Storie Vicentine ci racconta un conte illustre dell’Ottocento: Giovanni Da Schio. Nella foto di apertura: Giovanni da Schio, nato a Vicenza nel 1798 dal conte Lodovico e da Maria Anguissola e morto a Schio nel 1868, fu il rampollo di una famiglia vicentina di antica nobiltà e una figura poliedrica di erudito. In gioventù, dopo aver interrotto gli studi, viaggiò in Italia, Francia e Germania: “scopo di questi suoi viaggi, condotti con l’intendimento di perfezionare la sua educazione, fu la conoscenza dei diversi costumi dei popoli, lo studio degli antichi monumenti e la brama soprattutto di trarre dagli archivi e dalle biblioteche nostrali e straniere quanto potesse concernere la storia di Vicenza”, così lo ritrae Bernardo
Morsolin nella sua necrologia.
Il conte Giovanni Da Schio si dedicò a interessi eterogenei: dalla pedagogia all’archeologia, alla letteratura. L’illustre vicentino fu autore di saggi, di poesie, di novelle, di sermoni e di zibaldoni di viaggio, di scritti di archeologia. Pubblicò numerose opere, la più famosa e importante delle quali è le “Persone Memorabili di Vicenza”, ventidue volumi, che qualcuno definì una vera “enciclopedia vicentina”. Il Morsolin gli attribuisce una “Cronaca di Vicenza dal 900 al 1860”, in sei volumi, corredata di tavole genealogiche, di stemmi, di ritratti, di vedute e di rare notizie intorno ai principî e alle origini”. Ma in maniera particolare egli era appassionato di archeologia, di storia del territorio vicentino, del dialetto e dei costumi vicentini. Non ometteva di pubblicare ciò che giovasse alla storia o alle belle arti in generale in modo particolare se riguardava Vicenza “anche se non ci entrasse che di straforo”, come afferma il figlio Almerico in un ricordo postumo.
Nel 1836 il conte Giovanni si accasò sposando Maria Calvi dalla quale ebbe due figli: Almerigo e Alvise. Si stabilì in territorio vicentino dove, oltre al palazzo in città, chiamato per il suo stile architettonico Ca’ d’Oro, visse nei possedimenti di famiglia tra Schio e Costozza. Nel paese di Costozza “lo Schio godeva tranquilla dimora e frequenti compiacenze”, possedeva le tre splendide ville adagiate a livelli diversi sulle propaggini del monte e comunicanti direttamente con le vicine grotte. Una di queste dimore, il villino che era appartenuto in origine ai conti Garzadori, in parte scavato nella viva roccia, aveva ospitato nel 1600 lo studio di Orazio Marinali, uno degli scultori più celebri del nostro territorio; la sua bottega fu tra le più importanti del secolo.
A Costozza l’attività lapidea rimase molto attiva per tutto l’Ottocento; in paese venivano trasportati i massi provenienti anche dalle cave dislocate nella parte più alta dei colli, fino a Villabalzana, e confluivano nella piazza di Costozza su carri trainati dai buoi con le ruote legate da catene, per percorrere la pericolosissima discesa della Brutta Riva di Lumignano. Il conte Giovanni ebbe senz’altro stretti contatti con le botteghe degli scalpellini e poté ammirare il frutto del loro lavoro manuale. Allo stesso tempo, con la passione dell’archeologo, dedicava il suo interesse alle pietre dell’antichità, a quelle lapidi incise nella notte dei tempi, alcune in lingua paleoveneta, che vennero reperite proprio a Costozza e nei dintorni. Si dedicò allo studio di quei reperti di straordinaria importanza, che rappresentavano, come affermava egli stesso, ciò che è conservato “a dispetto del tempo e dell’ignoranza, che molto distrusse e seppellì, seppellisce e distrugge”. Nel 1825 il da Schio comperò dalla famiglia Leoni di Padova l’Eremo di San Cassiano a Lumignano, altro sito nei Colli Berici impregnato di memorie storiche, la cui antichità era testimoniata dalla presenza di tombe e iscrizioni rupestri che il da Schio ascriveva alla civiltà etrusca. Nel corso dell’Ottocento fu vivo l’interesse degli eruditi per le lapidi antiche. Parecchi studiosi vicentini si erano cimentati prima di allora nello studio e nella catalogazione dei reperti lapidei (tra i quali il Castellini, il Marzari, il Barbarano). Anche Gaetano Maccà nella sua monumentale Storia del territorio vicentino in 14 tomi, riportò la trascrizione di numerose reliquie lapidee, connesse per lo più con i luoghi di culto, ed inoltre pubblicò nel 1811 una “Raccolta delle iscrizioni Sacre gentilesche della città e del Territorio di Vicenza spiegate e con note illustrate”. Altro valente collezionista di testimonianze epigrafiche lapidee e studioso della storia di Vicenza fu il conte Arnaldo Arnaldi Tornieri, letterato e poeta vicentino vissuto nel secondo Settecento. Secondo l’opinione del da Schio, che era tenuta in grande considerazione, il Tornieri sarebbe stato l’autore della “migliore opera di tutti i suoi predecessori concittadini in cotal genere di studi”.
Egli ebbe il merito di aver raccolto un buon numero di lapidi della città e del territorio di Vicenza, formando un lapidarium che fu un importante punto di riferimento per gli storici; compose un trattato corredato da fac-simili e disegni che dovevano confluire in un’opera sull’argomento, rimasta tuttavia incompiuta a causa della sopravvenuta sua cecità. “Il manoscritto autografo portante il titolo: Raccolta di lapidi antiche possedute e spiegate dal Co. Arnaldo I Tornieri negli anni 1796-97-98 pervenne in eredità al nobile Co. Marco Orgian, nella cui casa furono innalzate le lapidi” e successivamente passò nelle raccolte della Biblioteca Bertoliana. Il da Schio, che godeva di ottima reputazione negli ambienti culturali, ebbe modo di confrontarsi con altri eruditi del suo tempo dediti allo studio delle lapidi antiche. In particolare con il professore prussiano Theodor Mommsen, celebre autorità in materia, che stimò opportuno venire ben due volte a Vicenza da Berlino per esaminare le iscrizioni vicentine e consultare i manoscritti in Bertoliana. “Dopo le romane, rarissime sono in Vicenza e nella provincia le iscrizioni conservate sulle lapidi o per iscritto, che contino un’epoca anteriore al secolo XIII” così si esprimeva al riguardo l’Accademia Olimpica nei suoi Atti nel 1872. All’inizio dell’Ottocento le soppressioni napoleoniche coinvolsero tante chiese e monasteri, parecchi dei quali furono poi distrutti o convertiti a uso diverso, e così ebbe luogo la conseguente dispersione di tante lapidi, lastre tombali o monumenti che sarebbero risultati preziosi per la storia. Il conte Giovanni nella prima metà dell’Ottocento andò raccogliendo, studiando e catalogando una parte del patrimonio lapideo che era stato rinvenuto in Vicenza e nel suo circondario e che egli intendeva salvare dall’incuria e dalla dispersione. Mise insieme una collezione archeologica ed epigrafica comprendente, tra l’altro, anfore vinarie e olearie, epigrafi, pietre miliari ed un sarcofago. Questo straordinario esempio di Lapidarium, venne collocato nell’atrio e nel cortile del Palazzo di famiglia in Vicenza. Altre lapidi da lui raccolte furono sistemate nella vicina chiesa di Santa Corona. Nel 1850 il conte dette alle stampe il frutto del suo lavoro: una pubblicazione intitolata Le antiche iscrizioni che furono trovate in Vicenza e che vi sono illustrate per opera di Giovanni da Schio corredato da erudite disquisizione e da disegni particolareggiati. In tale opera, che gli procurò le lodi di insigni archeologi, trascrisse e commentò alcune iscrizioni paleovenete, oltre che latine e cristiane. Il trattato prendeva in esame 93 monumenti, corredati da 21 litografie. Di particolare importanza sono le rare scritte in paleoveneto, che il da Schio definiva “le iscrizioni etrusche fino ad ora comparse in quel lato di territorio che chiamasi della Riviera” (ovvero quelle incise o reperite nell’area berica: negli scogli di San Cassiano, a Lumignano, e presso le grotte di Costozza). Proprio in quegli anni era stato dato alle stampe un corposo trattato relativo all’area patavina ed euganea: “Le antiche lapidi patavine illustrate” di Giuseppe Furlanetto – Padova 1847, i cui rinvenimenti più arcaici denotavano caratteristiche in comune con l’area berica. In tale opera viene menzionata, per la sua importanza, anche un’iscrizione rupestre presso il Covolo della Guerra a Costozza in questi termini: “iscrizione trovata nel 1837 all’ingresso di una cava dei Monti Berici a Costozza, a sinistra di chi entra, incisa nel vivo sasso, che poi segata fu trasferita in Vicenza presso il sig. co. Gio. da Schio proprietario di quella cava”. In effetti il conte aveva fatto segare il masso recante quell’antichissima iscrizione per trasportarlo in città ed esporlo nel suo lapidarium. Al giorno d’oggi quell’atto di snaturamento ambientale può sembrare brutale, ma fu provvidenziale per la salvaguardia del reperto, considerato il successivo e indiscriminato sfruttamento industriale delle cave e le vicissitudini che infierirono sulla grotta in epoca moderna, specialmente durante la seconda guerra mondiale, con lo smantellamento del suo contesto originario.
Questa scritta paleoveneta, un tempo posta a suggellare l’ingresso della più grande grotta di Costozza, è certamente uno degli esemplari più importanti del lapidarium e comprova che l’utilizzo del Covoli risale alla notte dei tempi, con la sicura frequentazione del luogo già in epoca pre-romana. Il conte Giovanni, proprietario della grotta, così la descrive: “Dietro la chiesa di Costozza havvi il tra noi celebre Covalo detto della Guerra, che si interna cinquecento metri entro la collina. Questo ha due bocche di fronte che convergono in un solo speco. Sulla bocca sinistra a chi guarda, e sull’imposta pure sinistra di chi entra, fu trovata la presente iscrizione la quale, segata fuori dallo scoglio, è nelle porte di Casa Schio in Vicenza”. Quindi cercò di interpretare il significato della scritta azzardando ipotesi piuttosto fantasiose, peraltro ammettendo il largo margine di dubbio nel dichiarare: “io non dirò cosa sicura”. L’iscrizione, a suo parere, poteva leggersi “HAPRETUSO” ovvero, con inversione di lettura, “OS APRETU” ossia “OS APERTUM”. Il conte afferma: “mi aiutava in ciò una tradizione popolare che sostiene il Covalo su cui essa leggevasi avere un dì trapassato la collina fuori fuori”. Come a dire che il monte fosse aperto in quel foro e trapassato dalle gallerie che da esso si dipartivano, proseguendo la traiettoria nel ventre dei Colli che contornano il bacino lacustre di Fimon, fino a sbucare nel versante dei Berici a ovest, nel territorio di Brendola. Altra ipotesi formulata dal conte era che nella lingua etrusca il frumento fosse chiamato “Pure” e che l’incisione fosse da intendere “HA PURE TUSO”, ovvero che indicasse che lì si custodivano le granaglie (traendo Costozza il proprio nome da “custodiae”). Egli ammette peraltro che le sue supposizioni sono senza riferimenti certi e, pertanto, non definitive, concludendo: “io abbandono alle indagini future”. Sempre nello stesso volume, per quanto riguarda la città di Vicenza il da Schio ipotizzava che traesse origini dagli etruschi, a loro volta cacciati dai Galli, e che il suo nome derivasse da “Vico”, con il significato di piccolo paese, o da “Vica” dea della Vittoria”. A distanza di oltre centosettanta anni dalla pubblicazione del libro del conte da Schio il mistero dell’iscrizione di Costozza resta irrisolto. Di certo la scritta va letta da destra verso sinistra. Qualche studioso dei giorni nostri ritiene che non tutti i caratteri siano etruschi, ma potrebbe trattarsi di alfabeto retico. La scritta potrebbe essere stata riportata in maniera inesatta nel volume. Assumendo che la lettera poco leggibile sia una A, qualcuno si sbilancia ad azzardare VAPREVUMTH, oppure in venetico VOPRE- TUMO. Ma potrebbe trattarsi anche non di un’unica parola, bensì di un nome abbreviato come si usava in un’epigrafe. Nel suo libro il da Schio pubblica una pianta del celebre Covolo della Guerra, ma l’area che illustra è solo parziale perché, se confrontata con una mappa redatta nel 1759 per il conte Ottavio Trento, che ne fu il precedente proprietario, si evince chiaramente che le gallerie proseguivano dopo un largo bacino d’acqua, che veniva chiamato “lago” o “stagno”.
In effetti, dopo essere stata sfruttata in epoca romana e nei secoli successivi con la continua estrazione della pietra tenera, la grotta si era progressivamente ampliata fino a diventare un labirinto talmente esteso di gallerie, anche su più livelli, da reputarsi fra i più grandiosi in Italia. Parecchi scrittori antichi hanno scritto sul Covolo di Costozza, facendo le ipotesi più variegate sulla sua grandezza (da Marzari a Giangiorgio Trissino, allo Scamozzi e altri) ipotizzando taluni una lunghezza di parecchie miglia, arrivando ad attraversare i Colli Berici fino a Brendola (notizia riportata dallo Scamozzi) come voleva una tradizione popolare. La convinzione che il Covolo si estendesse fino a Brendola, come tramandava un’antica tradizione, era radicata nei Conti da Schio al punto che Almerico, figlio di Giovanni, volle provare a verificarne di persona il percorso. Egli riteneva, come diceva la credenza popolare, che la galleria sbucasse in una grotta comunicante con la cantina di Villa de Cita- Valmarana a San Vito di Brendola (Villa conosciuta anche col nome di Corte Grande Benedettina, in quanto già monastero e antica possessione dei Benedettini di San Felice a Vicenza). Cosicché, proprio da lì, tentò di imboccare il percorso inverso che doveva attraversare le viscere dei colli fino a Costozza. Lo storico Morsolin riporta la singolare impresa nelle sue memorie storiche del 1879: “Antica è senza dubbio la Corte, un tempo de’ Cita, situata a mattina della chiesa di Brendola e propriamente a’ piè del colle di San Vito, e vuolsi ammirare più per l’ampiezza dell’edifizio, che per l’ordine e l’euritmia delle forme. In un sotterraneo, o cantina, si inoltra una grotta, tuttora inesplorata, cui la tradizione vuole in comunicazione col Covolo di Costozza. Corre nel popolo la fama che una scroffa, smarritosi in questo, mettesse capo, dopo qualche tempo, all’imboccatura della grotta. Esplorata nel 1878 da una mano di valorosi alpinisti vicentini, guidati dal Conte Almerico da Schio, non lasciò, umida, scoscesa e angusta, qual è, a breve tratto dall’ingresso, che si potesse argomentare quanto v’abbia di vero in quell’antica tradizione”. In aggiunta alle “Iscrizioni antiche” Giovanni da Schio aveva in animo di pubblicare un libro intitolato “Dei monumenti anepigrafici” i quali, come si esprime il nobile autore non sono nè pochi nè di lieve importanza”; parecchie altre opere rimasero inedite. Giovanni da Schio fu veramente un benemerito cultore delle antichità patrie e cittadine. “Intese sempre a salvare dalla distruzione e dalla dimenticanza ciò che fa onore a Vicen- za”. Oltre che genealogista, fu archeologo, letterato e collezionista (non solo per la raccolta epigrafica museale ma anche per quella di stampe antiche che possedeva). Il Conte Giovanni è una figura di erudito di vecchio stampo, a tutto tondo, i cui suoi numerosi scritti, in parte anche inediti, meriterebbero maggiore approfondimento e divulgazione. Il palazzo da Schio in Corso Palladio fu purtroppo ridotto parzialmente in macerie durante il bombardamento aereo del 1944; tuttavia, fortunatamente, la zona che ospita la preziosa raccolta rimase indenne. Nell’atrio d’ingresso della splendida Cà d’Oro, fedelmente ricostruita nel dopoguerra, sono tuttora presenti i reperti di vario genere raccolti dal conte Giovanni durante la prima metà del XIX secolo. Sono una parte preziosa del patrimonio culturale della città di Vicenza che possiamo tuttora ammirare; reliquie che affondano le loro radici nei millenni passati. A fare bella mostra di sé, imponente per la sua mole massiccia e oscura, è l’iscrizione un tempo incisa all’entrata del Covolo di Costozza, con quella scritta che conserva intatto il suo mistero, come pure resta sepolta nella notte dei tempi gran parte della storia della grotta e la sua planimetria, che forse solo una scrofa aveva conosciuto.
Di Luciano Cestonaro da Storie Vicentine n. 12- 2023.