Prosegue il viaggio di L’altravicenza con l’oro grazie alla pubblicazione a puntate della tesi di laurea di Anna Milan “Dalla Fiera al Museo dell’oro: oreficeria e gioielleria a Vicenza” pubblicata a puntate sul numero 10, settembre-ottobre 2022, di Storie Vicentine.
Il travagliato periodo politico che seguì la crisi del regno longobardo portò, nel giugno del 774, l’avvento del dominio franco di Carlo Magno. Passata sotto i franchi, Vicenza divenne sede di contea e rimase un centro gravitazionale nella mappa dei territori soggetti ai carolingi. Durante tutta l’età carolingia, e nei difficili secoli che si susseguirono, l’attività artigianale non era istituzionalizzata e gli artigiani non avevano l’obbligo di riunirsi in corporazioni (collegia): l’artigiano era classificato tra il popolo di bassa condizione perché la sua immagine non si conciliava con il modello di massimo riferimento culturale, che era rappresentato dal guerriero.
Tale considerazione era così diffusa che anche la storia dell’orefice, e poi vescovo di Noyon, Eligio, veniva ricordata come un riferimento d’eccezione e, non a caso, Sant’Eligio divenne il patrono degli orefici: vissuto dal 590 al 660 d.C., apprese l’arte dell’oreficeria sotto la guida del maestro Abbone a Lemovacium (Limoges) e dimostrò le sue doti di artista eseguendo lavori importanti. Eccellente nella lavorazione di gioielli d’oreficeria quanto in pietà e carità cristiana, venne, infine, chiamato a reggere il seggio vescovile di Tournai e Noyon dove morì.
Dalle fonti apprendiamo che l’artigiano, tra la fine dell’VIII e l’inizio del IX secolo, acquisì una propria identità grazie alla presenza delle “gilde”, ossia dei raggruppamenti sociali che li classificavano, ma che non possono considerarsi preludio delle corporazioni artigiane del tardo medioevo che, invece, fiorirono tra il XII e il XIII secolo, quando le associazioni artigiane, riunitesi per tutelare i propri interessi, assunsero un ruolo importante nella vita della città.
Tale tendenza a difendersi nacque spontaneamente nel momento in cui l’autorità dello stato si indebolì o si rivelò assente. Fu così che commercianti e artigiani fecero il loro ingresso nella vita politica comunale e si posero come terza forza tra nobili e ricchi mercanti. Il primo documento ufficiale in cui si fa esplicito riferimento agli artigiani orafi vicentini è lo Statuto comunale del 1339, periodo in cui Vicenza si trovava sotto il dominio scaligero. In questo documento si trova registrata la fraglia degli orefici, ossia la corporazione d’arte e mestieri che riuniva tutti gli artigiani orafi e che veniva ammessa all’elezione di un membro del consiglio degli anziani. In questo modo la fraglia degli orefici poteva partecipa- re attivamente alla vita economica e politica di Vicenza.
Nonostante questo riconoscimento la corporazione ancora non possedeva un proprio statuto che ne regolamentasse la vita consociativa, la quale si basava essenzialmente su regole non scritte ma rispettate dagli appartenenti alla congregazione. Negli statuti approvati dal consiglio cittadino nel 1352 troviamo i documenti ufficiali della categoria degli orefici, come l’elenco dei maestri confratelli iscritti alla Matricula, ossia i capitoli con le norme per il buon governo della fraglia, con la quale gli orefici ottenevano una tutela dei propri interessi e facevano riconoscere la loro posizione attraverso i rispettivi rappresentanti: i gastaldi e il consiglio minore dei quaranta. La Matricula Vetus degli orefici di Vicenza (o Statum Aurificum Vicentiae), conservata nella Biblioteca civica Bertoliana della città, è il documento fondamentale della fraglia degli orefici.
Questo statuto, che costituisce la più antica testimonianza storica in età medioevale dell’istituzione che associa ufficialmente gli Artieri dell’oro vicentini, raccoglie le prime norme scritte riguardanti l’organizzazione gerarchica e le regole di condotta alle quali gli affiliati del XIV secolo dovevano attenersi; inoltre contiene la lista, o matricola, dei nomi degli iscritti all’arte orafa.
La Matricola è trascritta in fogli di pergamena, la compilazione è in caratteri “gotico – librari”. Il volume non è in realtà un testo unitario. È costituito dalla riunione di carte di cancelleria realizzate come copie di atti notarili, da alcuni stralci dei più antichi statuti della fraglia – datati di recente entro un arco cronologico collocabile tra il 1322 ed il 1339, forse addirittura risalenti al Vicariato imperiale su Vicenza del 1311 – 1312 a cui sembra riferirsi il proemio degli statuti – cui sono allegate alcune parti di antiche matricole, ossia di elenchi dei maestri iscritti all’arte, risalenti, queste, al XIV e XV secolo con alcune aggiunte cinquecentesche.
Il codice si apre con una maestosa invocazione alla Trinità, alla Vergine Maria, agli Apostoli, ai Santi patroni della città (Felice, Fortunato, Leonzio e Carpoforo) e a tutti i santi, affinché veglino sui vicentini e mantengano la pace. A questa segue la lista delle domeniche e delle festività religiose che gli orefici, molto ossequienti al culto cristiano, erano tenuti a celebrare, con l’astensione al lavoro e la partecipazione alle cerimonie, pena una multa pecuniaria. Successivamente venne definita l’organizzazione gerarchica delle autorità che governano la fraglia: il gastaldo era il capo indiscusso, che possedeva una rilevante responsabilità giuridica ed era affiancato dal consigliere.
Entrambi erano eletti dal capitolo, ossia l’assemblea dei confratelli; il loro incarico durava quattro mesi e al momento della nomina essi giuravano di operare per il bene della fraglia sui Vangeli. Spettava al decano recapitare le convocazioni alle riunioni, a frequenza obbligatoria, della confraternita e alle cerimonie religiose. Nell’ambito del capitolo tutte le proposte erano vagliate, discusse e votate con il sistema del ballottaggio. In questo modo gli affiliati erano coinvolti attivamente nella votazione delle delibere e erano così maggiormente motivati a rispettarle. La Matricola doveva essere presentata ogni anno al podestà, che delegava un giudice ed un notaio per esaminarla e verificare che rispettasse gli statuti della città.
Talora quindi per decreto dei deputati alcuni capitoli, benché approvati dalla fraglia intera, venivano cancellati; tal altra modificati. Il gastaldo aveva il compito di controllare periodicamente la qualità e il titolo dell’oro e dell’argento, l’esattezza dei pesi e delle bilance, e i manufatti degli orefici presso le loro botteghe collocate, per statuto, nel Peronio di Vicenza, cioè nell’attuale piazza dei Signori.
Queste continue ispezioni garantivano la qualità del manufatto, costituendo la premessa allo sviluppo di questo mestiere, il cui prestigio si consoliderà nei secoli potendo avvalersi di questa solida tradizione. L’associato veniva radiato qualora non avesse rispettato le risoluzioni del capitolo. Dopo aver descritto l’organizzazione della confraternita, la durata e i compiti delle varie cariche istituzionali, nella Matricula si affrontano tutte le regole che disciplinavano la vita lavorativa e i rapporti fra gli affiliati: ad esempio, quando un confratello moriva, tutti i componenti della fraglia dovevano rendere omaggio al suo corpo accompagnandolo nel rito funebre.
Nell’ultima parte del documento si arriva alla Matricula vera e propria, ovvero l’elenco dei nomi dei confratelli, dal quale risulta che spesso il mestiere si tramandava da una generazione all’altra. La lista rivela anche l’eterogeneità della provenienza degli orefici attivi a Vicenza; oltre agli autoctoni si deve però ricordare che nella fraglia erano entrati diversi orafi foresti, evidentemente attirati dall’importanza e dal prestigio attinto dall’arte orafa. Erano presenti orafi lombardi, piemontesi, emiliani e perfino francesi e tedeschi24.
Questo dimostra che già nel XIV secolo la fraglia godeva di grande credito e rappresentava un notevole polo di attrazione e di fiorente attività commerciale. Lo statuto si interrompe a questo punto, tuttavia esistono dei documenti che testimoniano come il codice abbia subito delle mutilazioni, perciò oggi possiamo leggere solo una parte del regolamento al quale erano sottoposti gli orefici della confraternita vicentina.
Da questo importante documento si nota come gli orefici conquistarono, nel corso del XIV e XV secolo, una determinante rilevanza politica, che consentirà loro un notevole sviluppo economico. L’ammissione alle fraglie era riservata solo a chi esercitava il mestiere, a patto che l’artigiano, di età maggiore ai venticinque anni, riuscisse a sostenere i pesanti oneri finanziari richiesti per l’ammissione, sapesse leggere e scrivere e non avesse debiti con la fraglia o con il Comune.
Inoltre era necessario esibire l’attestato redatto dalla parrocchia che assicurava la buona moralità dell’aspirante e l’attestato che certificasse il tirocinio e la pratica dell’arte esercitata. Lavoratori e garzoni erano esclusi dal Capitolo e pertanto, non avevano diritto di voto, non potevano prendere parte alle decisioni della fraglia né accedere a nessuna carica direttiva. Erano però soggetti al pagamento di un contributo simbolico, all’osservanza di tutte le norme statuarie e all’obbedienza del maestro che li guidava e li istruiva all’arte. Per passare dalla categoria più bassa, quella dei garzoni, alla successiva dei lavoranti, e da questa alla superiore dei maestri, era quasi sempre indispensabile sostenere e superare specifiche prove di abilità nell’esercizio dell’arte.
Dopo un lungo tirocinio di cinque anni il lavorante o il garzone poteva sostenere l’esame per il passaggio alla categoria superiore. In tal caso il richiedente doveva eseguire un’opera d’arte da sottoporre a una commissione di esperti giudicanti. Se la prova veniva superata la richiesta di ammissione veniva proposta al Capitolo e quindi messa ai voti. Se il numero di votanti a favore raggiungeva la maggioranza relativa il candidato, dopo aver giurato fedeltà allo statuto, otteneva il diritto di ascrivere il proprio nome nella lista della matricola.
Dal momento dell’iscrizione alla matricola, il corporato godeva di tutti i diritti concessi dalla fraglia, compreso quello di aspirare alle varie cariche direttive, esercitare l’arte e vendere i prodotti nella propria bottega, avere alle dipendenze garzoni e lavoranti. Per la fraglia degli orefici la festa del patrono si celebrava il 25 giugno, giorno di Sant’Eligio, con una messa solenne a cui dovevano partecipare tutti i confratelli iscritti nella chiesa di San Eleuterio, sede della confraternita.
Questa era una delle sette proto-cappelle vicentine, sorta prima del Duecento, nell’attuale slargo nell’odierna contrà Santa Barbara verso piazza Biade e dove nel 1454 venne eretto un altare a lato dell’altare maggiore, a spese degli orefici, dedicato al patrono della fraglia. Alla fine del XVII secolo la chiesa subì gravi danni a causa di un terremoto e, ricostruita, divenne sede della confraternita dei Bombardieri, cambiando nome in Santa Barbara. Oggi la chiesa non esiste più in quanto altri avvenimenti storici hanno portato alla sua soppressione e demolizione.
Tra le altre regole che lo statuto della fraglia orafa imponeva, vi era il controllo sul titolo dell’oro e la bollatura degli oggetti che veniva eseguita dai capi delle università e dei collegi. I rei erano soggetti a pesanti sanzioni pecuniarie e non solo; era anche prevista la chiusura della bottega e la distruzione degli oggetti prodotti con metallo non legalmente accettato. Queste regole statutarie furono una garanzia della validità dei pro- dotti per tutelare sia il cliente che tutta la categoria artigiana e, allo stesso tempo, il loro rigore giustificò l’ascesa della confraternita a Vicenza. Le botteghe dei maestri orafi venivano controllate con regolarità.
Esse dovevano essere locate esclusivamente nella piazza principale della città: il Peronio, oggi piazza dei Signori, in mostra nella più antica planimetria di Vicenza, che si conosca, fortunatamente recuperata più di trenta anni fa da Ettore Motterle. Si tratta di un disegno a inchiostro, di 61 cm x 43 cm, su una carta purtroppo strappata, databile con quasi assoluta precisione all’attacco degli anni Ottanta del XV secolo, dove sono segnati i seguenti toponimi: Pescharia, la piaza dal pesse menudo, la strada se va al Domo, la via dala Rota, la contrada di Zudei, la via dala Malvasia, la contrada dale veture, la contrada di Santo Eleuterio, piaza dale Biade, via di Servi, la piaza dal vino.
Quindi la pianta del Peronio, conservata nella Biblioteca Bertoliana di Vicenza, mostra le piazze e le strade che confluiscono nell’attuale piazza dei Signori, centro dell’attività commerciale e amministrativa della città dove trovano spazio sette costruzioni al pianterreno, affianco al palazzo e alla torre dei Bissari. Queste non sono altro che alcune delle botteghe degli orefici iscritti alla fraglia, edifici che nel XVI secolo il Comune farà abbattere e trasferire sotto la Basilica palladiana.
In questa area erano ubicate anche altre botteghe di artigiani, come quelle dei recamatores, tessitori di fili d’oro, che a loro volta erano prodotti dai battiloro: orafi specializzati nella tiratura dei metalli preziosi, in foglia, richiesta per le grandi opere pittoriche su tavola, o in filo, utilizzato in ricami e broccati. Le fraglie vicentine si presentano come dei “micro – governi”, all’interno di uno più grande: il Comune. Le fraglie, infatti, erano considerate come enti giuridici ai quali venivano riconosciute dall’autorità pubblica le facoltà di emanare leggi proprie, di autogovernarsi e di amministrarsi autonomamente.
Tale forza politica – economica non poteva prevaricare l’autorità del Comune che attuava dei controlli legislativi. Tutte le norme statutarie elencate resteranno in vigore, unitamente ad altre prescrizioni o leggi in materia di lavorazione e vendita emanata dal governo veneziano, sino alla fine del 1700 quando, come vedremo, gli orafi vicentini provvederanno ad un aggiornamento del loro Statuto che, unitamente alla fraglia stessa sarà cancellato nel 1806 dai nuovi padroni francesi.
L’artigiano orafo, staccatosi dalla mera manualità artigiana, andava progressivamente esprimendo una propria individualità artistica che lo poneva in un determinato rapporto nei confronti dei committenti: all’artigiano venivano conferiti precisi incarichi, strettamente collegati alla funzione delle opere di gioielleria. In questo periodo, però, la produzione orafa era ancora riservata alle cerimonie e pochi erano i gioielli di uso quotidiano prodotti. Lo stile del gioiello nel periodo medioevale deve considerarsi in stretta relazione con il costume del tempo. Nella seconda metà del Duecento, a testimonianza dei primi lunghi viaggi, la moda prevedeva l’adozione di materiali provenienti dall’Oriente, nuovi tessuti di lana e seta, e l’impiego del ricamo in filo d’oro.
Il costume assunse un’importanza sociale: abiti e gioielli identificavano certe classi sociali come i nobili e i grandi proprietari terrieri che indossavano i preziosi indumenti intessuti d’oro e si ornavano di preziosi. La gioielleria prodotta in Italia fino al Trecento si ispirava ancora a motivi ornamentali gotici: anelli formati da semplici cerchi d’oro sormontati da soggetti in rilievo o da pietre incise, collane in filigrana a cui era appesa una piastrina tonda o romboidale dove campeggiava una croce ornata e incorniciata da pietre preziose, fermagli da mantello preziosamente lavorati a cesello o a rilievo e ornati da pietre con taglio a tavoletta o da decorazioni a smalto.
Di questo tipo gotico d’ornamento ne è un esempio il fermaglio che regge il mantello di Maria nella tavola del 1412 della Madonna della conservata all’oratorio dei Proti a Vicenza. La ricostruzione della gioielleria usata a Vicenza tra il X e XIV secolo risulta difficile poiché mancano quasi totalmente dei riferimenti iconografici o fonti descrittive e sono andate perdute testimonianze di opere d’oreficeria prodotte in quel periodo. Nel XIV secolo lo stile della gioielleria si stacca gradualmente dagli schemi tardo – gotici e acquista linee che troveranno pieno compimento nel Rinascimento.
I metalli principalmente usati sono l’argento e il rame dorato, mentre l’impiego dell’oro è più raro e arricchito dalla lavorazione a smalti colorati. Alcuni elementi d’oreficeria assumono un aspetto funzionale, ad esempio i bottoni lavorati in filigrana diventano piccoli gioielli. Verso la metà del secolo si diffuse la moda di ornare gli abiti con nastri di velluto o di raso terminanti con ciondoli d’oro o d’argento lavorati a sbalzo. Nel gusto dell’epoca erano in voga acconciature create dall’intreccio dei capelli ai lati del capo e rese preziose da reticelle di filo a cui erano fissate perle, grani di pietre oppure veri e propri gioielli.
Per questo motivo gli orecchini non trovarono largo riscontro nel costume dell’epoca. Largo spazio trovò invece l’oreficeria sacra. In quest’epoca vennero eseguiti calici, reliquiari, croci astili e processionali, dal forte gusto gotico e la loro costruzione si ricollega a tipologie più propriamente architettoniche: con i fusti e supporti foggiati a forma di piccole chiese e di torrette, con finestrelle, guglie, pinnacoli e statuine minutissime.
Dalla tesi di laurea di Anna Milan “Dalla Fiera al Museo dell’oro: oreficeria e gioielleria a Vicenza” pubblicata a puntate su Storie Vicentine n. 10 settembre-ottobre 2022