giovedì, Novembre 21, 2024
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Sant’Agostino e l’immagine sbiadita che ricompare con la pioggia

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Molti anni fa il professore di lettere mi assegnò il compito di descrivere una chiesa del territorio vicentino. Da Altavilla percorsi in bicicletta la Strada dei Boschi fino all’abbazia di Sant’Agostino che mi sembrava ideale come scelta. La guardai da lontano, dalle strade della Val d’Orsa e della Breganziola. Poi la raggiunsi, girai l’esterno, entrai e mi sedetti sull’ultimo banco della navata: guardavo e scrivevo.

Avrei bisogno adesso di quelle righe che chissà quali fresche interpretazioni e intuizioni contenevano. Ma già allora avevo capito che all’osservazione serve un grande silenzio. Sono tornato, tempo fa, in un giorno di pioggia battente, in quell’abbazia dal sapore rustico e contadino. Cosa mai mi poteva ancora raccontare questa chiesa che già ad altri non avesse detto.

Eppure c’è sempre qualcosa da ascoltare, altro da vedere. Perché noi siamo ancora storici dell’assenza e delle lacune, ma con grandi sforzi di metodo e sapienti sforzi di fantasia possiamo far parlare queste lacune. Uno dei compiti dei medievisti futuri è, sempre secondo Le Goff, quello di far parlare i silenzi attuali del Medioevo.

Questa chiesa campestre dallo schema a granaio sarebbe piaciuta ad Agostino. Come sarebbero risuonate bene le sue parole quando, commentando i Salmi, parlava di forza e di bellezza e in quale modo si debbano guardare le cose, convinto, anche lui, che il silenzio è l’espressione migliore, poiché le parole sono come le foglie.

Diceva: Non giova tenere gli occhi aperti se uno si trova al buio, così nulla giova stare alla luce se gli occhi sono chiusi. Nella vasta campagna, dove l’abbazia sorgeva isolata e libera fino a cinquanta anni fa, guardare l’alba arrivare sul profilo dei colli e pensare, con Agostino, che “Noi qui abbiamo il giorno che non hanno gli infedeli, ma i fedeli non hanno ancora il giorno che hanno gli angeli.”

L’abbazia è un edificio semplice, costruito dove un tempo, le paludi ricoprivano tutto. Richiamo per la fede e la spiritualità immerso nel verde del paesaggio umano incontaminato, si rivolgeva agli uomini e alle donne inducendoli a fermarsi, di tanto in tanto durante il lavoro nei campi, per rendere grazie a Dio e ai suoi Santi.

Proprio come diceva sant’Agostino commentando i Salmi: “Mietendo, raccogliendo l’uva e in ogni altro lavoro cui si dedicavano, essi iniziano a mostrare la loro letizia con parole, ma ben presto diventano talmente gioiosi da abbandonare le sillabe ed elevare un canto di gioia senza parole.”

Come un astro doveva apparire la badia ai confratelli di fra Giacomo di ser Cado e poi ai canonici di San Giorgio in Alga e ai fratelli mendicanti e a tutti i pellegrini di passaggio nella Vicenza medievale. E tale appare anche ai nostri giorni, pur privata del monastero e dei portici crollati, e con le nuove costruzioni prossime all’incompiuto esterno segnato dal tempo. All’interno invece l’abbazia è un gioiello d’arte trecentesca con affreschi ringiovaniti dai restauri. In quel giorno di pioggia che imperversava spietata sulla facciata, stavo di nuovo seduto sull’ultimo banco della navata, come tanti anni prima, e guardavo gli affreschi alti sulla parete di sinistra.

La figura ieratica con tiara, bastone pastorale, un libro in mano e la casula bordata di nero riconduceva al vescovo Agostino. Sono tante le cose che navigano nella mente e nell’anima in certi momenti quando hai quasi paura che il misticismo t’invada. Prima che m’invadesse, sono uscito. Spioveva già, il sole colpiva di lato l’abbazia.

La pioggia, caduta di traverso, aveva imbevuto l’antico intonaco dentro le nicchie alte sulla facciata, cosicché il profilo disegnato di dimenticati affreschi risaltava sul fondo bagnato. Gli stinti affreschi, dilavati e con quella luce, dovevano averli guardati altri e qualcosa aver visto, ma senza indagare e percepire un messaggio preciso. In particolare, nella nicchia di destra, mi apparve un’immagine graffiata nell’intonaco. Ed era come se l’affresco del santo vescovo appena ammirato sulla parete di sinistra della navata si fosse trasferito lassù. Riconoscevo la tiara e il pastorale, il rettangolo del libro, il profilo e la bordatura della casula.

Sant'Agostino
Marcatura della sbiaditissima sinopia della nicchia di destra e l’abbazia allo stato attuale

Ero andato, in quel momento, di là della superficie delle cose, come altri, molti anni prima che scrissero: «.. nelle tre nicchie della parte superiore dovevano essere affreschi, di cui ora rimangono solo sbiaditissime tracce.» Ancora più precisi: «La chiesa era affrescata anche all’esterno. Sono appena visibili tre Santi nelle nicchie della facciata.» E ancora: «Sopra si apre un rosone con vetri rotondi legati a piombo, tra finestre chiuse, oblunghe e centinate, un tempo dipinte con figure di Santi».

Il Santo autore delle Confessioni era lì da secoli, ma nello sbiadire del tempo non era stato riconosciuto. Qualcuno aveva riportato la notizia della presenza di figure di santi ma nessuno aveva indagato fino alla lettura delle immagini. Magari solo cinquanta anni fa le sinopie, o il rossaccio come le chiama il Vasari, permettevano una lettura migliore, magari duravano ancora schegge di colore sull’arriccio di fondo.

Adesso rimane solo la sospensione delle cose e la speranza di qualche annotazione in un antico documento d’archivio che ridipinga le sbiaditissime nicchie. La fulgente immagine che per secoli aveva accolto i fedeli, oggi è ancora affacciata, pur misteriosa, al suo posto nell’attesa di accompagnarci, con lo sguardo, nella Casa di Dio.

L’ipotesi è che l’affresco che si ammira all’interno sia stato riprodotto all’esterno dell’abbazia. Poi, nel tempo, sole e pioggia, nebbie e incuria hanno lavorato fino alla distruzione. Gli affreschi esterni, in sostanza, seguirono l’abbandono dell’intero complesso che, dopo il crollo del convento nel 1828, entrò in progressiva fatiscenza fino a subire l’ordine di chiusura nel febbraio del 1899.

Nulla emerge, per ora, dal fondo dei secoli, per quanto riguarda la nicchia centrale, dove si potrebbe ipotizzare una presenza forte, di grado superiore ai santi, forse un Cristo, mentre nell’altra nicchia s’intravede il capo di una figura, forse quella della madre di Sant’Agostino, Santa Monica, o di Santa Giulia.

L’immagine di Santa Giulia, il cui significa “donna dai capelli crespi”, ha stimolato curiosità che può condurre all’autore degli affreschi. Nata a Cartagine nel 420 è’ una santa del tutto insolita per Vicenza ma si può trovare una giustificazione della sua presenza. Gli affreschi dell’abbazia sono unanimemente attribuiti a maestranze romagnole che si rifanno a Tommaso (Barisini) da Modena.

Il pittore operò a Treviso negli anni 1348-1358. Probabile che a lui o agli artisti della sua scuola, di passaggio per Vicenza, siano stati commissionati gli affreschi dell’abbazia. Ecco quindi comparire la santa da sempre particolarmente venerata a Modena e nella provincia dove l’iconografia è frequente. Facile supporre che sia stata immortalata qui, proprio in un riquadro a sé stante, segnale di ricordo e venerazione.

Oppure quella figura misteriosa nella nicchia di sinistra è di San Desiderio al quale era dedicata un’antichissima chiesuola vicino al guado del Retrone prima della costruzione dell’abbazia. Ipotesi un po’ fantasiose, forse azzardate, sulle quali si può certamente indagare. Sant’Agostino ha detto: “Il sogno, la poesia, l’ottimismo aiutano la realtà più d’ogni altro mezzo a disposizione”.

Ed è pur vero che non ci si può limitare a “vedere” le cose ma occorre “guardarle”, Per questo è utile la capacità di sognare, di saper cogliere il poetico attorno e avere un atteggiamento ottimista.

(Il testo integrale di G. Rigotto è pubblicato nel IV volume Studi e Fonti del Medioevo Vicentino e Veneto – Accademia Olimpica – Vicenza)

Di Giorgio Rigotto da Storie Vicentine n. 8 giugno-luglio 2022


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