Andrea Zanzotto, nella prefazione a Le stelle fredde di Guido Piovene, Premio Strega del 1970, si riferisce all’autore definendolo come l’uomo del perpetuo ritorno a un luogo. Più precisamente, Vicenza, l’unica dimensione spaziale che è stata per l’autore il suo ‘grembo materno’. La sognava quando era distante proprio perché era l’unica origine a cui ricondurre la sua vita e la sua intera produzione artistica, ma soprattutto era un bisogno per esistere, per tornare a respirare e a riconoscersi.
Civenza, era bastato uno scambio di consonanti perché tutto, ne Le Furie del 1963, diventasse romanzescamente finto; il covo di malafede e di serpi che aveva descritto per tutta la sua vita e da cui si era allontanato viaggiando, era stato da lui sapientemente adattato alla finzione artistica.
L’intenzione autoriale era quella di trasferire e sradicare dal loro luogo d’appartenenza le persone e le vite vere del suo passato, tornate presenti, che non riusciva a tollerare. Le collocava, quindi, in una cittadina dal nome leggermente differente e, sfruttando le sue conoscenze di giornalista, che aveva viaggiato per molti anni, faceva apparire tutto in una nuova veste. Una bipartizione, perenne e parimenti in una forma sempre in fieri, che ha caratterizzato la sua scrittura, tra dimensione romanzesca e giornalistica.
Umilmente e instancabilmente, in ogni reportage, Piovene rivolgeva il suo sguardo verso il luogo in cui si trovava con la volontà di scattare un’istantanea con i suoi occhi, ‘in punta di piedi’, senza sfiorare o manipolare la realtà con preconcetti e filtri che risultavano ad hoc per molti viaggiatori e giornalisti occidentali ma di certo non per lui. Alla ricerca della verità per ogni elemento d’indagine che diventava un tutt’uno con la sua persona, per descrivere la profondità sentendosi parte della medesima, ‘dall’interno’.
Guido Piovene si immergeva in ogni nuovo contesto, rifiutando le vie di comunicazione predisposte, per analizzare ogni aspetto sociale, politico ed economico del luogo in cui si trovava come ne sentisse e ne parlasse per la prima volta. Un modus operandi volto alla descrizione e difesa della realtà, senza mezzi termini.
Quando si trattava di Vicenza, tuttavia, questo processo non gli riusciva. Due o tre punti, definiti da lui stesso, di paesaggio assoluto, a causa del troppo dolore presente nel ricordo, resistevano al suo tentativo di manipolarli per non dover affrontare il momento di confronto con quell’insieme di “mostri”, di “Furie”, con il suo passato. Il tentativo era quello di alienare se stesso e il lettore forzando uno psicologismo in primo piano ma manipolato.
La progressione nelle differenti dimensioni spaziali è, senza dubbio, uno dei temi centrali della produzione pioveniana; un movimento inteso in senso letterale ma anche figurato. Proprio perché l’atto del camminare, nella sua scrittura, è sempre connesso a quello del capire. Si tratta dell’espressione di un percorso che non è da intendersi limitatamente a livello di estensione nello spazio ma, al contrario, si intreccia col perenne mutamento della condizione esistenziale dell’autore, che si riflette, soprattutto, nella dimensione romanzesca.
«Uno scrittore, veneto come me, parla del bisogno cocente che prova di staccarsi dalla schiavitù (fantastica, morale) dei luoghi dov’è nato. Ossia di sradicarsi, di rinascere in un ambiente estraneo. La forza del legame e dell’attrattiva per quello dov’è nato gli si muta in disgusto. È un sentimento che anch’io provo, insieme con il suo contrario; in un’alternativa di movimenti, verso il proprio sangue e contro, senza poter decidere in quale di essi si conquista una libertà maggiore. E vorrei che i miei scritti riuscissero a rappresentare questi due movimenti, il sorgere l’uno dall’altro, la loro relazione». (Guido Piovene, La coda di Paglia, Milano, Mondadori, 1962, cit., p. 480).
Vicenza rappresenta quindi il centro, da cui allontanarsi ma anche ricondursi; la ragione, pura e unica, dietro e dentro la materia della sua produzione artistica, considerata nella sua interezza. La ‘distruzione’ di quella visione e conseguente percezione salvifica di questo luogo era stata provocata dal dolore che non aveva ancora avuto il coraggio di affrontare.
Nonostante la difficoltà del percorso che si prospettava, l’autore riuscì a porre fine a quella ‘fuga’, procedendo in direzione di una coraggiosa accettazione del suo passato. Cambiò rotta e dopo lunghissimi anni di silenzio, soprattutto grazie alla lunga e difficoltosa genesi e stesura de Le Furie, tornò all’origine. Questa è la Vicenza di Guido Piovene.
«Diventa sempre più necessaria e interna quanto più la allontano, la stacco, la converto in un luogo della fantasia ed in una realtà morale; il punto d’avvio obbligatorio di mille fantasie centrifughe, anche quando è taciuto. Se penso o immagino qualcosa, prima sono costretto a tornarvi dentro in me». (Ivi, p. 585).