(Articolo di Aristide Malnati e Virginia Reniero su Giulietta e Romeo da Vicenza PiùViva n. 295, sul web per gli abbonati ora anche il numero di 296 di marzo, acquistabile in edicola in versione cartacea).
Montorso e Montecchio Vicentino hanno fatto da sfondo all’Historia novellamente ritrovata di Luigi Da Porto, a cui si è ispirato Shakespeare per il suo Romeo and Juliet.
Uno scrittore, un brillante uomo di cultura e la sua Terra. Pregnante, sorprendentemente intenso è stato il legame, quasi un cordone ombelicale, che ha unito Luigi Da Porto (Vicenza, 10 ottobre 1485 – Vicenza, 10 maggio 1529) alla Terra che lo partorì e che fece da sfondo alla sua rigorosa narrazione da storico e alla sua sontuosa prosa novellistica.
Nacque e mosse i primi passi, maturò le prime esperienze a Vicenza, in ambiente altoborghese di una cittadina di buon tenore di vita e di forte tessuto culturale, politicamente sotto Venezia, ma con la Serenissima capace di rivaleggiare in importanti attività commerciali, ad iniziare dal settore manifatturiero.
In questo clima fervido Da Porto mosse i primi passi, irrobustendo poi la propria cultura grazie a un lungo soggiorno presso la corte dei Montefeltro, a Palazzo Ducale di Urbino, dove fu a stretto contatto con Pietro Bembo e conobbe mostri sacri della letteratura e dell’arte, ad iniziare dal giovane Raffaello. Ma la sua indole era ribelle, romantica e
ribelle. Potentemente attratto dalle armi, intese come possibilità di imprese eroiche per conoscere nuovi territori e per narrarne i meccanismi che li regolavano, ma anche per ambientare potenti quadri di sentimenti umani, per lo più tragici, iniziò le sue imprese militari nella zona di frontiera dell’attuale Friuli (1510-1511). Iniziò e subito finì, ferito in modo invalidante da un colpo di spada al collo, da cui uscì fortemente menomato.
Una parziale paralisi, che se ne bloccò gli impeti fisici ne scatenò e ne irrobustì, se ce ne fosse stato bisogno, creatività e fantasia narrativa.
Si scelse un buen ritiro che ancora oggi, quando lo visitiamo, sprigiona attrattiva, quasi come calamita potente. Il suo palazzo di Montorso Vicentino offre un panorama a perdita d’occhio sulla campagna e pianura circostante, una sorta di micro habitat che per Da Porto fu coestensivo del mondo, di cui la sua fervida mente poteva cibarsi. Fu proprio perché agevolato da ciò che ammirava al mattino dal suo ampio salone aperto sulla vastità del paesaggio, che l’ancor giovane Luigi spaziò partorendo una delle liaison letterarie più famose della storia umana. Fu nei vicini castelli di Montecchio Vicentino che egli immaginò la contorta e drammatica vicenda di Giulietta e Romeo, che poi il genio di Shakespeare eternò facendola diventare leggendaria. Ma l’incipit, la scaturigine nacque qui, in queste terre aperte, fredde ma spesso soleggiate, teatro inconsapevole del dramma d’amore più celebre della letteratura.

È dunque interessante, e foriero di spunti di storia locale non così conosciuti, avventurarci nella conoscenza delle due località che hanno fatto da teatro alle creazioni letterarie e alle indagini storiche di tanto erudito novellatore. Montorso Vicentino, centro vivace della Valle del Chiampo, presenta monumenti antichi che ne rivelano un ricco passato, tra la cronaca locale, diremmo oggi, ed eventi epocali. Montorso, l’antico “oppidum” romano Monte di Ursio, si formò poco dopo l’anno mille attorno a un massiccio maniero feudale, la rocca sul colle Fratta.
Fu quello per circa 200 anni il punto di riferimento della comunità, fino a quando Ezzelino III da Romano, detto “Il Terribile” (condottiero e signore della Marca trevigiana), la cinse d’assedio (1236) e la rase al suolo (1241). Il paese passò nel 1266 sotto il potentato di Padova, che riedificò il castello in tutta la sua maestosità, fino a quando il comune che si era ormai sviluppato passò sotto gli scaligeri (1311), prima, e, seguendo le sorti della vicina Vicenza, sotto la serenissima, poi (1404). La maestosa fortezza turrita, oramai completamente in disuso, era però ben visibile all’epoca di Da Porto e sicuramente ne alimentò la curiosità per le intrecciate vicende delle famiglie altolocate della zona. Qui c’è anche, aristocratica dimora, suggello di uno sfarzo antico, la villa dei Da Porto, appunto la base in cui l’uomo d’armi e poi di lettere redasse i suoi scritti, tra cui quello più famoso. Ma, in questo, come anticipato, si fece suggestionare e ispirare dai due castelli imponenti di Montecchio più che dal maniero del colle Fratta, ormai ombra sbiadita di quello che fu. Il Castello della Villa e il Castello della Bellaguardia, conosciuti come Castello di Romeo e Castello di Giulietta, sono due fortezze con masti di ridotte dimensioni, l’una a poca distanza dall’altra, in posizione strategica, su una collina che si staglia sulla piana circostante. Ci avviciniamo, quasi arrampicandoci lungo un viottolo scosceso e altri camminamenti che li collegano, e ne respiriamo l’aria di antiche tresche, feroci duelli, ardite tenzoni, che fino al XVI secolo, l’epoca di Da Porto, animavano la vivace quotidianità di chi lo ha abitato. E guardando vestigia testimoni di fatti eroici, ma anche più prosaici, ci immedesimiamo in chi vedeva queste mura possenti da un punto d’osservazione privilegiato, Villa Da Porto.
Una “location”, diremmo oggi, in cui lo scrittore vicentino scatenò il suo immaginario che arrivò persino a colpire “quel barbaro dotato di ingegno”, come Manzoni tre secoli dopo definì Shakespeare. Ed è allora non inutile fare una veloce rassegna dello scritto daportiano alla base, sine qua non, del Romeo and Juliet di sir William. La prima versione scritta di Giulietta e Romeo è appunto la Historia novellamente ritrovata di due nobili amanti, pubblicata da Da Porto nel 1530, quasi 60 anni prima del capolavoro di Shakespeare che certamente (ormai il consesso degli studiosi è concorde) copiò la trama. L’opera del vicentino è così intrecciata a eventi storici e a richiami letterari, che tutti i suoi riferimenti possono essere indagati e scoperti. Come accennato, Da Porto ebbe la tipica vita di un uomo di corte rinascimentale: avventure varie, duelli, amori e ozi letterari. Proprio la scrittura a un certo punto, dopo la sua menomazione, fu predominante e gli consentì di travasare in opere letterarie il suo breve ma intenso vissuto precedente: scrisse rime, lettere, novelle e, ovviamente, incisivi trattati storici, di storia locale.

Di questo corpus articolato fa parte la Historia novellamente ritrovata di due nobili amanti con la pietosa loro morte intervenuta già nella città di Verona nel tempo del signor Bartolomeo della Scala. Il racconto è preceduto da una dedica alla “bellissima e leggiadra madonna Lucina Savorgnana”. Chi fu tanta giovanile beltà? Siamo agli inizi del 1500. Da oltre un secolo Vicenza, Verona e tutto il nord est erano ormai parte dello stato della Serenissima. L’espansione della potente Repubblica lagunare sembrava non dover aver fine e Papa Giulio II, alleatosi con Francia, Spagna e Sacro Romano Impero, mosse guerra a Venezia.
E il nostro si trovava arruolato come cavaliere nell’esercito veneziano, di stanza in Friuli, come abbiamo anticipato. Al suo fianco vi è un arciere di nome Peregrino, sulla cinquantina, Veronese, molto ciarliero e di grande intrattenimento. Nonostante l’età (allora 50 anni erano 50 anni), è sempre innamorato di qualcuna e inanella storie di avventure galanti da raccontare. Mentre marciano per la campagna devastata e arsa dalla guerra, Peregrino coglie la tristezza sul volto del suo signore. È uomo di esperienza e capisce subito l’origine di quel malcontento. Pene d’amore, di quell’amore dolce-amaro che scioglie le membra, direbbe Saffo. E così parte con un “saggio” consiglio: è pericoloso seguire l’Amore e quasi sempre conduce a una triste fine. E per testimoniare quello che dice gli racconta un avvenimento della sua Verona.

È la storia di due nobili amanti che seguendo la propria passione sono morti miseramente. La storia è ovviamente quella di Giulietta e Romeo. Il 20 giugno 1511, sul fiume Natisone, nei pressi di Manzano, l’esercito veneziano si scontra con quello imperiale. La battaglia è violenta, Luigi da Porto, come già detto, viene ferito al collo e resta paralizzato. Non
sappiamo cosa succeda a Peregrino.
Ma torniamo ora alla misteriosa dama della dedica iniziale. Chi è Lucina Savorgnan? I Savorgnan erano una nobile famiglia friulana, imparentati con Luigi Da Porto per parte materna; ma non gente da poco: il loro salotto è frequentato da artisti e umanisti dell’epoca, spesso invitati in feste mondane, la crème dell’epoca.
Feste dove Lucina brillava di luce propria. Lo scrittore Gregorio Amaseo descrive la ragazza come di una bellezza fulgente e dice che nel corso di una festa carnevalizia che si tiene a casa Savorgnan nel 1511 era nettamente la più bella ed elegante.
E, scherzi del destino, alla stessa festa partecipò anche il nostro giovin scrittore e uomo d’arme. Cupido agisce subito: il focoso cavaliere si innamora follemente della bella Lucina, probabilmente ricambiato. La chiede subito in sposa allo zio della ragazza che ne è tutore dopo la morte del padre. Ma vi sono screzi tra i due rami della famiglia e lo zio rifiuta.
Accade poi quel che sappiamo, frutto del destino cinico e baro. Quattro mesi dopo Luigi da Porto viene ferito sul Natisone. Lucina va in sposa a Francesco del Torre. Le vicende personali si compiono, la sofferenza è servita, ma la sofferenza alimenta il genio letterario: tutte le tessere della Historia novellamente ritrovata sembrano comporsi. Il finale, in particolare ha un gusto amaro e significativo.
L’arciere Peregrino conclude il racconto lamentandosi delle donne del suo tempo rispetto a quelle del medioevo. Si domanda quante oggi, come Giulietta, sarebbero così fedeli al proprio innamorato da seguirlo nella morte. Secondo lui ben poche.
Il riferimento a Lucina è lampante. Luigi da Porto era colto: la sua Historia novellamente ritrovata è, senza dubbio ormai, un modo per nascondere in un racconto letterario le sue vicende personali. Un racconto che si innerva su vicende personali, ma che segue un clichet narrativo: erano tante le novelle, soprattutto nel Novellino (1525), che riproducono la falsariga di unioni impossibili con finale drammatico e di amori inizialmente corrisposti, poi però traditi.
Un filone fervido a cui Da Porto ha adeguato la propria vicenda mettendo la prima pietra per il capolavoro shakespeariano.