Anno 1217, 26 giugno: alcuni frati e monache dell’ordine di San Marco di Mantova fondarono la chiesa e il convento di San Bartolomeo nel borgo di Pusterla. A questa famiglia religiosa subentrarono, nel 1446, i Canonici Regolari di Sant’Agostino, che l’anno successivo rinnovarono il sito. Nel 1771 la comunità fu soppressa per l’esiguo numero di religiosi.
Sfortuna volle che il 10 ottobre 1772 la Serenissima emanasse un provvedimento in forza del quale dovevano essere concentrate in un unico luogo tutte le quattro strutture sanitarie sparse per la città: più precisamente, i «pii luoghi» di Sant’Antonio Abate e di San Lazzaro, la Pia opera di Carità e l’ospedale di San Pietro e Paolo. Si pensò subito a San Bortolo, rimasto vuoto l’anno prima: e così il complesso, con terminazione della Serenissima in data 26 novembre successivo, fu trasformato nell’Ospital Grande degli Infermi, e Poveri della Città di Vicenza, oggi Ospedale Civile, chiamato dai vicentini san Bortolo. La riconversione seguì due fasi.
Prima toccò al convento, e poi, dimostratosi insufficiente, nel 1833 anche la chiesa e parte del chiostro furono sacrificati a tale servizio, tra lo sconcerto e lo sdegno di quanti amavano l’arte e che invano si opposero allo scempio. Progettista dell’improvvido intervento fu l’architetto Bartolomeo Malacarne, una sorta di archistar dell’epoca. Poche sono le immagini della chiesa pervenuteci. Una delle più note è quella riprodotta nella pianta della città, eseguita da Giandomenico Dall’Acqua nel 1711.
Vi si scorge una tipica facciata gotica, caratterizzata da due lunghe finestre laterali, dagli archetti pensili, dal rosone centrale, dall’archiacuto portale d’ingresso con sovrastante oculo e dai pinnacoli a conclusione della parte superiore. L’intervento del Malacarne consistette, anzitutto, nell’abbattere il campanile e nel dividere orizzontalmente la chiesa in due livelli, per ricavare, in quello superiore, delle grandi camerate e, in quello inferiore, dei vani di servizio e una piccola cappella: a questa si accede attraverso la porta che si apre sul fronte nord dell’attuale chiostro dorico. Non tutto è andato, fortunatamente, perduto. Anzitutto è ricoverata presso la Pinacoteca di palazzo Chiericati buona parte dei dipinti quattro-cinquecenteschi che adornavano la chiesa, fra i quali spiccano lavori di Bartolomeo Montagna, di Cima da Conegliano, di Giovanni Speranza, del Buonconsiglio e di Marcello Fogolino.
Il nuovo allestimento del Museo Civico offre una rievocazione dell’interno della chiesa di San Bortolo, sulla scorta dell’acquarello di Bartolomeo Bongiovanni, che lo riprendeva nel 1834, poco prima dello smantellamento. Esso servì anche da modello all’architetto viennese Friedrich von Schmidt nel rifare – tra il 1862 e il 1867 – la chiesa dei Carmini, al cui interno sono stati provvidamente impiegati molti dei raffinatissimi apparati lapidei provenienti dalla chiesa di san Bortolo, che si erano salvati dalla distruzione. Ma qualche cosa si è salvata anche della struttura muraria della chiesa di San Bortolo.
È infatti esternamente visibile l’abside, ricostruita nel 1484 per l’intervento finanziario della famiglia Trento, forse con la collaborazione progettuale di Lorenzo da Bologna (Barbieri 1981). All’interno si trovano ancora malconci lacerti di affreschi che decoravano l’abside e il presbiterio, eseguiti da ignoto autore nel 1678 subito dopo l’intervento del 1677 sulla struttura da parte di «magistro Cristoforo Verde murar» (De Cal 1999).
Sussistono pure interessanti elementi lapidei. non apprezzabili in tutta la loro raffinatezza perché ricoperti da pesante vernice. Si tratta di manufatti usciti probabilmente dalla bottega o dalla cerchia di Tommaso da Lugano e Bernardino da Como nel corso della ristrutturazione della chiesa, seguita all’ingresso, a metà Quattrocento, dei Canonici Regolari Lateranensi, come già ricordato.
Spesso ricorre la protome leonina, a ricordo del fatto che, inizialmente, il sito era stato officiato dai Canonici Regolari di San Marco di Mantova, protome richiamata anche in capitelli di colonne, ora all’interno di una sala adibita a biblioteca dell’Ospedale e di altra affiancata a nord, e databili anch’essi al XV sec.
Sono pure pervenuti, manomessi, alcuni stalli del coro di San Bortolo che «dal 1833 [furono] trasferiti a Monte Berico [per rimpiazzare] nel nuovo coro sotto il campanile i precedenti di Pierantonio dell’Abbate, dispersi e in buona parte perduti quando, nel 1824, il coro di Lorenzo da Bologna venne abbattuto» (Dani 1965) per costruire, su progetto di Antonio Piovene, l’attuale campanile, terminato nel 1853. Del chiostro, che vien datato al 1486 e per il quale «risulterebbe ormai accettata, per le crociere e i porticati annessi ad un edificio di poco precedente, la paternità di Lorenzo da Bologna…» (Barbieri 1981), si sono salvati, ancorché oppressi da un’infelice costruzione soprastante, i bracci a sud e a est: «la sopravvivenza … non è dovuta ad una precisa volontà del Malacarne, ma solo ad una sopravvenuta [provvidenziale] mancanza di fondi…». (De Cal 1999).
Di Giorgio Ceraso da Storie Vicentine n. 8 giugno-luglio 2022