L’amministrazione comunale di Vicenza ha organizzato l’iniziativa “Percorsi di pace” per celebrare la Giornata internazionale dei Diritti umani il 10 dicembre. Il Parco della Pace ospiterà eventi musicali, una fiaccolata e interventi da parte del sindaco Giacomo Possamai, del vicario don Giampaolo Marta e del maestro Bepi De Marzi. Inoltre, per commemorare il 75° anniversario della Dichiarazione Universale dei Diritti umani, il 15 dicembre si terrà una conferenza presso il tempio di San Lorenzo sulla crisi umanitaria attuale.
Le iniziative sono state promosse dall’amministrazione in collaborazione con la Diocesi di Vicenza, il Conservatorio Pedrollo e varie associazioni locali che si occupano di pace e diritti umani. Durante la presentazione delle iniziative, sono intervenuti gli assessori Giovanni Selmo e Leonardo Nicolai, insieme a don Matteo Zorzanello, Francesco Passadoree Davide Tiso.
Gli eventi includono uno spettacolo di musica immersiva presso l’hangar 1 del Parco della Pace, seguito dalla fiaccolata lungo il percorso asfaltato. Durante la fiaccolata, l’assessore Giovanni Selmo porterà la “Luce della Pace” di Betlemme, simbolo internazionale che sarà distribuito in vari Paesi europei.
Le iniziative si concluderanno con il canto sulla pace di Bepi De Marzi eseguito dai cori partecipanti. I partecipanti potranno utilizzare il parcheggio all’ingresso del Parco della Pace e le fiaccole verranno distribuite dagli organizzatori.
Infine, venerdì 15 dicembre si terrà una conferenza presso il tempio di San Lorenzo sulla crisi umanitaria attuale. Gli interventi saranno tenuti da Giovanni Selmo, Marco Mascia, Elisabetta Bartuli e Francesca Benciolini.
Storie Vicentine ci racconta le considerazioni sul “Ritratto di Vincenza Pasini” detta Donna Vicenza, dopo le indagini diagnostiche.
La «vera effigie» di Vincenza Pasini, testimone delle apparizioni mariane è una delle testimonianze figurative di primario interesse per la storia della pietà popolare, che si sviluppa nel tempo attorno al santuario di Monte Berico, sorto nel 1428. Nello specifico, l’opera proviene dall’antico monastero di Ognissanti in Borgo Berga, soppresso all’inizio del XIX secolo. È proprio questo cenobio femminile, affidato prima all’ordine degli Umiliati e, a partire dal 1571, alle monache camaldolesi, ad assumersi il compito della diffusione non solo della memoria delle apparizioni, ma anche del culto rivolto alla veggente, illuminata e
consacrata dalla luce mariofanica.
Secondo la tradizione, la pia donna risiedeva nei pressi della chiesa di Ognissanti e, di conseguenza, il percorso che la condusse a incontrare la Regina del cielo iniziava lì, a due passi dalle scalette che portano sul colle. Inoltre, nel 1431, il suo corpo mortale fu sepolto nel cimitero accanto alla medesima chiesa.
Il dubbio sull’effettiva datazione del cimelio – che riporta il nome di un pittore del Quattrocento, Girolamo Tonisi, che per grazia ricevuta avrebbe dedicato un omaggio ritrattistico a «donna Vicenza Pasini da Sovizzo» – ha portato a un progetto di ricerca
multidisciplinare ideato e coordinato da Agata Keran, curatrice del Museo d’arte sacra di Monte Berico, con il contributo di Federico Bauce e Carlotta Dal Santo.
Per le indagini diagnostiche non invasive sono stati coinvolti gli esperti del laboratorio CMR, Roberta Giorio e Francesco Rizzi. L’intera superficie del dipinto è stata sottoposta, in associazione alle riprese in luce visibile sia del fronte che del retro, a un’indagine riflettografica IR eseguita a due lunghezze d’onda a 750 nm e 1000 nm, da cui è emerso un disegno sottostante (underdrawing), che presenta alcune importanti divergenze rispetto allo strato visibile all’occhio nudo, che riguardano sia i tratti fisionomici che l’abito della donna.
Tali differenze hanno sollecitato un approfondimento storico, iconografico e iconologico relativo all’opera devozionale, condotto da Agata Keran. Il focus ha portato a delineare un’ampia panoramica sul contesto religioso in cui si colloca la genesi dell’opera, collocabile nel secondo Cinquecento. Gli esiti della ricerca, comprese le relazioni tecniche del laboratorio CMR e della restauratrice Carlotta Dal Santo, sono raccolti e pubblicati in un opuscolo documentario, il primo della serie dei «Quaderni del Museo d’arte sacra di Monte Berico» (disponibile in sede).
“La ricerca dedicata al ritratto di Vincenza Pasini apre un orizzonte conoscitivo e spirituale capace di incuriosire e coinvolgere, anche emotivamente, chi desidera a scoprire in modo approfondito una storia antica, ma di grande freschezza per il nostro tempo”, commenta padre Carlo Rossato, rettore del santuario e priore della comunità dei Servi di Maria di Monte Berico.
Tutto il progetto gode della collaborazione e del supporto economico dell’Associazione Domenico Cariolato, che nell’ambito dell’omonimo premio, ha incentivato alcuni progetti culturali e sociali, ritenuti di particolare interesse per la storia e l’attualità di Vicenza.
“L’ Associazione, che nei suoi programmi promuove eventi di significativa rilevanza culturale, è orgogliosa di aver contribuito allo studio del ritratto ed è onorata della sua collaborazione con tutti coloro che hanno condotto tale indagine”, ribadisce Patrizia Rossini, presidente dell’Associazione.
L’evento si inserisce nell’ambito delle iniziative di «Un Giubileo per la rinascita», in attesa dell’Anno giubilare mariano 1426-2026.
Per visitare il Museo d’arte sacra: ogni sabato ore 10-12 e 14-18
ingresso con offerta libera.
info e prenotazioni di visite guidate e percorsi didattici: [email protected]
Ricorre quest’anno il decennale della morte del poeta nordirlandese Seamus Heaney (1930-2013), vincitore del Premio Nobel per la letteratura nel 1995. Per celebrare l’occasione, la Biblioteca Civica Bertoliana, insieme a Rossella Pretto e Monica Centanni, propone un evento il 30 novembre alle 18 nella sala Dalla Pozza di Palazzo Cordellina, per presentare il libro “Speranza e storia. Le quattro versioni sofoclee” di Heaney, curato da Sonzogni, Guzzo, Pretto, Zanetti (Il Convivio Editore, 2022).
La Bertoliana, in collaborazione con la Fondazione Pordenonelegge.it, il Centro Culturale di Milano e l’Università di Catania, partecipa al progetto “Le pietre parlano – Heaney e l’Italia”, ideato e curato da Francesco Napoli e Rossella Pretto, al fine di ripercorrere e riflettere sull’attualità della poesia di Heaney e sul suo pensiero letterario e linguistico, tenendo conto del profondo legame che il poeta irlandese aveva con l’Italia, in particolare attraverso lo studio di Dante, Virgilio e Giovanni Pascoli.
Il libro “Speranza e storia” raccoglie per la prima volta in traduzione italiana tutte le versioni di Sofocle scritte da Seamus Heaney. Le riscritture complete di “Filottete. La cura a Troia” (1990) e di “Antigone. La sepoltura a Tebe” (2004) sono accompagnate da un estratto di “Edipo a Colono. Quanto accadde a Colono” (2004) e di “Aiace. Testimonianza: il caso di Aiace” (2004). Queste versioni rappresentano due elementi fondamentali della poetica del premio Nobel: la traduzione letteraria come spazio “originale” per arricchire la propria scrittura e la rilettura dei classici come spazio “ideale” per riflettere e far riflettere sulla natura umana nel passato, presente e futuro.
Rossella Pretto è una poetessa, traduttrice e redattrice di riviste letterarie. Nel 2020 è uscito il suo primo poemetto, “Nerotonia”, ispirato a Macbeth (Samuele Editore). Ha curato, insieme a Marco Sonzogni, “Memorial di Alice Oswald” (Archinto, 2020) e “Speranza e Storia. Le quattro versioni sofoclee di Seamus Heaney” (Il Convivio Editore, 2022). Inoltre, ha curato la riedizione della traduzione di “La Terra desolata” di T.S. Eliot di Elio Chinol (InternoPoesia, 2022). I suoi articoli sono stati pubblicati su “Alias-Il Manifesto”, “Poesia”, “L’Ottavo”, “Journal of Italian Translation”, “Studi Cattolici” e “L’Estroverso”.
Monica Centanni è una filologa classica, esperta di greco antico e accademica olimpica. Insegna Lingua e letteratura greca all’Università Iuav di Venezia. Si occupa di teatro antico (drammaturgia, strutture, funzione politica della tragedia greca; riprese del dramma classico nel Novecento), civiltà tardo-antica (il romanzo ellenistico e il passaggio tra paganesimo e cristianesimo) e storia della tradizione classica nella cultura artistica e letteraria, dall’antico al contemporaneo. Ha curato mostre ed eventi teatrali, ed è autrice di studi e monografie su questi temi.
L’ingresso è libero fino a esaurimento dei posti disponibili.
Grazie a un buon campionato e alla solidità di crescita della società, con un focus sulle attività giovanili, la Pallanuoto Vicenza Rangers ha ottenuto nuovamente la possibilità di competere in serie B, nonostante la rinuncia di un’altra squadra.
La Federazione Italiana Nuoto ha comunicato questa decisione che è stata celebrata stamattina presso Palazzo Trissino, alla presenza dell’assessore allo sport Leone Zilio, che ha accolto la squadra e i dirigenti nella prestigiosa Sala degli Stucchi.
Durante l’evento è intervenuto anche lo sponsor Luigi Battistolli, presidente del Gruppo Battistolli, da sempre molto attivo nel mondo dello sport, che ha incoraggiato gli atleti a tornare in acqua con la giusta determinazione.
Dopo aver disputato un’ottima stagione di pallanuoto in serie B lo scorso anno, segnata purtroppo da una retrocessione decisa da una lotteria di rigori al termine dei playout, la Pallanuoto Vicenza Rangers inizia nuovamente sabato con un mix di giovani promesse e giocatori più esperti.
L’assessore ha espresso i migliori auguri a tutti loro per un campionato di pallanuoto ricco di soddisfazioni, ribadendo la vicinanza dell’amministrazione comunale a tutti gli sport.
Storie Vicentine ci racconta come le pietre tra il Ponte della Pusterla e il Prà dell’Asenello diventino oggetto di ricerca storica.
Ogni angolo delle nostre città conserva ricordi visibili, ma soprattutto invisibili, per effetto
del sollevamento del suolo lungo i secoli, causato dal trasporto a valle di detriti sassosi, terrosi e sabbiosi ad opera dei torrenti e dei fiumi. E se il livello del suolo si alza, capita a volte che interi palazzi o case o parte di essi come le fondamenta, rimangano nel sottosuolo a conservarsi per i posteri (ci sono città che conservano più “piani” o livelli sotto terra. Vedi Roma, che in certi punti conserva otto livelli.)
Quello che noi umani moderni abbiamo trovato nel sottosuolo, lo dobbiamo esclusivamente ai lavori di scavo che abbiano un’utilità, poche volte si è scavato esclusivamente per la ricerca di queste reliquie1.
Bisognerebbe farlo invece, chissà cosa potremmo scoprire: pietre e mattoni non si consumano, sono là sotto che ci aspettano. I ricordi storici e la storia tramandata costituirebbero una sicura traccia per le nostre ricerche. E se qualcuno affermasse che questi lavori sono costosi e non servono a nulla, sappiano che la conoscenza del nostro passato è preziosa per il nostro presente e anche per il nostro futuro. In quanto ai costi, sarebbero ampiamente compensati dai proventi del turismo. Vogliamo fare un solo esempio? Contrà del Brotton ha questo nome perché lì sorgeva il tempio al dio romano
Brotonto. Il tempio, a detta di molti, è ancora lì sotto, intero o a pezzi, e aspetta il piccone e il badile degli uomini di buona volontà. Potrebbe rivelarsi una balla? Potrebbe, ma anche no. Sarebbe inutile la ricerca? La ricerca non è mai inutile, neanche dal punto di vista economico, perché crea posti di lavoro.
Ma veniamo al nostro programma: zona S. Biagio, Pusterla e limitrofi. E’ importante l’osservazione, può sempre capitare la scoperta. Un giorno di molti anni fa, guardando dal parapetto del ponte della Pusterla, mi accorsi che una lastra di pietra di quelle che formano lo scivolo a monte per regimare un accentuato dislivello del fiume (ce n’è un altro a valle), forse a causa della giusta posizione della luce solare, presentava dei graffiti o addirittura lettere. Non ho mai goduto di una vista perfetta, quindi ricorsi agli ausili che facilmente oggi sono a nostra disposizione.
Ripassai con un binocolo, che confermò i miei sospetti; in seguito mi avvalsi dell’aiuto di un amico munito di macchina fotografica con teleobbiettivo. Il risultato fu l’idea che potesse trattarsi di un’antica lapide riutilizzata. Ai nostri tempi noi non riutilizziamo niente, buttiamo via quello che non serve, siamo diventati troppo ricchi e spreconi, ma ci furono tempi (migliori) in cui non si buttava via niente, e tutto veniva riutilizzato, mattoni o pietre che fossero.
Interpretazione della lapide (i puntini stanno a significare l’impossibilità di lettura; qualche lettera è interpretata): OTTONE GIOVANNI INGIENIERE PROGETTO’ E DIRESSE —— UTINTI PE, CRISTOFORI GAETANO CIBELE FRANCESCO RINALDI ANTONIO RUDENA GIOVANNI ZAMPIERI FRANCESCO OTTOBRE 18(5)4 (il cinque non è chiaro).
In questo caso la lapide può non essere di riutilizzo, ma posizionata apposta. Può essere testimonianza di lavori effettuati, i lavori di regimazione; i nomi dei partecipanti al progetto, forse finanziatori (sono quasi tutti cognomi appartenenti alla creme vicentina).
Ora passiamo ad altro: le due foto che presento qui ci narrano qualcosa di molto più importante. Si tratta di due colonne che si trovano all’interno del piccolo negozio di giornali di fronte al Patronato. Siccome mi meravigliavo che le colonne riportassero il capitello ma non il piede, mi è stato detto dai proprietari che il piede si trova a un metro sotto il livello del pavimento. Così vicino al fiume il fenomeno dell’interramento è molto più accentuato che altrove. Immaginiamoci l’attuale livello del terreno in zona abbassarsi di uno o due metri per raggiungere il livello di mille o duemila anni prima. Quanti tesori architettonici divenuti archeologia potremmo vedere?
Ma non finisce qui con le colonne. I proprietari dell’edicola assicurano che all’interno della ormai definitivamente chiusa osteria al di là della strada, che fa angolo con via Veneto, ci sono altre due colonne uguali a queste, distanti l’una dall’altra quanto queste due fotografate. Allora è facile pensare che qualche parola pronunciata in merito ad un porticato adiacente alla porta fortificata non siano solo chiacchiere: porticato colonnato, ovviamente. Non ho potuto fotografarle perché mi manca l’indirizzo del proprietario e così non ho potuto
contattarlo. Se in seguito riuscirò a entrare nella vecchia osteria, certamente ne darò testimonianza con una foto. Ora spostiamoci sul declivio verso il Bacchiglione, lasciandoci a sinistra il fabbricato corrispondente alla chiesa del convento di S. Biagio Nuovo (ora parcheggio coperto).
Questo declivio un tempo era molto più spazioso e veniva chiamato “il Pra’ dell’Asenello o dello Spurgo”. L’odonimo attuale di questo spazio è Piazza San Biagio, ed è laterale della Contrada Pedemuro San Biagio. Attualmente è parzialmente occupato dal (orrore!) bar con dehors e dalla cosiddetta spiaggetta con gli ombrelloni (orrore!).
Guardando verso il fianco della chiesa, dovrebbe essere possibile individuare (se non è nascosto dalle baracchette che fanno parte di questo bar sui generis) una bifora in pietra incorporata nel muro: pietra riutilizzata o ex finestra di un’ipotetica cripta della chiesa (nessuno sa se ci sia effettivamente la cripta)? Ma in quanto a pietre che parlano, gli interni del convento e della chiesa presentano, soprattutto sui manufatti in pietra, la curiosa particolarità di poter essere retrodatati di un paio di secoli dall’epoca della costruzione.
Infatti il tutto si chiama S. Biagio Nuovo perché prima di essere lì si trovava in un sito che potrebbe corrispondere allo spazio ora occupato dalle ex Missioni Estere, poi Istituto card. Baronio, fondato da don Paolo Zanutel, dell’ordine di S. Filippo Neri.
Si narra che il convento francescano venne demolito con cura, in modo da recuperare
tutto il possibile, e che il materiale venne trasportato con le barche fino al sito del nuovo insediamento. Così accade che all’occhio esperto si presentino colonnine e altri elementi dell’apparato lapideo che ci arrivano da un altro tempo (due secoli prima). Gli affreschi invece, sono cinquecenteschi, anche se dubito che siano recuperabili. Ma perché i frati avevano deciso di spostarsi in città? Questioni economiche, perché nel posto dov’era prima il convento, decisamente fuori città, rendeva poco dal punto di vista delle offerte e della “caccia alle tombe” da parte delle famiglie nobiliari. Di qui l’importante decisione di entrare in città (non proprio all’interno della città, perché il convento risulta adiacente alle mura, ma all’esterno, verso il fiume).
Un ultimo particolare su S. Biagio. Tutti possiamo facilmente constatare che la stradina tra la proprietà dell’ex convento e la sede delle ex AIM (ora per nostra disgrazia AGSM-AIM) , che è quella percorsa da chi vuole raggiungere il parcheggio Fogazzaro, costituisce il confine tra i due siti. Prima che cominciassero le visite pubbliche al convento2 fortemente volute da Italia Nostra congiuntamente col responsabile di allora dell’Archivio di Stato, dott. Marcadella3, correvano i primi anni 2000, io mi divertivo a visitare per conto mio il sito, entrando dalla parte vicina al fiume, dove c’era l’accesso sia dell’Associazione Scoutistica, sia del falegname che aveva trovato la sua sede lavorativa in alcune stanze cadenti prospicienti ad uno dei due chiostri, cadenti anch’essi. In una di queste mie visite, ebbi l’intuizione che uno dei percorsi claustrali potesse continuare al di là del muro di confine
verso AIM. Siccome non mi fermo di fronte a nulla, chiesi un colloquio al direttore di allora, e mi fu subito concesso di poter visitare un antico magazzino che, lo si vede chiaramente, fa parte del complesso del convento e nulla ha a che vedere con l’AIM. Appena entrato, capii subito che la mia intuizione era stata corretta.
Tra il disordine e la sporcizia, mi apparvero soffitti a vela di antica fattura, colonne e lunette
affrescate appartenenti all’antico percorso claustrale. Lo stato di conservazione era a dir poco fatiscente, ma si riconoscevano ancora la sbiadite figure rappresentanti la vita di S. Francesco. Vidi addirittura una trave in ferro piantata al centro di una delle lunette affrescate: insomma, una rovina.
Scrivevo allora per Realtà Vicentina, mensile dell’ Editrice Veneta di Sandro Mazzarol. Subito preparai un articolo con foto e una minuziosa descrizione (settembre 1999). Poco tempo prima, un libro edito dall’Accademia Olimpica, scritto da Maria Teresa Dirani Mistrorigo, che descriveva l’antico convento (l’avevo letto qualche mese prima di questi fatti), non riportava notizia di quanto avevo scoperto (scoperta da poco, era ufficialmente conosciuto e non altro dal Comune e da AIM, nonché dall’altro proprietario, che è il Demanio Militare).
Auspicavo un “ricongiungimento” di proprietà, per poter riunire tutte le parti di quella memoria vicentina sotto un unico “padrone”, anche in vista dei restauri e soprattutto della valorizzazione che a tutt’oggi non è diventata realtà. Nel frattempo il tempo, autore massimo del degrado, ha continuato la sua opera a danno del monumento e della città tutta. Soprattutto sfarinando gli affreschi.
A quando una possibile soluzione? Un dubbio: quel piccolo sito misterioso, stante il cambiamento di proprietà di AIM, sarà rimasto al Comune o avrà seguito il nuovo proprietario a Rimini? Che guaio sarebbe! Sempre in quella zona, ma nel lato opposto di contrada Pedemuro S. Biagio, sorge la casa degli Ezzelini. Nel lato interno, in cortile, la proprietà confina con quella di Palazzo Festa, Iseppo Porto, opera del Palladio.
In occasione dei lavori di ampliamento nel lato casa Ezzelini, durante uno scavo emerse una villa romana con tanto di piscina. Casa di lusso, mosaici dappertutto. La sovrintendenza pretese di secretare i lavori, e nessuno poté vedere qualcosa. I mosaici furono smontati, trasformando un’opera d’arte antica in un cumulo di sassi e furono portati a Padova. Gli scavi portarono alla luce circa la metà della villa, per trovare l’altra metà si dovrebbero demolire costruzioni moderne circostanti: impossibile. Fortuna che una persona, tenace conoscitrice delle antichità di Vicenza e sostenitrice della loro sopravvivenza, gabbò il sovrintendente e fece un centinaio di foto dal quinto piano di una casa privata adiacente. Verrà il giorno che le foto salteranno fuori, e chi ha creato il danno sarà punito.
Tra le pietre che parlano vorrei citare anche, poco lontano da via Pedemuro S. Biagio, l’acquedotto romano proveniente da Lobia, del quale alcuni resti poderosi sono conservati al n. 220 di corso Fogazzaro (visibili all’interno, nel vano garage-cantine)e ai n. 214 – 212 – 196 – 194, visibili sotto al marciapiedi, coperto da pavimentazione in vetro. Vicetia diventa municipium romano tra il 49 e il 42 a.e.v., l’acquedotto viene costruito mezzo secolo più tardi. Duemila anni ci dividono dall’importante avvenimento.
Se uno poi vuole vedere le arcate rimaste, per quanto messe maluccio, ma almeno rendono l’idea, non fa altro che inforcare la bicicletta e recarsi a Lobia, dove potrà ammirare quanto rimasto.
Altro caso: si tratta di alcune pietre di recupero inserite nel muro di cinta che divide la proprietà (in quel punto il brolo) della parrocchia dei Carmini e la stradella del Gas (rectius Beccariette), adiacente dall’altra parte col muro che la separa dal parcheggio Fogazzaro, ma che fu in passato il muro divisorio dell’opificio Schröder (dai Vicentini chiamato Scroider). Tornando al muro del brolo, si può scorgere qualche pietra con sculture che di solito adornano le parti laterali di sostegno dei portoni d’ingresso ai palazzi o anche a quegli elementi in pietra che in qualche caso fanno da cornice all’entrata degli altari laterali delle chiese (rappresentano quasi sempre delle candelabre o delle grottesche o motivi a foglie, nel mio caso candelabre). Confrontati con gli stessi elementi che adornano ora la chiesa, appaiono scolpiti in modo diverso, cioè quelli presenti in chiesa sono incisi molto più in profondità.
Tutto l’apparato scultoreo presente in chiesa altro non è che un massiccio recupero da parte dell’architetto Friedrich Schmidt architetto imperiale inviato in città per alcuni lavori tanto per far guadagnare consensi all’imperatore qualche decennio prima della fine del suo impero4) delle pietre appartenute alla trecentesca chiesa di S. Bortolo (Ospedale), tenute provvidenzialmente da parte durante la parziale demolizione e conservate per usi futuri.
Non credo che quelle semplici pietre di cui parlo, che probabilmente facevano parte della chiesa medievale prima del restauro, sfigurerebbero al civico museo. Il mio archivio ha in serbo ancora un ritrovamento, però lontano dalla zona citata nel titolo circa cinquecento metri, quindi lo inserisco anche se non dovrei. Guardando la chiesa del cimitero monumentale e girando a sinistra, si raggiunge dopo cinquanta metri un datato gabinetto pubblico Art Deco (accostato al piccolo obelisco con le lapidi e i nomi dei caduti che fa pendant con l’altro, all’estremità opposta). La particolarità di questo servizio pubblico è quella di essere sempre “chiuso per manutenzione”, con grave incomodo per i prostatici
come me, che hanno in ogni angolo della città un posto in cui tranquillamente liberarsi del disagio che ogni tanto li assale.
Devo confessare che, trattandosi di un sito al di fuori dei normali percorsi e defilato alla vista, non ho disdegnato a volte di fare le mie cose en plain air, come i pittori, alla faccia del gabinetto chiuso per manutenzione. Proprio lì a sinistra del pubblico pisciatoio, giace una lapide dal non indifferente peso, dove anche altri prima di me hanno sostato, ma per ben altre incombenze, molto più abbondanti e solide.
Osservando, notai che la pietra era stata spostata dimodoché ci si potesse accucciare in un angolo dove con lo spostamento si era formato un vuoto sottostante, atto a raccogliere le deiezioni. Lodevole provvedimento, potessimo farlo anche per i cani…
La pietra tombale, grossa e pesante come detto, porta inciso il nome della famiglia che alloggiò forse per secoli sotto di essa: la Famiglia Benezzato. Con queste mie righe non ho voluto mancare al dovuto rispetto nei confronti della famiglia e del luogo del suo riposo.
In finale auspico (e chiamo in causa il Comune) un poco costoso recupero del vecchio vespasiano Art Deco. Va conservato gelosamente come si conviene ad una importante e rara testimonianza architettonica.
L’impianto poi va riparato e tenuto funzionante mediante manutenzione periodica, perché utile alla cittadinanza.
Di Lucio Panozzo Camparo da Storie Vicentine n.15-2023.
Note:
1) E qui devo lodare quelle iniziative di enti statali (in special modo sovrintendenze) che inviano squadre di archeologi in occasione di grandi lavori di scavo (autostrade, posa di tubazioni, scavo di canali, realizzazione di metropolitane, ecc. ). Rari esempi di pubblica utilità. Poco o tanto, salta fuori sempre qualche cosa.
2) Proposi io il programma, in sede di consiglio di presidenza, di cui ho fatto parte per un paio di mandati.
3) In quei momenti era quasi deciso da parte delle due proprietà, Demanio Militare e Comune di Vicenza, di affidare all’Archivio di Stato la conduzione
del restauro e la gestione di quello che a tutti gli effetti sarebbe diventato il polo archivistico della città. Mi sembra di ricordare che anche la Biblioteca Bertoliana avrebbe potuto trovare lì la sua nuova sede. Purtroppo, nonostante gli sforzi del responsabile dell’Archivio di Stato, dott. Marcadella, il progetto naufragò, rendendo vani tutti i progetti e le speranze. Vorrei citare qui anche la competente opera dell’architetto Emilio Alberti, che si prodigò con entusiasmo ai progetti di restauro.
4) Intendo parlare della fine dell’Impero Austroungarico, non certo del Sacro Romano Impero della Nazione Germanica al quale era succeduto, avvenuto con la restituzione delle insegne al papato, da parte di Francesco II d’Asburgo- Lorena il 6 agosto 1806 (decisione del Trattato di Presburgo), 1006 anni dopo l’incoronazione di Carlo Magno a S. Pietro in Roma.
Vicenza e i suoi fiumi sono legati da una lunga convivenza in precario equilibrio. Hanno infatti sempre rappresentato un’importante risorsa sia in ambito domestico che commerciale. D’altro canto però in occasione di abbondanti piogge, sono stati e sono tuttora, un flagello per la città.
Vicenza nasce nel VI secolo a.C. circa nell’intersezione tra l’Astico e il Retrone, due tra i principali cosi d’acqua che la attraversano. Sin dalle origini, quindi, c’è stato un forte nesso tra natura e civiltà. A quel tempo molte aree erano paludose ma vennero bonificate durante il Medioevo in modo da rendere più confortevole ed abitabile il territorio. Si è quindi innescata una fragile convivenza tra la città e i corsi d’acqua, che sono anche vere bellezze naturali e fonte d’ispirazione per grandi autori. Giacomo Zanella per esempio aveva una villa sulla riva dell’Astichello e scrisse dei sonetti legati al tema della natura intitolati appunto Astichello. Un’altra piccola oasi naturale nel mezzo del centro città sono i Giardini Salvi. Qui scorre il Seriola che era una risorsa sia per le abitazioni che per le attività nei dintorni.
Queste meraviglie naturali condividono quindi una lunga storia intrecciata con quella della città.
Il Bacchiglione, primo tra tutti, ha rappresentato un’importante via di comunicazione per Vicenza e le zone circostanti, come anche un’ottima risorsa per le attività commerciali. È un fiume che si può definire misto, ovvero alterna momenti di calma ad imprevedibili piene. Questo suo lato emerge dalle testimonianze che ci giungono dall’800 e dal ‘900 ma anche più recenti, basti pensare all’alluvione del 2010.
Inizialmente in città arrivava l’Astico, finché nel secolo XI il suo corso venne deviato. Da quel momento a Vicenza arrivò solo una parte della sua portata e diventò quindi l’Astichello. A Dueville, nel letto asciutto dell’Astico iniziarono a giungere acque di risorgiva e dei torrenti Igna, Timonchio e Orolo. Questi, uniti tutti insieme, diedero vita ad un nuovo fiume: il Bacchiglione.
Oltre a questo indiscusso protagonista fluviale, ci sono però altri corsi d’acqua strettamente legati al territorio, che attraversano Vicenza e le zone limitrofe. In passato era il Retrone ad essere il fiume principale della città e non il Bacchiglione di cui, a causa di cambiamenti idrografici, è diventato solo un affluente.
L’Agno cambia nome durante il suo corso, mentre il Brendola ha incentivato la nascita di attività storiche come il Molino del Vo’. Il Ceresone in passato era il fiume Brenta, mentre le acque del Chiampo fino al XVI secolo si riversavano nel Guà, fiume il cui nome ha origini incerte. Importante per gli impianti idroelettrici è il Cismon come anche il Leogra, mentre il Longhella fu importante per la fondazione di Marostica. Il fiume Oliero è uno dei più corti d’Europa e nasce nelle omonime grotte, mentre il Tesina esisteva sicuramente in tempi antichi, attraversato da un ponte probabilmente progettato da Palladio.
A sessant’anni dalla tragedia della diga del Vajont, che costò la vita a quasi 2000 persone, di cui oltre un quarto erano bambini, la Biblioteca Bertoliana ricorda l’evento tragico presentando il libro di Emanuela Da Ros, “La storia di Marinella. Una bambina del Vajont“, pubblicato da Feltrinelli nel 2015. L’evento si terrà martedì 28 novembre alle 17.30 presso la sede di Villa Tacchi, in viale della Pace 89 a Vicenza.
L’autrice
Dopo una visita al memoriale delle vittime del Vajont a Longarone, Emanuela Da Ros, insegnante, giornalista e scrittrice, sentì la necessità di dare voce a Marinella, una bambina il cui quaderno di scuola venne ritrovato tra il fango.
Dalle pagine emergono cose che la bambina non riusciva a capire, come ad esempio perché i suoi genitori erano così nervosi da qualche tempo, perché la maestra osservava la grande diga dalle finestre della scuola in modo inerte, perché il nonno di Marco fu costretto ad abbandonare la casa di Casso e i pascoli sulle pendici del Monte Toc.
Un pensiero ai bambini
“La storia di Marinella” ha fatto vincere a Da Ros il Premio Selezione Sceglilibro 2016 e il Premio Selezione Bancarellino 2016. Il libro è stato incluso tra i White Ravens 2016 della Internationale Jugendbibliothek di Monaco e intende far conoscere soprattutto ai bambini ciò che è accaduto a Vajont, affinché gli errori del passato non si ripetano.
Da Ros, nativa di Vittorio Veneto, ha fatto il suo debutto nel mondo della letteratura per ragazzi nel 2000, anno in cui ha vinto il Premio Pippi Calzelunghe per inediti con “Il Giornalino Larry” (Feltrinelli, 2001).
Ha successivamente pubblicato numerosi racconti e libri per ragazzi con diverse case editrici, tra cui “Bulle da morire” (Feltrinelli, 2017), vincitore del Premio Gigante delle Langhe 2019, e “Chi li ha visti?” (Piemme, 2021), romanzo vincitore del Premio Anguissola 2020.
Le attività della Bertoliana
La presentazione del libro dell’autrice trevigiana sarà curata da Cinzia Capitanio, insegnante e scrittrice, nell’ambito di “Quartieri letterari”, una rassegna promossa dalla Bertoliana che riunisce libri e autori contemporanei con i loro lettori, giovani e meno giovani, nelle sei biblioteche pubbliche di Vicenza. L’incontro rientra anche tra le attività promosse dal progetto “BILL-Biblioteca della legalità”, che coinvolge l’assessorato all’istruzione di Vicenza e la Rete biblioteche scolastiche vicentine (RBS).
BILL promuove i valori della legalità e della giustizia attraverso la lettura, al fine di formare giovani cittadini consapevoli, e si impegna a riflettere sulla salvaguardia dell’ambiente e la tutela dei diritti, rinnovando così i principi fondamentali della Costituzione italiana.
ll musicista Matteo Scapin in arte Matthew S ha rilasciato il 17 novembre la sua seconda traccia dell’EP “Solar Cycle”, intitolata “Light”. Questa nuova composizione offre un viaggio sonoro che esplora l’evoluzione delle emozioni umane durante le fasi della mattina e del pomeriggio.
Come scrive il blog statunitense Electronic Groove, “ “Light” cattura l’essenza mutevole del giorno, offrendo all’ascoltatore un’esperienza che si evolve gradualmente. Le vibrazioni elettroniche si combinano con melodie eteree, creando una sensazione di cambiamento e crescita, proprio come la luce solare che si diffonde e si trasforma durante il corso della giornata.”
In questa traccia, Matthew S utilizza il linguaggio universale del suono per trasmettere una connessione tra il passare delle ore del giorno e l’esperienza umana. “Light” inizia con un’atmosfera delicata e sognante, rappresentando l’alba e le prime luci del mattino. Man mano che la traccia prosegue, le armonie si intensificano, riflettendo l’energia che accompagna il pomeriggio inoltrato.
L’EP “Solar Cycle”, in uscita il 15 Dicembre, nel suo insieme è composto da quattro tracce, ciascuna delle quali offre una storia emotiva. Questo progetto musicale combina elementi pianistici con elettronica contemporanea, creando un’esperienza sonora che va al di là del semplice ascolto.
Con “Light,” Matthew S continua a dimostrare il suo talento nel catturare l’anima del giorno attraverso la musica. Questa traccia è un nuovo contributo nell’EP “Solar Cycle”, che esplora le sfumature delle emozioni umane e la loro connessione con il ciclo solare.
“Light” è ora disponibile su tutte le principali piattaforme di streaming musicale, offrendo agli appassionati di musica l’opportunità di scoprire la creatività di Matthew S. Non perdete l’occasione di immergervi in questo viaggio sonoro unico nel suo genere.
Storie Vicentine ci spiega le antiche incisioni su pilastri di Palazzo Zanovello a Montecchio Maggiore.
Modalità di ritrovamento e descrizione dei pilastri
Il 16 giugno 2019, percorrendo il breve tratto di strada privata che in contra’ Valle di Montecchio Maggiore conduce al cortile del settecentesco palazzo Zanovello, la mia attenzione fu attratta da alcuni segni incisi sui pilastri in pietra posti in corrispondenza dell’accesso carraio. I due elementi lapidei, di probabile estrazione locale, risultano entrambi composti da una base, da un fusto a sezione trapezoidale e da un capitello sommitale.
Sulla faccia laterale di ciascun fusto è presente una risega che in origine alloggiava i cardini e i montanti del portone antico. Il fusto del pilastro destro, strutturalmente solidale con le grosse pietre angolari della casa confinante, è monolitico e le sue superfici si presentano ben conservate, accuratamente rifinite con martellina, salvo la parte inferiore che risulta molto deteriorata per l’umidità di risalita e lacunosa probabilmente a causa del secolare transito veicolare.
Il fusto del pilastro sinistro, trattenuto da una lunga staffa in ferro ancorata all’adiacente muro d’appoggio, risulta spezzato
in corrispondenza della parte mediana e i quattro frammenti sono rinsaldati tra loro mediante due grappe metalliche. Sulla parte mediana e superiore della faccia frontale appaiono tracce di intonaco bianco, probabilmente grassello di calce, in gran parte
scomparso per la prolungata esposizione agli agenti atmosferici. I due capitelli presentano un identico profilo delle modanature che risultano ben conservate in quello destro, molto logorate e lacunose in quello sinistro. Le basi dei due pilastri, molto deteriorate e in massima parte interrate al si sotto dell’attuale piano stradale, presentano una sezione orizzontale che in origine doveva essere poligonale, successivamente adattata a quella dei fusti soprastanti per necessità funzionali mediante una grossolana asportazione del loro volume originario.
Descrizione delle incisioni
La maggior parte delle incisioni attualmente visibili è costituita da almeno un centinaio di numerose piccole coppelle e puntuazioni, con diametro e profondità variabili da qualche millimetro a qualche centimetro. Generalmente tali elementi sono disposti in ordine sparso su entrambi i pilastri, senza un apparente criterio posizionale, con una prevalenza numerica e tipologica su quello di destra. In alcuni casi, tuttavia, tutti riscontrabili sul pilastro destro, le incisioni a coppella appaiono invece organizzate e strutturalmente ben caratterizzate. In particolare, alcune di esse concorrono a formare due distinte figure circolari, con diametro di circa 8 cm, contornate da sottili solchi tracciati in andamento. Da una coppella centrale
si dipartono a raggiera alcuni brevi tratti filiformi orientati, in modo approssimativo, verso le coppelle periferiche. Nel loro insieme, le due composizioni appaiono come due ruote o dischi raggiati internamente (dischi/ruote solari?). Una grossa coppella, del diametro di 5 cm e profonda 1 cm, con bordi molto irregolari e usurati, contiene a sua volta altre piccole coppelle, disposte internamente in ordine sparso, di cui una, più profonda e di diametro maggiore, è posizionata al centro. Quattro coppelle, allineate con andamento verticale per un tratto di circa 9 cm, sono associate ad altre quattordici più piccole che formano un compatto graticolato quadrangolare.
All’interno di una cavità sub-rettangolare, di circa 9×2,5 cm, con bordi irregolari e usurati, sono rilevabili dieci piccole coppelle di diverso diametro disposte orizzontalmente. Due coppelle perfettamente cilindriche, con diametro di circa 2 cm, sono contornate, l’una da quattro puntuazioni disposte in corrispondenza del bordo sinistro, l’altra da alcuni brevi tratti disposti radialmente (figurazioni cosmologiche?). In una coppella, con diametro di circa 2 cm, è inserito un materiale di colore grigio, parzialmente sporgente dal piano lapideo. Su entrambi i pilastri si osservano numerose incisioni lineari filiformi tracciate a graffio semplice o, più spesso, a graffio ripetuto (tecnica à polissoir), con lunghezze da qualche centimetro a circa 10-30 cm, variamente orientate e combinate fra loro. In particolare, alcune di esse formano una figurazione costituita da tre archetti connessi ad un tratto lineare verticale: l’insieme sembra rappresentare un albero stilizzato.
Su entrambi i pilastri appaiono altre due figurazioni sicuramente alberiformi.
Nella parte mediana della faccia frontale del pilastro sinistro è visibile un piccolo albero alto circa 2 cm, costituito dal tronco, realizzato tramite una marcata incisione a V, da una piccola base convessa e da alcuni rami leggermente arcuati che si dipartono simmetricamente dal tronco medesimo: tre verso destra e due verso sinistra; una labile traccia sul supporto lapideo suggerisce la probabile esistenza originaria di un terzo ramo anche sul lato sinistro. Sulla figurazione descritta si osservano alcune graffiature verticali ed orizzontali, verosimilmente tracciate in segno di spregio o con intendimento esorcizzante. Nella parte superiore della faccia frontale del pilastro destro si osserva una seconda figurazione arborea, alta 59 cm, tracciata a graffio semplice: un lungo segno verticale, leggermente obliquo, costituisce il tronco dal quale si dipartono, verso l’alto una chioma formata da numerosi rami e, verso il basso, alcune lunghe radici divergenti tra loro.
Nella parte mediana della risega del pilastro destro è riconoscibile una labile incisione, alta circa 4 cm, costituita da un segno ricurvo aperto superiormente, associato ad un breve tratto verticale, a sua volta rinforzato alla base da una piccola coppella (figura stilizzata di orante?). Su entrambi i pilastri appaiono anche alcune lettere alfabetiche. Sulla faccia frontale del pilastro sinistro, in corrispondenza della zona mediana, sono leggibili: una lettera maiuscola P (h = 9,5 cm), associata ad una probabile X maiuscola, mancante del tratto inferiore destro (abbozzo di monogramma del Cristo Chi-Rho?); un segno arcuato simile alla lettera maiuscola C (h = 7 cm), marcato con preciso solco a V (sigma lunato?); quattro piccole lettere (2,5×1,5 cm), in carattere corsivo: Lazz o Sazz, e altre di lettura incerta, probabilmente tracciate in epoca recente. Sul pilastro destro sono inoltre visibili due lettere maiuscole A, con traversa orizzontale a gomito: una è associata alla figura arborea sopradescritta, all’interno delle radici; l’altra è grossolanamente incisa sullo spigolo smussato del pilastro (Lettera Alfa, simbolo cristologico di dottrina antiariana?).
Sul pilastro destro – e, dettaglio significativo, solo su quello – si osservano una ventina di croci del tipo latina-immissa, con dimensioni da 2 a 25 cm, per lo più incise in modo approssimativo a graffio semplice o a graffio ripetuto. Alcune di esse si caratterizzano per l’accenno della base o per il potenziamento delle estremità mediante coppelle; in un caso le traverse risultano ricrociate.
Sul pilastro destro si osservano inoltre tre croci, rispettivamente di 9-7-6 cm, eseguite da esperta mano di lapicida, con preciso taglio a V, ben delineate e proporzionate. Una di esse presenta gli aspetti formali della cosiddetta Croce del Golgota: base piramidale a tre gradini, monticello stilizzato, croce del tipo latina-immissa, con tre raggi divergenti in ciascuno dei quadranti. Una quarta croce, alta 9 cm, è stata scolpita incidendo profondamente la pietra in corrispondenza dello spigolo smussato del pilastro. Una quinta croce (3×3 cm), a forma di Tau capovolta, grossolanamente incisa, presenta le estremità
potenziate mediante coppelle.
Osservazioni conclusive
Le incoerenze strutturali e funzionali dei pilastri descritti e, soprattutto, il complesso sistema di incisioni rilevate, indicano che l’attuale collocazione di detti pilastri nell’area di un settecentesco edificio civile, per una utilizzazione del tutto marginale, non possa corrispondere alla loro sede originaria. Si tratta pertanto di elementi di spoglio edilizio, recuperati da altro sito, sommariamente ricomposti per realizzare i piedritti dell’accesso carraio di palazzo Zanovello, verosimilmente al momento della sua costruzione (1770) o in altra occasione non meglio precisabile.
A mio modesto parere, l’insieme dei segni tracciati sui pilastri descritti rappresenta una netta contrapposizione ideologica di carattere religioso da parte di un cristianesimo, ormai dominante, nei confronti di espressioni iconografiche connesse a culti non ortodossi, forse paganeggianti, ancora praticati in ambito rurale e periferico.
Se l’interpretazione è corretta, le incisioni di palazzo Zanovello rappresenterebbero una pratica di cristianizzazione, connessa al recupero e riconversione di un antico edificio di culto (esaugurazione), attuata mediante l’apposizione sui pilastri descritti di segni cruciformi e di simbologie cristologiche, al fine di esorcizzare pregresse espressioni
cultuali costituite dal complesso di coppelle, puntuazioni, lineazioni, dischi raggiati/coppellati e figurazioni alberiformi.
La croce su podio a tre gradini, la cosiddetta Croce del Golgota, iconografia di matrice culturale greco-orientale, ovvero bizantina1, incisione eseguita a regola d’arte, probabilmente commissionata ad un lapicida con preciso intento didascalico, permetterebbe di individuare i probabili attori della prassi esaugurale sopradescritta. Nel 698, il re cattolico longobardo Cuniperto convoca a Pavia, in accordo col papa di origine siriaca Sergio I, il sinodo a seguito del quale si ebbe la formale conversione del popolo longobardo, con la ricomposizione dello scisma ariano e l’abbandono delle persistenti credenze e ritualità di matrice pagana, comprese anche quelle della popolazione autoctona romanica, il cui livello culturale e religioso era gravemente decaduto a seguito del lungo periodo di separazione dalla chiesa di Roma (autocefalia tricapitolina aquileiese).
Pertanto, l’insieme dei segni cristologici impressi sui pilastri di palazzo Zanovello potrebbe costituire una traccia dell’opera di quegli “oscuri missionari di origine orientale”, di lingua e cultura greca, inviati dai papi di Roma tra i Longobardi della Langobardia Major, per ricondurli ai canoni del cattolicesimo romano, citati da Giovanni Mantese in Memorie storiche della chiesa vicentina, vol. I, Dalle origini al Mille, 1952 e da Attilio Previtali in Longobardi a Vicenza, 1983. Per quanto riguarda l’edificio di culto originario e la zona da cui i pilastri descritti sarebbero stati recuperati, è verosimile ipotizzare che possa trattarsi della Pieve di Santa Maria, chiesa matrice delle valli dell’Agno-Guà e del Chiampo, il cui nucleo originario risale a prima del X secolo, inserita nell’area archeologica ospedaliera di San Vitale, distante poche centinaia di metri da palazzo Zanovello, nella quale è stata messa in luce nel 1990 una necropoli longobarda di “pieno VII secolo”2, in un contesto di strutture rurali di epoca romana, cronologicamente riferibili al I-IV secolo3.
Di Gianni Peltrin da Storie Vicentine n. 15-2023.
Note:
1. Vedi: Monetazione imperiale bizantina, da Tiberio II (VI sec.) a Basile II (X-XI sec.) e altri, in particolare le emissioni monetali di Eraclio (VII sec.); Mosaico della basilica ‘Hagia Eirene’ in Costantinopoli (Istanbul): Croce su gradini nella volta absidale (IX sec.); Salterio di Ludovico il Tedesco (IX secolo, ora a Berlino); Stauroteca di Limburg
(X sec.); Fiasca di cristallo di rocca (X-XII sec.) e, in generale, iconografia connessa al rito della ‘Esaltazione della Croce’ nelle Icone greco-ortodosse.
2. E. Possenti, in M. Rigoni e A. Bruttomesso, Materiali di età longobarda nel Museo “G. Zannato” di Montecchio Maggiore. La necropoli dell’Ospedale di Montecchio Maggiore, Nuova Grafica Fiorentina, Firenze, 2011, pp. 17-45.
3. M. Rigoni e A. Bruttomesso, opera citata , pp. 13-16. Figura 4 – Pilastro destro: Croce del Golgota (6,5×7,5 cm).
Le memorie storiche personali di Giovanni Bertacche dell’8 settembre 1943 raccolte su Storie Vicentine.
Erano giorni di tormentosi interrogativi, non sapevamo di preciso di cosa si trattasse, ma un senso di malessere ci aveva pervasi tutti: dai più grandi ai più piccoli. Una cosa si dava per certa, da quando Mussolini era stato deposto dal re e più non si sapeva dove e come si trovasse, che qualcosa di oscuro stava per accadere. E proprio da un momento all’altro.
Era questo, l’inatteso, che ci disorientava. Anche perché non sapevamo quanti giorni erano trascorsi da quella data del 25 luglio; una data sempre lì, ingombrante e perfino sconcertante. La sentivamo ripetere ad ogni occasione, con le immancabili allusioni sul futuro che ci poteva attendere. I tedeschi si impadroniranno del nostro paese e perfino delle nostre case; o forse (perfino auspicabile?) ritornerà Mussolini a rimettere ordine alla confusione di questi giorni; o vedremo presto, come speravamo, tornare dal fronte gli zii Antonio e Luigi come sospirava la nonna Katina. Chissà! Ascoltavamo la radio di Badoglio, non senza una certa dose di curiosità perché andavamo dietro quel grande apparecchio per scorgervi chi stava dietro a parlare, così ogni mattina dalla maestra Oringa, dopo la Messa alla chiesetta. Ma quelle informazioni alla radio non erano per niente chiare e comprensibili, o probabilmente eravamo noi troppo piccoli, incapaci a elaborarle.
Facevano riferimento vagamente ad invasioni o forse intendevano liberazione da parte degli americani e loro alleati, o ancora riferivano non meglio precisati scontri con i tedeschi in alcune città lontane, laggiù.
Congetture sospiri aspettative. Una mattina, ma venivamo avvertiti solo alla sera che si trattava proprio di quel mercoledì, avevamo notato sulla strada che passava proprio nei pressi delle nostre case, strani movimenti. Soldati tedeschi, così si disse, perché mai visti prima dalle nostre parti, a bordo di automezzi pesanti. Provenivano dalla pianura per risalire la nostra collina da cui si poteva controllare l’uscita dalla città verso i monti.
Certo qualcosa di insolito stava per accadere o forse no era già successo senza che noi lassù ne fossimo avvertiti. I sospetti e più ancora le paure trasmesseci per giorni dai più grandi avevano fatto presa sui nostri pensieri; l’ansia aveva spento anche i nostri giochi.
E non potremo più dimenticare quel mercoledì 8 settembre. Solo alla sera ci veniva riferito che da radio Algeria, ben lontano dunque da noi, il comandante generale degli americani aveva annunciato, secco, il governo italiano si è arreso. Ma quando, ma come, con quali prospettive; nessun chiarimento! E ciò che più premeva, e con l’alleato tedesco, che già era qui e occupava le nostre contrade, come avremmo dovuto comportarci? A proposito, quello che più ci stupiva di riflesso delle osservazioni che seguivamo, era il perdurare del
silenzio da parte dei nostri governanti. Se ancora potevamo meritarcene qualcuno, il commento amaro! Ma quand’ecco circa un’ora dopo, al momento della cena, Badoglio, il nuovo capo di governo, comunicare alla radio, che allora aveva un altro nome, di aver concluso l’armistizio con i comandi americani e che dunque le forze italiane dovevano cessare ogni ostilità nei confronti degli alleati d’oltreoceano, mentre dovevano reagire
ad attacchi di qualsiasi altra provenienza. Proprio così! Reagire ad attacchi di altra provenienza. Insomma non si voleva nominare i tedeschi, quasicchè un tale esorcismo ci potesse evitare la furia degli alleati trasformati, proprio da noi in un battibaleno, senza nemmeno un preavviso, in acerrimi avversari.
Poveri noi e quella indescrivibile agitazione della serata e della notte che ne seguì! Chi correva, complice l’oscurità, a nascondere nel bosco, ben avvolti, oggetti preziosi, perfino del denaro, pane fatto in casa e salumi del proprio allevamento. Temibili le razzie da parte dei nuovi occupanti. L’imprevisto era accaduto e dunque bisognava vivere alla giornata e
senza più futuro. Perché quanto sostenuto da chi doveva chiamarsi capo del governo
era di una assurdità inaudita. Ora con quale governo o su quale Stato potevamo fare affidamento; rimasti soli, noi piccoli con mamme e i nonni. Senza uomini, tutti lontani a fare i militari nei vari fronti, come avremmo potuto affrontare la furia dei tedeschi per di più traditi in quel modo? Ma l’impensabile non era ancora terminato. La mattina successiva la radio della Maestra ci avvertiva che il Re e con lui tutti i governanti si erano allontanati da
Roma ma senza indicare la destinazione; che la Capitale rimaneva sguarnita di sovrapposti. Una tragicomica! Durante la giornata cercavamo notizie inseguendo le cronache della radio anche se alquanto scarne e più spesso interrotte. Dei reali e del loro seguito governativo più nessuna nuova, una vile fuga insomma, mentre i tedeschi attaccavano contingenti italiani, avendone per lo più la meglio. Che ne sarà adesso dei nostri soldati nei vari fronti avendo a fianco da tre anni i tedeschi ora contrariati più che mai e dunque incontrollabili.
Si ribelleranno o fuggiranno? O si consegneranno? Domande angoscianti anche per gli zii in armi. Passavano così nella più totale incertezza alcuni giorni. Quando un pomeriggio verso sera vedevamo muoversi qualcosa di strano tra l’erba del prato a fianco del cortile di casa.
Vi spuntavano due soldati che facevano cenni di volersi riparare velocemente dentro casa. Ciò che noi eseguivamo prontamente accompagnandoli dentro e richiudendo immediatamente le porte. Avevano una cera da far pietà. Affamati stanchi impauriti vestivano una camicia e pantaloni militari, ma tutti sbrindellati.
Avevano un accento lombardo e pare provenissero dalle parti del lago d’Iseo. Per prima cosa ci chiedevano da mangiare, erano giorni che non facevano un pasto. E mentre divoravano un panino annaffiato da un buon bicchiere del vino di casa, in attesa del piatto di spaghetti e della carne, si aprivano alle confidenze. Di essere scappati dal fronte jugoslavo appena il loro comandante, sapute le vergognose cose italiane dell’abbandono del re e dei suoi accoliti, aveva lanciato il grido: si salvi chi può! E prima che i commilitoni
tedeschi se ne rendessero conto di quanto stava accadendo, loro, lasciate armi e bagagli, correvano a nascondersi nella più vicina boscaglia. Più tardi sentivano spari nella loro direzione e ordini perentori in tedesco; ma loro sempre nascosti sotto il fogliame attendevano la notte fonda per allontanarsi. Così si fuggivano dal fronte, muovendosi sempre di notte e avvicinandosi alle case alla sera per racimolare qualche pezzo di pane. Superato il confine italiano non è che le cose si mettessero meglio. Al di qua i tedeschi davano la caccia agli italiani e anzi con più spietatezza, che fossero o meno militari. Per questo la lunga traversata per giungere fin da noi era stata più travagliata e con tanti e
maggiori pericoli di imboscate. Di certo avendo la fortuna di scappare, mentre molti commilitoni erano stati trattenuti come era accaduto agli zii per essere deportati in Germania, dovevano perciò restare nascosti. La reazione dei tedeschi di fronte all’onta del tradimento non era augurabile proprio a nessuno. Quella sera dopo essersi lavati e con un buon cambio di biancheria i due andavano a riposare ma in un locale seminascosto là dietro le case. Nessuno nemmeno tra i parenti doveva sapere che c’erano quei due forestieri ad evitare rischi per loro e anche per noi ospiti. Al mattino presto, erano circa le 5, i due erano in piedi e già rivestiti ma in borghese. Dopo una veloce colazione passando ai ringraziamenti e ai saluti a me più piccolo donavano due matite provenienti dalla zona del fronte. Il loro legno aveva un profumo squisito lasciandomi così un più gradito ricordo.
I due venivano quindi accompagnati nei pressi del più vicino bosco e fornite loro indicazioni per dirigersi solleciti, sempre restando al coperto, verso Verona.
Di quei due soldati più nessuna notizia né allora né dopo. Di certo gli inopinabili avvenimenti di quei giorni e quelli che ne seguirono nei 20 mesi successivi, lasceranno profonde ferite e divisioni che segneranno il futuro fino ad oggi.
Di Giovanni Bertacche da Storie Vicentine n. 15-2023. [email protected]
8 SETTEMBRE 1943