I parenti dall’America e “La nona in brodo”. Un racconto tratto da una vicenda famigliare accaduta a Chiuppano negli Anni ’60, tratto dal libro “Ciupàn: the ‘60s & ‘70s”.
MMMM….mama, mama, me vien da vomitare, a go el stomego rabaltà” Giovanin appena ebbe finito di leggere la lettera divenne bianco come una “pessa da lissia”, con i oci sburii si mise una mano sulla bocca e corse in te l’orto a vomitare su par na visela. Nell’orto Giovanin buttò fora anche l’anima, sua mamma arrivò con un sugamano bagnato e una bossa de acqua de milissia, era preoccupata, pensava che la minestra di dado americano avesse fatto male a quel toso malatisso. Per lui le aveva tentate tutte, oio de risino, oio de merlusso, papete de semense de lin, brodeto de galina, parfin aveva comprato un bussolotto de ovomaltina che il fermacista le aveva consigliato. Tutto aveva sortito poco effetto, Giovanin era sempre un stison che non veniva da gnente. Già da toseto Giovanin aveva dato da pensare, aveva pisato in leto fin a tardi e in casa non sapevano più cosa fare. Tentarono con un vecchio rimedio che aveva suggerito una donna quasi centenaria che si ricordava che quand’era giovane per questo problema de visiga debole, le donne cucinavano una morejeta come un uselo in farsora, con salvia, oio e lardo e la davano da mangiare al malcapitato.
Il risultato fu solo che Giovanin al vede re quella schifezza si era stencà come na sardèla e non c’era stato verso di fargli ingoiare il sorde. Così erano passati gli anni tra carovane, febbri, vermi, mal de molton, tutto quello che c’era da prendere Giovanin lo prendeva, pareva un calamita che attraeva tutte le malattie, tanto che avevano pensato di far voto alla Madonna perché potesse intercedere per la sua salute ed avevano già preparato il vestitin da frate per farlo indossare al giovinetto come si faceva in quegli anni. La famiglia aveva dei parenti in America nello stato di Los Angeles emigrata da qualche decennio all’inizio del novecento e in quella terra si era fatta con sacrifici e fatiche una tranquilla posizione di una normale famiglia americana. Nel tempo erano tornati anche a trovare i parenti rimasti in patria, portando con l’occasione dei doni che un’Italia mal messa del secondo dopoguerra poco conosceva. Allora arrivavano con dei bolli di cioccolata bella grossa, gomme da masticare al sapore di menta, sigarette con il filtro per gli uomini e specialità rara e preziosa, i dadi da brodo, cubetti di concentrato di carne che insaporivano tranquillamente una pignatta di acqua senza tanto trafficare con carne di pollo, manzo e ossa.
Come per miracolo Giovanin mangiava volentieri quel brodo, un po’ di pastina e di formaggio era diventato una miscela che prendeva volentieri senza tanto farsi supplicare. Questi parenti la prima volta che vennero in Italia vedendo Giovanin che pareva un cadavere presero paura, poi, vedendo che il loro dado aveva sortito un piccolo miracolo nella salute di quel nipote malatisso ne furono contenti ripromettendosi di fornire di tanto in tanto quei cubetti una volta rientrati negli Stati Uniti. Quando arrivava quel pacco postale pieno di francobolli e di timbri era una festa per la famiglia, si sentivano privilegiati per quella roba mericana, aprivano l’involucro con at- tenzione, piano, con una liturgia che richiamava tutta la famiglia. Poi comparivano quei contenitori di latta a scritte colorate che nessuno comprendeva, poi piano aprivano e nella stanza si spandeva quel profumo di spezie e di cioccolato ben distante dall’odore da romatico e di fumo a cui erano abituati. Ormai il dado era diventata la medisina de Giovanin, da centellinare come fosse oro, na puntina de guciaro, un fià de buro e acqua e la minestra era fatta. Chissà cosa che ghe sarà dentro si chiedeva la buona famiglia che in qualche modo si sentiva toccata dalla fortuna.
Ne parlavano quasi a bassa voce come per confidare un segreto. “Xé rivà el paco dala merica, cicolata e dadi” confidava la Lusietta, cioè la mamma de Giovanin, all’amica Mabile mentre andavano in chiesa per la prima messa. “Un giorno a tin faso sercare”, prometteva, ma il tempo passava e la Mabile non ebbe mai la grassia di sajare quela specialità. Questa storia andò avanti per qualche anno, arrivavano pacchi e qualche lettera una miscela di italiano, dialetto e merican in cui non era facile districarsi, fortuna che Giovanin che faceva la quinta elementare era abbastanza bravo a lesare e la cavra non gli aveva magnà i libri come era successo per i suoi fratelli. Sicuramente avrebbe preferito anche lui andare a lavorare i campi piuttosto di stare a scuola, o laorare pico e baile, ma oramai era alla fine dell’anno e bastava tenere un po’ duro. L’ultima volta però era arrivato un pacco un po’ strano, senza scritte ed un po’ più grande del solito, sempre di latta per quello, ma diverso dai soliti, forse i buoni parenti mericani avevano cambiato casolìn disse la Lusietta che non aveva bene in testa cosa poteva essere stato quel cambiamento. La polvere all’interno era un po’ diversa di colore, ma sempre polvere era, e sempre misurate dovevano essere le dosi. Si accorsero in casa che anche il sapore era un po’ diverso che quel brodo sapeva di poco, così aumentarono la dose della polvere che mettevano nell’acqua ed aggiunsero un po’ di sale e una gambetta de selino, così la menestra era accettabile. Scrivere che questa volta il dado non era tanto buono non se la sentivano, sembrava di fare un torto a quei buoni parenti, non si tegnevano in bon, gli pareva di offenderli. Comunque de rife o de rafe la polvere nella scatola calava e Giovanin continuava a mangiare quel brodo anche se ultimamente sapeva da lissiasso.
Un giorno la postina arrivò con una lettera, la solita lettera che ogni tanto arrivava dalla merica, color azzurro con dei bei francobolli con il volto del presidente che in quel tempo era H. S. Truman. La Lusietta che aveva qualche difficoltà con la vista dietro cui si nascondeva una incertezza scolastica mai sanata nel leggere, a maggior ragione con quei termini mezzi mericani, non si fidava certo di avventurarsi tra quelle righe e la mise in un angolo dietro il vetro della vetrina in bella vista ed attese mezzogiorno che tutti fossero a casa, ma soprattutto Giovanin, l’addetto alla lettura. Quando tornò da scuola, e tutti erano già intorno al tavolo per il pranzo, Lusietta aspettò che avessero finito di mangiare poi consegnò con curiosità e quasi trepidazione la lettera al figlio affinché la leggesse a tutti ad alta voce. Si schiarì la voce e cominciò: Cari zermani: Morta la nona, la senare drento la scattola, parché lei brusata con il fogo (cremata). Ela sempre vusudo essàre sepelia nel cemeterio del so paese dove géra nata. Preghemo valtri de provedare col prete a sepulirla. Saluti dala merica dai vostri zermani. Grassie. Giovanin che qualche difficoltà a leggere l’aveva, figuriamoci con quel miscuglio di dialetto, italiano e merican, affrontare quelle righe era difficile come sapare un canpo de sorgo e cominciò ad avere i sudori. Alla difficoltà letteraria si aggiunse la tensione di avere tutta la famiglia intorno che pendeva dalle sue labbra, non voleva far brutta figura, tra incertezze e imbalbamenti, capì benissimo il senso di quelle frasi, mentre gli altri avevano solo capito che era morta la nonna. Si irostò come il musso de Biasieto quando non voleva andare avanti ed esclamò: A ghemo magnà la nona in brodo!! Le facce degli astanti si fecero di sale e Giovanin, impietrito, cominciò a sudare, gocce di sudore grosse come medaglie gli imperlarono il viso come quando andava ad aiutare nei campi. Divenne bianco come una pessa da lissia, si alzò di scatto che sembrava una susta e andò a gomitàre nell’orto su par na visela. Sua mamma gli corse dietro con la bottiglia dell’acqua de milissia continuando a ripetere: “E desso, cossa ghe contemo al prete mariasanta”?
Di Maurizio Boschiero (discendente del celebre architetto vicentino) da Storie Vicentine n. 3 Luglio-Agosto 2021