(Articolo di Salvatore Borghese sulle spese militari da VicenzaPiù Viva n. 300, sul web per gli abbonati).
In base ai nuovi impegni sottoscritti con la NATO, l’Italia dovrà aumentare significativamente le proprie spese destinate alla difesa. Un’idea che agli italiani piace sempre meno…
Trecento è un numero che sarebbe apparso perfettamente a suo agio in mezzo alle cifre (tante) di cui si è sentito parlare ultimamente nel dibattito politico italiano. Intesi, ovviamente, come “trecento miliardi”: sarebbero in realtà persino molti più di così (finanche più di 400) gli euro che lo stato italiano dovrebbe sborsare nei prossimi anni per onorare gli impegni presi nell’ultimo vertice NATO, stando ad alcune dichiarazioni di esponenti dell’opposizione. Lo scorso 25 giugno a L’Aja, infatti, i paesi membri dell’alleanza atlantica si sono impegnati ad aumentare le proprie spese per la difesa fino al 3,5% del PIL, a cui si aggiunge un ulteriore 1,5% in spese definite “dual use” (ovvero legate alla sicurezza e alla resilienza delle infrastrutture di Salvatore Borghese civili) entro il 2035. In totale, la spesa militare complessiva salirebbe così fino al 5% del PIL, proprio come auspicato dal presidente USA Donald Trump. A partire da questo dato di fatto è partito – immancabile – il balletto delle cifre e delle accuse incrociate.

Ma quanto spenderemo davvero?
La realtà, come spesso accade, è un po’ più sobria – e decisamente meno sensazionale. Innanzitutto, perché il nuovo obiettivo della NATO è da intendersi come una soglia di riferimento, non come un obbligo immediato.
L’Italia, attualmente, spende circa l’1,5% del PIL per la difesa (dato recentemente “aggiustato” in modo da farlo arrivare al 2%). Un aumento pluriennale verso il 3,5% (più le spese “dual use”) non comporterebbe quindi uno sbilanciamento improvviso, ma un incremento graduale (di circa 3-5 miliardi ogni anno), come spiegato da un recente articolo del Post.
Inoltre, l’Italia potrebbe utilizzare la clausola sul “dual use” per includere spese già previste in ambito infrastrutturale e di protezione civile, riducendo così l’impatto complessivo dell’aumento. In altre parole, le spese previste non saranno tutte nuove, ma andranno a coprire investimenti già programmati ma che verranno opportunamente “riclassificati”.
Del resto, visti i limiti e i vincoli derivanti dalla struttura della spesa pubblica in Italia, non potrebbe che essere così. Secondo l’analista ISPI Matteo Villa, l’Italia non arriverà mai a rispettare un impegno così macroscopico come quello di portare la spesa militare al 3,5% del PIL, a meno di usare artifici contabili (come già fatto quest’anno per farla salire dall’1,5% al 2%). Insomma, questo obiettivo, pur formalmente dichiarato, verosimilmente non si tradurrà certo in una rivoluzione.

Perché allora si parla di cifre enormi?
Nonostante queste puntualizzazioni, alcuni esponenti politici continuano a parlare di stime di centinaia di miliardi di spesa ulteriore. Una possibile spiegazione è di tipo “strategico”: alimentare la percezione di un aumento massiccio della spesa militare può servire a compattare l’opinione pubblica contro il governo in carica che (a differenza di quello spagnolo, unico tra i paesi NATO) ha sottoscritto tali impegni.
Ma c’è anche un altro fattore, più strutturale: l’opinione pubblica italiana è storicamente fredda – se non apertamente ostile – rispetto all’idea di aumentare le spese militari. E cavalcare questo sentimento è, semplicemente, politicamente conveniente.
Cosa ne pensano gli italiani?
Un sondaggio Ipsos per l’ISPI pubblicato ad aprile mostrava che solo il 10% degli italiani è favorevole ad aumentare la spesa militare. Il 43% è per mantenerla ai livelli attuali, mentre quasi un italiano su quattro vorrebbe addirittura ridurla. Tutto questo, nonostante la crescente incertezza internazionale e la minore disponibilità degli Stati Uniti a farsi carico della sicurezza europea.
Già a marzo, un’indagine condotta da Euromedia aveva evidenziato un orientamento simile: anche allora, i favorevoli a un aumento delle spese militari – “vista la nuova situazione internazionale” – erano circa un terzo, contro una maggioranza assoluta (intorno al 55%) di contrari. Un dato particolarmente significativo era che i favorevoli risultavano maggioritari solo tra gli elettori di PD, Forza Italia, Azione e Italia Viva – partiti che, insieme, ad oggi rappresentano circa il 35% dell’elettorato.
Alcuni dati, inoltre, sembrerebbero dimostrare che più il tema viene discusso, più aumentano i contrari: un sondaggio dell’istituto Ixè condotto a fine giugno ha rilevato che oltre il 70% degli italiani è contrario ad aumentare la spesa pubblica in difesa e armamenti.

Un’opposizione trasversale, che attraversa tutte le principali fasce demografiche e gli elettorati – con l’unica eccezione di chi si auto-colloca al centro, dove i favorevoli sono leggermente prevalenti (53%).
Lo stesso sondaggio ha segnalato anche un raffreddamento nei confronti dell’idea di un esercito europeo: oggi, il 52% degli italiani si dice contrario, in netto contrasto con il favore espresso in precedenti rilevazioni negli scorsi anni.
300, COME MILIARDI AL VENTO
Un’anomalia europea. In questo scenario, l’Italia rappresenta un’eccezione rilevante. Secondo una recente ricerca dello European Council on Foreign Relations (ECFR), l’Italia è l’unico tra i grandi paesi europei in cui il numero dei contrari all’aumento della spesa militare (57%) supera nettamente quello dei favorevoli (17%).
In Germania, Francia, Spagna e Regno Unito i ruoli sono invertiti: i cittadini favorevoli all’aumento sono la maggioranza, talvolta con percentuali molto nette (come in Polonia, paese confinante con la Russia).
Questa posizione peculiare si spiega, in parte, con una tradizione culturale che ha sempre privilegiato il welfare rispetto alla spesa militare; ma anche con una diffidenza di lungo corso verso le logiche della deterrenza. In un paese in cui vi è un diffuso scetticismo (non del tutto ingiustificato) su come vengono investite le risorse pubbliche in scuola e sanità e con una pressione fiscale così elevata, ogni euro in più alla difesa viene percepito come
un euro in meno destinato ad altri scopi ritenuti prioritari.
Una strategia rischiosa
La strategia del governo italiano (mantenere l’impegno formale con la NATO, senza generare un impatto immediato sul bilancio né un forte contraccolpo nell’opinione pubblica) potrebbe rivelarsi fragile nel lungo periodo. La pressione dei partner – e in particolare degli Stati Uniti guidati da Trump – affinché l’Europa si faccia carico della propria sicurezza è enormemente aumentata rispetto al passato. Se lo scenario globale dovesse deteriorarsi ulteriormente, la richiesta di impegni più concreti potrebbe diventare difficile da eludere. In quel caso, l’Italia dovrà scegliere: accettare un aumento netto (ed effettivo) delle spese militari, assumendosene anche il costo politico interno; oppure difendere la propria specificità, rischiando un progressivo isolamento nel contesto euro-atlantico.
La vera posta in gioco non è solo contabile, ma culturale. Riguarda l’idea di sicurezza che ogni paese coltiva, e la disponibilità – o meno – a investire in essa. Per ora, almeno in Italia, quella disponibilità sembra rimanere molto limitata.