Angelo Gilberto Perlotto – Gibo opera a Trissino in una casa officina adagiata sui monti Prelessini. Vorrei scrivere di lui con una delle sue penne scultura, magari quella che sta sul tavolo del suo amico Mario Rigoni Stern. Scrivere sulle pagine del diario di bordo dedicato a Horatio Nelson, scultura pure.
Vorrei essere ispirato dalla sua culla betlemita benedetta in Piazza san Pietro da papa Francesco la vigilia di Natale di qualche anno fa. Gibo è un uomo che ama le sue lontane radici di artista del ferro che si riconoscono nel bisnonno Antonio, faber alla corte dello zar di Russia e poi nel forte tronco che è stato il nonno Angelo.
E ancora nei rami rappresentati dal padre Germano e dallo zio Tito. Di quest’albero, Gibo è il ramo ultimo che fruttifica ancora. Dopo tante generazioni, il ferro si è arreso, è diventato amico in una metal-morfosi che lo cela ma non lo mortifica, anzi lo nobilita donandogli una forza nuova.
Diventa verdura e frutta, paglia, tessuto, acqua, vino, vetro. Si tramuta nei più diversi oggetti di uso comune. Il ferro che, e magari lo vedremo in altri momenti, si fa pagina, libro, ragnatela, piccolo animale in un universo di soggetti ormai non numerabili.
Nella collezione “Theatra” vive lo studio di un pittore, di un musico, di luoghi amati. Il colore esalta la forma e la figura, rende l’opera reale senza andare oltre. La falsità è lontana. Se c’è un individuabile ermetismo, quello sta nei titoli delle opere che inducono alla meditazione.
Nelle mani di Gibo, novello biblico Tubalkain, la materia diventa bellezza. Nel suo quotidiano, officina e orto convivono come fossero un unico. I gradoni dell’orto si aprono a balconata sulla valle ed è lì che l’artista si ritira per rilassarsi, respirare aria buona e trovare ispirazione per molte sue opere. I frutti dell’orto si tramutano in muse che lo fanno sentire vivo e pronto ad accettare le sfide dell’arte.
In questa verde solitudine diventa garante di se stesso. Ed è così che si salva e si ricarica. Per dirlo con Hermann Hesse, nell’orto amato, Gibo si “libra in alto, signore della vallata e della lontananza … ”. Gilberto Perlotto con il ferro crea originali opere che corteggiano la realtà senza tradirla ma illustrandola con una sensibilità e una maestria per cui il metallo esce dal duro silenzio e canta la sua canzone per noi.
Spinoso dal cuore tenero
In arabo è nome al femminile: al-Kharshuf. Già è un buon inizio se la mente si adagia sul significato: spinosa pianta dal cuore tenero. Questo cuore tenero mi riporta alla donna, una benedizione accanto, un sogno che non deve frantumarsi per la durezza del nostro cuore.
Ma chi ama i libri può scegliere anche un altro sentiero interpretativo. Un libro prima di leggerlo serve coccolarlo un poco, guardarlo, sfiorarlo, avvicinarsi in comunione prima ancora di conoscerne il contenuto. Pagina dopo pagina, sfogli, leggi, assorbi. Poi, le pagine restano in intatta attesa di altre letture, di altra luce che le tolga dal buio del libro chiuso.
Chissà perché, in questo momento, penso all’artista quando non agisce, accorgendomi che la sua non è inazione, ma lo svuotamento di ogni desiderio esterno all’arte, di ogni altra idea persecutrice, fino alla liberazione del nuovo gesto costruttore. Ed ecco che nelle sue opere, il mondo esteriore comincia, allora, a corrispondere al suo mondo interiore. I carciofi di Gibo vien voglia di sfogliarli, come un libro, per carpirne l’essenza. Sfogliare, come pagine, le foglie coronate e, in una metamorfosi possibile della fantasia, gustarle, fare alimento della polpa adagiata assorbendone la sostanza segreta. Pagine di un libro spinoso da gustare fino al tenero cuore che dia una soluzione gradita all’intera lettura. Quelle foglie tigliose sono inizialmente come parole murate dentro, sono come noi che spesso non sveliamo i sentimenti profondi della vita. Ma queste incertezze non bloccheranno la nostra storia. Noi siamo pur sempre capaci di sfogliarci e di andare oltre il nostro silenzio. Le pagine-foglia, dopo aver donato il tenero cuore, resteranno confusamente affastellate. Nel disordine consumato aspetteranno che Gibo le ricomponga come solo lui sa fare.
L’assolo di manet
Edouard Manet vende a Charles Ephrussi, al prezzo di ottocento franchi, una tela intitolata Un mazzo di asparagi. Ephrussi, tuttavia, paga l’artista con mille franchi. Manet, che ha classe e spirito da vendere, dipinge un solo asparago e invia il quadro accompagnato da un bigliettino: “Ne mancava uno al vostro mazzo”. Non m’interessa descrivere nei particolari la scultura, ma il sentimento che la anima comparato alla storia.
Asparago in persiano significa germoglio. E da tale significato germoglia la fantasia rivelatrice di valori sottintesi. Allora, quella di Gilberto Perlotto è la sintesi delle due opere di Manet, un racconto concluso, un fatto riordinato, una dualità storica riavvicinata e ricomposta. E tutto non sul marmo freddo di Manet, ma su un caldo tagliere di legno. Così io penso alle tante separate cose della vita costruttrici di dolore, a lontananze non risolvibili, a fredde solitudini.
E penso a questo gesto quasi rituale dell’artista che, nella scultura, tutto riunisce e ricompone con purezza e semplicità. E la mente trova quiete. L’opera si trasfigura in un simbolo di familiarità ritrovata, un raccordo con l’armonia, un colloquio germogliante e vivo. Se si arriva a sentire nell’anima questo ritmico palpito dell’arte è come essere nell’anima del mondo e comprendere di essere partecipi di una festa d’amore per le cose belle. Devo anche dire che le opere di Gibo perseguitano e creano onde nella mente e vortici di seduzioni nel cuore.
Ma su queste onde è importante imparare a navigare. A differenza del quadro, ridotto a unica dimensione, la scultura si lascia circondare, anche assediare dalla nostra curiosità, e si rivela nella sua pienezza che nel quadro è inevitabilmente nascosta.
Di Giorgio Rigotto Da Storie Vicentine n. 6 gennaio-febbraio 2022