mercoledì, Agosto 20, 2025

La sofferenza è un valore?

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(Articolo di Padre Gino Alberto Faccioli sulla sofferenza da VicenzaPiù Viva n. 300, sul web per gli abbonati).

Nella Passione Cristo non sopprime il dolore, ma lo spoglia del suo carattere punitivo. Una riflessione teologica quando tra guerre, malattie e povertà la sofferenza diventa quotidianità disumanizzante.

La sofferenza è un’esperienza umana, che da sempre accompagna l’uomo e per questo la si può considerare come fondamentale. Essa interpella l’uomo ai vari piani della conoscenza: psicologico, filosofico, religioso.
La sofferenza è per l’uomo, in primo luogo, un’esperienza forte e diretta, prima che un tema o un problema interessante.
Molteplici sono le forme e i gradi di questa esperienza e si presentano numerosi e vari a tutti i livelli: spirituale, psichico, somatico. E ognuna di queste forme si moltiplica, se teniamo conto che il soggetto soffre, oltre alle sue proprie pene, quelle delle altre persone che gli sono care o vicine e i patimenti del piccolo o grande gruppo in cui è incorporato e dell’umanità.
Alcune volte la sofferenza è un’esperienza negativa accidentale nella vita di una persona o di una collettività. Altre volte si stabilizza come sensazione prevalente di un’intera esistenza o della storia in vari settori.

Salvifici doloris
Salvifici doloris

«La sofferenza umana, scrive san Giovanni Paolo II nella Salvifici doloris, costituisce in se stessa quasi uno specifico mondo che esiste insieme all’uomo, che appare in lui e passa, e a volte non passa, ma in lui si convalida e approfondisce. Questo mondo della sofferenza, diviso in molti, in numerosissimi soggetti, esiste quasi nella dispersione. Ogni uomo, mediante la sua personale sofferenza, costituisce non solo una piccola parte del mondo, ma al tempo stesso quel mondo è in lui come una entità finita e irripetibile. Di pari passo con ciò, va, tuttavia, la dimensione interumana e sociale. Il mondo della sofferenza possiede quasi una sua propria compattezza» (Salvifici doloris, 8). Molte e varie sono le cause e le manifestazioni della sofferenza: il clima, la fame e la povertà, le malattie, la morte; contrasti con caratteri difficili; offese e disprezzo: da parte di nemici o di persone indifferenti, come pure ingratitudine, sfrontatezza, perfidia, persecuzioni, calunnie; pene spirituali: tentazioni, scrupoli, persecuzioni del demonio, incomprensioni, aridità spirituali. A queste sofferenze che si possono definire comuni, che possono, cioè, capitare a chiunque, si devono aggiungere quelle derivanti dal proprio stato di vita, ad esempio il matrimonio, lo stato religioso o la convivenza con persone che soffrono di queste stesse pene: amici, familiari o dipendenti. Oltre a tutte queste cause elencate, esiste la paura di soffrire nel futuro, che moltiplica e aggrava in modo indefinito il dolore dell’uomo, e questo in ogni momento.
La sofferenza implica: il sentimento di un dolore, il danno o male che apporta al soggetto, la ripugnanza della volontà e la sua possibile accettazione, l’interpretazione positiva o negativa della stessa, la reazione con cui la si evita o la si integra.

Gesù Cristo

Da sempre il “problema” sofferenza ha spinto l’uomo a darsi delle risposte, anche l’autore del libro della Genesi si è posto la domanda del perché della sofferenza, del dolore, dove questa ha origine. La risposta che si è dato è che la sofferenza, che non era parte del disegno originario di Dio, ha origine con il peccato delle origini, dove la prima umanità
(Adamo ed Eva) ha dato ascolto alle parole del demonio e non a quelle di Dio.
Peccato, dunque, come causa della sofferenza, e questo era un comune modo di pensare, che tuttavia Gesù non accetta, soprattutto quando la sofferenza va a toccare “l’innocente”: «I suoi discepoli lo interrogarono: “Rabbì, chi ha peccato, lui o i suoi genitori, perché sia nato cieco?”. Rispose Gesù: “Né lui ha peccato né i suoi genitori, ma è perché in lui siano manifestate le opere di Dio”» (Gv 9,2-3). La sofferenza offre a Dio, afferma Gesù, un’occasione per manifestare la sua misericordia operando la redenzione per suo mezzo, premiando sempre colui che soffre, liberandolo qualche volta. Meglio ancora con le parole, Gesù illustra il mistero della sofferenza con l’esempio della sua vita.

 Peccato originale e cacciata dal paradiso terrestre, Michelangelo Buonarroti - Cappella Sistina
Peccato originale e cacciata dal paradiso terrestre, Michelangelo Buonarroti – Cappella Sistina

Senso cristiano

Cristo non elimina la sofferenza ma la porta al massimo del suo realismo umano e divino allo stesso tempo. Nella passione di Gesù si incontrano e si contrastano nel modo più intimo il piano salvifico di Dio e la libertà malvagia degli uomini così Cristo non sopprime il dolore, ma lo spoglia del suo carattere punitivo, quale pura conseguenza del peccato. Come la passione di Gesù redime, ma non elimina il dolore, così il senso cristiano redime il non senso, ma non elimina il problema della sofferenza umana.
Oggi la sofferenza è guardata con timore anche dai cristiani. Le origini di questa
deviazione sono: 1. la perdita del sentimento del peccato e delle sue cattive conseguenze permanenti nell’uomo; 2. l’ottimismo esagerato e la fiducia della natura umana, fondata sui progressi della scienza ogni giorno maggiori; 3. la scoperta dell’importanza della risurrezione di Cristo nel mistero del cristiano che in generale fa dimenticare o trascendere gli altri aspetti altrettanto importanti del ministero.
L’elemento formale della sofferenza è la volontà umana, che reagisce accettando o rifiutando. L’elemento cristiano è, oltre la volontà rassegnata, la visione di fede che riesce a inquadrare la sofferenza nel mistero della redenzione. La distinzione tra volontario involontario riferito alla sofferenza prende un duplice aspetto. Volontario, infatti, può significare un dolore deliberatamente cercato, per esempio quello della contrizione della mortificazione veramente scelto appunto; involontario: in questo caso significa
un dolore che sopravviene indipendentemente dalla nostra volontà, come le malattie. Volontaria è anche la sofferenza nel caso in cui si accetti liberamente un dolore che sopravviene, si è cercato da noi, si è aggiunto da sé.

L’accettazione del dolore fisico o morale comporta un obbligo per la vita cristiana nella misura in cui esso è necessario per compiere i propri impegni cristiani vocazionali. Chi trova il dolore sulla propria strada, deve saperlo assumere e integrarlo nella fede, nell’amore e nella speranza ognuno di questi atteggiamenti fondamentali imprime un senso speciale un impulso originale nell’esperienza della sofferenza umana. Il dolore di cui si occupa la spiritualità è lo stesso che analizzano e cercano di curare la medicina e la psicologia, la psichiatria. Il fatto di dare un senso al dolore va accompagnato dal legittimo desiderio e dallo sforzo per porvi rimedio.
Tolta quindi la falsa speranza di eliminare la sofferenza coi mezzi tecnici della nostra civiltà, la chiesa affronta con apertura da decenni i progressi morali connessi con l’analgesia. È stata la carità cristiana la forza più viva nella storia nella lotta contro la sofferenza allo stesso punto che predicava allo stesso tempo la speranza.

Frutti della sofferenza

La sofferenza è diventata una componente inseparabile della condizione della vita dell’uomo, del cristiano. Anche qui vale il principio teologico teologale: comprendere nella fede, accogliere nell’amore, agire nella speranza. L’utilità della sofferenza si dimostra in tante forme e occasioni, come fattore di crescita, particolarmente in due momenti: all’inizio del cammino verso Dio come elemento di conversione di purificazione, e nelle fasi più avanzate in cui diventa decisiva nel rendere più profonda l’intimità divina.
Quanto più la volontà interviene per accettare la sofferenza, tantomeno si soffre, perché il dolore è ciò che contraddice le nostre tendenze e, se la volontà vi si adatta, esso contraddice soltanto le tendenze inferiori. Al contrario, quanto maggiore sarà la volontà, tanto maggiori saranno i meriti e migliori gli effetti, perché essi dipendono dalla sottomissione della volontà alla grazia. Arriviamo quasi alla relazione inversa: trattandosi di una sofferenza concreta, essa è tanto più meritoria è valida quanto più soave e tollerabile, cioè meno dolorosa. L’importante è, dunque, non quanto si soffre, ma come si soffre: con pazienza, con generosità, con allegria. Non è desiderio di soffrire per soffrire, che sarebbe una un’aberrazione psichica, ma la convinzione e, forse, l’esperienza che eleva Dio e attua le relazioni di carità con lui.

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