martedì, Giugno 17, 2025

Iran, La Fortezza “Dubbi su regime change, il rischio è di creare una voragine regionale”

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ROMA (ITALPRESS) – L’operazione israeliana “Rising Lion”, lanciata il 13 giugno contro l’Iran per bloccare, nelle intenzioni di Tel Aviv, lo sviluppo dell’arma atomica e l’arsenale missilistico iraniano, sembra avere come obiettivo quello di destabilizzare il regime degli ayatollah, scopo condiviso con Washington.

Tuttavia, non è chiaro se vi siano effettivamente le condizioni per un “regime change” in Iran e qualora avvenisse il rischio è di creare una voragine al centro di una regione fondamentale per le dinamiche securitarie globali con conseguenze al momento assolutamente non prevedibili, ma potenzialmente devastanti. Lo ha dichiarato Roberta La Fortezza, ricercatrice dell’Università di Siena, in un’intervista all’Italpress.

Quanto l’obiettivo di destabilizzare il regime iraniano sia concretamente raggiungibile “è difficile da dire e certamente il suo perseguimento potrebbe richiedere una guerra lunga e di ampia portata”, secondo l’esperta. Nonostante parte della popolazione non supporti il regime degli ayatollah guidato dalla guida suprema Ali Khamenei, non è automatico che approvi l’azione di Israele. Senza contare che non esiste in Iran un’opposizione organizzata e le armi rimangono nelle mani degli apparati statali.

“La maggior parte delle proteste per la morte di Mahsa Amini, utilizzate come emblema dell’opposizione interna al regime, sono state portate avanti soprattutto delle minoranze, in particolare di origine curda. Certamente hanno coinvolto anche la popolazione di Teheran; sebbene quelle proteste siano esplicative di sentimenti di opposizione al regime repressivo, esse non sono esplicative totalmente della postura della popolazione iraniana nel suo complesso”, ha affermato l’esperta di Medio Oriente.

L’analista si sofferma anche sull’assenza di un’opposizione politica che non rende immediato un primo passo per destituire eventualmente la Repubblica islamica. “La mancanza di una vera e propria opposizione politica (ma anche socialmente organizzata) in Iran significa la mancanza di un centro intorno al quale le eventuali istanze rivoluzionarie rispetto all’attuale leadership possano andare a condensarsi con speranze di successo”, ha dichiarato La Fortezza, che ha sottolineato come “le armi restino poi in mano agli apparti militari, non registrandosi nel paese gruppi paramilitari con capacità e mezzi tali da poter effettivamente porre una sfida” per gli apparati militari e di sicurezza.

“Pertanto, immaginare una rivoluzione del popolo che non coinvolga almeno una parte degli apparti militari risulta molto difficile al momento. In più, sebbene i sentimenti della popolazione iraniana siano certamente in ampie fasce della popolazione avversi alla leadership, non sono certamente meno contrari a Israele, tanto più dopo questa guerra“, ha affermato l’esperta. A incidere sul sentimento anti-israeliano degli iraniani che non amano il regime anche il momento in cui Israele ha attaccato, ovvero esattamente 61 giorni dopo l’inizio dei negoziati indiretti tra Stati Uniti e Iran, mediati dall’Oman, su un possibile nuovo accordo sul nucleare iraniano, dopo l’uscita unilaterale di Washington dall’accordo del 2015 annunciata dal presidente americano nel 2018.

 “Da un lato Israele ha attaccato l’Iran in una fase in cui Teheran pubblicamente aveva dimostrato di voler negoziare, dando alla leadership iraniana la possibilità di posizionarsi sul fronte della vittima: non a caso i rappresentanti iraniani hanno sostenuto l’attivazione dell’art. 51 della Carta delle Nazioni Unite – ha affermato La Fortezza -. Dall’altro, a partire dal 14 giugno i bombardamenti israeliani hanno interessato anche le infrastrutture energetiche critiche dell’Iran, le istituzioni del regime, nonché altri obiettivi nevralgici come la TV di stato iraniana durante la diretta, con impatto crescente sulle aree civili e sulla popolazione“.

L’esperta ha sottolineato che “sebbene nella strategia di Israele questo dovrebbe spingere la popolazione iraniana a ribellarsi al regime, è altrettanto vero che tali azioni possano verosimilmente spingere la popolazione a compattarsi intorno alle istituzioni considerate le sole in grado di resistere contro Israele e gli Usa”. In un contesto totalmente diverso, la guerra tra Iraq e Iran dal 1980 al 1988 “contribuì a consolidare il sostegno popolare al nuovo regime degli ayatollah e al nuovo modello di governo iraniano” nato dopo la rivoluzione khomeinista del 1979. Oggi, dopo 46 anni di regime degli ayatollah e con decenni di sanzioni, lo scenario è certamente diverso. Oggi, però, “da un lato non possono cancellarsi dall’immaginario collettivo le immagini della distruzione di Gaza, con ciò evidenziando le conseguenze delle operazioni israeliane; dall’altro anche gli Stati Uniti e l’Occidente detengono pochi crediti agli occhi della popolazione iraniana – ha aggiunto l’analista -. Ogni volta che nel corso della storia recente sono giunti alla presidenza iraniana candidati riformisti, che dunque avrebbero potuto portare seppur minimi cambiamenti nella vita interna del Paese, l’Occidente ha contribuito, seppur indirettamente, ad affossare le loro esperienze: Mohammad Khatami a cavallo tra la fine degli anni Novanta e il Duemila, e soprattutto Hassan Rouhani sulla cui presidenza ha avuto un impatto fondamentale la decisione dell’amministrazione Trump di uscire unilateralmente dall’accordo sul nucleare”.

Per queste ragioni “non è chiaro, dunque, al momento se vi siano effettivamente le condizioni per un regime change in Iran, ma certamente non sarà un obiettivo così semplice da ottenere. E anche qualora lo si dovesse ottenere si aprire un altro capitolo della storia mondiale non meno carico di incognite: il rischio è di creare una voragine al centro di una regione fondamentale per le dinamiche securitarie globali con conseguenze al momento assolutamente non prevedibili ma potenzialmente devastanti”.

Lo scenario dell’immediato futuro rimane fluido, ma certamente le capacità militari dell’Iran sono state indebolite.L’attacco di Israele ha impattato considerevolmente sulle difese aeree iraniane, lasciando il paese estremamente più vulnerabile”, ha affermato La Fortezza. Israele ha colpito diverse componenti essenziali dei sistemi di difesa iraniani, tra cui un radar di allerta precoce nella zona di difesa area occidentale e diverse basi missilistiche, in particolare quelle nella provincia di Kermanshah e le basi di Amand e quella a sud-ovest di Tabriz.

“La prima fase dell’attacco israeliano, dunque, come generalmente avviene, ha cercato di degradare le capacità difensive iraniane in modo da poter penetrare sempre più in profondità in maggiore sicurezza, come infatti poi accaduto con gli attacchi su Teheran”, ha detto l’analista. Secondo le stime israeliane, nell’arsenale militare iraniano vi sarebbero stati circa 2000 missili balistici prima del 13 giugno.

Però “non è chiaro al momento quali siano stati effettivamente i danni causati alla dotazione missilistica di Teheran”, ha aggiunto. “La potenza militare iraniana risulta quindi particolarmente indebolita sul fronte della difesa, oltre che certamente anche sulla logistica: come hanno dichiarato alcune fonti delle stesse Guardie della rivoluzione iraniane (Irgc), gli attacchi israeliani hanno reso difficile spostare rapidamente i missili dai depositi e posizionarli sulle piattaforme di lancio; non è invece possibile dire con certezza quale sia ancora il potenziale offensivo dell’Iran in termini di potenza missilistica. Resta poi tutto l’arsenale di droni, i quali potrebbero essere utilizzati per saturare il sistema Iron Dome e costringere Israele a un uso massiccio dei missili intercettori”, ha concluso.

-Foto staff La Fortezza-
(ITALPRESS).

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