giovedì, Novembre 21, 2024
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L’ospedale dei Proti, un capolavoro di Antonio Pizzocaro

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Storie Vicentine ci racconta storia e architettura dell’Ospedale dei Proti, un capolavoro di Antonio Pizzocaro.

Poco oltre la metà del XVII secolo i governatori dell’ospedale dei Proti di Vicenza si rivolgevano al più autorevole architetto e impresario a quell’epoca operativo in città: Antonio Pizzocaro. Il Pizzocaro era nato a Montecchio Maggiore allo scadere di settembre del 1605 dal padre Battista, di professione muraro, proveniente da Lonato e che lo aveva instradato alla professione di architetto. Proprio per avere migliori possibilità lavorative, Antonio, raggiunta la maggiore età e divenuto pienamente responsabile sul piano giuridico del proprio patrimonio, sino ad allora gestito da un tutore testamentario, decideva di stabilirsi a Vicenza. Qui, infatti, nel 1625 veniva ascritto negli elenchi della fraglia dei lapicidi della città – la corporazione di mestiere che riuniva le professioni di quanti lavoravano con la pietra: architetti, scultori, capomastri, tagliapetre, murari ecc. – a quel tempo diretta dalla gastaldia di Giambattista Albanese, il celebre scultore e architetto postpalladiano di una trentina d’anni più anziano rispetto ad Antonio col quale il nostro avrebbe collaborato negli anni giovanili, per proseguire poi la collaborazione, dopo la morte di costui nel 1630, col fratello e cotitolare della bottega Girolamo Albanese.

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Il prospetto dell’oratorio dei Proti. (Foto dell’autore).

Rivolgersi per i governatori dei Proti al Pizzocaro dovette essere inevitabile, se si considerano i successi professionali maturati dall’architetto a partire dalla metà degli anni Trenta in avanti e se si tien conto della sua capacità di stagliarsi sul palcoscenico vicentino dell’epoca. Dove, del resto, usciti di scena i grandi del passato (Palladio era morto nel 1580, Scamozzi nel 1616, Giambattista Albanese, appunto, nel 1630, Ottavio Revese Bruti sarebbe invece morto poco dopo, nel 1648) e dove mancava una grande concorrenza (Girolamo Albanese era maggiormente orientato alla scultura, mentre Domenico Borella non aveva la levatura del nostro), al Pizzocaro riuscì in qualche modo di emergere proponendo un linguaggio tutto suo. Un linguaggio architettonico sicuramente memore della lezione di maestri, che inevitabilmente dovette subire il fascino dell’antico proiettato
dalle rivoluzionarie architetture palladiane, ma che si fece maggiormente incline a subire la seduzione di un’architettura dalle linee più secche e severe qual era quella scamozziana.
Peraltro, filtratagli e resagli più immediata e accessibile dalla semplificazione formale proposta proprio da quel Giambattista Albanese che lo aveva accolto in fraglia e sulla cui
lezione e intermediazione Antonio dovette a lungo meditare negli anni giovanili.
Quindi approdò ai Proti. Dove, non si dimentichi, a segnalare ancor più le ragioni di una scelta, tra i governatori dell’ospedale figurava il conte Alessandro Godi, il quale nel 1652 aveva tenuto a battesimo, in qualità di padrino, l’ultimogenito di Antonio, Giambattista, e che contemporaneamente all’avvio del cantiere dei Proti era anche magistrato sopra la fabbrica delle prigioni nuove, ove l’impegno del nostro è cosa nota.

Già da tempo si stava valutando l’opportunità di rinnovare il vecchio ospedale dei Proti, fondato ai primi del Quattrocento in seguito alle disposizioni testamentarie di Giampietro de’ Proti che aveva voluto dar vita a un istituto sul luogo dove sorgevano le case della sua famiglia che potesse accogliere nobiluomini «vegnudi in povertà». La struttura si dimostrò ben presto di grande utilità per il centro berico. Tuttavia, dopo più di due secoli
di attività, essa necessitava di consistenti lavori di ripristino.
A rendere improcrastinabile l’intervento furono essenzialmente due circostanze: anzitutto un incendio che verso la fine del 1606 aveva pesantemente danneggiato l’ospedale, il quale, per quanto riparato tempestivamente dai capomastri Natale Baragia e Barnaba
Mazzonchi, ancora alla metà del Seicento si presentava bisognoso di riordino. Ma fu soprattutto la particolare e assai delicata congiuntura sociale ed economica, aggravata com’è stato osservato dalla peste del 1630, a determinare l’urgenza non solo di un rinnovo della struttura, bensì, soprattutto, di un suo significativo ampliamento.
La crisi che permeava la società vicentina arrivando a lambire in misura preoccupante persino gli strati dell’aristocrazia – configurandosi come una piaga dolorosa se paragonata alla floridezza della condizione cinquecentesca – aveva determinato una povertà mai sino
ad allora sperimentata con tanta brutalità dalla classe nobiliare, in seno alla quale furono diversi gli esponenti che si videro costretti a svendere il proprio patrimonio immobiliare.
Cattive congiunture climatiche iniziate già alla metà del XVI secolo avevano iniziato a condizionare pesantemente la vita della popolazione. Intorno al 1550 aveva iniziato a presentare il conto quella che gli storici avrebbero chiamato la piccola glaciazione dell’età moderna. Ad inverni rigidi si susseguirono con costanza estati brevi e poco assolate. A livello globale si assistette, allora, all’avanzata dei fronti glaciali. In alcuni inverni persino
i fiumi nel mezzogiorno della Francia ghiacciarono, come ha ricostruito lo storico del clima Leroy Ladurie.

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L’ingresso dalla Contrà omonima. (Foto dell’autore)

Non solo: basta leggere le cronache del vicentino Fabio Monza allo scadere del Cinquecento per accorgerci di quanto il clima si fosse fatto rigido. I lupi erano scesi dai colli e dai monti e, affamati, erano arrivati a lambire la città. I nobili vicentini vengono immortalati dal cronista all’interno delle proprie dimore urbane o delle residenze di campagna in pieno luglio col fuoco del camino acceso e la pelliccia indossata.
Questa piccola glaciazione, che si sarebbe prolungata sino alla metà dell’Ottocento con una maggior incidenza proprio tra il 1550 e il 1650 circa, determinò, come causa più diretta,
una drammatica crisi agraria, che mise nel giro di pochi decenni, a partire dalla fine del XVI secolo, in ginocchio buona parte dell’aristocrazia terriera che proprio sui latifondi rurali dell’entroterra veneto aveva costruito la sua fortuna economica.
È nei confronti di questa nobiltà decaduta, allora, che il Consiglio cittadino intero si sentì in obbligo di assumere urgenti manovre riparatrici che potessero venire in aiuto dei “colleghi di ceto” in difficoltà. L’unica strada percorribile era l’ampliamento dell’ospedale dei Proti, istituto già deputato a tale funzione di assistenza sociale. L’unico architetto, poi, su cui si poteva contare a quell’epoca, per esperienza, serietà, fiducia, come chiarito, era Antonio Pizzocaro. Egli poteva da un lato vantare una lunga e ben collaudata collaborazione con l’amministrazione civica e, dall’altro, aveva maturato, soprattutto nel corso degli ultimi quindici anni, una perizia nel campo dell’arte architettonica in grado di proiettarlo sulla ribalta della scena vicentina, al centro di un palcoscenico ambito che da troppi anni aveva perso i ricordati protagonisti di riferimento.
L’edificio pizzocariano assolve alle esigenze di pura funzionalità: semplice ed essenziale, si presenta spoglio e severo all’esterno, dov’è bandito qualsiasi orpello decorativo. Estremamente asciutto e rigoroso anche – e forse in misura ancora più evidente – il cortile interno, strutturato nel ritmo incalzante degli archi, d’un nitore e di una secchezza pressoché tagliente. Una vera e propria scatola “psichedelica” che attraverso la scansione modulare raggiunge esiti altissimi, toccando i vertici di un lirismo mai sino ad allora esibito dal Nostro. Una scatola, dicevamo, dove tutto è giocato sull’iterazione delle arcate secondo un valore di razionalità e pragmatismo, nell’intento di evidenziare attraverso l’identità di
queste aperture filtranti – che servono a dar luce ai loggiati – la pari dignità dei nobiluomini ospitati nelle corrispondenti sale retrostanti, indistintamente beneficati in ugual misura.
Qui si consuma forse la più brillante e moderna sperimentazione del Pizzocaro. Un cortile di una purezza senza eguali, dove a regnare è il confronto con l’antico. Non una citazione
proiettata verso la città, ma intima, introversa, interiore. Risolta nell’intimità e nella discrezione degli interni. Un luogo inscalfibile da occhi indiscreti, di un razionalismo asciutto, teso, severo, finanche austero che porta alle estreme conseguenze quella meditazione pizzocariana intorno all’opera e alla lezione di Vincenzo Scamozzi. Un’opera di un razionalismo modernissimo, dicevamo, che anticipa di ben tre secoli la soluzione formale che, estroversa e proiettata alla città, sarebbe stata proposta nella palazzina della civiltà italiana all’EUR di Roma.
I lavori presero il via nel 1655 dall’oratorio annesso alla struttura per poi estendersi all’ospedale vero e proprio, e proseguirono a lungo (fino al 1668) sotto la direzione di
Antonio Pizzocaro che poteva in questo modo contare su di un introito fisso mensile per la supervisione alla fabbrica. Si trattava di compensi continuativi e di assoluta soddisfazione
cui si aggiungevano i guadagni via via crescenti derivanti anche dalle commissioni di natura privata evase in quegli anni. Fu su questa base economica sicura e stabile che al Pizzocaro risultò possibile sviluppare i propri investimenti finanziari nella natia Montecchio, ove curò l’acquisto di nuovi terreni, immobili e livelli, nell’intento di rinvigorire i possedimenti
nella zona ereditati dal padre o già acquisiti negli anni passati, o nella stessa Vicenza e in alcune delle sue più riguardevoli appendici territoriali.

Di Luca Trevisan (Accademia Olimpica di Vicenza- Università di Verona) da Storie Vicentine n.14-2023.

Bibliografia essenziale di riferimento:
L. Trevisan, Antonio Pizzocaro architetto vicentino 1605- 1680, Rovereto 2009, pp. 70-73, 123-127 cat. DA7 (con bibliografia precedente).
L. Trevisan, Antonio Pizzocaro. Un architetto del Seicento da Montecchio Maggiore a Vicenza, Rovereto 2010, pp. 35-37.
L. Trevisan, Per la famiglia dell’architetto vicentino Antonio Pizzocaro nella sua terra d’origine. Tracce dei Pizzocolo a Lonato attraverso inediti documenti d’archivio, in “Postumia”, 2016, pp. 307-322.

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