sabato, Novembre 23, 2024
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L’oro di Vicenza. L’Epoca Moderna, l’invenzione delle macchine orafe e la moda del nero

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Prosegue il viaggio di L’altravicenza con l’oro grazie alla pubblicazione a puntate della tesi di laurea di Anna Milan “Dalla Fiera al Museo dell’oro: oreficeria e gioielleria a Vicenza” pubblicata a puntate sul numero 10, settembre-ottobre 2022, di Storie Vicentine.

Le trasformazioni politiche avvenute a Vicenza nella prima metà dell’Ottocento influirono su un contesto economico critico, ma nel quale non venne trascurato l’ornamento nemmeno dalla popolazione povera, che si abbelliva con piccoli oggetti in rame, argento, con perle di vetro e smalti miniati dal valore e peso irrisorio ma che inserivano l’accessorio nel corredo popolare.

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Allegoria di Venezia

Il XVIII secolo per Vicenza si chiuse con l’allontanamento del dominio della Serenissima che segnò la fine di un forte legame secolare. Il Veneto diventò un conteso campo di battaglia per le lotte tra i francesi e gli austriaci. Nell’Ottocento, dopo la caduta di Napoleone, Vicenza passò sotto il dominio dell’impero austro-ungarico. Nel 1848, in tutto il nord Italia, iniziarono violenti tumulti per scacciare gli austriaci, ma soltanto nel 1866, finita la terza guerra di indipendenza, le truppe italiane liberarono il Veneto e Vicenza entrò a far parte del Regno d’Italia. Gli avvenimenti rivoluzionari di questi anni sono in vario modo attestati da quadri conservati presso il Museo del Risorgimento e della Resistenza di Vicenza che ha sede nella villa Guiccioli dal 1935. Tra i numerosi cimeli, stampe, autografi, quadri, ritratti, armi esposte che testimoniano delle vicende fra l’era napoleonica e la guerra di liberazione, un dipinto anonimo dell’Allegoria di Venezia, eseguito nella prima metà del XIX secolo, risulta utile per l’indagine.

La figura è ricca di gioielli e pietre preziose. Interessanti sono l’interpretazione della croce popolare, probabilmente in argento e diamantini, appesa alla collana e il bracciale che si ispira alla polsiera senza miniatura ma con un nodo di pietre incastonate in diversi modi: a cabochon, a losanghe e quadrate. Questa moda dell’impiego di pietre grosse nei gioielli fu la conseguenza dell’entrate in uso nella corte francese del gioiello dalle notevoli dimensioni e appariscente, come simbolo d’autorità.

“Non potendo utilizzare gemme molto preziose, si fece ricorso ad altri materiali gemmologici, di “costo minore o più frequentemente presenti in natura in cristalli grandi, quali avori, acquamarine, conchiglie incise, coralli”. “Le trasformazioni politiche avvenute a Vicenza nella prima metà dell’Ottocento influirono su un contesto economico critico, ma nel quale non venne trascurato l’ornamento nemmeno dalla popolazione povera, che si abbelliva con piccoli oggetti in rame, argento, con perle di vetro e smalti miniati dal valore e peso irrisorio ma che inserivano l’accessorio nel corredo popolare.

Le semplici “vére”, le fedine vicentine o il classico anello a manine, già in auge nel periodo romano e cristiano, erano gli anelli più indossati dalle giovani contadine nel probabile intento di emulare le figlie delle famiglie benestanti dei ceti artigianali. Le ragazzine portavano spesso alle dita anelli d’oro con una sottile lastra centrale decorata con una piccola miniatura.”

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gioielli funerari

Tra le tecniche orafe, quella della lavorazione della filigrana restava sempre una delle più diffuse. In questo periodo, le guerre e la peste accentuarono il senso della morte, provocando una moda di macabri “gioielli funerari”: il materiale più usato a questo scopo era il giaietto (o gagate), una varietà di lignite nera e compatta, che proveniva dallo Yorkshire, un’antica contea dell’Inghilterra. Noto per essere stato usato fin dall’età del bronzo e conosciuto anche dai romani col nome di “ambra nera”, il giaietto venne impiegato su vasta scala in gioielleria perché è un materiale relativamente tenero e può essere inciso abbastanza facilmente.

Il suo utilizzo decadde verso la fine dell’Ottocento, quando vennero introdotti altri materiali meno costosi, come il vetro nero, il guscio” “di tartaruga o lo smalto nero. Anche a Vicenza, sia tra la popolazione ricca sia tra quella povera, la “moda degli ornamenti da lutto si sviluppò tra il 1860 ed il 1880: una “moda del nero” testimoniata dalla produzione di collane da lutto in vetro nero lucido o opaco.”

“Alla collezione privata Zambon – Scarpari a Vicenza appartengono alcuni esempi di questa moda: un pendente appeso al nastrino in velluto che veniva indossato alla base del collo in onice nero e di forma ovale; il ciondolo portafoto, che sulla parte esterna, in superficie, riporta l’immagine di un uccello del paradiso con dei fiori di gusto orientaleggiante in argento eseguito con lastra sottilissima, all’interno delle figure sono incastonate delle piccole perle scaramazze. Sul retro il portafoto contiene la foto di Giuseppe Scarpari. Completano la parure un paio di orecchini in onice,”sostenuti da una base in oro.” La maggior parte delle donne del tempo, poi, avevano i fori alle orecchie per indossare gli orecchini. C’erano orecchini semplici, formati da un anellino dal diametro di un centimetro, ma c’erano anche orecchini dalle forme più complesse, distinti per materiali, difficoltà tecnica di lavorazione e valore economico. Le popolane più povere usavano orecchini in filo pendenti con vaghi (semplici elementi spesso di forma circolare) e leggere lastrine pendule.

I reperti descritti ci consentono di tracciare queste memorie grazie alle donazioni di privati collezionisti vicentini che con cura hanno raccolto non solo gli oggetti preziosi, ma anche una ricca documentazione fotografica che ritrae le famiglie borghesi vicentine, oggi conservata presso la Biblioteca civica Bertoliana di Vicenza. Una documentazione significativa è stata messa assieme anche dall’antropologa romana Annabella Rossi (1933 – 1984) che sviluppò un’indagine sull’ornamento popolare, visto che gran parte del materiale raccolto appartiene al Veneto ed è oggi conservato nell’archivio del Museo delle arti e delle tra- dizioni popolari di Roma.

Sfogliando un campione della documentazione fotografica in nostro possesso risulta evidente quanto in uso fosse il gioiello nell’ambiente vicentino nel XIX secolo tra donne, uomini e anche bambini. In alcune foto della famiglia Massaria, ad esempio, sono ritratti alcuni uomini che sul panciotto, tra un taschino e un occhiello, fanno pendere la catena dell’orologio con un “moschettone” particolarmente interessante per lo snodo mobile. In genere le catene dell’orologio erano infatti fissate al panciotto con ganci ad anello o a bastoncino.

le tre sorelle Canalini

Le camice avevano l’ultimo bottone in oro oppure in onice nero o con diamante. Gli uomini non portavano quasi mai anelli, ma sfoggiavano gemelli e spille da cravatta. Sempre appartenente alla collezione Massaria è la foto scattata da Antonio Sorgato, ritenuto il maggior fotografo professionista veneto della seconda metà dell’Ottocento. La fotografia mostra le tre sorelle Canalini, di una famiglia di commercianti, che indossano delle sottili catenelle lunghe fino alla vita e agganciate al corpetto della veste larga con la gonna che copre la caviglia. I capelli venivano raccolti in una acconciatura con pettinini e fermagli in oro o similoro, la riga al centro e i boccoli lateralmente; i diademi e le coroncine erano in filigrana, con vaghi, in questo caso disposti a corona, con semplici fiorellini di perle legati alla nuca.

Appesi al collo le donne portavano dei ciondoli, che potevano avere varie forme ed essere anche portaritratti, attaccati a lunghe e leggere catene o fissati su un nastrino di velluto al collo, come le dame del Settecento. Anche le croci venivano appese ad un nastro legato al collo ed erano realizzate in lastra d’oro lavorata in ambo le parti. All’epoca erano molto di moda le miniature, soprattutto di soggetti religiosi, eseguite in pendenti tondi e ovali di piccole dimensioni con fondo in madreperla. Molto indossate erano le pontapètto, una sorta di spille dalla valenza funzionale, che serviva per allacciare il collo delle camicie, il velo oil fazzoletto. Potevano essere in oro, in cammei, in mosaico su pietra nera con fiori al centro. Le giovani donne sfoggiavano orecchini a goccia o a campana oppure pendenti a forma esagonale.

Gli orecchini veneti a forma di cerchio erano completati da vaghi aurei tondi, a navicella a forma piatta traforata o formati da un corpo lunato ottenuto in genere dalla saldatura di due lamine d’oro bombato, oppure a mandorla in un corpo più o meno allungato. È possibile così notare come l’oreficeria popolare ottocentesca di Vicenza, compresa quella più povera, avesse raggiunto una propria identità, dove il rapporto tra nuovi bisogni e ruoli sociali scandiva l’arco della giornata a tal punto che gli accessori venivano per la prima volta scelti a seconda delle occasioni.

Le vicende storiche e sociali del territorio, la disponibilità di alcuni materiali piuttosto che di altri, lo studio da parte delle corporazioni di tecniche di lavorazione particolari, hanno permesso che a Vicenza il gioiello sviluppasse una propria “anima locale”. Un efficace paragone con l’architettura ci porta a notare con una certa evidenza che, per quanto, pur nella loro diversità, le tecniche di lavorazione e i materiali di impiego possano assomigliarsi, tutta l’Italia è caratterizzata da diversi ordini architettonici.

La diversa sensibilità di un periodo storico, alcune necessità culturali o sociali peculiari di una zona, hanno determinato, nell’architettura come nella gioielleria, una significativa variazione di stile, conferendo a quelli vicentini una precisa e riconoscibile connotazione. Mentre tra le popolane continuava l’usanza (che mescolava sacro e profano) di ornarsi con la corona del rosario anche per uso quotidiano, tra le famiglie più agiate di quegli anni si manteneva vivo il gusto per il cammeo, probabilmente nato per imitare il mito di Napoleone che, cosa risaputa, aveva un grande interesse per i gioielli e in particolar modo per questo genere.

Tale moda era molo diffusa nell’Ottocento: dal “Journal des dames” del 1805 apprendiamo che i cammei si indossavano su cinture, collane, bracciali e tiare. Le pietre dure incise erano molto utilizzate, ma in mancanza di esse si usavano le conchiglie, molto più rapide da intagliare e più economiche. Tra le altre alternative più popolari si usavano gli smalti, la ceramica e i vetri policromi. Intanto nuove linee e nuovi atteggiamenti del costume avanzavano in tutta Europa, ispirati da tante correnti stilistiche che si sarebbero presto unite in nuove idee. Si poté così assistere alla rivisitazione dello stile gotico, del rinascimentale, dello stile greco, etrusco, romano, rococò, naturalistico, moresco, indiano.

Queste nuove tendenze giocarono a favore del rinnovamento del gioiello, che andava a soddisfare i diversi gusti nascenti, ispirati dalla letteratura e dall’archeologia. Una massa protesa al consumo e desiderosa di curiosità determinò nuove richieste di metallo prezioso capace di soddisfare il cambiamento produttivo. Nel XIX secolo si registrò un aumento delle disponibilità auree, ma nonostante questo l’oreficeria vicentina visse un periodo di crisi causato dagli avvenimenti rivoluzionari e sarà solo verso la fine del secolo, con il riaffermarsi delle arti applicate, che si assisterà a una inversione di tendenza con la registrazione di un forte aumento della quantità di oro lavorata. I profondi cambiamenti politici, sociali e economici costrinsero a ridefinire i luoghi e i soggetti dello sviluppo orafo, ognuno secondo la propria specificità ma tutti necessari per una nuova cultura dell’oggetto.

Le fraglie erano state soppresse durante il periodo napoleonico, ma dall’impatto con le trasformazioni della moderna società industriale, l’arte orafa vicentina riuscì a mantenere e consolidare la tradizione antica accostando alle preziose creazioni di bottega sistemi di lavorazione sempre più aderenti all’evoluzione tecnologica e ai nuovi orientamenti del mercato. Le botteghe erano ancora collocate nella piazza dei Signori, come risulta dalla litografia di Marco Moro del 1847 in cui si intravede la scritta “orefice” sopra la vetrina di un negozio nel palazzo di fronte a quello del capitanio. Nelle botteghe si rivisitò la produzione classica del Belli, facendo tesoro anche del contributo di altri “orafi meccanici” come Luigi Merlo.

Si svilupparono così due tecniche che in futuro continueranno ad essere largamente utilizzate: la decorazione delle superfici a bulino, soprattutto nell’arte sacra, e la lastra stampata, che vivrà il suo massimo splendore tra il 1960 e il 1980. Al raccordo tra botteghe di concezione rinascimentale e prospettive di sviluppo industriale commerciale puntò la Scuola di disegno e plastica, fondata nel 1858 per iniziativa dell’Accademia Olimpica, col proprio corredo di premi, mostre e un piccolo museo delle arti applicate. L’obiettivo era di migliorare la preparazione tecnico-professionale degli addetti alle arti minori. Inizialmente ne assunse la direzione il professor Pietro Negrisolo, coadiuvato soltanto dall’opera volontaria di alcuni assistenti. La scuola era sostenuta da ministeri ed enti locali, soprattutto dalla Camera di Commercio delle arti e della manifattura, istituita in epoca napoleonica, che raccoglieva tutti i dati della produzione orafa.

Quando nel 1928 fu chiamato a dirigere la scuola il conte architetto professore Fausto Franco, che sviluppò i laboratori di applicazione, la denominazione Scuola di disegno e plastica mutò in Scuola d’arte e mestieri. Dalla scuola uscirono allievi come Ernesto e Giuseppe Scalco che, dopo aver concluso il periodo scolastico, si specializzarono a Roma nell’arte dei cammei, mentre Luciano De Poli, da cesellatore e semplice armaiolo iniziò una brillante carriera nelle scuole della provincia. Scuola primaria all’esordio, poi mista, infine, precisamente dal 1864, serale e festiva Scuola di disegno e plastica per la formazione degli artigiani e degli operai della prima industria: gli artieri. Il termine ottocentesco “artiere” sintetizza felicemente proprio quell’ambiguità fra la componente creativa dell’ “ancora artigiano”, e la componente rigida e alienante del “non ancora operaio”.

Con l’inizio del Novecento la scuola si staccò dall’Accademia Olimpica per acquisire una sua identità. Ancora prima tuttavia, il mondo orafo sentì il bisogno di una maggiore autonomia e nel 1833, con un sollecito provinciale, si richiese alla Camera di Commercio di poter applicare i bolli sugli oggetti d’oro e d’argento direttamente a Vicenza e non più a Padova, dove si trovava l’ufficio garanzia.

Ora nuove prospettive commerciali e culturali avanzarono, grazie soprattutto alle manifestazioni delle fiere che attiravano il grande pubblico che, con lo sviluppo delle reti viarie e ferroviarie, giungeva a Vicenza con maggior facilità e in maggior numero. Verso la fine dell’Ottocento, infatti, cominciarono a primeggiare alcune piccole ma interessanti iniziative e altre mostre nazionali e internazionali dove idea, prodotto e macchinario convivevano nello stesso spazio espositivo.

Ad esempio, a Vicenza, nel 1871, si tenne “l’Esposizione Regionale Veneta”, (articolata in tre sezioni, agricoltura, industria manifatturiera, belle arti e arti industriali) dove uno spazio fu dedicato all’oreficeria e la ditta Navarotto di Vicenza espose alcuni oggetto d’oro “di un merito singolare”. L’importanza di queste piccole rassegne locali andò via via crescendo, ispirandosi a quelle più imponenti e famose di Parigi e Londra che volevano celebrare le meraviglie della tecnologia applicata alla lavorazione dei metalli preziosi.

Grazie alle innovazioni tecnologiche, verso la fine del XIX secolo la maggioranza della popolazione ormai ricercava accessori decorativi da indossare. Per soddisfare questa elevata richiesta grande impiego trovò il similoro, una lega metallica composta da rame, stagno e zinco utilizzata per determinati articoli nei quali si incastonavano una quantità di pietre semipreziose, come l’acquamarina e il crisolito. Conseguentemente aumentarono le fabbriche di bigiotteria già esistenti a Vicenza.

Per tutto il secolo e oltre continuò la produzione di spille, di anelli, di pendenti e di ornamenti per capelli. Gli elementi decorativi che primeggiavano nel gioiello di fine secolo avevano un gusto romantico: cuori, fiori in pietre dure o smalto. Un esempio è la spilla in oro, argento e diamanti, venduta nel Novecento dalla Gioielleria Marangoni, la cui bottega aveva sede sotto le logge della Basilica palladiana, oggi conservata a Vicenza in una collezione privata.

Spilla in oro, argento e diamanti, venduta nel Novecento dalla Gioielleria Marangoni

Il gioiello ha la forma di ramo fiorito con sette piccole foglie tempestate di rose di diamanti, presenta un grande fiore centrale a cinque petali e uno dalle dimensioni leggermente più piccole, sempre a cinque petali. Un modello largamente diffuso all’epoca in tutta Europa. I braccialetti erano un accessorio di gran moda: quello più comune aveva un pannello ovale o circolare contornato dal bracciale a forma di polsiera. Comparvero i bracciali rigidi da polso di cui un esempio interessante è fornito dalla collezione Zambon – Scarpari: un bracciale d’oro decorato con smalti turchesi che rivela le capacità tecniche necessarie per l’avvolgimento dello smalto attorno al filo che decora il centro. La polsiera è rigida e composta da due lastre, una rotondeggiante posata su fondo costituito dall’altra piastra piatta e saldata; una lancia centrale decorata con gli stessi smalti è fissata all’interno del bracciale con una cerniera e al centro si trova uno zircone contornato da incisioni a bulino rigato e mezzotondo.

Il bracciale si chiude a scatto. Intorno alla metà del secolo si diffuse un tipo di gioielleria commemorativa piuttosto tetra che simboleggiava l’amore eterno, conosciuta come hair work: i capelli del defunto venivano intrecciati in cordoncini provvisti di terminazioni in oro ed erano spesso usati spesso come braccialetti, collane o catene da orologi. Un altro bracciale della famiglia Zambon – Scarpari, con chiusura a scatto e placchetta incisa a bulino, ha proprio il nastro tessuto con capelli castani. L’oreficeria vicentina, alla fine del XIX secolo, raggiunse un alto livello qualitativo; la diversificazione degli oggetti e il loro elevato grado di manifattura erano una prova di come l’industria orafa fosse diventata per la città berica l’attività economica trainante e un punto di riferimento nazionale e internazionale. Non è un caso che negli ultimi decenni dell’800 si intensificarono i contatti con le città europee.

Un’esemplare prova di questi scambi di tecnologia è offerto dalla ditta di Luigi Balestra, produttrice di catene sorta nel 1882 a Bassano del Grappa; egli instaurò stretti legami con gli orefici di Pforzheim, città tedesca oggi gemellata con Vicenza, dai quali apprese nuove tecniche giungendo ad adattare le macchine per cucire Singer alla produzione della catena in serie, passando così dalla lavorazione manuale a quella a macchina. Un altro elemento di potenziamento del commercio internazionale fu il fenomeno delle emigrazioni: nella seconda metà dell’Ottocento molti vicentini espatriarono, soprattutto nelle Americhe, tra questi ci furono anche molti orefici che continuarono il loro lavoro nelle nuove nazioni, contribuendo, così, a far conoscere all’estero la produzione orafa della loro città natale. Nell’ultimo decennio dell’800 l’arte orafa, secondo le fonti della Camera di Commercio, si esercitava a Vicenza in otto laboratori.

Tra questi si ricordano quello di Cesare Navarotto, quello di Bortolo Martinelli, di Angelo Marangoni, dei fratelli Trevisan e di Pilade Zanella. La produzione dell’oreficeria sacra dell’Ottocento lascia come esempi più interessanti tra le sue produzioni due opere: la corona e il pettorale della statua della Madonna di Monte Berico, recentemente restaurati da Stefano Soprana, erede della ditta Marangoni.

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Corona della statua della Madonna di Monte Berico

La corona, voluta nel 1899 dai Padri Servi di Maria in occasione del Giubileo, fu opera magistrale dell’orafo Angelo Marangoni, che teneva bottega sotto le logge della Basilica palladiana, in collaborazione con il cesellatore Attilio Tosetti e i gioiellieri Michelon. La sua foggia inusuale sembra trarre ispirazione, nella forma a calotta chiusa scompartita a spicchi impostata su di un diadema arricchito da elementi pendenti a forma di frangia continua, dal Kamelau- kion, un copricapo regale bizantino utilizzato soprattutto dagli uomini.

Alla singolarità della struttura, che offre campo propizio alla profusione di materiali preziosi – 3 chili d’oro, quasi mille pietre preziose, tutte offerte dalla generosità dei fedeli – l’opera abbina la raffinatezza dei partiti decorativi, fedelmente ripresi, secondo uno scoperto richiamo all’identità culturale oltre che religiosa della città, dai massimi capolavori dell’officina sacra vicentina quattro – cinquecentesca, dal reliquiario della Santa Spina al calice di Santa Corona alla splendida croce processionale della Cattedrale.

Analogamente alla corona il ricchissimo pettorale eseguito dallo stesso Marangoni con raro rispetto filologico dei materiali impiegati, attesta ad un tempo la generosità dei vicentini e la storica maestria degli orafi locali. Un recente studio ha consentito di verificare che entrambi gli oggetti sacri sono stati realizzati utilizzando, o meglio inglobando, anche gioielli più antichi tra i molti donati nel tempo alla venerata immagine della Vergine. Alcuni di questi sono di grande pregio e rilevanza storico-artistica, quali l’anello in oro con ametista e diamanti di papa Leone XIII e la croce pettorale in oro, argento diamanti e ametiste del vescovo di Vicenza Zaguri.

Altri invece sono gioielli più poveri e di uso profano, come spille, bottoni e orecchini, ma ugualmente di notevole interesse in quanto offrono un piccolo, inedito repertorio della produzione orafa veneta sette – ottocentesca. Tra gli orefici conosciuti che si occuparono di lavori di oreficeria liturgica spiccò a Vicenza, verso la metà del secolo, Luigi Merlo (1772 – 1850), un personaggio geniale, primo esempio di orafo meccanico, allievo dell’orafo e incisore Giuseppe Dainese. Entrato nelle corporazioni degli orefici vicentini nel 1802, egli seppe unire abilità manuale e ricerca di nuove tecnologie. Merlo associò argento, oro e pietre preziose in una vasta gamma di fini lavori di oreficeria sacra, ma anche in quelli di uso quotidiano. Nei confronti della sua arte orafa gli intellettuali del tempo non si mostrarono molto benevoli.

Per il Rumor come per il Da Schio la sua bigiotteria era pesante. Parlavano di cattivo gusto e di pezzi troppo carichi: non erano che copie di stili e maniere del passato. Ignoravano probabilmente che l’epoca era propizia al ritorno all’antico e che la vera abilità del Merlo stava proprio nell’essere riuscito a unire il moderno con la tradizione. Egli era di fatto al passo con le nuove tendenze dell’arte a livello internazionale: quella più rappresentativa dell’epoca era la riproduzione esatta degli oggetti dell’oreficeria antica, effettuata secondo processi tecnici desunti dall’archeologia. I suoi pezzi di oreficeria richiamano il neogotico, il neorinascimento e il neoclassico.

Sono tabernacoli, candelabri, tabacchiere, zuccheriere, calici in argento dorato, che facevano bella mostra accanto agli oggetti più “mondani”. Sarà però la sua abilità meccanica ad attirare maggiormente l’attenzione: è il primo in tutte le Venezie a comprare, adattare, costruire e utilizzare macchine per l’oreficeria. Ed è grazie a questo merito che nel giugno del 1825 venne sollecitato dalla Camera di Commercio a partecipare al concorso organizzato a Vicenza al fine di premiare gli inventori: vincerà nel 1831 la medaglia d’argento grazie al suo otturatore per bottiglie. La sua genialità meccanica e le sue applicazioni pratiche nel settore orafo fecero di lui uno dei più importanti orafi meccanici del suo periodo, i cui lavori girarono in tutta Europa. Il passaggio tra Ottocento e Novecento è caratterizzato da uno sviluppo industriale che produsse profondi mutamenti nel panorama orafo vicentino. Iniziò in città un processo che, negli anni precedenti la prima guerra mondiale, fece segnare notevoli avanzamenti sia di carattere tecnico che commerciale.

Dalla tesi di laurea di Anna Milan “Dalla Fiera al Museo dell’oro: oreficeria e gioielleria a Vicenza” pubblicata a puntate su Storie Vicentine n. 10 settembre-ottobre 2022


In uscita il numero di Giugno 2023
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