi campi interni delle citate istituzioni. Poi lo svolgimento della funzione di chierichetto (derivato dal latino clerum, a sua volta ripreso dal greco kleros, con il significato di ‘parte scelta’), di ausilio al sacerdote durante la messa. E via ad indossare l’abito talare per portare le varie ampolline, il messale, i calici, il campanello e gli altri oggetti liturgici (pensando: e vanti e indrio con ste robe).
E per i più bravi anche il compito di turiferari (addetto al turibolo per le incensazioni), navicellieri (addetto alla navicella), ceroferari (addetto ai candelieri).
Per non parlare del Giovedì Santo e la lavanda dei piedi. Tutti in riga davanti all’altare a farsi sciacquare i fettoni dal celebrante, dopo che la mamma te li aveva accuratamente e previamente grattati con la bruschetta (te ghe le onge nere) e lo spic e span (detersivo granulare per i pavimenti) … par non far bruta figura.
Ma tutto questo aveva un controprezzo anche per il Parroco. Ben sapevamo dove riponeva in sacrestia le particole e le chiavi del mobile. Quindi con il favore del crepuscolo, quando rincasava, saccheggiavamo bassottianamente la dispensa liturgica (eh quando che a ghe voe la ghe voe).
Il controprezzo lo avrebbe anche pagato (salato) quando ci portò in visita a Monterotondo per visitare i sacri luoghi di Padre Pio. Un viaggio della speranza, dieci ore in pullman tra suore, anziani, preghiere e canti religiosi: era troppo pure per noi! Noi ragazzi ad occupare, ovviamente, le ultime fila dell’autobus. Non potevamo non cogliere l’occasione di una vendetta boomer. Muniti di poster delle migliori playmate dell’allora celeberrima rivista Playboy andammo ad affiggerli, dall’interno, nella vetrata posteriore del bus, durante il tragitto autostradale. Per buona parte del viaggio (poi desistemmo per non far finire sul giornale la nostra parrocchia) le risate e gli strombazzamenti divertiti dei conducenti dei TIR che ci superavano, lasciavano basiti ed increduli tutti i passeggeri e il nostro guidatore, inconsapevoli di cotanta immotivata clacsonata.
Bene, secondo voi hanno vissuto meglio la propria gioventù i ragazzi di allora o quelli di oggi con i loro gruppi whatsapp?
Ragionateci sopra, direbbe lo Zaia di Crozza.
È una mattina di fine dicembre riscaldata timidamente da raggi di sole che si fanno spazio tra le nebbie di campagna. Approfittando del tempo libero di fine settimana, ho deciso di andarmi a visitare un posto che da un po’ mi incuriosiva: Possagno, in provincia di Treviso, e le tracce lasciate da un artista conosciutissimo, Antonio Canova, e nato proprio lì il 1º novembre 1757 e morto a Venezia il 13 ottobre 1822
Il paesaggio a mano a mano dalla pianura diventa ondulato, con i filari di vigneti che contornano le dolci colline, le casette di campagna sparse qua e là, i boschi spogliati dal freddo dell’inverno rendono tutto molto suggestivo e diverso rispetto alla classica città e, se tutto ciò fa da sfondo ad un pranzo dai sapori caratteristici con vista, il risultato non potrà che sorprendere, sempre che siate buongustai sia con il palato che con gli occhi!
Tempio di Antonio Canova, Chiesa della Santissima Trinità, Possagno (foto di Virginia Reniero)
Prima di visitare la Gypsoteca (si chiama così un museo che conserva riproduzioni in gesso, in greco gypsos, di statue in bronzo, marmo e terracotta), vi consiglio di entrare nel Tempio del Canova e completare la visita salendo fino alla Cupola di questa Chiesa – ho scoperto in loco che è usato ancora come chiesa parrocchiale del paese -, ottimo punto di osservazione del luogo con perdita d’occhio che in una limpida giornata arriva fino alle lontane colline euganee che si perdono all’orizzonte.
Pronao con le colonne del Tempio al calare del sole (foto di Virginia Reniero)
L’imponenza del tempio la si inizia a percepire già imboccando il lungo viale in salita che porta dritto al piazzale del santuario. Di questa maestosa costruzione, che si staglia in pieno equilibrio architettonico sullo sfondo delle colline verdi e silenziose si rimane colpiti dal pronao, il loggiato sorretto da possenti colonne doriche che creano chiaro scuri di luce bellissimi richiamo evidente al Partenone di Atene.
Entrando lo spazio è avvolgente proprio perché il corpo centrale è di forma circolare, simile al Pantheon di Roma, con varie nicchie impreziosite elegantemente da statue e bassorilievi, illuminati dalla delicata luce che filtra dalla sommità della cupola sovrastante decorata a cassettoni. Il significato simbolico rappresenta il cielo stellato, richiamando l’idea di divinità e trascendenza.
Interno del Tempio Canoviano con dettagli della cupola, Possagno (foto di Virginia Reniero)
Dopo questa primo accenno alla maestria architettonica dell’artista, la tappa è la casa natale di Antonio Canova che ora ospita proprio il Museo.
Entrando qui, si respira proprio un clima di Neoclassicismo e sperimentazione artistica come testimoniano i suoi modelli in gesso di varie dimensioni, gli strumenti di lavoro quali bulini e le spatole, la riproduzione in terracotta dei primi esemplari di capolavori senza tempo.
Sono rimasta a bocca aperta nel vedere come può una semplice piccola terracotta modellata diventare una statua di marmo talmente verosimile al reale da far rimanere sbalorditi.
Ma ciò che più stupisce, specialmente se la si visita al calare del sole, è l’Ala Ottocentesca dove il bianco dei gessi con tutto l’ambiente anch’esso bianco crea una purezza quasi palpabile e vorrei dire divina. Qui sono conservati i modelli originali da cui sono stati plasmati i più grandi capolavori del genio di Antonio Canova che oggi, sono custoditi nei più prestigiosi musei del Mondo!
All’ingresso subito i visitatori sono accolti con quello che è l’unico esempio delle varie fasi della realizzazione di un’opera canoviana.
Il lavoro di realizzazione prevedeva, infatti, una serie di passaggi, che l’artista stesso descrive nei suoi scritti. Il primo momento riguardava l’ideazione del soggetto attraverso il disegno, per poi il dare vita a modellini in argilla, a volte cotti e quindi più solidi. Era questa una fase decisiva perché la scultura iniziava a essere tridimensionale. Seguiva, poi, un modello in argilla, che finalmente aveva le dimensioni desiderate, e da questo ricavava la cosiddetta “forma” in gesso. L’unico esempio ancora tangibile dell’intero percorso creativo è l’Adone incoronato da Venere, che che si trova, appunto, all’ingresso della gypsoteca.
Tra le sculture più celebri, il cui modello in gesso si trova nella gipsoteca di Possagno, vanno menzionate Dedalo e Icaro, Venere e Adone, Venere e Marte, Ercole e Lica, Amore e Psiche e, ovviamente, Le Grazie, che racchiudono in un’unica opera tutti gli elementi connotativi del Neoclassicismo, di cui Canova fu sublime rappresentante. Da menzionare anche Perseo, Teseo sul Minotauro e Teseo e il centauro, che possono essere considerate composizioni con un unico protagonista, tratto sempre dal mito greco.
Ala Scarpa con le terrecotte e in fondo le Tre Grazie, Gypsoteca di Antonio Canova (foto di Virginia Reniero)
A chiudere le rappresentazioni preparatorie delle grandi statue ecco, infine, la copia anticipatrice del Monumento a Vittorio Alfieri, per Canova emblema della nuova Italia da realizzare, ispirata direttamente alla civiltà greco-romana, a cui la nostra, ormai prossima, nazione si sarebbe dovuta ispirare e, capolavoro conclusivo, il busto di se stesso, la copia in gesso di un autoritratto che è auto celebrativo.
Un museo importante, quindi, e, soprattutto, meritorio, quello con i gessi di Canova, perché è unico nel suo genere e c’è tutto il suo mondo di sculture che l’hanno reso immortale.
(Articolo di Aristide Malnati e Virginia Reniero sul viaggio in Terrasanta da VicenzaPiù Viva n. 294, sul web per gli abbonati tutti i numeri, ndr).
Un’esperienza intensa dalla Basilica del Santo Sepolcro a Gerusalemme fino al Mar Morto tra kibbutz e vestigia teatro di gesta epiche.
Terrasanta. Il suono vivace delle campane a festa si confonde con il canto ritmato del muezzin che invita alla preghiera: il nostro percorso ci porta ad avvicinarci al rimbombo che si è fatto incessante di potenti batacchi. Un invito ai fedeli a partecipare all’imminente funzione religiosa che verrà recitata in lingua italiana dai frati francescani in una cappella all’interno del monumento più simbolico della cristianità. La Basilica del Santo Sepolcro, nel cuore della Città Vecchia di Gerusalemme, appare quasi all’improvviso in tutta la sua maestosità una volta varcato un piccolo passaggio ad arco che dà sullo slargo davanti alla Basilica stessa. Una costruzione che affascina con i suoi quasi 1700 anni di storia, una storia che scandisce secoli di presenza cristiana in Terrasanta, che si è concentrata proprio nella difesa del suo simbolo più prezioso, dove è racchiuso il Mistero della religione più praticata al mondo e dove è avvenuto l’episodio che da solo sostanzia la Fede in Gesù, che appunto qui morì, fu sepolto e resuscitò, come dicono le Scritture.
Viaggio in Terrasanta
L’edificio moderno, ancora oggi visibile, è il risultato di una serie di rifacimenti partiti in origine dalla chiesa primitiva fatta costruire da Sant’Elena, madre dell’Imperatore Costantino (quello che nel 311 con il suo famoso editto a Milano decretò la libertà di culto per tutte le religioni dell’Impero, ad iniziare dal Cristianesimo).
Eravamo attorno al 330 ed Elena, fervente cristiana, si recò in Terrasanta per riconoscere fisicamente tutti i luoghi legati alla predicazione di Gesù, ad iniziare dai più importanti, quelli della Passione. E, ovviamente, identificarono, lei e gli archeologi ante litteram al suo seguito, il luogo che fu la sepoltura di Nostro Signore: un loculo scavato nella roccia dove venne posto il corpo che poi resuscitò. Uno spazio angusto che fu venerato per secoli e che recentemente (è notizia che diamo in esclusiva!) gli archeologi dell’Università La Sapienza di Roma, diretti da Francesca Romana Stasolla, hanno datato con certezza proprio al periodo di Gesù, all’interno di una necropoli ebraica, anch’essa funzionante nel medesimo arco di tempo e all’epoca posta fuori dalle mura di Gerusalemme, come dicono i Vangeli. L’archeologia conferma il racconto evangelico; e questo è straordinario, soprattutto per chi ha Fede. Con il cuore ancora vibrante per l’emozione, dopo avere fatto la fila ed essere entrati nell’edicola con il sepolcro, assaporiamo la santità delle altre parti della basilica al suo interno. Il Golgota con le rocce che lo formano proprio a forma di cranio (a confermare anche in questo caso i testi sacri, che così lo descrivono); poi la pietra dell’unzione fino a spingerci, scendendo incerti scalini, nel cuore della antica basilica fatta erigere da Sant’Elena, ricca di simboli cristiani come croci o pesci.
Terrasanta
Un’emozione che ci esalta, ma che subito distilliamo catturati dal caleidoscopio di colori e di sapori di spezie e di fragranze aromatizzate del più famoso souk al mondo, il mercatino che si snoda nell’intrico di viuzze lungo la Via dolorosa, la Via crucis che i frati francescani identificarono durante il medioevo, cioè il percorso che Gesù fece per arrivare al calvario. Stoffe pregiate, profumi di incenso e varie essenze, spezie, gioielli e pietre preziose, oggetti in alabastro, ma soprattutto piccoli souvenir a tema sacro in legno di ulivo o sicomoro; oggetti simbolici da vedere e, magari, anche comprare contrattando in tutte le lingue con i proprietari dei negozietti, quasi tutti palestinesi di religione cristiana. Per poi concludere l’esperienza tra il mistico e il prosaico con una sosta per gustare un thè alla menta con qualche immancabile dolcetto al miele. Una pausa, intensa ma breve, perché ci aspetta la visita al monumento principe dell’ebraismo e della storia di Israele: il muro del pianto, che raggiungiamo passando dal quartiere cristiano a quello musulmano e poi ebraico in una gimcana di viottoli, a tratti segnati da resti di lastricato, di piccoli muri diroccati e qualche colonna, che ci ricordano il dominio dell’Impero Romano per secoli di storia. Arriviamo al muro occidentale del secondo Tempio (quello di re Erode) – il cosiddetto muro del pianto -, che è ormai il tramonto del venerdì e che quindi offre il suo spazio maestoso ai riti ebraici dello Shabbat: sono centinaia i gruppi di ebrei osservanti che danzano e cantano versetti dell’Antico Testamento ebraico, soprattutto salmi, per salutare l’inizio del loro giorno di festa (il sabato, che va dal tramonto del venerdì fino al tramonto dello stesso sabato). Una festa che ci coinvolge e che viene accompagnata e quasi sfidata dal canto del muezzin islamico, che nella moschea di Al Aqsa o della Cupola della roccia (sulla spianata sopra lo stesso tempio erodiano) invita i fedeli della mezzaluna alla preghiera della sera. Un confronto serrato tra religioni che da secoli convivono, purtroppo con continue tensioni, nella Città Santa, a Gerusalemme la “hàghia pòlis” dei greci, El Quds (la santa) per gli arabi; fedi che si sfidano ancora oggi, in un periodo dai risvolti drammatici, in cui la città, capitale del moderno stato di Israele, ma soprattutto città-simbolo dei tre grandi monoteismi, quindi riferimento per quasi tre miliardi di persone, non ha perso comunque la sua voglia di profonda spiritualità.
Viaggio in Terrasanta
La nostra esperienza a Gerusalemme si completa con la visita del Cenacolo – anch’esso edificio del periodo crociato, ma costruito su resti di abitazioni del I sec. d. C., proprio come la casa di Marco, dove avvenne l’ultima cena, secondo il Vangelo –; e con la visita del Palazzo di Erode, dove Erode il Grande, il più famoso Re di Giudea, ebbe il quartier generale nella città; e dove c’è ancora il sinedrio, il tribunale in cui Pilato si lavò le mani, di fatto mandando a morte Gesù.
Il profilo della Città Santa, soprattutto della sua parte più elevata posta sul Monte degli ulivi, svanisce alle nostre spalle, allorché ci dirigiamo verso la depressione del Mar Morto, in un primo momento tra aspre rocce e in seguito tra le dune del deserto di Giuda. Il viaggio è piacevole e relativamente breve.
Il paesaggio sembra ripetitivo: una striscia tortuosa d’asfalto che si snoda tra alture rocciose scendendo gradualmente di dislivello: raggiungiamo lo zero sul livello del mare e poi procediamo verso il basso, verso il centro della maggior depressione al mondo. Ed ecco all’improvviso lo specchio azzurro-biancastro del Mar Morto, bacino lacustre ad alta concentrazione salina, tanto da potervi galleggiare leggendo comodamente il giornale.
Subito incontriamo la storia, il sito di Qumran, il piccolo villaggio del II secolo a. C. abitato dagli esseni, ebrei asceti (anche se non disdegnavano la pastorizia e il commercio), che molto dialogarono con le prime comunità cristiane (probabilmente anche Giovanni Battista appartenne agli Esseni). A Qumran fanno da sfondo grotte nella montagna rocciosa, antri a picco sulla vallata sottostante dove un pastore beduino nel 1947 recuperò manoscritti preziosi: libri noti, ma anche segreti della Bibbia ebraica (come il Libro di Enoch), e addirittura il più antico frammento del Nuovo Testamento, un pezzettino di una copia del Vangelo di Marco (Mc, 6, 52-53) risalente attorno al 50 d. C. a neanche 20 anni dalla morte e resurrezione di Gesù: un’autentica bomba, ancora oggi controversa.
Passiamo oltre e ci dedichiamo alla serenità dei kibbutz, vere oasi di pace, distese di rigogliose coltivazioni tra aspre dune tutt’intorno. Prima Kalia, famoso per la qualità dei suoi datteri e di altri alberi da frutto, coltivati secondo precisa disposizione geometrica e studiata alternanza di colture; e poi En Gedi, uno dei kibbutz più antichi, esempio insuperato di comune socialista ebraica, permeato di pace autentica. Qui ai benefici di una terra rigogliosa e amica (fiori e frutti di ogni tipo la fanno da padrone nel curatissimo orto botanico adiacente al kibbutz stesso) si aggiungono la salubrità di un clima mite e soprattutto delle acque del vicinissimo Mar Morto, toccasana medicalmente testato soprattutto per la pelle.
Terrasanta
Dopo il meritato relax tra le coccole di En Gedi, ci avventuriamo nel wadi non distanti (il wadi è lo stretto canyon tra due aspre montagne di roccia che in caso di pioggia a monte convoglia vorticosi fiumi d’acqua lungo un corridoio che arriva fino al Mar Morto). Su un fuoristrada arriviamo fino alla base della rocca di Masada: sulla sommità sorgeva il più emblematico Palazzo di Erode, dove il re dei Giudei passava i suoi inverni tra la lussuria e le mollezze del vizio; e fu a Masada che fu scritta tra il 70 e il 72 d. C. la pagina di eroica resistenza degli zeloti, gli ebrei oltranzisti che dopo una strenua difesa (le fonti archeologiche dicono che in realtà durò pochi mesi, ma sempre strenua fu) soccombettero alla X Legione romana guidata da Flavio Silva; e i pochi sopravvissuti preferirono il suicidio collettivo pur di non consegnarsi al nemico che ormai stava entrando oltre le mura della rocca. Un episodio ammantato di leggenda che ha segnato un intero popolo e che è avvenuto in un contesto naturale di incomparabile bellezza. Un insieme di doni del creato che si offrono in abbondanza ai numerosi pellegrini (religiosi o laici, viandanti cittadini del mondo), che vengono in quella che a buon diritto è stata definita dalle tre grandi religioni del Libro la Terra Promessa, uno spazio benedetto, troppo spesso ferito a morte da aspri conflitti, ma capace di aver fatto germogliare i più profondi pensieri spirituali che la Civiltà occidentale abbia partorito.
Buon anno a nome mio e di tutti i collaboratori a qualunque titolo delle testate che ho l’onore di dirigere col merito di non piacere a… tutti. Ma a tutti vanno gli auguri per tutto l’anno
Musica, spettacolo e sicurezza saranno protagonisti del Capodanno 2025 a Vicenza. Viale Roma ospiterà un evento imperdibile, organizzato dal Comune di Vicenza insieme al Consorzio Vicenza è e Agsm Aim, che trasformerà la notte del 31 dicembre in un’occasione unica per festeggiare insieme l’arrivo del nuovo anno.
Programma e animazione
A partire dalle 21, il grande palco di viale Roma vedrà alternarsi i dj di Radio Wow, che proporranno le migliori hit pop e dance dagli anni ’90 a oggi. Il countdown sarà affidato a Marco Cavax e Andrea Meggio, accompagnati dalla presentatrice Aryfashion e dalla voce di Mary K. Lo spettacolo sarà arricchito da scenografie mozzafiato curate dal corpo di ballo e da effetti pirotecnici che illumineranno la serata fino alle 2 del mattino.
Per chi vorrà completare l’esperienza con un tocco gastronomico, sarà allestita un’area food con lo stand del Birrone. Inoltre, prima e durante l’evento, sarà disponibile la pista di ghiaccio coperta nell’esedra di viale Roma.
Sicurezza e viabilità
L’evento prevede alcune misure straordinarie per garantire la sicurezza e il regolare svolgimento della manifestazione:
Viabilità modificata:
Dalle 8 del 30 dicembre alle 15 del 2 gennaio, viale Roma sarà chiuso al traffico nel tratto compreso tra piazzale della Stazione e l’uscita dal parcheggio Verdi.
Il trasporto pubblico sarà temporaneamente deviato (dettagli sul sito di SVT).
Il parcheggio Verdi sarà accessibile solo da piazzale Bologna dalle 14 del 31 dicembre alle 6 del 1° gennaio.
Divieto di vetro e spray:
Dalle 12 del 31 dicembre fino alle 6 del 1° gennaio, sarà vietato introdurre, utilizzare o vendere contenitori di vetro, ceramica, lattine e spray urticanti o prodotti simili nelle aree dell’evento e nelle zone limitrofe.
Divieto di botti:
Dal 31 dicembre al 7 gennaio, su tutto il territorio comunale, non sarà consentito accendere o lanciare fuochi d’artificio, petardi, mortaretti e razzi. Questo provvedimento mira a garantire la sicurezza pubblica e il rispetto di luoghi sensibili come ospedali, scuole e case di cura.
Un Capodanno da vivere in sicurezza
L’amministrazione comunale invita i cittadini a partecipare numerosi e a rispettare le disposizioni per una festa serena e senza rischi. Per maggiori informazioni sull’evento, consultare il sito ufficiale del Comune di Vicenza.
La Biblioteca civica Bertoliana ospiterà per la prima volta un evento del campionato nazionale della Lega italiana Poetry Slam (Lips). L’appuntamento, organizzato dal collettivo vicentino StradaProvinciale35, si terrà giovedì 30 gennaio alle 20 nella sala Dalla Pozza di palazzo Cordellina a Vicenza.
Che cos’è un poetry slam
Un poetry slam è una competizione di poesia performativa in cui i partecipanti si sfidano utilizzando solo la propria voce e testi originali, non più lunghi di tre minuti. L’evento è caratterizzato da un forte coinvolgimento del pubblico, che diventa parte attiva: una giuria selezionata a sorte tra i presenti decreterà il vincitore della serata, il quale potrà accedere alle successive fasi del campionato Lips.
Come partecipare
La partecipazione all’evento è gratuita, sia per gli sfidanti che per il pubblico.
Per partecipare come sfidanti: è necessario iscriversi compilando il modulo online disponibile qui.
Per il pubblico: la prenotazione è consigliata compilando il modulo qui.
Gli organizzatori
L’evento è curato da StradaProvinciale35, un collettivo informale nato nel 2023 e composto da Alice Stefani, Elena Walczer Baldinazzo, Farida Framarin e Nicoletta Erle. Il gruppo è attivo nella promozione della poesia performativa e della scrittura creativa nel territorio vicentino, organizzando poetry slam, open mic e il laboratorio autogestito “Bozze in corso”.
Per maggiori informazioni, è possibile scrivere a [email protected] o seguire il collettivo su Instagram all’account @StradaProvinciale35.
Un Poetry Slam è una competizione di poesia performativa in cui i poeti recitano o interpretano i propri testi davanti a un pubblico e a una giuria. Questa forma d’arte unisce poesia e performance e spesso si caratterizza per la sua atmosfera dinamica e interattiva. Ecco alcuni punti principali su cos’è un Poetry Slam:
Origini: Il Poetry Slam è nato a Chicago negli anni ’80, ideato dal poeta Marc Smith, con l’obiettivo di rendere la poesia più accessibile e coinvolgente.
Struttura della competizione:
I poeti si esibiscono con testi originali, spesso senza musica o accessori scenografici.
Ogni performance ha una durata massima, di solito 3 minuti.
Una giuria, scelta tra il pubblico, valuta le performance su criteri come contenuto, originalità e interpretazione.
Interazione con il pubblico: Il pubblico gioca un ruolo fondamentale, poiché crea un’atmosfera vivace attraverso applausi, reazioni e supporto emotivo per i poeti.
Tematiche: I testi possono spaziare su una vasta gamma di temi, dalla politica alla società, dai sentimenti personali alle questioni culturali. Spesso si tratta di poesie intense, provocatorie o emotivamente coinvolgenti.
Obiettivo: Più che una semplice competizione, il Poetry Slam mira a promuovere la creatività, la libertà di espressione e il dialogo tra artisti e pubblico.
Il fenomeno si è diffuso rapidamente in tutto il mondo, diventando un evento culturale popolare che unisce poesia, teatro e improvvisazione. Anche in Italia il Poetry Slam ha trovato terreno fertile, con eventi regolari organizzati da associazioni culturali e poetiche.
(Articolo di Edoardo Pepe su Serenissima Ristorazione da VicenzaPiù Viva n. 294, sul web per gli abbonati tutti i numeri, ndr).
Serenissima Ristorazione, nata nel 1984 come piccola realtà vicentina operante nella ristorazione aziendale, in 40 anni è passata da poche centinaia di pasti giornalieri a una produzione di oltre 250.000 pasti al giorno. «Dal 1986, quando abbiamo rilevato l’attività
grazie all’intuizione di mia moglie, e sotto la guida della mia famiglia, abbiamo intrapreso un percorso di crescita straordinario. In 40 anni abbiamo vissuto ogni giorno con dedizione e passione affrontando sfide e cogliendo opportunità che ci hanno portato ad essere una delle realtà più importanti della ristorazione collettiva in Italia», ci racconta il presidente di Serenissima Ristorazione Mario Putin.
Serenissima Ristorazione è, infatti, diventata un gruppo che opera attraverso 14 società controllate con una forte diversificazione nel food, dalla ristorazione commerciale alla ristorazione automatica, dalla fornitura di prodotti alimentari e bevande a ristoranti e bar, fino alla birra artigianale Beer Table e agli omonimi locali a New York. Le società Rossi Giants, Imes e F.F.F. operano, invece, come piattaforme di distribuzione di prodotti alimentari e non per il settore Ho.Re.Ca e gli esercizi gastronomici. Infine, grazie a Ristovending il gruppo presidia anche il settore della distribuzione automatica. Tra gli obiettivi di Serenissima spiccano l’aumento della propria competitività, l’esplorazione di nuove aree di business e il consolidamento della presenza sui mercati esteri, tra cui Spagna e Polonia, dove opera attraverso le filiali Serenissima Iberia e Serenissima Polska.
«Nel 2010» – prosegue Mario Putin – «abbiamo realizzato il centro di produzione di Boara Pisani (Padova), dedicato alla produzione dei pasti in legame refrigerato e surgelato, il primo in Italia nonché uno dei più grandi in tutta Europa.
E nel 2024, l’azienda ha presentato il secondo bilancio di sostenibilità, che riassume i risultati ottenuti negli anni 2022 e 2023 mettendo su carta come ogni operazione sia in linea con i pilastri ESG».
Le strategie di crescita di Serenissima Ristorazione si basano su una combinazione di sostenibilità, innovazione e diversificazione con la gestione familiare, elemento distintivo del gruppo, che consente di affrontare con flessibilità e rapidità le sfide e di pianificare investimenti con una visione di lungo periodo.
Il futuro dell’azienda è, infatti, saldamente nelle mani della nuova generazione rappresentata dai quattro figli di Mario Putin: Tommaso, vicepresidente, Giulia, responsabile acquisti, Massimiliano, che guida lo sviluppo delle società estere e della logistica Ho.Re.Ca. tramite Rossi Catering, e Maria Leida, a capo della qualità e della parte tecnica.
Tra gli obiettivi principali del gruppo, un’eccellenza vicentina, spiccano, conclude Putin, «i 700 milioni di euro di fatturato nei prossimi tre anni sviluppando nuove linee di business, come il catering crocieristico e aereo con un focus sulla riduzione dell’impatto ambientale
grazie al team apicale che garantisce continuità, innovazione e una visione strategica mirata a consolidare e ampliare la nostra presenza nei vari mercati».
(Articolo sui giovani giornalisti anni ’80 a Vicenza da Vicenza Più Viva n. 294 , sul web per gli abbonati tutti i numeri, ndr).
La fondò un eterogeneo drappello di giovani cronisti – tra i quali Massimo Manduzio, Alberto Franco, Maurizio Mascarin, Vincenzo Beni – sostenuti da giornalisti già affermati quali Franco Maria Silvestri, Vinca e Felix.
Giornalisti anni ’80. La macchina del tempo, grazie agli archivi dei periodici della Biblioteca Bertoliana (collocazione PER.VIC.810), ci porta al racconto di una Vicenza prossima agli anni Ottanta, quando il Veneto è ancora Vandea bianca e Vicenza è ancora la Sagrestia d’Italia. Ma qualcosa si stava muovendo. È in questo scenario che un eterogeneo drappello di giovani cronisti – tra i quali Massimo Manduzio (che nel settembre del 1981 fondò anche Segnocinema con Paolo Madron e Mario Calderale, ndr), Alberto Franco, il sottoscritto Maurizio Mascarin, Vincenzo Beni – sostenuti da giornalisti già affermati quali Franco Maria Silvestri, Vinca e Felix (la forza dello pseudonimo!), con zero budget e una mitica Olivetti Lettera22, alla vigilia degli anni Ottanta propongono ai lettori vicentini L’altra Vicenza, «un giornale alternativo alla mestizia dei verbali di cronaca offerti dai due quotidiani locali».
C’era di tutto, in quei pochi fogli a colore ‘scarsi’ di pubblicità: dalla politica locale (esemplare una bella intervista a Lino Zio, consigliere comunale Dc dal 1951 al 1979 e tra le voci illuminate di Vicenza, dal titolo: L’ ultimo Consiglio di Lino Zio) ai retroscena dei palazzi romani («A chi telefona il sottosegretario alla difesa, il vicentino Onorio Cengarle? Con 10milioni 200 mila lire di spese telefoniche, è tra i parlamentari più affezionati al telefono…»).
Giornalisti anni ’80
Senza dimenticare curiosi pezzi di colore, dai toni surreali, come quello su Gianni Marchetti, il giovane avvocato chansonnier che, sulle orme di Paolo Conte e Jannacci, lontano dal freddo rigore del Foro cantava in ogni dove (io ne sono stato testimone a Parigi, a la Gare de Lione) il cosmico Lamento indiano, la sentimentale Piangi nelle valli e nelle convalli, la mitica «Bagigi a Nairobi… tu mi offrivi del tokay/ mi parlavi dei tuoi guai/ ricordavi anche Shangai… Bagigi a Nairobi ho comprato per te».
L’altra Vicenza
È il 16 dicembre del 1979 quando esce in edicola, a £ 300, il primo numero de L’altra Vicenza settimanale del sabato. Direttore e tra i fondatori, insieme ad altri colleghi, un giovane e pacato giornalista, Massimo Manduzio, che dopo una breve gavetta approderà a Il Giornale di Vicenza. Per far capire di che inchiostro era questo debuttante giornale, il pezzo d’apertura del numero 1 fa subito scalpore, anche tra gli amici della Balena bianca. Titolo: All’avvocato Pierangelo Fioretto, commissario giudiziale del Cotorossi, una parcella di 420 milioni. Tanti, tanti soldi anche per il consigliere e assessore comunale Lino Zio che, da noi intervistato, ammette: «È una cifra enorme, vorrei non credervi. Ma è così».
Tutto regolare, comunque. Sia per il compianto, fu ucciso, avv. Fioretto («Senza di me non ci sarebbe il Cotorossi», ebbe a dire), sia per il suo avvocato di fiducia, l’avv. Francesco Barilà, che sulla questione argomentò con una lettera al direttore il perché di tale parcella liquidata al suo cliente.
Noi, quelli che
Eravamo giovani, giovani scaltri con la biro e il block notes sempre a portata di mano. Giovani pronti e attenti ad ascoltare le voci della città, i suoi sentimenti, a raccoglierne i suoi malumori. E come segugi cercavamo interviste, notizie e retroscena più o meno ‘piccanti’ per la quieta piazza palladiana. Tra i tanti temi sul tappeto, l’annosa questione del Teatro Nuovo firmato Gardella. «È un bel teatro, non costa molto, 8 miliardi. Chi ha votato contro non aveva proposte precise», dirà il sindaco Giovanni Chiesa, che così chiuderà in bellezza il suo mandato amministrativo. Intanto le strutture scolastiche della città facevano acqua. Succede all’Istituto tecnico Rossi, dove le aule di laboratorio sono ridotte ad un colabrodo. «Cadono calcinacci, ma si continua a far lezione», denunciano gli studenti.
Cronisti di strada
L’Altra Vicenza non aveva logisticamente una sua redazione, ciascuno scriveva a casa il suo pezzo, dopo averlo concordato col direttore durante i quattro passi canonici in Corso Palladio. Così facendo, le notizie – meglio, i retroscena – non mancavano mai. Anche perché la Dc locale era tutt’altro che granitica e tra le contrapposte correnti le voci e i dissidi montavano presto a notizia.
L’Altra Vicenza anni ’80
Tutti contro
I retroscena sulle faide correntizie interne (rumoriani vs dorotei, Lorenzo Pellizzari vs Danilo Longhi), le battaglie di posizionamento tra veterani ed emergenti erano pressoché all’ordine del giorno. Bastava coglierle e scriverle. Come nel caso del governo urbanistico della città: «L’edilizia spacca la Dc: l ’assessore all’urbanistica Danilo Longhi contro l’assessore ai lavori pubblici Porelli», scrive L’altra Vicenza. Ed il dibattito tra falchi e colombe scudocrociati saliva alle stelle.
Sulla scena della politica vicentina non c’erano solo i litigiosi Dc. Non passava inosservata la voce dell’intellettuale socialista Fernando Bandini, quella insorgente dell’architetto comunista Secone; c’era poi una sconsolata signora liberale, la Dalla Via, che per uscire da
un sordo anonimato, col tempo pensò bene di far carriera e di trasformarsi in leghista convinta. E poi c’era un protagonista, a suo modo originale e fuori dal coro, come l’eclettico editore/scrittore Neri Pozza: «I politici? Una massa di ignoranti nel vero senso della parola: illetterati, idioti, totalmente privi di cultura. Sia a livello nazionale che locale – dichiara senza mezzi termini a L’altra Vicenza –. Prendiamo ad esempio la vicenda del teatro a Vicenza…».
Quando i politici… L’altra Vicenza se lo compravano tutti, politici e portaborse. Lo compravano, ma quasi sempre di nascosto, perché non si doveva far vedere. Qualche edicolante amico del Centro ci raccontava di questo o quell’altro assessore che, per non far vedere che leggeva questo giornalino insolente, se lo faceva comprare dal portaborse di turno o dall’amico del bar.
Tanto per dire di com’era quella Vicenza che, per la verità, quanto a dose d’ipocrisia e provincialismo non ci sembra molto cambiata. Anzi. Non ebbe vita lunga L’altra Vicenza.
Appena 9 numeri nell’arco di 6 mesi. Ma per molti di noi quel giornale che voleva vederci chiaro («…andremo oltre la notizia, ci saranno gli amati retroscena…», scriveva nel suo editoriale di presentazione il giovane Massimo Manduzio) rappresentò un’ottima palestra per il futuro, e fece da battistrada ad un’altra operazione giornalistica, il settimanale Nuova Vicenza. Tutto il resto è storia. Senza nostalgia.
P.S. Il direttore di questa testata non sapeva che L’altra Vicenza, anche da lui fondata, ma per il bello e il buono di Vicenza, aveva un siffatto antefatto… e dei giornalisti anni ’80.